Lo scrupolo - Seconda Parte (2/3)

 Lo scrupolo

Seconda Parte (2/3)

Il problema dello scrupolo balza in primo piano

nella coscienza moderna

La questione dello scrupolo sorge con prepotenza nella coscienza morale moderna. La coscienza del cattolico medioevale è una coscienza sostanzialmente serena. Non ovviamente che non si sentisse peccatore anche lui, anzi le violenze e le crudeltà che troviamo nella condotta dell’uomo medioevale, soprattutto i castighi e le vendette, le ruberie e le stragi, sono proverbiali e non hanno nulla da invidiare alle peggiori malvagità dei nazisti o dei comunisti staliniani.

Tuttavia l’uomo medioevale ha una coscienza più leale della nostra, complicata dall’insincero dubbio cartesiano e dalla conseguente astuzia machiavellica ed hegeliana. Non è una coscienza che gioca fra il sì e il no, ma una coscienza che sa che bisogna scegliere fra il sì e il no. E se si scopre doppia, si pente e torna sincera.

È una coscienza realista, almeno nelle intenzioni. Possiede il concetto della verità: adaequatio intellectus et rei. Non confonde ciò che mi sembra con ciò che è. Sa che Dio esiste e che bisogna render conto a Lui delle nostre azioni. Non confonde il dovere con ciò che voglio io. Non confonde l’impressione soggettiva col dato oggettivo.

L’angoscia soggettivistica e morbosa di Lutero non era ancora arrivata. L’idealismo furbesco di Cartesio non era ancora arrivato.  Per questo, quando la coscienza medioevale esamina le azioni compiute, sa se ha peccato o non ha peccato. Il principio di non-contraddizione le dice che è impossibile che sia e non sia simultaneamente in stato di peccato. O è innocente o è colpevole. E accertarsi non è impossibile, così come è impossibile che abbia e non abbia peccato simultaneamente. Non si tormenta nel dubbio, ma lo chiarisce. Se ha peccato si pente e se non ha peccato sta tranquilla. E se non riesce a far chiarezza, si affida alla misericordia di Dio.

È interessante notare come il medioevo non conosce l’infinita varietà delle moderne psicopatologie, neurosi, depressioni, schizofrenie, isterismo, esaurimenti, abulìe, anoressie e suicidi, tutti fenomeni oggi così diffusi. L’uomo medioevale non conosce il fenomeno del nichilismo, dell’esistenza senza senso e senza scopo dell’esistenzialismo ateo sartriano o di quello disperato di Camus. L’esistenza ha un valore assoluto, perché ci porta a Dio e il male è vinto da Cristo.

L’uomo medioevale sapeva meglio distinguere l’apparenza dalla realtà, l’oggettivo dal soggettivo; era realista, mentre noi oggi noi siamo invasi dall’idealismo e dal soggettivismo. Non era illuso dall’immanenza, ma era aperto alla trascendenza. E ciò si rifletteva nell’esame di coscienza.

L’uomo medioevale è oggettivo nel riconoscere le sue colpe, e quindi sa distinguere la colpa reale da quella apparente o immaginaria. Egli fa capo ad un criterio oggettivo, universale di giudizio e non a una concezione individualistica o soggettivistica della legge morale.

Sa che Dio è leale e fedele, comanda cose giuste e ragionevoli,  spiega le ragioni di ciò che fa, pur chiedendo fiducia nel valore delle sue decisioni insindacabili. Ma insindacabili non vuol dire assurde, ma vuol dire che la ragione umana non può ficcarvi il naso. Non vuol dire che non siano conformi a ragione, anzi sono molto più ragionevoli di quanto la limitata ragione umana può comprendere.

Il medioevale è semplice come la colomba. Manca in lui forse la prudenza del serpente. Infatti la coscienza morale medioevale è molto più semplice della nostra di oggi. È, si potrebbe dire, la coscienza del fanciullo con tutti i vantaggi, ma anche svantaggi, come la mancanza di riflessione e di autocoscienza, la facile credulità, una spontaneità istintuale, una forte estroversione ed una scarsa interiorità.  

La coscienza moderna viceversa è passata al terribile vaglio di Ockham, Lutero e Cartesio ed ha acquistato in prudenza, giudiziosità, cautela, circospezione, discernimento  e saggezza. Il problema piuttosto di oggi è il modernismo, per il quale  la reazione all’ingenuità medioevale e all’austerità promossa della riforma tridentina è passata all’estremo opposto dell’edonismo e del lassismo, della doppiezza sistematica e  del dubbio fine a se stesso.

Si è creduto di allontanare lo scrupolo e il rimorso di coscienza col soffocare la coscienza infischiandosi della legge morale come se ci si liberasse da un giogo insopportabile in  vista di godersi la vita  dando la stura alle passioni della carne e alla superbia della vita (I Gv 2,16) nella convinzione di essere comunque in grazia di Dio, anzi addirittura mistici raggi dell’Io assoluto e molteplici e diverse apparizioni empiriche dell’Io puro o della Soggettività trascendentale.

Guglielmo di Ockham, il «Venerabilis Inceptor».

Ma di che cosa?

È con l’influsso della morale sensista e volontarista di Ockham che iniziano il turbamento e l’autopunizione della coscienza morale europea, assieme ad una affettata presunzione d’innocenza. Ockham, infatti, col suo nominalismo empirista, con la sua etica convenzionalista e  libertaria rimette in circolo le idee degli antichi sofisti ed edonisti greci, già a suo tempo confutati dal leale e temperato Aristotele.

Con Ockham cessa l’etica della semplicità, del candore, della linearità, della trasparenza, dell’obbiettività, dell’imparzialità, della sincerità, della schiettezza, della verità e della sapienza, ed inizia quella della furbizia, dell’astuzia, delle vie traverse, delle tortuosità, dei favoritismi, delle imposture e della doppiezza, quella stessa etica farisaica per combattere la quale Cristo dovrà rimetterci la vita.

La prudenza diventa calcolo interessato, approfittamento disonesto, ricerca del successo, vittoria sleale. Lo scrupolo è scambiato per coscienziosità e la pace si ottiene tacitando la coscienza. L’onesto è un povero ingenuo. Il sapiente è l’astuto. C’è la prudenza del serpente senza la semplicità della colomba.

L’etica occamista, come è noto, non è fondata sulla intellezione dell’essenza, ma sulla sensazione, non sull’intelletto ma sulla libertà, non sul concetto ma sull’immagine, non sulle idee ma sull’uso dei nomi, non sull’universale ma sullo individuale, non sulla legge di natura ma sulla convenzione sociale.

È ovvio che in queste condizioni l’apparenza viene a stare al posto della verità, la finzione vale tanto quanto la sincerità, l’opinione sostituisce la scienza, la probabilità sostituisce la dimostrazione razionale, la verifica sperimentale sostituisce l’intuizione intellettuale, il soggettivo sostituisce l’oggettivo, ciò che è privato sostituisce il  comune.

È ovvio che con simili basi etiche possa prosperare la malattia e la malizia della scrupolosità, un finto zelo per la legge, false apparenze di santità, di umiltà, di pentimento, una pretestuosa confidenza nella misericordia divina, una evasione dagli obblighi di giustizia verso Dio e un rifiuto dalle esigenze della giustizia divina nei nostri confronti.

L’etica medioevale e l’uomo medioevale non conoscono il problema dello scrupolo, se non inteso come inezia relativa a piccole preoccupazioni o sviste della vita quotidiana, non meritevoli di essere neanche prese in considerazione dalla teologia morale. Infatti la morale di San Tommaso ignora completamente la questione dello scrupolo, anche quando tratta dell’ipocrisia o della superbia.

Il rimedio apportato dal Concilio di Trento e l’opera dei Gesuit

È cosa nota a tutti che l’apporto principale della modernità è l’approfondimento del valore della coscienza. È quello che Maritain chiama l’«avvento dell’io». La filosofia e la spiritualità diventano autobiografia. Quello che conta non è tanto il guardar fuori, ma il prender coscienza di quello che già si sa e che scaturisce dall’intimo dello spirito. È uno sviluppo del ricordare platonico.

La vicenda di Lutero ha obbligato la Chiesa ad approfondire la distinzione fra valore della coscienza morale comune e coscienza morale individuale; è venuta meglio in luce la distinzione fra buona e cattiva fede, ignoranza vincibile e ignoranza invincibile, peccato avvertito e peccato inavvertito, peccato scusabile e peccato inescusabile, peccato di malizia e peccato di fragilità, certezza oggettiva e certezza soggettiva. Si sono poste così le basi che avrebbero portato il Concilio Vaticano II a proclamare il diritto della libertà religiosa[1].

Si è chiarita la differenza tra il giudizio morale certo e quello probabile, tra la giustizia e l’epikeia, tra la tolleranza e la libertà, tra la sospensione della legge (applicabile nella legge naturale) e l’eccezione alla legge (applicabile nella legge positiva). Si è meglio compresa l’incidenza delle circostanze e delle situazioni nel determinare il contenuto e la responsabilità dell’atto morale.

Un’altra chiarificazione data dal Concilio di Trento è stata quella relativa alla distinzione fra peccato mortale e peccato veniale. Infatti per Lutero tutti i nostri atti, dopo il peccato originale, sono peccati mortali. La giustificazione dona la grazia, la quale però coesiste col peccato. Dio ci guarda benevolmente non perché siamo diventati giusti, ma perché nascondiamo il nostro peccato sotto la giustizia di Cristo. Così i nostri atti diventano giusti non perché facciamo l’opposto di quello che facevamo prima, ma perché quello che facciamo adesso, perdonato da Dio, non dobbiamo più avvertirlo come peccato, anche se la coscienza ci rimprovera. Prima ci piaceva fornicare o diffamare o mentire? Possiamo continuare. Del resto, peccatori come siamo, non potremmo farne a meno. Che vantaggio dà allora l’essere un grazia? Che vuol dire? Semplicemente che Dio non ci chiede conto, non ci castiga per quello che facciamo, ma lo considera cosa normale. Fornicare o praticare la sodomia non è più cosa contraria alla castità o al matrimonio, ma è semplicemente una scelta diversa.

Ora il Concilio di Trento chiarì che io non posso nello stesso tempo essere in grazia e in stato di peccato mortale, perché essere in grazia vuol dire esser vivo, mentre essere in peccato mortale vuol dire essere morto. Ora, se sono vivo, non posso nel contempo essere morto.

L’essere in peccato mortale dipende dalla mia volontà. Dipende quindi anche da me rifiutare il peccato. Non sono così schiavo del peccato, tanto da non potermene liberare con la grazia di Cristo. Io sono in peccato mortale se Dio e la sua volontà, se ciò che Egli vuole che io faccia mi ripugna mi è odioso, lo sento come repressione della mia libertà; provo in questo rifiuto la soddisfazione di fare la mia volontà, benché nel contempo mi senta in contrasto con me stesso turbato. Mi sento ad un tempo frustrato e realizzato. Manco di ciò che vuole Dio, posseggo ciò che voglio io. So che ciò mi procura una pena eterna, ma non m’interessa. Ciò che m’interessa è fare la mia volontà e stare lontano da Dio. Egli mi respinge? Mi caccia? Va bene così.

Se invece Dio e la sua legge mi piacciono, mi attirano, mi interessano, mi danno gioia, li trovo amabili e fonti per me di felicità, allora vuol dire che sono in grazia e sono innocente. Vuol dire che Gli sono gradito e che merito il paradiso. Se quindi mi piace fare la sua volontà, sono pronto a qualsiasi sacrificio o rinuncia pur di non perdere questo sommo Bene. In questo caso mi sento in pace e realizzato.

Mi sento vivo, mentre in stato di peccato mortale, certo la mia anima vivrebbe perché è immortale; ma che vita sarebbe quella di uno spirito creato, che invece di godere dello spirito e quindi di Dio suo Creatore e dell’obbedire a Lui, si chiudesse in se stesso e nei piaceri materiali come se in ciò ci fosse l’assoluto?

Ora lo scrupoloso, com’era Lutero, ha la sensazione angosciosa di essere sempre e irrimediabilmente in peccato mortale, pur amando Dio e la sua legge. Il Concilio di Trento e più tardi il Concilio Vaticano II metteranno in luce l’essenza del peccato veniale. Il Concilio di Trento preciserà, andando in ciò incontro a Lutero, che è un peccato frequente e inevitabile anche nei santi, ma che nel contempo non esclude affatto lo stato di grazia.

In particolare il Concilio Vaticano II, chiarendo la dignità della coscienza, mostrerà meglio la caratteristica della colpa veniale, colpa che il fedele può togliere da solo senza bisogno di ricorrere al sacramento della penitenza. Tale caratteristica, per la quale è attenuata la colpa mortale, per cui l’anima resta in grazia, consiste nel fatto o dell’ignoranza invincibile e o del difetto di libero consenso, due elementi che stanno rispettivamente a fondamento della libertà religiosa e della tolleranza delle persone fragili. 

Inoltre, come appare evidente in Lutero e Cartesio, l’interesse per il valore della coscienza morale è una ripresa dell’interiorismo agostiniano, ma, mentre esso nel medioevo è naturalmente congiunto all’oggettivismo tomista e ad una generale impostazione realista, che ammette senza difficoltà ed anzi come cosa ovvia che il sapere proviene dal contatto sensibile con una realtà esterna presupposta, la coscienza comincia a voler fondarsi su se stessa e a partire da se stessa,  e pretende quindi al primato sul fondamento derivato dall’ esterno di se stessa, sia il proprio corpo umano, siano le cose, sia la Chiesa, sia Dio stesso.

Per l’immanentismo morale, conseguenza dell’immanentismo gnoseologico idealista, tutto dev’essere immanente all’io e controllato dall’io, altrimenti non esiste. La verità non viene dall’esterno, ma solo dall’interno della coscienza. Voler far capo a una realtà esterna sensibile come regola oggettiva della verità, è considerata dai cartesiani un’ingenuità. Il realista viene considerato come uno che si lascia ingannare dall’apparenza.

Le cose esterne per l’idealista postcartesiano non esistono. Per lui, la vera realtà, quella che i realisti considerano esterna, non è altro che il prodotto delle nostre idee a priori, dell’«Io trascendentale», forme ideatrici e creatrici del reale. Ecco spuntare l’idealismo, destinato a dominare nella filosofia moderna. Non più una scienza morale fondata su di una natura umana esistente indipendentemente dalla coscienza, ma, al suo posto, una coscienza assoluta, che possiede già da sé i princìpi dell’agire

Inoltre, la scienza morale medioevale conosce la distinzione fondamentale fra etica naturale o filosofia morale ed etica cristiana o teologia morale. La questione dello scrupolo è strettamente connessa con la questione del peccato e della giustificazione, e fu posta prepotentemente alla ribalta da Lutero.

La vicenda di Lutero ha obbligato la teologia morale ad approfondire la natura dello scrupolo e a cercare i suoi rimedi. Da questa istanza è nata la distinzione fra morale ascetica e mistica[2], soprattutto ad opera dei moralisti Gesuiti della riforma tridentina. I punti e le distinzioni che sono venuti alla luce per la riflessione della Chiesa a seguito della vicenda di Lutero sono i seguenti: più chiarezza sull’essenza del peccato, sulle sue cause, sui dei suoi effetti e sui suoi rimedi, sulla distinzione fra male di pena e male di colpa, fra volontario e involontario, fra conscio e inconscio, fra coscienza morale e scienza morale, responsabilità e non responsabilità, fra certezza oggettiva e certezza soggettiva, fra imputabilità e innocenza, fra giusto e ingiusto castigo, fra buona e cattiva fede, fra malizia e fragilità, fra concupiscenza e peccato, fra stato di peccato e atto del peccato, fra vera e finta colpa, fra giustizia e misericordia, fra giustizia ed epikeia, fra perdono e tolleranza, fra eccezione alla legge e sospensione della legge, fra legge divina, naturale e positiva, fra confessione e direzione spirituale, fra diritto e morale, fra pastorale e psicoterapia.

Il dramma di Lutero ha condotto inoltre la Chiesa, col Concilio di Trento, a chiarire la natura del libero arbitrio nel suo rapporto con la grazia. Il giovane Lutero, troppo impressionato per le sue debolezze, tendeva a colpevolizzarsi in una maniera esagerata, atto, questo, proprio dello scrupoloso. Aveva frainteso San Paolo, quando, nella Lettera ai Romani, parla della condizione angosciosa del peccatore. Infatti l’Apostolo, nel suo modo di esprimersi enfatico sembra voler dire che io sono talmente schiavo del peccato, da aver perduto il libero arbitrio. Dice infatti Paolo:

 «non quello che io voglio faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so, infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me.

Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra» (Rm 7, 14-23).

Sembra che Paolo voglia dire che io non posso non peccare; sembra che voglia dire che io non sono padrone delle mie azioni; esse non dipendono da me; non sono liberamente decise da me; quindi non ho il potere di fare diversamente. Quindi io mi trovo in colpa e riprovato da Dio contro la mia stessa volontà, che non è libera ma schiava del peccato. Non posso decidere di non peccare, non posso fare diversamente e quindi sono un candidato dell’inferno.

Così infatti Lutero interpretava San Paolo. Da questa sua esegesi viene la sua famosa negazione dell’esistenza del libero arbitrio, alla quale il Concilio di Trento rispose riaffermando l’esistenza del libero arbitrio con preziose precisazioni, che hanno condotto la dottrina della Chiesa a farci comprendere da una parte la dignità del libero arbitrio e dall’altra la sua debolezza e tendenza al peccato a seguito del peccato originale.

Infatti non è altro che di questa fragilità del libero arbitrio che qui Paolo intende parlare. Non si sogna neanche, come risulta chiarissimamente da altri contesti, di negare che io sono padrone delle mie azioni, che decido io quello che faccio, che so quello che faccio perché lo decido io e l’ho voluto fare; che quindi sono responsabile di quello che faccio perché lo voglio io, e che quindi so se un peccato l’ho fatto volontariamente e quindi colpevolmente o perché spinto dalla passione o per ignoranza in buona fede, e quindi con colpa attenuata o senza colpa. So che se non voglio peccare non pecco e che pecco perché lo voglio io. Nessuno decide al mio posto.

Il «peccato che è in me», del quale parla San Paolo, non è una volontà maligna che rende schiava la mia volontà buona – cosa assurda -, sicchè io sono punito benchè innocente, ma è semplicemente la concupiscenza, il cui concetto sarà chiarito dal Concilio di Trento, quella concupiscenza (epithymìa), della quale parla San Giovanni (I Gv 2,16), ossia la tendenza a peccare conseguente al peccato originale, tendenza che può e deve esser vinta dalla buona volontà sostenuta dalla grazia, anche se essa resta per tutto il corso della vita presente.

La grazia mi libera non nel senso che mi renda nominalmente giusto senza esserlo realmente, mi dia il permesso di peccare liberamente e di considerare bene ciò che è male, ma nel senso che guarisce e rafforza il mio libero arbitrio dalla sua debolezza e lo rende capace di compiere opere soprannaturali, così da poter meritare la stessa vita eterna.

Queste sono le premesse che fondano l’aspetto ascetico ed agonistico della vita morale e spirituale, gravemente trascurato da Lutero, che si adagia con falsa umiltà sulle proprie cattive tendenze senza curarsi di mortificare la carne con una opportuna disciplina spirituale, salvo a sfogare tutta la sua aggressività contro il Papato e la morale cattolica. L’aspetto ascetico della morale cattolica sarà per reazione molto curata dalla spiritualità ignaziana, sorta sotto l’impulso morale dato dal Concilio di Trento.

L’ascetismo cristiano, che ha analogie con quello delle altre religioni, soprattutto induismo e il buddismo, punta, come è noto, sullo sforzo disciplinato e metodico della volontà[3] necessario per vincere le tentazioni e per rinunciare al piacere illecito. Esprime la fatica che dobbiamo fare per compiere certi doveri che ripugnano alla carne, ma sono voluti dallo spirito. Implica l’idea di un combattimento e di una lotta contro forze che vorrebbero trascinarci a peccare, come la carne, il mondo e il demonio.

L’ascetica insegna dunque i metodi e i mezzi di questa buona battaglia[4], della quale parla San Paolo, per poter arrivare alla vittoria. La spiritualità ignaziana, possiede, come è noto, questo carattere militaresco che ben si adatta a rappresentare questa lotta spirituale per la conquista del regno di Dio e questa forza per rinunciare agli allettamenti del mondo e per non spaventarsi alle sue minacce.

La nuova spiritualità ignaziana saprà congiungere, sulle orme di quella domenicana, il rafforzamento della volontà umana sulla base della coscienza delle forze rimaste sane all’uomo nonostante le ferite del peccato originale, con una grande fiducia nel soccorso della grazia, mentre Lutero, come è noto, col pretesto della fragilità e della malizia dell’uomo conseguente al peccato, convinto di avere comunque Dio con sé, e giudicando inutili gli sforzi umani, i sacrifici e le rinunce ascetiche,  convinto di essere strumento della potenza della grazia, concentrava la sua volontà solamente sull’esternazione infaticabile della sua dirompente e fascinosa personalità, tanto più intransigente, aggressiva ed autoritaria, quanto più Lutero era convinto di essere strumento eletto di Dio per il ritrovamento del vero Vangelo contro le superstizioni del papismo romano e l’oppressione dei latini sul popolo tedesco.

Da notare inoltre che la teologia morale di San Tommaso contiene altresì implicitamente la distinzione fra teologia morale e teologia spirituale[5], che dopo il Concilio di Trento avrebbe cominciato ad imporsi anch’essa per l’impulso dato alla teologia morale da parte del Concilio. In tal modo, la teologia morale viene ad essere concepita come dottrina dell’obbedienza attiva a Dio sotto il regime delle virtù morali e teologali.

Era, questa, una risposta a Lutero, il quale, col pretesto della corruzione della ragione e della volontà dopo il peccato originale, derideva l’etica e la teologia naturali elaborate da San Tommaso accusandole di essere le utopie illusorie del pagano Aristotele e dei frutti della superbia umana, che vuole avanzare meriti davanti a Dio.

Per quanto riguarda la teologia spirituale o della perfezione veniva concepita come dottrina dell‘obbedienza passiva a Dio sotto il regime dei doni dello Spirito Santo, in vista di elevarsi all’esperienza mistica, ignorata e disprezzata da Lutero, secondo il quale non esiste una carità verso Dio, ma solo verso il prossimo.

Egli infatti, dopo l’uscita dalla Chiesa, considerava l’ideale monastico, che pure in precedenza aveva liberamente scelto, come astratto e ozioso platonismo, ignorando che la forza e la ragione d’amare sinceramente il prossimo viene soltanto dall’unione mistica ed affettiva con Dio sommante amato e il fine ultimo di tutta la vita cristiana.

I moralisti domenicani, dal canto loro, mantennero l’unità tomistica della teologia morale, per la quale, data la chiamata universale alla perfezione e alla santità, la teologia mistica è il vertice della teologia morale, per cui nella scuola domenicana tutti sono chiamati all’esperienza mistica come compimento supremo della vita morale[6].

Invece nella scuola ignaziana della riforma tridentina si distinse una morale ascetica per laici e religiosi, ed una esperienza mistica riservata ai religiosi. Ci volle San Francesco di Sales a ricordare la tesi tomistica, vero specchio dell’etica evangelica, che tutti sono chiamati all’esperienza mistica (che egli chiamava «devozione») e non solo i monaci e gli eremiti. Questa tesi sarà poi ripresa da Concilio Vaticano II.

Inoltre, appare evidente che la distinzione fra morale ascetica e morale mistica, che appare solo dopo il Concilio di Trento, fu concepita in chiave antiluterana, l’ascetica per opporsi al lassismo e permissivismo luterano; la mistica come richiamo al valore della contemplazione, assente nell’etica luterana, dove la carità non riguarda Dio, ma solo l’amore del prossimo.

L’ascetica offrì largo spazio per trattare del tema del peccato, della colpa e dello scrupolo, inquadrando il discorso nel tema più ampio del male di pena e male di colpa. In tal modo il discorso si allarga a trattare la funzione del dolore nell’etica cristiana, atteso il fatto che lo scrupolo arreca sofferenza similmente al pentimento, del quale è una deformazione causata da una presuntuosa pretesa di perfezione o mancata accettazione dei limiti della coscienza.

Inoltre col Concilio di Trento nacque anche, per iniziativa dei Gesuiti, la teologia spirituale o ascetico-mistica, intesa nel senso in cui oggi parliamo di teologia pastorale, ossia l’insegnamento ai pastori del metodo della guida delle anime alla perfezione. Oggi invece l’espressione teologia ascetico-mistica è in ribasso, perché ricorda l’ascetismo preconciliare, superato e corretto dall’umanesimo  del Concilio Vaticano II.

Sotto l’egida della teologia spirituale nacque anche, come è noto, sempre per impulso dei Gesuiti, la figura confortante e rassicurante del  direttore spirituale, che dette luogo a una vastissima opera di educazione della gioventù, della formazione delle classi dirigenti, al sorgere di una schiera di anime elette e di santi pastori e sacerdoti che furono all’origine di un dirompente e intelligente  slancio missionario, precorritore nell’opera dell’inculturazione della fede, di una rinnovata ricerca della santità e della gloria di Dio e nuovi istituti religiosi, opere culturali ed iniziative sociali e di carità.

I Gesuiti, come si sa, impostarono la vita cristiana nel senso paolino della generazione dell’«uomo spirituale», in lotta contro la carne, l’uomo che mortifica l’uomo vecchio schiavo delle passioni, assoggettando  con energia e tenacia il proprio corpo. Anche qui giocò la mentalità militaresca di Ignazio: come il soldato si esercita nel combattimento, sì che si forma appunto l’esercito, così il cristiano deve esercitarsi nella lotta contro il peccato, contro i vizi, contro la carne, contro il mondo e contro Satana per liberarlo dal potere di Satana e conquistare il mondo a Cristo. Da qui i famosissimi «esercizi spirituali», atti a promuovere l’azione cristiana virtuosa e santa, un’azione nella quale essere sempre controllati e padroni di se stessi, utilizzando razionalmente tutte le risorse disponibili e mettendosi a piena disposizione della volontà divina.

Anche questa fu una risposta a Lutero, il quale nel suo disprezzo per l’ascetismo cristiano e in particolare per la vocazione sacrificale  del sacerdote,  disprezzava e derideva la sua missione di insegnare alle anime la disciplina spirituale,  la penitenza e l’espiazione per i propri peccati, le rinunce necessarie al conseguimento della perfezione, nonchè il sacrificarsi per il prossimo  sull’esempio di Cristo e la partecipazione devota e fervorosa al sacrificio della Messa.

Fine Seconda Parte (2/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 2 febbraio 2023

 

L’uomo medioevale sapeva meglio distinguere l’apparenza dalla realtà, l’oggettivo dal soggettivo; era realista, mentre noi oggi noi siamo invasi dall’idealismo e dal soggettivismo. Non era illuso dall’immanenza, ma era aperto alla trascendenza. E ciò si rifletteva nell’esame di coscienza.


L’etica medioevale e l’uomo medioevale non conoscono il problema dello scrupolo, se non inteso come inezia relativa a piccole preoccupazioni o sviste della vita quotidiana, non meritevoli di essere neanche prese in considerazione dalla teologia morale. 

Infatti la morale di San Tommaso ignora completamente la questione dello scrupolo, anche quando tratta dell’ipocrisia o della superbia.



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[1] «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno», Lc 23, 33-34.

[2] Fra i tanti trattati di ascetica e mistica sorti soprattutto nel secolo scorso, vedi per esempio Adolfo Tanquerey, Compendio di teologia ascetica e mistica, Desclée&C., Roma-Parigi 1930.

[3] Lo ritroveremo anche nell’etica idealista tedesca, soprattutto in Fichte. L’etica dialettica hegeliana non è priva di questo aspetto agonistico. Cf Vincenzo Kuiper, Lo sforzo verso la trascendenza. Studio sulla filosofia di Bernardino Varisco e sull’idealismo, Libreria dell’Angelicum, Roma 1940.

[4] Vedi, per esempio, il mio libro La buona battaglia, Edizioni ESD, Bologna 1986.

[5] Cf il mio articolo Proposta di sistemazione della teologia spirituale, in Teoria e pratica della Mistica, Atti del primo forum internazionale, La Santa, Bologna 2000, pp.23-33.

[6] R. Garrigou-Lagrange, Les trois ages de la vie intérieure, Les Editions di Cerf. Paris 1938.

 

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