Il ministero del Confessore - Seconda Parte (2/4)

 

Il ministero del Confessore

Seconda Parte (2/4) 
 

Dalla riforma del Confessionale alla riforma della Chiesa

Una domanda che ci poniamo è come dal problema del confessionale è sorta in Lutero l’idea di operare per la riforma della Chiesa. Egli allargò il suo sguardo dalla cattiva esperienza del confessionale alla situazione della Chiesa. Avvertì il problema dei cattivi pastori. Come in confessionale non aveva trovato conforto nel confessore, così notò che tanti fedeli erano mal guidati dai pastori, a cominciare dalla Curia Romana e dal Papa.

Papa Francesco afferma che Lutero nella sua volontà di riforma fu mosso da buone intenzioni[1]. Infatti egli da giovane monaco insorse contro la mondanità, il lusso e l’abuso del potere ecclesiastico in Germania e a Roma e fu apprezzato anche da santi uomini. Ma all’inizio non pensò di mettere in discussione l’istituzione divina del sacerdozio. Con tono profetico si scagliò contro i pastori che sfruttano le pecore e pascono se stessi per richiamarli al loro dovere, non per negare legittimità al loro ufficio.

La Chiesa – egli ricordò - dev’essere ministra di misericordia e non padrona delle coscienze. Deve andare verso i poveri, non essere attaccata alle ricchezze. Deve servire le anime, non dominarle. Ammetteva che la Confessione è il ministero della giustificazione, affidato agli apostoli. Leggendo però S.Paolo cominciò a farsi la convinzione che la Gerarchia non errasse solo nella pastorale, ma anche nella dottrina.

Credette di aver trovato in Paolo la verità circa la giustificazione, contro la tradizionale concezione del Magistero. Cominciò allora a venirgli il sospetto, che poi divenne certezza, che il Papa si sbagliasse nella dottrina e che nei secoli precedenti avesse sepolto il Vangelo sotto un mucchio di credenze e usanze inutili, superate o dannose, dalle quali occorreva sbarazzarsi. Gli nacque un nuovo concetto della verità evangelica: la sua custodia non era affidata solo agli apostoli, ma a tutti i fedeli. È il cristiano come tale che è infallibile. I pastori possono sbagliare.

Lutero dimenticò che i Dodici con a capo Pietro sono i primi Vescovi, sono stati ordinati vescovi da Gesù stesso, il quale è così istitutore del sacramento dell’Ordine. Il collego degli apostoli è distinto dalla comunità dei fratelli ovvero dei battezzati.  Solo i Vescovi uniti al Papa sono infallibili; il comune fedele può sbagliare, ha bisogno della guida del Magistero nella dottrina e per ricevere i sacramenti.

Questa è la forma della Chiesa, ciò che le dà forma: il collegio apostolico ordinato, maestro della fede e amministratore dei sacramenti ai laici. Ora Lutero non fa questa distinzione: tutti sono fratelli, tutti sono sacerdoti sotto Cristo e lo Spirito Santo. In tal senso non possiamo dire che riforma, ma deforma. Le intenzioni non sono più buone ma cattive, senza per questo voler giudicare l’intimo del suo animo. E per questo Leone X lo condanna, mentre il Concilio di Trento condannerà altri suoi errori.

La vera riforma, infatti, è dar forma in base alla forma paradigmatica, non cambiare forma, cosa che invece purtroppo Lutero fece. Se egli partì con buone intenzioni, volendo riportare la Chiesa alla sua forma originaria voluta da Cristo e insegnata dal Magistero, a un certo punto, fattosi un concetto di Chiesa non più corrispondente alla volontà di Cristo, non si fermò a correggere gli abusi in base al modello di Chiesa voluto da Cristo, ma cambiò lo stesso modello allontanandosi dal progetto e dalla volontà di Cristo. Passò da una battaglia per correggere la pastorale a una battaglia per proporre un nuovo concetto di Chiesa, secondo lui conforme al Vangelo, che sarebbe stato tradito dal Papa. Lutero si costruì questo modello di Chiesa seguendo la teologia di Guglielmo di Ockham,

La teologia narrativa al posto di quella speculativa

A Lutero non piace definire valori eterni e sovrastorici e ragionare su di essi come fa San Tommaso, ricavando conseguenze o chiarificazioni, ma preferisce narrare quello che Dio ha fatto e fa nella storia. Non gli piace parlare dell’uomo in generale, ma ha sempre bisogno di parlare del proprio io davanti a Dio. Non gl’interessa la natura umana come tale – è per lui occamisticamente una semplice astrazione -, ma solo la natura in quanto peccatrice e redenta.

Quello che lo interessa non è che Cristo sia una persona in due nature, anche se ci crede, ma che sia il suo Salvatore. Per lui un Dio che non sia Cristo è un Dio astratto che non gl’interessa, anzi gli fa paura. Per lui il vero Dio è solo Cristo. Interessarsi della Santissima Trinità (anche se ci crede) per il gusto di conoscerla, come faceva San Tommaso, per lui è una perdita di tempo e una presunzione.

Egli intende la volontà divina non come legge universale, ma come comando fatto al singolo qui e adesso. Non esistono leggi uguali per tutti, ma ognuno si regola liberamente secondo la propria coscienza. Non esistono motivi razionali dell’azione, ma solo motivi di fede. È la morale di Ockham[2].

Dobbiamo allora cominciare col ricordare che tutta l’impresa di Lutero ha le sue origini prime proprio nella difficoltà a comprendere e ad apprezzare il sacramento e la pratica del sacramento della penitenza, la sua utilità e necessità, il suo potere di dar pace, coraggio, serenità, voglia di migliorare e di testimoniare, consolidamento nel proprio cammino di perfezione, crescita nelle virtù, fedeltà agli impegni assunti, superamento delle prove, pregustazione della gioia del cielo.

Da qui il dubbio che un uomo, il sacerdote, possa effettivamente possedere il potere divino di rimettere i peccati, giacchè, se ciò fosse vero, così diceva Lutero tra e sé, io troverei la pace nel confessarmi, cosa che invece non riesco mai ad ottenere nonostante il mio impegno a confessarmi bene.

Per questo Lutero, quando raggiunse il suo concetto di fede fiduciale nella famosa «esperienza della torre» (Turmerlebnis) del 1515, per cui si convinse che, comunque andassero le cose, il Padre lo perdonava direttamente e lo avrebbe salvato, svigorì le famose parole del Signore a Pietro, quando gli disse: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarò sciolto nei cieli» (Mt 16, 18-19).

Ora Lutero, come è noto, interpretò quel «questa pietra» come riferito a Se stesso e non a Pietro, contro l’evidente senso dell’espressione di Cristo, che si rivolge a Pietro e non a Se stesso. Che Cristo fosse il fondatore della Chiesa era evidente, tanto che Egli parla della sua Chiesa ed era stato Lui a convocare gli apostoli. Gesù aveva fondato la Chiesa; si trattava adesso di edificarla, ossia mandare avanti la costruzione dell’edificio, del quale Gesù aveva posto le fondamenta.

Gesù dunque dà l’incarico a Pietro di portare avanti il lavoro, sempre, s’intende, sotto l’assistenza, la guida e la sorveglianza di Cristo. Come narrano gli Atti degli Apostoli, essi compresero benissimo le parole del Signore. Per questo, i Papi nella storia della Chiesa ebbero sempre cura di avere dei Successori, dovendo la Chiesa durare fino alla fine del mondo.

Per questo, mentre Cristo, prima di affidare a Pietro il compito di pascere il suo gregge, gli chiede se lo ama (Gv 21,15), mentre gli affida senza condizioni il compito di confermare i fratelli nella fede (Lc 22,32), come a dire che comunque Gesù avrebbe assistito sempre Pietro e i Successori in questo ufficio. E infatti, se un Papa non esercita la carità pastorale, possiamo sempre richiamarlo. Ma se come maestro della fede ci indicasse una meta falsa, come ce ne accorgeremmo?

Se quindi un Papa pronuncia qualche frase che sembra contrastare o contrasta realmente con la dottrina della Chiesa, si tratta di una semplice esternazione personale, della quale non si deve tener conto, e quindi non lo si deve accusare di eresia[3], perché eresia sarebbe – cosa impensabile – che la insegnasse dalla cattedra di Pietro e Pietro è in cattedra non solo nei momenti straordinari e più solenni del suo Magistero, ma anche in quelli ordinari, semplici e quotidiani[4]. Non è che il grado massimo è quello dell’infallibilità, mentre negli inferiori c’è la possibilità dell’errore. La verità c’è a tutti i gradi; la differenza sta solo nel grado di forza col quale la Chiesa vuole insegnare una verità di fede.

Il Papa è maestro della fede, per cui non può insegnare il falso. Se lo fa, non può trattarsi del suo magistero, ma si tratta di improvvisazioni o esternazioni o punti di vista personali, privi di autorità, dei quali non si deve tener conto. Invece un Papa può peccare nella carità, ossia può essere un cattivo pastore. E gli esempi nella storia non mancano.

Su questo piano un Papa può e deve essere corretto. L’errore di Lutero non è stato quello di voler correggere il Papa come pastore, dove aveva buone ragioni, tanto che lo stesso Papa Francesco lo ha lodato per questo. L’errore è stato quello di voler correggere il Papa come maestro della fede. Se si fosse accontentato di richiamare il Papa ai suoi doveri di pastore, come hanno sempre fatto i riformatori cattolici, avrebbe fatto bene e sarebbe stato vero riformatore.

Invece Lutero ha creduto di riscoprire l’autentico ministero ecclesiale e quindi l’autentica missione del pastore e del sacerdote, che per lui non è effetto di un’ordinazione giuridico-sacramentale, ma di una chiamata che viene direttamente da Cristo nello Spirito Santo. Per Lutero occorre certamente un’organizzazione giuridica della Comunità, ma per lui la sua presidenza non si fonda giuridicamente su di un’ordinazione fatta da un precedente ministro ordinato, ma sulla scelta ed elezione fatte dalla Comunità.

Il pastore per Lutero non rimette i peccati. Questo per lui è un potere che spetta solo a Cristo. Per Lutero il confessore, che egli non disdegna del tutto, non dice «io ti assolvo», ma chiede a Dio che voglia assolvere oppure dichiara al penitente che è assolto.

Lutero crede nella remissione dei peccati nella quale si può riassumere tutta l’opera di Cristo[5], anche se essa, al di là di ciò, è servita ad assicurarci la figliolanza divina e il possesso della vita eterna. Rimettere i peccati, nella Scrittura, corrispondere a «cancellare i peccati»[6]. Il cancellare a sua volta implica l’idea della macchia[7], per cui l’assenza del peccato, ossia la giustizia e la purezza si rappresentano con l’immacolatezza[8]. La remissione del peccato inoltre richiama l’idea della remissione di un debito (Mt 6,12). Il peccato è dunque paragonato a un debito da pagare o ad una macchia da togliere.

Ma perché per la Bibbia solo Dio può rimettere il peccato? Perché il peccato è congiunto con la morte, per cui rimettere il peccato significa far risorgere da morte, cosa che solo Dio può fare. Ecco perché Paolo dice che eravamo morti per il peccato e Cristo ci ha fatti rivivere con la remissione dei peccati (cf Ef 2,5).

Inoltre, peccando, la nostra volontà si torce e si inclina al peccato, in modo tale che da sola non riesce a riaddrizzarsi, a convertirsi al bene: occorre che sia il divino Motore della nostra volontà, Dio stesso, a raddrizzarla riorientandola al bene e liberandola dalla colpa. Inoltre, per la Bibbia col peccato è come se l’uomo precipitasse in una fossa, dalla quale non riesce più a venir fuori: occorre una forza divina. Ebbene, il sacerdote, in forza del suo ministero, partecipa di questa forza e in tal senso il confessore ha il potere di rimettere i peccati.

Col peccato originale l’uomo ha ricevuto da Dio un castigo così severo, secondo Lutero, da «aver perso tutto», come egli si esprime con parole lapidarie, così diversi dai giri di frase della teologia scolastica, come hanno perso tutto quei poveri contadini romagnoli che sono rimasti alluvionati nel maggio scorso dopo le spaventose piogge torrenziali. Lutero calca la mano per poter esaltare la potenza della misericordia e della grazia. 

Egli stesso ha vissuto questa miseria della natura decaduta con un pathos incredibile, che ci dice la straordinarietà della sua sensibilità religiosa, con fortissimi sensi di colpa e terrori di non essere predestinato, quando altri se ne restano tranquilli. Certo, vuol dire che ci credeva, ma nel contempo restiamo con qualche perplessità circa la normalità delle sue condizioni psichiche.

La grazia del perdono divino lava l’anima e la purifica dal peccato. Il peccatore resta peccatore nel senso che conserva la concupiscenza; ma nel momento in cui si confessa, è purificato, salvo poi a ricadere successivamente; ma ha sempre la possibilità di rialzarsi ogni volta che cade.

Come è noto, per Lutero non si tratta per noi di operare per la nostra salvezza, come se potessimo ottenere la salvezza per i nostri meriti, ma di dar spazio all’azione divina; si tratta di lasciarsi salvare o di prendere atto di essere salvati o di esser certi che ci salveremo. Basta aver fede in ciò. L’annuncio evangelico non è l’annuncio che possiamo salvarci se obbediamo a Cristo, ma che siamo salvati in ogni caso e senza condizioni, purchè abbiamo fede di salvarci.

Per Lutero le opere seguono al possesso della grazia, ma non servono ad acquistare la grazia, neppure se sono fatte in grazia, perché per Lutero il peccato resta («peccatum permanens»); solo che il Padre volge lo sguardo dall’altra parte guardando alla giustizia di Cristo, e fa finta di non vedere i nostri peccati.

Lutero oppone irragionevolmente la nostra giustizia a quella di Cristo: ci salviamo per la sua giustizia, non per la nostra; come se non esistesse la virtù naturale e cardinale della giustizia. Alcuni parlano benevolmente di «giustificazione forense», come se si trattasse di un semplice non tener conto, di una fictio iuris; ma se guardiamo le cose come sono, sarebbe meglio parlare di una fictio fraudis.

Come è noto, Lutero basò la sua dottrina della giustificazione su Rm 3, 21-24, dove Paolo parla della «giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo per tutti quelli che credono». Per essa «tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia»[9].

In questo passo è vero che la giustizia divina coincide con la sua misericordia; ma ciò non toglie in generale la distinzione fra misericordia e giustizia punitiva. L’orrore e l’estrema ripugnanza, che Lutero provava alla prospettiva di essere punito da Dio, erano tali, che lo rese cieco al fatto che se Dio è misericordioso, non per questo non ci castiga se noi disobbediamo alla sua legge. Ossia la giustizia divina è anche e specificamente dare a ciascuno secondo i suoi meriti[10].

Quel «gratuitamente» Lutero lo intese come se Paolo dispensasse dalle opere e dai meriti. Invece gratuitamente si riferisce alla parte di Dio nella giustificazione, cosa che non esclude la parte che spetta all’uomo, che sono appunto le buone opere e l’obbedienza alla legge, benché certamente questa obbedienza sia causata[11] da Dio che predestina alla salvezza gli eletti. Con la venuta della grazia di Cristo resta sempre vero che, se vogliamo salvarci, dobbiamo osservare i comandamenti. A nulla serve ricevere la grazia se poi non osserviamo i comandamenti. Questo è il vero San Paolo.

Per capire il rapporto tra la fede e le opere, occorre collegare Paolo con Giacomo, perché da una parte Paolo sembra risolvere la giustificazione nella sola accoglienza della grazia senza la necessità delle opere, mentre Giacomo ricorda che per salvarsi non basta la fede, ma occorrono anche le opere.

Si tratta di due preoccupazioni reciprocamente complementari: a Paolo sta a cuore sottolineare la necessità della grazia per salvarsi. Giacomo invece vuole scongiurare la furbizia di coloro che col pretesto che la salvezza viene dalla grazia, non si curano di adoperarsi con le buone opere e la penitenza per liberarsi dai peccati e progredire nelle virtù.

Giacomo conosce benissimo la necessità della grazia e Paolo sa benissimo che occorrono le opere, solo che Paolo se la prende con chi respinge la grazia di Cristo pensando che sia sufficiente osservare la legge di Mosè, mentre Giacomo vuole impedire l’ipocrisia di chi accampa la fede in Cristo per ritenersi dispensato dalle opere. Giacomo ha inteso Paolo come se escludesse le opere e per questo sostiene la necessità delle opere.

Paolo non esclude la necessità del merito: dice semplicemente che occorre meritare in grazia. Giacomo non è un restare nel legalismo giudaico; dice semplicemente che non basta credere, ma bisogna anche mettere in pratica. Lutero non ha capito questo delicato equilibrio e prendendosela con Giacomo, ha spezzato questo delicato equilibrio con uno sbilanciamento verso la grazia e la fede a danno delle opere e del merito.

Non basta parlare della grazia che ci previene e ci conduce a compere le opere buone. Il vero concetto della giustificazione comporta anche l’altro aspetto che per salvarsi occorre farsi meriti, occorre trafficare i propri talenti, occorre un’ardua disciplina, occorre sforzo e fatica, operando in stato di grazia. Lutero, per la verità, fu operosissimo e affrontò dure sofferenze, immani fatiche e rischi, non però con timore e tremore, non per comprare la perla preziosa, non per conquistare il paradiso, ma per combattere la Chiesa cattolica e per finalità puramente terrene di organizzazione della sua Chiesa, perché era convinto di andare in paradiso per il semplice fatto che Cristo gli avrebbe detto che si sarebbe salvato.

Lutero ha creduto di ritenere se stesso, per mandato di Cristo e ispirazione dello Spirito Santo, come primo esemplare di questa sua concezione del ministero e per conseguenza di una Chiesa veramente strutturata secondo la volontà di Cristo. Per questo per tutto il corso della sua vita di riformatore si è preoccupato di fondare Comunità di questo tipo affidandole a ministri scelti dalla stessa Comunità.

In tal modo per Lutero la Chiesa nella conoscenza del dato rivelato non è retta da un unico magistero collettivo infallibile di derivazione apostolica – l’Episcopato sotto la guida del Successore di Pietro -, ma come popolo di Dio è direttamente illuminata dallo Spirito Santo. Illuminato da questa luce, afferma Lutero, ogni cristiano è infallibile come il Papa, perché la Scrittura, secondo lui, è in se stessa chiarissima. Tuttavia, questo non toglie che effettivamente esistano punti oscuri e difficili. Lutero allora ammette un gremio di dottori e biblisti come lui, i quali interpretino la Parola di Dio per i fedeli.  

Nella Comunità luterana la dottrina della fede si ricava direttamente dalla Scrittura da parte del cristiano come tale, anche se occorrono sempre degli studiosi ed esperti – i biblisti –, i quali propongano interpretazioni di passi difficili, non importa se divergenti, interpretazioni che possono sempre mutare a causa di un progresso degli studi. In tal modo il luteranesimo mantiene un nucleo fondamentale di idee di Lutero[12], che caratterizza ogni luterano, ma nel contempo il luterano, a differenza del fedele cattolico che è sempre soggetto al Papa in campo dottrinale, si ritiene libero, in base all’esempio stesso di Lutero nei confronti del Papa, di allontanarsi da quei punti dottrinali luterani, che egli privatamente giudica inaccettabili.

In Lutero bisogna notare due cose: da una parte una soggettività emotiva ed intuitiva molto impressionabile, irrimediabilmente turbata dagli effetti  traumatici di un’educazione paterna irrazionale e troppo severa, e dall’altra dotato di una percezione vivissima del suo rapporto personale ed intimo con Dio, che fa pensare al Salmista o a Sant’Agostino, un carattere ciclotimico, oscillante fra la disperazione e la presunzione, fra l’abbandono e la ribellione, fra lo scrupolo e il lassismo, fra l’angoscia e l’entusiasmo, fra il dubbio atroce e la più ostinata certezza, fra la tenerezza e la crudeltà.

Lutero concepì la sua scelta monastica secondo un’angolatura per la verità più limitata rispetto all’elevatezza dell’ideale monastico, che comporta certamente l’opera della propria salvezza, ma con l’anelito a vedere Dio, ossia con l’istanza contemplativa. 

Sembra concepire Dio non come fine ultimo da raggiungere, ma come un Dio funzionale a lui, sembra amarlo non come si ama una persona, ma come si ama qualcosa che ci fa bene, un farmaco o il caffè, salvo poi a cadere nell’estremo opposto del disprezzo totale di se stesso in una sottomissione a Dio del tutto irragionevole, alla maniera di Ockham. Il culto divino allora suppone la negazione e la distruzione dell’io. Ora noi non siamo davanti a Dio un sacco di rifiuti, per quanto peccatori, ma siamo immagini di Dio. Non siamo un nulla, ma un qualcosa, anche se è vero che Egli ci ha tratti dal nulla.

Lutero sembra avere un concetto sbagliato dell’umiltà, confondendola con la pusillanimità. La giustificazione per lui è la sostituzione della giustizia di Cristo alla mia che non può che essere falsa. Il pensare ad opere meritorie è superbia. Non capisce il valore della causa seconda e cioè che se è vero che la causa prima della salvezza è Dio, Egli si serve della mia libera volontà per attuare tale la salvezza. La grazia agisce insieme col libero arbitrio muovendolo alla buona azione. Similmente due secoli dopo Kant penserà che sia segno di superbia nella ragione il credere che essa possa elevarsi al soprasensibile.

La superbia, come dice Sant’Agostino, è amor sui usque ad contemptum Dei. L’umiltà è amor Dei usque ad contemptum sui. Occorre intendere bene, però, queste parole di Agostino. Esiste un sano interesse personale; esiste anche un sano amore di sé. Questo sano amore di sé è la misura in base alla quale dobbiamo amare il prossimo; si dà anche una sana confidenza nelle proprie forze, un sano contare su se stessi, perché siamo creati ad immagine di Dio.

Il confidare in se stessi non esclude la confidenza in Dio, se confidiamo in quelle forze che sono restate dopo il peccato originale.  L’esercizio della ragione non contrasta affatto con la fede, se questo esercizio è corretto. Operare in collaborazione con la grazia non è tempo sprecato, ma condizione necessaria per salvarci. La grazia è gratuita, ma non ci salviamo senza le opere.

Fare la propria volontà non è necessariamente superbia se questa volontà è conforme alla volontà di Dio. Affermare se stessi non è necessariamente negare Dio, se questa affermazione di sé è regolata dalla volontà di Dio. Per essere liberi non occorre essere atei, anzi è veramente libero chi si sottomette a Dio. La mortificazione non è il suicidio, ma il togliere da noi ciò che non piace a Dio. I voti religiosi non reprimono la nostra personalità, ma la esaltano.

Fine Seconda Parte (2/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 10 agosto 2023

Peccando, la nostra volontà si torce e si inclina al peccato, in modo tale che da sola non riesce a riaddrizzarsi, a convertirsi al bene: occorre che sia il divino Motore della nostra volontà, Dio stesso, a raddrizzarla riorientandola al bene e liberandola dalla colpa. Inoltre, per la Bibbia col peccato è come se l’uomo precipitasse in una fossa, dalla quale non riesce più a venir fuori: occorre una forza divina. Ebbene, il sacerdote, in forza del suo ministero, partecipa di questa forza e in tal senso il confessore ha il potere di rimettere i peccati.

La grazia del perdono divino lava l’anima e la purifica dal peccato. Il peccatore resta peccatore nel senso che conserva la concupiscenza; ma nel momento in cui si confessa, è purificato, salvo poi a ricadere successivamente; ma ha sempre la possibilità di rialzarsi ogni volta che cade.

Ora noi non siamo davanti a Dio un sacco di rifiuti, per quanto peccatori, ma siamo immagini di Dio. Non siamo un nulla, ma un qualcosa, anche se è vero che Egli ci ha tratti dal nulla.

Esiste un sano interesse personale; esiste anche un sano amore di sé. Questo sano amore di sé è la misura in base alla quale dobbiamo amare il prossimo; si dà anche una sana confidenza nelle proprie forze, un sano contare su se stessi, perché siamo creati ad immagine di Dio.

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[1] Intervista durante il volo di ritorno dall’Armenia del 26 giugno 2016.

[2] Cf P. Alféri, Guillaume d’Ockham. Le singuler, Les Éditions de minuit, Paris 1989; Orlando Todisco, G. Duns Scoto e Guglielmo d’Occam. Dall’ontologia alla filosofia del linguaggio, Libreria Universitaria, Cassino 1989.

[3] Il Padre Serafino Lanzetta sostiene che se un Papa nel suo insegnamento devìa dalla dottrina della Chiesa, è un eretico che dev’essere corretto. Padre Lanzetta immagina che ciò possa avvenire in un atto del Magistero, cosa in realtà mai avvenuta, indimostrabile e che non può avvenire perché vorrebbe dire che Cristo ha pronunciato invano quel confirma fratres tuos, ma può succedere al di fuori degli atti magisteriali, anche della più bassa autorità. Vedi il suo libro, peraltro ricco di ottime cose, Super hanc petram. Il Papa e la Chiesa in un’ora drammatica della storia, Edizioni Fiducia, Roma 2022.

[4] Come risulta dalla Nota illustrativa della Congregazione per la Dottrina della Fede alla Lettera apostolica di San Giovanni Paolo II Ad tuendam fidem.

[5] Cf Mt 9,2.6; Lc 1,77; 5,21; At 2,38; 10,43; 26,18; Ef 1,7; Col 1,14; I Gv 2,12.

[6] Cf Gb 7,21; Sal 51,3; 85,3; 109,14; Is 43,25; At 3,19.

[7] Sir 20,24; Ger 2,22; II Cor 7,1;

[8] Sap 7,22.26; 8,20; 10, 5.15; Sir 31,8; 40,19; Ef 5,27; I Tm 6,14; Eb 7,26; 9,14; 13,4; Gc 1,27; I Pt 1,19; II Pt 3,14; Ap 14,5.

[9] Il Santo Padre nell’intervista durante il volo di ritorno dall’Armenia del 26 giugno 2016 ha detto: «oggi luterani e cattolici, con tutti i protestanti, siamo d’accordo sulla dottrina della giustificazione: su questo punto tanto importante lui non aveva sbagliato». Questa affermazione del Papa, che è pura sua opinione, senza valore magisteriale, non corrisponde alla realtà. Il Concilio di Trento, come è noto, condanna la dottrina luterana della giustificazione con le seguenti parole: «causa formalis iustificationis est “iustitia Dei qua … renovamur spiritu mentis nostrae et non modo reputamur, sed vere iusti nominamur et sumus, iustitiam in nobis recipientes unusquisque suam .. secundum propriam uniuscuiusque dispositionem et cooperationem» (Denz.1529). «Fides, nisi ad eam spes accedat et caritas, neque unit perfecte cum Christo, neque corporis eius membrum vivum efficit» (Denz.1531).

[10] La Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione fatta dal Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani e la Federazione Luterana Mondiale del 31 ottobre 1999 mette in luce i punti di contatto fra cattolici e luterani, ma non registra alcun passo di questi ultimi verso la piena comunione con la Chiesa cattolica. D’altra parte, come recita il titolo del documento, non si tratta di un documento del Magistero, ma di un semplice «consiglio», anche se ovviamente ha ottenuto l’approvazione del Papa.

[11] Questa causalità divina fu chiamata «premozione fisica» dal teologo domenicano del sec.XVI Domingo Bañez, per la verità con un’espressione non molto felice, ma metafisicamente esatta, ossia Dio muove il libero arbitrio a muoversi al bene, da cui il prefisso «pre».

[12] Vedi per esempio il testo della Confessione Augustana del 1530 pubblicato presso Marzorati di Milano 1943 da Mario Bendiscioli; Dizionario del pensiero protestante, Editrice Herder-Morcelliana, Brescia 1970.

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