Considerazioni sulla questione della sofferenza - Terza Parte (3/3)

Considerazioni sulla questione della sofferenza

Terza Parte (3/3)

La sofferenza dell’invecchiamento e la morte

Con l’invecchiamento accade che, diminuendo col tempo la forza animatrice ed organizzatrice dell’anima, come sanzione della colpa originale, e permanendo invece l’energia naturale dei componenti chimici del corpo, essi si rendono vieppiù indipendenti dal dominio dell’anima.

Con l’avanzare degli anni, avviene un graduale deterioramento fisico, le funzioni vitali e i movimenti diventano lenti e faticosi, l’agilità fisica diminuisce, la fragilità della salute aumenta e diminuiscono le difese dell’organismo, finchè a un certo punto l’anima non riesce più a mettere d’accordo le forze chimiche in contrasto fra di loro.

Non è detto che diminuiscano il vigore e la lucidità intellettuale e la forza della volontà, tutt’altro: si suppone che essi, nell’anziano che in precedenza ha coltivato a lungo le virtù, siano più che mai efficienti e produttivi; ciò che cala è l’efficienza dei sensi interni ed esterni, sono le forze neurovegetative e psicoemotive; le passioni hanno perduto il bollore della gioventù. Sono facilmente domabili. Il loro non è più il caldo torrido della gioventù, ma il dolce tepore dell’autunno. 

Esse non frenano più l’attività dello spirito, ma la suscitano e la esprimono più efficacemente e forza di convinzione. Sono ben dosate a seconda delle necessità, dei doveri e delle circostanze, ora la mitezza, ora la severità, ora il piacere, ora l’astinenza, ora la compassione, ora lo sdegno, ora la pazienza, ora il coraggio, ora l’amore per la virtù, ora l’odio per il peccato, ora la speranza, ora la fruizione, ora la tristezza per i propri peccati, ora la gioia per aver operato il bene, ora il timore dell’inferno, ora la mistica pregustazione del paradiso.

Col sopraggiungere della vecchiaia, succede comunque che i dinamismi chimici suddetti, vincendo gradualmente ed inesorabilmente la forza organizzatrice dell’anima, riprendono la loro autonomia confliggendo tra di loro e separandosi gli uni da gli altri, sicchè l’organizzazione del corpo tende a dissolversi. A un certo punto l’anima diventa assolutamente incapace di garantire il minimo di forze fisiche necessarie alla vita, per cui dà le dimissioni e si ritira dall’animazione e dall’informazione del corpo. Il quale, perdendo la sua forma sostanziale, diventa un ammasso di cellule in decomposizione.

Questo ammasso corporeo, che, se non è già sfigurato dalla malattia o da un trauma, mantiene per un certo tempo le sembianze umane che aveva prima che l’anima si separasse da lui, è il cadavere. Il momento in cui l’anima si separa dal corpo per continuare a sussistere in se stessa, essendo spirituale, è il momento della morte. L’anima non è più la persona, perché non è più unita al suo corpo. La persona non esiste più. Si dice che è morta.

Ma non cade nel nulla. Resta l’anima, mentre del corpo resta il cadavere, in dissoluzione secondo una serie di processi chimici, che adesso non sono più quelli relativi alla vita, ma sono quelli propri delle leggi chimiche che presiedono alla dinamica propria delle sostanze e dei composti chimici soggetti a quei dati influssi fisici in quei dati contesti ambientali.

Le sofferenze di Cristo

La sofferenza, per il cristiano, può essere un valore e pertanto entro certe condizioni ed entro certi limiti, può essere desiderabile, utile, amabile, preziosa, feconda e sorgente di purificazione, espiazione, salvezza, gioia e pace. In che modo? Come comprendere questo? Bisogna studiare e comprendere il significato delle sofferenze di Cristo.

Cominciamo col dire che, secondo la fede cristiana Dio Padre ha voluto la morte del Figlio non per crudeltà ma per amore nostro, del Figlio e di Se stesso. Non ha voluto naturalmente la morte in quanto morte, cosa che sarebbe crudelissima e assolutamente impensabile in un Dio bontà infinita, ma ha voluto la sua morte sacrificale per la salvezza dell’umanità. Non l’ha voluta per se stessa, ma in quanto prezzo del nostro riscatto, soluzione del nostro debito, riparazione dell’offesa. La fede insegna che il Padre ha voluto che il Figlio si sacrificasse al nostro posto per la nostra salvezza, cioè per ottenere dal Padre la remissione dei peccati e la vita eterna.

Con questa volontà il Padre ha glorificato il Figlio perché Gli ha fatto compiere l’opera della salvezza come sommo sacerdote della Nuova Alleanza; ha glorificato l’uomo, che, con l’offerta a Dio in Cristo della propria sofferenza, espia le proprie colpe e dà soddisfazione al Padre per l’offesa a Lui arrecata dal peccato; glorifica Se stesso perché fa sì che il Figlio Gli restituisca l’onore dovuto e faccia tornare in sua proprietà l’uomo, proditoriamente sottrattoGli dall’inganno del demonio e quindi strappato da Cristo al suo dominio e restituito al suo legittimo Proprietario e Signore.

Il sacrificio, da sacrum facio è un’azione sacra di culto a Dio, per la quale il sacerdote, da sacrum dans, offre a Dio una vittima per ottenere perdono, grazia e benevolenza. Cristo, offrendo se stesso sulla croce, mediante la sua passione, offre al Padre un sacrificio sufficiente per placare l’ira divina e riparare l’offesa fatta dall’uomo al Padre col peccato, perché per la ricchezza della sua divinità il Figlio è in grado di pagare al Padre il debito contratto dall’uomo col Padre a seguito del peccato, debito che l’uomo, nello stato di miseria conseguente al peccato, non è in grado di pagare.

Il sacrificio può esprimere un atto di giustizia o un atto d’amore. Esso è sempre un atto della libera volontà. Non può esser fatto per costrizione. È un atto volontario di libera scelta, è un atto di obbedienza o ad un obbligo di coscienza o al comando di un superiore o per impulso d’amore misericordioso, generoso e gratuito. Il sacrificio più nobile è quello della propria volontà, ossia il sacrificio di se stessi. Qui il soggetto non dona, non offre qualcosa di estrinseco a lui, ma offre se stesso, dona se stesso alla persona amata o ad un alto ideale o al bene comune o a Dio stesso.

Il sacrificio di Cristo ha il carattere di questa donazione, come appare evidente dalla Lettera agli Ebrei. Essa fa parlare il Figlio col Padre in questi termini:

«“Tu non hai voluto né sacrificio né offerta; un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”. … Con ciò stesso Egli» (=Cristo) «abolisce il primo sacrificio per stabilirne uno nuovo. Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo fatta una volta per sempre» (Eb 10,7-10).

Gesù, lasciandosi uccidere, pur avendo avuto la possibilità di difendersi, non si è suicidato, ma ha fatto dono della sua vita offrendosi vittima di espiazione affinchè noi fossimo salvi dall’inferno ed ottenessimo la vita eterna.  Suicida è colui che sopprime se stesso o chi si lascia uccidere perché è ingrato a Dio del dono della vita. Certamente c’è chi si uccide perché non riesce a sopportare la sofferenza. Nel qual caso, in quanto vinto dalla passione disordinata o da un panico incontrollabile o da spaventose allucinazioni, può essere scusato e Dio può avere misericordia di lui.

Il sacrificio di sé compiuto da Cristo, al quale siamo chiamati a partecipare, è un atto molto costoso, ossia importa molta sofferenza. Ma ne vale la pena. È infatti sofferenza preziosa perché salda il debito, ricompra o redime l’uomo, lo libera dalla soggezione a Satana, ottiene perdono, grazia e misericordia. Poter soffrire con Cristo, quindi, non è cosa ripugnante e vergognosa, ma è il vanto e la fierezza del cristiano, che così regola i conti col Padre, torna in comunione con Lui, ed ha la gioia di essere suo figlio. Il sacrificio della croce è un contratto molto vantaggioso: noi offriamo al Padre in Cristo le nostre sofferenze e il Padre per mezzo di Cristo ci dona la vita eterna

Il sacrificio certo comporta sofferenza, ma il cristiano affronta volentieri questa sofferenza sapendo che il sacrificare se stesso in Cristo per il bene dei fratelli è opera dell’amore più grande (cf Gv 15,13). Dio manda grandi prove a chi è avanti nella perfezione, perché solo chi è avanti nell’amore è pronto a grandi sofferenze dettate dall’amore. Per questo le persone che sono avanzate nella perfezione spirituale non soffrono più per dominare le passioni, e tuttavia Dio le sottopone a grandi prove sapendo che può contare su di loro.

Dio può soffrire?

Chiedendoci adesso se Dio possa soffrire, diciamo che a parte il privilegio divino di essere l’Atto puro, già il semplice fatto che Dio sia Spirito, se sappiamo che cosa è lo spirito, non può non generare in noi la domanda: come Dio, in quanto spirito, può soffrire? Lo spirito può soffrire? Se lo spirito è una forma semplice sussistente senza soggetto materiale, sembrerebbe privo di quella composizione ontologica e di quella passività che invece è comprensibile nei viventi composti di anima sensitiva e di materia.

Ma Dio non soffre. Infatti la sofferenza suppone un ente composto di potenza ed atto, e quindi composto di parti, per cui possiede una passività e, in quanto composto, è dissolubile o degradabile, come a dire corruttibile. Questa composizione dell’ente creato è la condizione del poter soffrire, perché l’ente in quanto

 1.  è soggetto ad un’azione proveniente dall’esterno, di carattere violento e nocivo, che compromette la strutturazione normale entitativa ed attiva del paziente. La sofferenza sta nella coscienza di questo esser violentati ed oppressi;

2. è corruttibile, ossia dissolvibile nei suoi componenti, o tale per cui può esserne privato. La sofferenza viene dalla coscienza di questa privazione o dissoluzione.

Una forma semplice di cosa può essere privata, se non è composta di parti? Eppure a questa domanda, che sembra molto seria basterebbe rispondere ricordandoci delle nostre stesse sofferenze spirituali, che anzi sono peggiori di quelle psicofisiche e gravide di ben peggiori conseguenze. E dunque?

Dunque dobbiamo ammettere che noi possiamo soffrire spiritualmente, come abbiamo già visto in precedenza, E ciò a causa della nostra passività e potenzialità. Invece in Dio Atto pro di essere il soffrire è totalmente assente. Per questo il Padre non ha formalmente sofferto per il sacrificio del Figlio; tuttavia la cosa si può dire in senso metaforico paragonandoLo a un padre umano che soffre per la sofferenza del figlio.

Ad ogni modo, per avere un’idea più che sufficiente e consolante della misericordia divina del Padre e del Figlio, non occorre ricorrere ad assurde concezioni di una sofferenza nella natura divina, ma è sufficiente considerare le sofferenze dell’umanità di Cristo in quanto uomo. Gesù uomo è il modello del misericordioso a noi proporzionato e in Gesù certamente la misericordia ha quella tonalità psicoemotiva che la caratterizza come sentimento umano. Nel contempo in Cristo e attraverso Cristo possiamo leggere i sentimenti del Padre

E per converso l’umanità sofferente di Cristo per amor nostro è il punto di riferimento e la chiave interpretativa della sofferenza di ogni uomo, il quale così si presenta al cristiano come immagine e rimando a Gesù sofferente, facendo appello alla nostra misericordia per lui nel nome di Cristo. Cristo è infatti il sommo sacerdote, del quale parla la Lettera agli Ebrei, che sa

«compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4,15). «In tal modo egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, essendo anch’egli rivestito di debolezza» (Eb 5,2).

Nel sofferente è Cristo stesso che implora la nostra misericordia e, come Egli stesso ci avverte, è Cristo stesso che compassioniamo nel sofferente che solleviamo dalla sua sofferenza.

Ovviamente il sofferente, per dar valore salvifico alla sua sofferenza, deve unirsi a Cristo sofferente; ma questo può avvenire anche implicitamente in un sofferente che in buona fede ignori il mistero della croce. Ed oggi la Chiesa ci persuade che questa presenza redentrice di Cristo la possiamo vedere anche nei bambini e negli stessi embrioni.

Diciamo che Dio, essendo semplicissimo, puro atto d’essere sussistente senza alcuna potenza e quindi senza alcuna passività, recettività o decomponibilità, non può evidentemente soffrire[1]. Questo però oggi lascia molti increduli perché in tal modo sembra che Dio sia insensibile alla nostra sofferenza e, cosa che arriva per alcuni allo scandalo intollerabile, sembra che il Padre sia stato insensibile alla morte del Figlio, mandato da Lui stesso sulla croce.

Alcuni infatti dicono: ma che bisogno aveva il Padre di essere compensato per l’offesa ricevuta, ammesso che Dio possa essere derubato o privato di qualcosa? Egli a cui non manca nulla e a cui nulla e nessuno può recar alcun danno, Egli infinitamente buono non poteva forse soprassedere al peccato dei progenitori, perdonarli e annullare il castigo che pur giustamente avevano meritato? Da qui concludono che Dio ha effettivamente fatto così, per cui non accettano il dogma della redenzione come sacrificio espiatorio voluto dal Padre. Ma questa è l’eresia propria del buonismo[2].

I buonisti danno per realmente accaduto ciò che Dio avrebbe potuto fare, ma che in realtà non ha fatto. Sant’Anselmo cade nel difetto opposto: secondo lui, partendo dal fatto che il Padre ha esigito che gli fosse pagato il debito del peccato, che gli fosse offerto un sufficiente sacrificio espiatorio, che gli fosse restituito l’onore del quale era stato privato, e che fosse riparata l’offesa che gli era stata inferta, non poteva non procedere come ha proceduto, ossia comandando al Figlio di offrirsi in sacrificio per la redenzione dell’umanità.

Devo però qui fare per inciso un’importante precisazione ricordando che, parlando della redenzione, ci dev’essere ben chiaro che non dobbiamo ridurre il rapporto fra Dio e l’uomo ad un semplice rapporto di giustizia, che si limita al paragone con la stipulazione di un contratto commerciale di compra-vendita o di lavoro-compenso o di debito-credito.

Il simbolo biblico dell’alleanza suggerisce questo tipo di rapporto. L’opera redentrice di Cristo, come appare da tutto il Nuovo Testamento confermato dalla dogmatica ecclesiale soprattutto tridentina, avviene entro questo orizzonte di comprensione. Ma dobbiamo ricordare che per la Scrittura il rapporto più profondo tra l’uomo e Dio, quello al quale Dio tiene di più, è un rapporto di amicizia o d’amore, paragonabile a quello fra l’uomo e la donna e rappresentato dal Cantico dei Cantici, e dalla simbologia veterotestamentaria della «figlia di Sion» e da quella paolina della Chiesa sposa di Cristo.

La stessa prospettiva cristiana della figliolanza divina stabilisce un rapporto con Dio visto sì come Signore che esige di essere temuto, onorato e rispettato, che giustamente vuole che gli si restituisca ciò che gli è stato rubato, che gli si renda il dovuto e che si riparino le offese[3], ma che soprattutto è un Dio, uno Sposo divino che chiede amore e vuol donare amore, senza calcoli di dare-avere e senza chiedere nulla in cambio, senza dare stipendi o chiedere compensi o pagamenti e senza limitarsi a compensare il buon lavoro compiuto, ma donando a dismisura con infinita generosità e chiedendo da noi non solo rispetto del contratto e un buon lavoro, ma tutto noi stessi.

Se nella visione cristiana la sofferenza toglie la sofferenza e la morte dà la vita ciò non dipende evidentemente dalla sofferenza e dalla morte come tali. Contrariamente a quanto pensava Hegel, il «negativo non ha alcun potere di produrre il «positivo», ma è questi che toglie il negativo e produce il positivo. Se nella visione cristiana avviene quell’apparente paradosso, ciò è possibile perché si tratta della sofferenza e della morte di un uomo che è Dio.

È Dio, che non soffre e non muore, e non l’uomo, a vincere la sofferenza e la morte dell’uomo, vittoria che l’uomo da sé, per giunta indebolito dal peccato, non potrebbe assolutamente raggiungere. Se il medico guarisce, ciò è possibile perché egli è sano. Un medico malato non guarisce nessuno. Non è la malattia ma la medicina quella che guarisce e ridona la salute.

E questo vale anche per il peccato: non è peccando che vinciamo il peccato, ma operando il bene. La grande ambiguità dell’etica luterana è che col sostenere la permanenza del peccato, l’assenza di meriti e il rifiuto delle opere, sembra che la grazia si ottenga peccando anziché cessando dal peccare, dandosi alle buone opere, acquistando meriti, espiando in Cristo i nostri peccati e facendo penitenza.

I rimedi alla sofferenza

Alla sofferenza si rimedia. Esistono rimedi umani, che però sono limitati e insufficienti, per quanto la medicina sia in continuo progresso.  Ma il rimedio totale e definitivo viene dal cristianesimo, quel cristianesimo che, nelle condizioni che abbiamo visto, valorizza la sofferenza, ma proprio in vista di eliminarla pienamente nella vita eterna dopo la morte ed incoativamente nella vita presente, insieme con la sua valorizzazione come mezzo di espiazione e di fruizione della misericordia divina.

La fede cristiana ci insegna che quando arriva la sventura, invece prendercela con la sorte o con la natura o col governo, invece di dare colpe a questo o a quello (benché ci possano essere), invece di credere di trovarci in una situazione insensata e sterile, è bene pensare subito a Dio, fare una lettura di fede – è qui infatti che la fede dà la sua consolazione -, pensare al mistero dei suoi decreti, che sono atti d’amore, pensare a Lui che governa l’universo, provvede ai nostri bisogni, «atterra e suscita», come dice il Manzoni, premia e castiga, vince le potenze e sopporta i malvagi, corregge e condanna, consola e rimprovera, fa grazia e giustizia.

Giobbe ci insegna che se da Lui prendiamo il bene, perché non dovremmo accogliere anche ciò che ci fa soffrire? Forse che Egli si diverte a farci soffrire? Forse che Egli, se volesse, non potrebbe impedirci di soffrire? E se non dovesse esser voluta da lui la sventura, come potrebbe egli essere il Dio che tutto governa, un Dio a cui tutto dipende all’infuori del peccato?

La sofferenza accolta dalle sue mani pensando a Cristo, la sofferenza del sacrificio, dell’offerta d’amore per amore, dell’offerta libera per la nostra liberazione, è una sofferenza illuminante, espiatrice, vantaggiosa, ragionevole, opportuna, benefica, sensata, salutare e rasserenante, checché ne pensi Recalcati[4]. Essa ci fa sentire Dio vicino, ci dà fiducia di essere stati perdonati e purificati dai nostri peccati e quindi dona pace e serenità di animo, ci dà forza per risollevarci e riprendere il cammino con rinnovato vigore ed ottimismo,

Nello sviluppo della vita morale cristiana la sofferenza è grande agli inizi della vita ascetica per il fatto che il soggetto si trova in una condizione di forte contrasto dello spirito con la carne in conseguenza del peccato originale. La famosa «innocenza» del fanciullo dev’esser riferita alla sua semplicità e ingenuità; ma è chiaro che egli nella maturazione morale parte da quello stato di conflittualità. Solo gradualmente tale conflittualità potrà esse sostituita dalla conciliazione, peraltro sempre imperfetta, se il soggetto, formato da una buona educazione, si esercita per tutta la vita con sforzo, rinunce e sacrifici, tutti atti che comportano sofferenza, nell’apprendere le virtù e correggere le cattive inclinazioni.

Il cristianesimo c’insegna che si può essere lieti nella sofferenza, senza per questo essere degli incoscienti, ma anzi per giustificatissimi motivi di giustizia e di carità: giustizia, perché in Cristo ci sdebitiamo presso il Padre; di carità, perché rispondiamo con l’amore all’amore che Cristo ha avuto per noi.

Gesù in croce c’insegna che uniti a Lui possiamo essere sereni e fruire della presenza di Dio anche sulla croce. Gesù infatti godeva addirittura della visione beatifica in forza dell’unione ipostatica della sua natura umana alla persona del Verbo[5]. Infatti è possibile che mentre i sensi patiscono, l’anima sia nella pace. «Ecce in pace amaritudo mea amarissima» (Is 38,17). Se abbiamo la coscienza a posto, che ci importa se gli altri ci disprezzano?

Quanto alle famose parole del Signore «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», ci potremmo chiedere come ha potuto Gesù esprimere simili parole di angoscia, se aveva la visione beatifica. La risposta può essere data dal fatto che l’anima intellettiva come forma del corpo è a contatto diretto col corpo, per cui, nella sua emanazione sensitiva, può sentire il dolore dal quale è affetto il corpo, e quindi, essere stimolata all’angoscia.

Invece, in quanto intellettiva, l’anima si eleva e si trascende al di sopra della sensibilità psichica nel puro orizzonte e nella pura intellettualità dello spirito, così che essa, librandosi in questa zona suprema e celeste[6] della pura intellettualità non sente le passioni e le relative sofferenze del livello psicoemotivo, e invece può liberamente fruire della purissima gioia dello spirito e, nel caso unico di Cristo, della stessa visione beata. Tuttavia c’ è da notare che anche i martiri, come risulta da tanti racconti che riguardano il loro martirio, sono pervasi da una mistica gioia simile a quella di Cristo, causata in loro dalla fede, pur nei tormenti del martirio.

Aggiungiamo che la pace con Dio ci dà una pace inalterabile, al riparo dalle sofferenze che ci possono essere inflitte dagli scrupoli, dal prossimo o dal demonio. Se siamo in pace con Dio, con la coscienza a posto, approvati da lui, se sappiamo di aver ragione e di essere nella verità, chi ci può confondere o svergognare? Chi ci può accusare? Chi ci può confutare?  Chi ci può turbare? Che ci importa se gli altri ci sono nemici, ci invidiano, non ci ascoltano, non ci capiscono, ci deridono, ci fraintendono, ci condannano, ci castigano, non ci perdonano, ci tradiscono, ci calunniano, ci maltrattano, ci lasciano soli?

Quando Dio ci fa sentire il peso della sua mano vuol dire che vuol abbassare il nostro orgoglio, vuole insegnarci l’umiltà e l’obbedienza: «Hai fatto bene, Signore, ad umiliarmi, perché io impari ad obbedirti» (Sal 118,71).

Dio non vuole il male e quindi non può volere il peccato. Egli di per Sé non vuole neppure la sofferenza. Tuttavia la sofferenza può essere anche un bene, e così Dio la vuole per giustizia come conseguenza e punizione del peccato, per togliere il quale Egli ha voluto la sofferenza espiativa di Cristo come riparazione del male del peccato.

Ha voluto, in altre parole, il sacrificio del Figlio onde avere soddisfazione per la colpa commessa dall’uomo. Possiamo comprendere quanto grande male è il peccato, se è occorso il sacrificio di Cristo per espiarlo ed annullarlo, benché Dio, se avesse voluto, avrebbe potuto perdonare il peccato senza esigere soddisfazione.

Dio ha permesso il peccato dei progenitori ovvero ha voluto non impedirlo perchè ha voluto trarre dalle sue conseguenze, fatte proprie da Cristo come mezzo di espiazione, un bene maggiore, cioè la figliolanza divina, bene maggiore di quello che ci sarebbe stato, cioè lo stato edenico, se il peccato non ci fosse stato.

Tuttavia Dio, se avesse voluto, avrebbe potuto assicurare all’uomo la figliolanza divina anche senza che l’umanità passasse attraverso l’esperienza del peccato. Il perchè ha preferito non impedire il peccato è un mistero assolutamente impenetrabile, ma certo conveniente con la sua infinita bontà.

Notiamo inoltre che la misericordia divina non è una passione. Dio ha pietà per chi soffre non in quanto patisce emotivamente per il sofferente. Egli non sperimenta la passione del sofferente, e tuttavia la capisce perfettamente con l’intelletto ed è misericordioso nel senso che non vuole di per sé la sofferenza del sofferente, per cui la allevia e la toglie. Tuttavia può anche volerla non per il gusto di volerla, ma in quanto vuole che il sofferente si unisca alla croce del Figlio.

La rassegnazione è saggia e doverosa quando non si hanno a disposizione mezzi per potersi liberare da una situazione che provoca sofferenza. In questi casi, il tentativo di lottare contro le forze opprimenti sarebbe imprudente, in quanto aggraverebbe la situazione di sofferenza. Occorre allora rassegnarsi e portare pazienza, virtù per la quale si sopporta di buon animo la sofferenza grazie ad una forte volontà che è effetto della virtù di fortezza, stando eventualmente in attesa di una situazione che permetta di reagire con successo.

Anche la resistenza contro forze avverse implica sofferenza ed è effetto anch’essa della pazienza, causata a sua volta da una perseverante fortezza. Se le forze umane avverse prevalgono e non è più possibile opporre resistenza, conviene ricorrere alla resa sperando che il nemico sia clemente. Arrendersi mentre c’è possibilità di resistere non è cosa saggia, ma è da vili e non è detto che la resa faccia diminuire la sofferenza patita durante la resistenza.

Dio infinitamente buono, non può essere causa del male di colpa, il peccato; però, può volere non impedirlo per un suo insindacabile decreto. Il bene in Dio è infinito ed è interminabile; il male è finito e può terminare. Il bene può esistere da solo.

Il duplice intervento della misericordia divina

nei confronti della sofferenza

Sant’Anselmo ha ragione quando dice che Dio ha voluto; 1. che gli fosse pagato il debito del peccato; 2. che gli fosse data soddisfazione per l’offesa ricevuta; 3. Che gli fosse restituito quanto gli era stato rubato; 4. Perdonare solo sulla base dell’espiazione attuata dal Figlio; 5. premiare i giusti e castigare gli empi.

Anselmo ha ragione nel trovare necessità logiche all’interno del piano divino della salvezza, supponendolo strutturato in un certo modo. Ciò significa che, una volta ammesso che il Padre abbia voluto essere risarcito per il furto subìto e compensato per l’offesa subita, era logico che volesse l’incarnazione del Figlio e il suo sacrificio sulla croce, nonché che noi ci unissimo nella sofferenza espiatrice al sacrificio del Figlio, perché per il sacrificio era necessario che la vittima fosse un uomo e per poter pagare il debito era necessario il Figlio di Dio.

Anselmo sbaglia invece nel dire che era necessario che Dio facesse tutte queste cose, altrimenti avrebbe mancato alla sua giustizia e al suo onore. Ora, ciò è impossibile. E dunque Dio non poteva non fare queste cose. Bisogna dire invece che Dio di fatto ha voluto e fatto tutte queste cose, ma, se avesse voluto, poteva salvarci in altro modo, ossia poteva perdonare tutti e salvare tutti senza castigare e senza esigere opere di penitenza e sacrificio espiatorio.

Il Dio che castiga e manda la sofferenza non è un Dio cattivo, ma un Dio paterno e giusto che ci vuole correggere, ci vuol far capire quanto male abbiamo fatto e, se ci sentiamo innocenti, è il Dio misericordioso, che vuol renderci partecipi all’opera redentrice dell’Innocente per eccellenza, che è Cristo.

Qui la sofferenza svolge una funzione positiva per il fatto che il dolore per aver peccato è condizione affinchè il peccato sia rimesso o cancellato. Anche la sofferenza propria del castigo del peccato, assunta volontariamente con intento espiativo, soddisfattorio e riparatore in unione al sacrificio redentore di Cristo, svolge una funzione purificatrice e salvifica, sorgente di gioia.

La sofferenza del sacrificio cultuale cristiano come partecipazione meritoria al sacrificio sacerdotale vicario di Cristo di se stesso, ossia come offerta di sé al Padre come vittima di espiazione per la remissione dei peccati, cancella le nostre colpe, soddisfa al Padre per noi, placa l’ira divina; per i suoi meriti infiniti restituisce l’onore al Padre e ci riconcilia con Lui, ci redime ci ricompera a prezzo del suo sangue, ci riscatta, ci strappa al potere del diavolo, ovvero restituisce il maltolto, che siamo noi stessi, tolti dal demonio al suo proprietario  legittimo che è il Padre e paga al nostro posto debito dovuto al Padre e ripara all’offesa con la quale avevamo offeso il Padre.

La sofferenza del penitente nasce dalla vergogna e dalla confusione, dal rimorso e dal pentimento, dalla contrizione e dall’attrizione, dal dolore per aver peccato[7]. Essa dev’essere moderata dalla fiducia nella misericordia e nel perdono divini, perché, se non è moderata in tal modo, rischia di sconvolgere l’animo e di gettarlo nella disperazione.

È ovvio che ci sia sofferenza quando ci colpisce la sventura (calamità naturali, incidenti, malattie, lutti, insuccessi, delusioni, ingiustizie patite, aggressioni nemiche). Occorre certo fare il possibile per alleviarle o toglierle del tutto in noi e negli altri. È, questo, un dovere ed anzi un’esigenza di umana solidarietà e di carità fraterna, anche se la cosa può costarci od essere rischiosa.

Non dobbiamo rifiutarci di credere che queste sventure, benché sorgenti di sofferenze, siano in fondo un bene e vengano quindi dalla bontà di Dio che vuol purificarci ed assimilarci al suo Figlio crocifisso. È quindi  ancora più importante per la nostra anima vedere con occhio di fede in queste sventure dei messaggi celesti: un avvertimento, una correzione, un castigo paterno, una prova, un’occasione per unirci alla croce di Cristo, per far penitenza, per umiliarci davanti a Dio e accrescere la nostra fiducia in Lui[8].

La sofferenza del castigato nasce dalla consapevolezza di essere castigati o da Dio o dagli uomini. Quando ci accorgiamo di questo occorre anche qui tenere sotto controllo questa sofferenza affinchè non si trasformi in rancore o in spavento e non rischiamo la duplice opposta tentazione o della disperazione (Lutero) o della spavalderia (Nietzsche).

Che cosa è il castigo secondo la Scrittura? Si tratta ad un tempo di un effetto del peccato intrinseco al peccato stesso e di una sanzione giuridica irrogata dal giudice. Secondo il primo aspetto il castigo è la morte, perché il peccato è un atto contro la vita. Secondo questo aspetto il castigo è un danno immediato, che il peccatore stesso si tira addosso col suo atto. Interiormente comporta un turbamento della coscienza, che è dato dalla coscienza di essere colpevole.

Secondo il secondo aspetto il castigo può essere dilazionato, perché Dio vuol dare al peccatore il tempo di pentirsi e di far penitenza. Il malfattore può sfuggire alla giustizia umana, ma non a quella divina. Se invece il peccatore non si pente, come nella parabola del ricco epulone, viene gettato nell’inferno.

In conclusione, combattiamo la sofferenza, ma quando essa è irrimediabile, non rassegniamoci, ma assumiamola con lo stesso spirito e per gli stessi motivi per i quali Cristo l’ha vissuta e fatta propria, e trionferemo per sempre di essa e di tutti i mali che in questa vita ci affliggono.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 12 aprile 2023

La sofferenza, per il cristiano, può essere un valore e pertanto entro certe condizioni ed entro certi limiti, può essere desiderabile, utile, amabile, preziosa, feconda e sorgente di purificazione, espiazione, salvezza, gioia e pace. In che modo? Come comprendere questo? Bisogna studiare e comprendere il significato delle sofferenze di Cristo.

Per avere un’idea più che sufficiente e consolante della misericordia divina del Padre e del Figlio, non occorre ricorrere ad assurde concezioni di una sofferenza nella natura divina, ma è sufficiente considerare le sofferenze dell’umanità di Cristo in quanto uomo. Gesù uomo è il modello del misericordioso a noi proporzionato e in Gesù certamente la misericordia ha quella tonalità psicoemotiva che la caratterizza come sentimento umano. Nel contempo in Cristo e attraverso Cristo possiamo leggere i sentimenti del Padre.

Nel sofferente è Cristo stesso che implora la nostra misericordia e, come Egli stesso ci avverte, è Cristo stesso che compassioniamo nel sofferente che solleviamo dalla sua sofferenza.

Ovviamente il sofferente, per dar valore salvifico alla sua sofferenza, deve unirsi a Cristo sofferente; ma questo può avvenire anche implicitamente in un sofferente che in buona fede ignori il mistero della croce. 

Ed oggi la Chiesa ci persuade che questa presenza redentrice di Cristo la possiamo vedere anche nei bambini e negli stessi embrioni.

Gesù in croce c’insegna che uniti a Lui possiamo essere sereni e fruire della presenza di Dio anche sulla croce. Gesù infatti godeva addirittura della visione beatifica in forza dell’unione ipostatica della sua natura umana alla persona del Verbo. Infatti è possibile che mentre i sensi patiscono, l’anima sia nella pace. «Ecce in pace amaritudo mea amarissima» (Is 38,17). Se abbiamo la coscienza a posto, che ci importa se gli altri ci disprezzano?

Immagini da Internet:
- Feto nel grembo materno, Leonardo da Vinci
- Volto del Cristo Crocifisso, Giotto 

[1] IL MISTERO DELL’IMPASSIBILITA’ DIVINA, Divinitas, 2, 1995, pp.111-167

[2] Cf il mio opuscolo L’eresia del buonismo. Il buonismo e i suoi rimedi, Edizioni Chorabooks, Hong Kong 2017.

[3] È su questa tematica che si ferma il famoso Cur Deus homo di S.Anselmo, che per i buonisti è come fumo negli occhi, e che vorrebbero sostituire con la tematica indubbiamente più piacevole dell’”amore”. Ora, senza negare il primato dell’amore, non si può negare quella più ostica dell’espiazione, della restituzione, della soddisfazione e del sacrificio senza negare l’essenziale dell’opera salvifica di Cristo e la parte che a noi in essa spetta.

[4] Cf Massimo Recalcati, Contro il sacrificio. Al di là del fantasma sacrificale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017.

[5] È quello che insegna Pio XII nell’enciclica Haurietis aquas del 1956 (Denz.3924), confermando quello che già S.Tommaso insegnava nella Summa Theologiae, III, q.9, aa.1-3.

[6] Il Maritain la chiama «cielo dell’anima» e S.Agostino apex mentis. Meister Eckhart parla della «scintilla dell’anima» (Vünke der Seele): vedi G.Faggin, Meister Eckhart e la mistica tedesca preprotestante, Fratelli Bocca Editori, Milano 1946, p.192.

[7] Sempre utile è la recita dell’atto di dolore: «Mio Dio, mi pento e mi dolgo dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi e soprattutto perché ho offeso Te sommante buono e degno di essere amato sopra ogni cosa».

[8] Ho sviluppato queste considerazioni nel mio libro dedicato al recente dramma del covid, che ci ha duramente provati. Esso ha dato bensì occasione a moltissimi gesti, anche eroici, di solidarietà umana, soprattutto nel personale medico e in coloro che erano per necessità obbligati a impegnativi contatti sociali; ma mi sembra che i nostri pastori abbiano trascurato, nel complesso, di illuminare i fedeli circa il conforto e il vantaggio spirituali, che avrebbero potuto trarre dal ravvisare nel tremendo fenomeno un richiamo paterno di Dio alla penitenza e alla conversione, conformemente a un modulo interpretativo preso dalla Scrittura e dalla tradizione dei santi, modulo che ha sempre prodotto ricchi frutti di conversione e di santità e non si vede perché anche oggi non potrebbe continuare a darli. Vedi Perché peccando ho meritato i tuoi castighi. Un teologo davanti al coronavirus, Edizioni Chorabooks, Hong Kong 2020.

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