La concezione idealistica del soggetto umano - Seconda Parte (2/4)

  La concezione idealistica 

del soggetto umano

Seconda Parte (2/4) 
 

Il metodo di Cartesio

Per dare fondamento al sapere si può sì iniziare col dubitare universalmente della verità; ma occorre immediatamente rendersi conto che ciò è impossibile, perché implica contraddizione. Infatti, se la verità non esiste, sarà vero che non esiste, giacchè non possiamo pronunciare alcun giudizio senza la convinzione che sia vero quello che diciamo. Inoltre, le prime certezze immediate della ragione e del senso sono indubitabili; dubitarne, anche qui supporrebbe far uso di quelle certezze per negarle.

Nell’acquistare il sapere il dubbio ha certo una funzione essenziale. Si chiama allora «dubbio metodico»: dubitiamo se una data cosa è vera o è falsa, se è buona o è cattiva e vagliamo le possibilità contrarie per vedere qual è quella giusta, che scioglie il dubbio, almeno in via opinabile o ipotetica. Ma è chiaro che per sciogliere il dubbio dobbiamo basarci su princìpi o premesse indubitabili. Giunti a questi princìpi, evidenti per se stessi, dobbiamo fermarci senza pretendere di cercarne altri precedenti, perché non può esserci un prima di ciò che è primo.

Il voler dimostrare, quindi, come ha fatto Cartesio, ciò che è primo, come i primi princìpi del senso e della ragione, è cosa stolta e irragionevole, così come viceversa è stolto dare per evidente o punto di partenza ciò che è secondo o che è derivato.  Mi riferisco all’autocoscienza. Essa non è il punto di partenza del sapere, ma è un sapere derivato dal vero punto di partenza, che è il contatto diretto con le cose esterne.

Partendo dal cogito anziché dal contatto sensibile razionale con le cose, Cartesio pretende dimostrare ciò che è evidente e dà per evidente ciò che non è dimostrato. I primi princìpi del sapere sperimentale e razionale sono immediatamente evidenti e noti a tutti, perché senza di essi è impossibile pensare o sperimentare.

Se i sensi e le evidenze razionali ingannano, come pretende di ipotizzare Cartesio, non c’è più modo di distinguere la sensazione dall’allucinazione, l’immaginario dal reale, l’apparenza dalla realtà, il soggettivo dall’oggettivo, il sogno dalla veglia, l’errore dalla verità. Il demente non si distingue più dal sano di mente.

Il dubbio che quindi Cartesio nel Discorso sul Metodo nutre sulla veracità dei sensi, del sapere matematico e di quello metafisico, che egli vorrebbe presentare come dubbio metodico per introdurci alla certezza, in realtà è un dubbio forzato e artificioso che disonora l’acutezza della sua intelligenza a causa della volontà di dimostrare ciò stesso che è il principio della dimostrazione. 

Errore di Cartesio è dunque la pretesa di fondare il sapere su quel dubbio irragionevole generalizzato di cui sopra e non risolto, ma esercitato, qualificando come atto del pensare (cogito) quel dubbio, quando in realtà il dubitare non è un pensare, perché il pensare ha un oggetto, mentre il dubitare oscilla fra due oggetti contrari senza sapere quale dei due è vero.

Stolta è anche la famosa ipotesi del genio maligno, che ci ingannerebbe in tutto ciò che pensiamo o crediamo di sapere. Che cosa è infatti questo assurdo genio maligno se non il parto di una fantasia morbosa, che nulla ha a che vedere con un razionale argomentare filosofico, quale siamo in diritto di attenderci con una punta di diffidenza da un personaggio come Cartesio, giovane allora poco più ventenne, che ci fa la mirabolante promessa di rifondare dalle fondamenta tutto l’umano sapere? Come è possibile che un millantatore di questo genere sia stato preso sul serio dai dotti d’Europa? Come ha potuto esercitare tale influsso o attirare tale interesse? Chi lo ha lanciato? E a quale scopo o per quali fini?

È stata indubbiamente un’operazione riuscita, tanto è vero che ancor oggi Cartesio è venerato dagli idealisti come fondatore della «filosofia moderna».  È evidente che l’operazione Cartesio è stata ed è condotta con grande abilità dalla massoneria in combutta con i luterani per abbattere la Chiesa cattolica. Il modernismo condannato da San Pio X è ed è stato il tentativo degli idealisti di distruggere la Chiesa dall’interno, tentativo ancor oggi in atto, prendendo eventualmente a pretesto le nuove dottrine del Concilio Vaticano II.

Ad ogni modo, bisogna riconoscere che Cartesio ottenne parte del suo successo per aver cercato di reagire al diffuso clima di scetticismo e di incertezza diffusosi in Europa occidentale dopo le terribili guerre di religione, mentre era ancora in corso la guerra del trent’anni. Il Concilio di Trento aveva insegnato una dottrina chiara e precisa; ma l’eccessiva severità nel custodirla e nel farla applicare, nonché la polemica troppo dura nei confronti dei protestanti non servì a convertirli, ma anzi essi per orgoglio si irrigidirono ancora di più sulle loro posizioni.

D’altra parte, l’impostazione coscienzialistica della filosofia cartesiana, di vago sapore agostiniano, nemica dell’oggettivismo aristotelico scolastico che tanto duramente combatteva gli eretici, parve a molti un fattore di dialogo fra cattolici e protestanti.

Una cosa che in Cartesio balza alla vista è il suo scambiare l’autobiografia con la metafisica. La metafisica non è la narrazione di una vicenda personale, per quanto implicata nella ricerca della verità. La metafisica è scienza, che, come tale, ha per oggetto l’universale, a prescindere dai problemi personali dell’autore che la scrive.

Ma ciò è ancora poco. Anche le Confessioni di Sant’Agostino sono la narrazione della storia del suo spirito individuale: quale differenza però dal Discorso sul metodo e le successive Meditazioni metafisiche di Cartesio! Nel testo agostiniano troviamo sì uno spirito che ha patito i suoi dubbi e le sue sconfitte; ma quanta abilità, quale linearità e forza d’argomenti in Agostino nel saperci condurre dalle tenebre alla luce e dal dubbio alla certezza! Quanta capacità di mostrarci, attraverso la sua storia personale, ciò che avviene in tutti noi quando vogliamo cercare sinceramente la verità!  Il suo io non si chiude su se stesso, ma si apre a Dio e parla con Dio non solo a nome suo personale, ma a nome dell’uomo come tale. Guarda alle cose e a se stesso, mettendosi dal punto di vista della coscienza umana come tale, e vede in esse e in lui i segni dell’agire divino.

Invece l’io di Cartesio si propone come centro dell’attenzione nella stranezza sofistica del suo ragionare e come se tutta la verità dovesse provenire e fondarsi sul suo cogito. Il suo metodo ci conduce all’egocentrismo e al solipsismo, dal quale viene fuori solo con forzati giri di concetti, che avrebbe potuto risparmiarsi se avesse percorso il procedere normale della ragione come Agostino e come tutti i filosofi cristiani.

L’io cartesiano a tutta prima sembrerebbe l’io personale ed individuale di Cartesio, il suo io empirico, uno tra tanti al di fuori di lui, testimone di una verità universale. Invece non è così: dal giro del suo ragionare, che non accetta la testimonianza dei sensi, ci accorgiamo e lo dice espressamente, che questo io sa solo – contro la più palmare evidenza di chi è sano di mente - che esiste lui, ma non sa dell’esistenza di altre cose o altri io fuori di lui. Si tratta per il realista o per la normale ragione naturale di un’ignoranza assurda e affettata, un rifiuto dell’evidenza, che fa pensare a quel peccato che il Catechismo di San Pio X chiama «impugnazione della verità conosciuta».

Eppure è proprio ciò che Cartesio pensa e vorrebbe farci credere. Uno potrebbe domandarsi: per chi mi prende? Ma purtroppo molti non se lo chiedono e restano ammirati per il suo acume critico e la sua genialità. Bontadini parla senz’altro di atteggiamento «onestissimo». Accertatosi quindi Cartesio con tutta serietà dell’esistenza del suo io nel modo forzato ed involuto che abbiamo visto, senza partire dall’esperienza, si sente adesso in dovere di dimostrare che esistono altri io e Dio stesso. Impresa grandiosa, mai tentata da nessuno.

Allora si capisce che un Kant e ancor più un Fichte non vedranno affatto primariamente nell’io cartesiano un io tra altri io, un io semplicemente umano, ma un Io assoluto, un Soggetto assoluto, dal quale l’io umano sarebbe dedotto e derivato. Per Cartesio il mio io è l’Io. Non si tratta di due io sostanzialmente e realmente distinti, ma sono sempre io a livello umano e a livello assoluto o divino.

Certo, questo, Cartesio non lo dice esplicitamente, anzi egli sente il dovere di dimostrare l’esistenza di Dio, che poi è una dimostrazione fasulla, giacchè non parte affatto dalle cose, ma dal cogito. Quindi non si tratta del Dio extramentale ed oggettivo, ma semplicemente dell’idea di Dio o, come Kant capirà benissimo, del Dio-Idea. Quanto a Fichte, egli non si preoccuperà neanche di dimostrare l’esistenza di Dio, dato che per lui Dio è aprioricamente immanente all’Io e posto dall’Io.

Quanto al famoso criterio delle idee chiare e distinte, esso è in linea di principio buono, ma a patto che si facciano appunto le dovute distinzioni, distinzioni orizzontali e distinzioni verticali. Distinguere orizzontalmente sullo stesso piano del sapere non deve voler dire separare. Ed è chiaro che due distinti devono restare distinti anche nella loro unione, come le due nature di Cristo. E purtroppo Cartesio, sempre per il suo vizio idealista di entificare l’ente astratto, distingue realmente come tra due sostanze ciò che è distinto solo formalmente, come per esempio l’anima dal corpo.

La distinzione è legata alla precisione dei concetti e al dovere di evitare l’ambiguità e l’equivoco, tutti princìpi certamente validi del pensare, connessi a loro volta col dovere della chiarezza concettuale, qualità della quale la ragione ha bisogno e che essa si sforza di raggiungere.

Occorre però far presente che chiarezza e distinzione non vuol dire ancora giudizio di esistenza.  Una cosa pensata o immaginata può essere chiara e distinta, ma non avere un supporto nell’esistenza. Viceversa un concetto può essere oscuro, ma non è detto che non possa avere un supporto nella realtà. Esistono realtà misteriose, impenetrabili alla nostra ragione, anche se chiare e alla ragione divina. Per esempio l’immagine della chimera è molto chiara; ma la chimera non esiste. Per converso, il concetto dello spirito o della materia è oscuro, ma ciò non vuol dire che lo spirito o la materia non esista. Non basta concepire per cogliere l’esistente; bisogna giudicare e l’idealista confonde il giudizio con la concettualizzazione, l’astratto col concreto perché riduce l’esistenza all’essenza, il pensabile al pensato.

Il criterio cartesiano si applica bene in matematica e per conseguenza nella fisico-matematica. Ma in metafisica o in teologia per percepire qualcosa occorrono concetti analogici, i quali sono imprecisi ed oscuri, ma sono l’unico mezzo qui per raggiungere la verità. Occorre superare l’univoco senza cadere nell’equivoco, il che è possibile solo con l’analogia.  

L’idealista non è capace di adoperarla perché egli ha una concezione univoca dell’essere, sicchè per distinguere è costretto a ricorrere alla negazione; ma questa genera contraddizione. E allora per togliere la contraddizione non ha altra via che unire gli opposti, come farà Hegel, il che suppone l’equivoco, come quando per esempio l’idealista parla dell’io: non si capisce mai di quale io parli, se di quello umano o di quello divino. Ma in lui questa confusione è voluta, perché gli manca il concetto analogico dell’io.

L’essenza può essere chiara e comprensibile; ma l’esistenza ci è oscura, perché trascende la comprensione della nostra ragione. Ora in metafisica è soprattutto questione di esistenza e di essere, mentre è nella matematica che noi troviamo il sapere proporzionato alla nostra ragione, perché essa ci offre essenze quantitative e misurabili, che si offrono ad un tempo alla ragione e all’immaginazione.

Occorre dire allora che purtroppo la promessa di Cartesio di offrirci e di seguire un rigoroso metodo razionale in tutte le scienze non è mantenuta, perché in realtà Cartesio compie diversi atti irragionevoli come introduzione al suo metodo e sua giustificazione: anzitutto il dubitare dei sensi, dell’immaginazione e dell’intelletto, i quali hanno l’irresistibile certezza di attingere, seppur con la possibilità di errare o di fermarsi all’apparenza, a cose ed oggetti distinti dal nostro io, da lui indipendenti e collocati nel mondo esterno.

Cartesio, quindi, nel dare fondamento al sapere e nello stabilire il metodo per raggiungere la scienza, fa deviare il pensiero dal suo naturale orientamento verso le cose ad un atto di riflessione su se stesso, come se in questo atto consistesse l’inizio del sapere e il fondamento della certezza; il che non è affatto, perché in realtà noi possiamo riflettere sulle nostre idee e sul nostro io solo dopo aver contattato le cose ed averne concepito l’idea.

Questo cambio di orientamento sarà fatale per le sorti del pensiero e dell’uomo. Infatti è contattando le cose che la ragione umana si apre alla conoscenza dell’esistenza di Dio come creatore delle cose e dello stesso nostro io. Col metodo cartesiano, invece, l’io pretende di partire da se stesso e fondarsi su se stesso, per cui Dio, se esiste, non sarà altro che un prodotto dell’io. Ora invece è nella dipendenza da Dio che l’uomo ha la sua esistenza e dal contatto con Lui l’orientamento alla sua felicità e al suo vero bene. L’uomo è fatto per Dio. Con la pretesa di possedere Dio costitutivamente ed originariamente immanente al proprio io o, peggio, di fondarsi su se stesso separandosi da Dio o creandosi un Dio su misura di se stesso, l’uomo perde il senso della sua esistenza e passa dalla vita alla morte.

I risultati fallaci del metodo 

Notiamo anzitutto la concezione errata che Cartesio ha della metafisica. Per fare metafisica, infatti, non basta parlare della propria esistenza, se poi si mette in dubbio l’esistenza del mondo esterno, ma occorre uno sguardo che si allarghi alla totalità dell’essere, uno sguardo la cui ampiezza deve andare ben al di là dell’orizzonte limitato del proprio io.

Solo Dio, cogliendo il proprio essere e dicendo Io Sono, con ciò stesso dà origine alla totalità dell’essere. Ma noi non siamo Dio. Noi possiamo bensì arrivare a conoscere Dio, ma non a racchiuderlo in un concetto, come pretenderà Hegel. Possiamo e dobbiamo bensì farci un concetto di Dio, ma tenendo presente che la finitezza del nostro comprendere non può abbracciare ed esaurire l’infinità della sua comprensibilità, nota a Lui solo.

Viceversa, col porre come principio dell’evidenza e della dimostrazione l’autocoscienza, Cartesio pretende di dare per evidente ciò che non è dimostrato e non è dimostrabile, giacchè la certezza dell’autocoscienza è indubbiamente una certezza assoluta,  ma essa non è primaria né originaria, bensì è derivata e conseguente alla precedente conoscenza sensibile delle cose, il risultato della quale è presente all’autocoscienza, la quale non è che una susseguente riflessione su quanto già conosciuto nell’esperienza esterna.

Cartesio nel suo metodo avanza un’esigenza di razionalità basata sull’evidenza e la dimostrazione e ci assicura di darci la certezza basilare e incontrovertibile, dalla quale parte tutto il nostro sapere e sulla quale esso si fonda, contro l’illusorio, grossolano e ingenuo realismo che finora non avrebbe prodotto che dubbi e incertezze. È chiaro che con ciò Cartesio mette in dubbio anche la certezza dei dogmi della fede, evidentemente basati sulla gnoseologia realista, tipica della Sacra Scrittura. 

Inoltre, Cartesio ha dato luogo ad un’antropologia che ha generato due antropologie in opposizione fra di loro: l’uomo-spirito, che è l’uomo direttamente cartesiano; e abbiamo l’antropologia razionalista di Malebranche, Spinoza, Leibniz e Wolff; e l’uomo-macchina, che è quello che ne deriva.

Infatti per Cartesio il corpo umano è già di per sé una res, una sostanza, quindi si presta a diventare un soggetto, nel quale lo spirito non è che una sublimazione del corpo. Qui il pensiero diventa immaginazione, la volontà diventa passione, l’intelletto diventa senso. E abbiamo l’antropologia empirista di Hobbes, Locke, Berkeley e Hume.

Così similmente la teologia è stata messa su di una strada che alla fine avrebbe prodotto sia il panteismo e l’uomo Dio di Hegel che l’ateismo e l’uomo senza Dio di Marx, a seconda che la materia venga fatta derivare dall’idea o l’idea dalla materia.

Cartesio ha falsato il principio di causalità col concetto bastardo della causa sui applicato a Dio, come se Dio avesse causato se stesso. Questo principio sarà raccolto dall’Io fichtiano e resterà fino ad Hegel. In realtà, come dimostra San Tommaso, nulla può causare se stesso, perché dovrebbe simultaneamente essere prima di se stesso come causa e dopo se stesso come effetto, cosa evidentemente assurda. È vero che l’atto della coscienza è in qualche modo circolare, per cui essa torna su se stessa. Ma un conto è l’atto del sapere e un conto è l’atto d’essere. Ma come sappiamo, tipico errore dell’idealista è quello di confondere l’essere col sapere.

Anche il concetto di creazione viene compromesso nell’idealismo cartesiano. Infatti tale concetto risulta dalla dimostrazione dell’esistenza di Dio come causa delle cose, dalle quali parte il nostro sapere. Ma se io sono certo solo dell’esistenza di me stesso, come faccio a risalire dalle cose a Dio? E così pure l’io cartesiano compromette il rapporto sia col tu umano che col Tu divino. Se esisto solo io, come faccio a sapere che c’è un tu umano e divino, col quale rapportarmi? Nell’idealismo viene meno il rapporto sociale perché l’io è la totalità della realtà e quindi io mi  rapporto solo con me stesso.

Così, quand’anche il cogito avesse un oggetto, non potrebbe essere che una cosa desunta dalla realtà esterna e fatta oggetto di riflessione. Ma allora non è ragionevole pretendere, come fa Cartesio, che questa finta autocoscienza, finta perché manca l’oggetto, debba essere l’inizio del sapere e il fondamento della certezza, quando li abbiamo già nel contatto con le cose, della cui esistenza Cartesio dubita irragionevolmente, quando anche gli animali sono realisti e sanno che le cose delle quali hanno esperienza sono vere e reali, altrimenti non le cercherebbe e non ne farebbe uso.  Anche il gatto sa che il latte che gli sta davanti e vede con i suoi occhi, annusa con l’odorato e tocca con la lingua è vero latte, e non è un’invenzione della sua fantasia, altrimenti non si metterebbe a berlo.

Cartesio sbaglia inoltre nel determinare l’oggetto della metafisica, che non è, come egli asserisce nella sua Meditazioni metafisiche, la consapevolezza della mia esistenza, ma è l’ente in quanto ente e le sue proprietà.

Egli è convinto dell’esistenza e della conoscibilità delle cose, solo che crede di poter arrivare a tale convinzione solo dopo aver dimostrato l’esistenza di Dio, che nella sua veracità, gli assicura di quel tanto. Solo che gli è stato obbiettato: come fa Cartesio a dimostrare l’esistenza di Dio, possibile solo partendo dall’esperienza delle cose, se egli sostiene che tale esperienza è possibile solo sapendo che Dio esiste?

Kant pur mantenendo la convinzione dell’esistenza della cosa in sé, esterna all’io, negherà la conoscibilità di come essa è in se stessa, ammettendone solo l’apparenza fenomenica. Fichte, nel far fare all’io un ulteriore passo verso la sua autodivinizzazione, nega quell’esistenza delle cose, che sarebbe la via per arrivare a Dio, e trasferisce da Dio all’io la creazione delle cose.

Riguardo ai primi princìpi della ragione speculativa, Cartesio respinge sia il principio di identità, che egli fraintende considerandolo una tautologia (A=A), sia il principio di causalità, per il quale la ragione, partendo dalla considerazione delle cose sensibili contingenti, arriva a porre l’esistenza di una loro prima causa necessaria, che chiamiamo «Dio», mentre per Cartesio il processo di causalità va alla rovescia: la mente parte da Dio per arrivare alle cose. Propter quod unumquodque, et illud magis: ogni cosa ha una causa e questa vale di più. Per Cartesio sembra che la mente o l’io sia più importante dell’idea di Dio da essi prodotta.

Altro errore di Cartesio è quello di sostituire il principio d’identità col principio dell’autocoscienza, cosa che in realtà implica contraddizione, giacchè come posso ad un tempo basarmi ultimativamente sulla coscienza di pensare se questa a sua volta nasce dal contatto sensibile con le cose?

Altro errore nel procedimento cartesiano è l’asserzione secondo cui sarebbe un inganno credere che le nostre idee corrispondano a cose esistenti fuori di noi, un’affermazione che si confuta da sola, giacchè essa suppone quello che vuol negare: come sa Cartesio che le nostre idee delle cose non corrispondono alle cose se non perché suppone di aver controllato guardando le cose? E allora come ha fatto a guardare alle cose se poi afferma che a guardare alle cose restiamo ingannati?

Cartesio non sa che la vera autocoscienza, la coscienza di sé o del proprio io, quello che gli idealisti chiameranno «soggetto», non è affatto il punto di partenza del sapere e il suo oggetto originario ed immediato. Il credere una cosa del genere nasce da un ragionamento sbagliato, consistente nello scambiare nella migliore delle ipotesi la ragione umana, di sua natura discorsiva e poggiante sull’esperienza sensibile con un intelletto puro sussistente, quale può essere l’angelo, oppure, cosa che non si può escludere, con lo stesso pensare sussistente divino, il quale, non facendo uso dei sensi perché non ha corpo, attua il suo sapere con un atto di autocoscienza.

Invece la nostra ragione può sì arrivare all’autocoscienza, però solo dopo un cammino che, iniziando dall’esperienza delle cose esterne, prosegue con la riflessione della ragione sui concetti delle cose trovate nell’esperienza ed elaborati dalla ragione. A questo punto la ragione, prendendo coscienza di sè come facoltà di pensare, coglie di conseguenza l’io che ne è il soggetto.

L’io raggiunto dal cogito cartesiano sembra a tutta prima un semplice io umano. Cartesio ne parla come se fosse il suo io. Ma nel contempo questo io è raggiunto con un metodo tale che non può essere il semplice io umano, il semplice soggetto umano, ma lascia spazio ad un lavoro deduttivo al termine del quale questo io non è più semplicemente un io finito e causato, ma un Io assoluto, infinito ed autosussistente: si mette al posto di Dio o si presenta come fosse Dio. Siamo nel panteismo o nell’ateismo, come le due facce della stessa medaglia.

Dopo infatti aver preso coscienza di esistere, Cartesio si domanda chi egli è e anziché rispondere nel modo più ovvio: io sono un uomo, cioè un animale ragionevole, essendo bloccato dal pregiudizio che l’esistenza dei corpi è dubitabile, dà la famosa risposta di essere una res cogitans, un pensiero pensante, un puro spirito, una pura mente, una pura ragione autocosciente.

La certezza dell’esistenza del suo corpo, peraltro inteso non come corpo concreto vivente, ma come res extensa in forma meccanica e geometrica, riterrà di poterla avere solo dopo aver dimostrato apriori l’esistenza di Dio ed essersi rassicurato che, grazie alla veracità divina, la sua idea del suo corpo ha il suo corrispettivo nel suo corpo reale.

Fine Seconda Parte (2/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 15 giugno 2022

 

Il voler dimostrare, quindi, come ha fatto Cartesio, ciò che è primo, come i primi princìpi del senso e della ragione, è cosa stolta e irragionevole, così come viceversa è stolto dare per evidente o punto di partenza ciò che è secondo o che è derivato.  Mi riferisco all’autocoscienza. Essa non è il punto di partenza del sapere, ma è un sapere derivato dal vero punto di partenza, che è il contatto diretto con le cose esterne. 


Anche le Confessioni di Sant’Agostino sono la narrazione della storia del suo spirito individuale: quale differenza però dal Discorso sul metodo e le successive Meditazioni metafisiche di Cartesio! 

Nel testo agostiniano troviamo sì uno spirito che ha patito i suoi dubbi e le sue sconfitte; ma quanta abilità, quale linearità e forza d’argomenti in Agostino nel saperci condurre dalle tenebre alla luce e dal dubbio alla certezza!

 
 
Immagini da internet:
- Pierre-Auguste Renoir, Monet dipinge in giardino
- Monica e il giovane Agostino a Cassiciaco, opera di Silvano Crippa (1994)

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