Mediatori di pace - Terza Parte (3/4)

 

 Mediatori di pace

Terza Parte (3/4)

 Terza parte.

I dati da tenere presenti per la soluzione del problema

 Che cosa è il modernismo

Vediamo adesso come si configurano i due schieramenti contrapposti. Cominciamo dai modernisti. Come è noto, fu chiamato «modernismo» da San Pio X il vasto complesso di dottrine ereticali che ebbe vita ai tempi del Santo Pontefice, mentre gli stessi esponenti di questo movimento designarono se stessi con questo termine, naturalmente in tono di vanto e in un senso positivo, come di cattolici che intendevano ammodernare la cultura cattolica tenendo conto delle conquiste culturali dei tempi moderni.

San Pio X vide invece nel modernismo niente più che un cumulo di errori, «la somma di tutte le eresie», senza riconoscere in esso alcunché di positivo, sulla base di una generale condanna della «filosofia moderna». Il rimedio proposto dal Papa era il puro e semplice ritorno a San Tommaso e alla teologia scolastica, senza accennare per niente a una possibile assunzione critica dei valori della modernità.

I modernisti infatti erano mossi dal desiderio di ammodernare la Chiesa nel senso di aprirla ai valori del pensiero moderno. L’istanza non era sbagliata. L’idea era buona. Effettivamente la Chiesa dai tempi dell’Umanesimo era rimasta indietro nei confronti dei progressi che si erano verificati nel campo delle scienze umane con danno al progresso della teologia e del costume morale, che dalle scienze traggono alimento per una vita cristiana continuamente protesa alla conquista del Regno di Dio.

Questa istanza di progresso, però, non venne alla luce in teologi, moralisti e filosofi ben formati alla vita cristiana, ma in uomini sedotti dagli errori della modernità, sicchè essi, privi del dovuto discernimento che avrebbe dovuto criteriarsi sulle direttive provenienti dalla Tradizione, dalla Scrittura e dal Magistero della Chiesa, presero come criterio per la delicata e complessa operazione lo stesso pensiero moderno alla luce del quale fecero una cernita nel patrimonio della dottrina cattolica per trascegliere in essa solo ciò che si accordava con la modernità, così da comportarsi alla rovescia di come avrebbero dovuto agire: invece di giudicare il mondo alla luce del Vangelo, presero dal Vangelo solo ciò che si accordava col mondo, giudicando il resto come desueto, superato o addirittura errato.

Nell’enciclica Pascendi sono esposte le dottrine errate, ma non sono nominati gli autori dai quali i modernisti traggono ispirazione o dai quali sono influenzati. Si nota in generale un influsso del kantismo, del positivismo, dell’idealismo, del protestantesimo e del razionalismo illuministico. Dietro al fenomenismo (nn. 7, 8, 26, 57) si riconosce Kant e Comte; dietro all’agnosticismo (nn. 7, 9, 10, 13, 57, 65, 68, 77) e all’inconoscibile (n. 11, 13, 27, 81) si riconosce Spencer e la mistica pagana; la privata ispirazione, l’esperienza individuale (n.21), il fideismo (n.11,29,61), la negazione e falsificazione dei Sacramenti (n.38), il rifiuto del Magistero della Chiesa (n.86) e il rigetto della Tradizione (nn.25,36,51,90) richiamano chiaramente a Lutero; l’indifferentismo religioso (nn.12,14,22,25), e la negazione del soprannaturale (n.15) fa pensare all’illuminismo e alla massoneria; l’ateismo (n.22) fa pensare a Democrito,  Feuerbach e  Marx; il soggettivismo (n.59,70,77,81), l’idolatria della filosofia moderna (nn.75,85), la coscienza religiosa autoreferenziale (nn.8,42) e il disprezzo della filosofia scolastica (n.75,85,87) si riferiscono chiaramente a Cartesio e a Lutero; Il loro luteranesimo viene esplicitamente dichiarato (n.32); la smania di innovazione (nn.20,75), e il razionalismo (nn.3,32) fanno certamente riferimento a Cartesio; l’immanenza vitale (nn.10,33,34,65,73) e la falsa nozione di progresso (n.55) richiama chiaramente ad Hegel e l’immanentismo fa pensare, oltre che ad Hegel, all’antica gnosi, a Meister Eckhart e alla teosofia di Helena Blavatsky; il bisogno del divino (nn.10,38,41,50,73,74) rimanda al pelagianesimo, al volontarismo di Ockham, Fichte, Schopenhauer, Marx e Nietzsche; la perversione dell’eterno concetto di verità (n.20) rimanda certamente a Protagora e alla sofistica greca; il subconscio (n.10,11,14) fa pensare ad Herbart e precorre Freud; il sentimento (n.11,12,14,16,18,77) richiama a Schleiermacher ed ai romantici tedeschi; la negazione della divinità di Cristo mediante una falsa critica storica (n.13, 27) richiamano a Reimarus, Baur, Bauer e Strauss e Renan; l’evoluzione del dogma e il relativismo dogmatico (nn.16,18,19,20,48, 49,54,55,65,68,72) rimanda ad Eraclito, Schelling, Lessing, Von Harnack, Wellhausen e Dilthey; l’esperienza religiosa (n.25,39,68,78,79) fa pensare alla mistica protestante o indiana e a William James; il conciliarismo (n.45.52) fa pensare a Marsilio da Padova; la negazione della divinità di Cristo (n.60) fa pensare ad Ario; il panteismo (n.80) fa pensare a Spinoza e all’idealismo tedesco; la superbia antropocentrica (n.82,83,84) fa pensare a Giordano Bruno e all’antropocentrismo magico kabbalistico e rinascimentale; che la Chiesa non ha un’origine divina, non è sta fondata da Cristo, ma è nata dalla semplice coscienza religiosa (n.41) è una tesi derivata dalla massoneria; il concetto che «tutto debba essere mutevole» (n.48), che «nulla di immutabile c’è nella Chiesa» (n.54); la legittimazione del conflitto intraecclesiale e della contraddizione (nn.51.69) fa pensare certamente alla dialettica hegeliana.

Stando così le cose, possiamo distinguere il termine modernismo in senso storico dal modo di designare un ben preciso metodo teologico in sé indipendente, quale quello che ho definito, dal momento storico nel quale fu realizzato per la prima volta, e tale da potersi attuare in altri momenti storici, come è avvenuto a partire dal periodo postconciliare fino ai nostri giorni.

Sono cambiati gli autori ai quali si rifacevano i modernisti del tempo di San Pio X, ma il metodo, lo spirito, l’impostazione di fondo restano gli stessi. Ecco perché anche oggi possiamo parlare di modernismo, non però nel senso usato dai lefevriani, i quali hanno ragione nel chiamare «modernisti» teologi come Leroy, Laberthonniére, Blondel, Maréchal, Teilhard de Chardin, Rahner, Schillebeeckx, Boff o Küng. Ovviamente esistono gradi di gravità dell’errore, ma l’errore in se stesso si può designare sempre con lo stesso nome, così come un morbo può trovarsi in una fase lieve come in una fase acuta.

È chiaro che teologi come Tyrrell, Buonaiuti, Fogazzaro o Loisy furono modernisti in modo più grave di quanto lo siano quelli che ho citato sopra. I Papi del postconcilio non usano se non rarissimamente il termine modernista, ma è chiaro che quando parlano di secolarismo, soggettivismo, idealismo, relativismo, gnosticismo o mondanità spirituale si riferiscono al modernismo.

Se oggi parliamo di modernisti, impropriamente chiamati con l’eufemismo di «progressisti», e dobbiamo farlo, perché è un termine che porta chiarezza e mostra la gravità della posizione di coloro che se lo meritano, anche se oggi nessuno ama designarsi con questa parola, è chiaro che non possiamo dare a questa parola esattamente lo stesso senso che le dava San Pio X, partendo da quella sua visione eccessivamente severa, alla quale ho accennato sopra.

Se oggi quindi parliamo di modernisti, dobbiamo precisare che riconosciamo in essi aspetti positivi, che hanno precorso le dottrine del Concilio o hanno concorso alla loro formazione. Il caso più emblematico è quello di Rahner, che, pur meritando un pieno questa qualifica, tuttavia dette al Concilio un valido contributo universalmente riconosciuto.

Se i lefevriani chiamano moderniste le nuove dottrine del Concilio, giungendo al punto di accusare di modernismo i Papi del postconcilio, è perchè non sanno apprezzare il valore del contributo dato ad esse da un Rahner ed altri teologi progressisti. È chiaro allora che qui i lefevriani usano il termine in modo sbagliato, scambiando per modernismo il sano progresso teologico promosso dal Concilio.

Il nodo fondamentale della questione

Alla radice prima del conflitto che oggi travaglia la Chiesa fra indietristi e modernisti sta in una questione di fondo metafisica che li coinvolge entrambi: il problema di come accordare il mutevole con l’immutabile, l’essere col divenire, l’essere con l’agire, la statica con la dinamica, la stabilità con la storicità, il permanere col mutare, la tradizione col progresso, la conservazione con l’evoluzione, il rinnovamento con la fedeltà, il dogma con la pastorale, la fermezza con la flessibilità, l’adattamento della legge alla conservazione della legge, la fedeltà al passato e la proiezione verso il futuro.

La differenza tra i due partiti sta nel fatto che mentre gli indietristi sono dei platonici fermi nell’essere e a disagio nel divenire, i modernisti sono degli eraclitei ingolfati nel divenire e incapaci di guardare l’essere. I primi intuiscono con l’intelletto, ma diffidano dal senso; i secondi si lasciano sedurre dal senso ed annebbiano l’intelletto. I primi conoscono lo spirito, ma disprezzano la materia; i secondi apprezzano la materia, ma sono miopi nello spirito.

I primi sono degli immobilisti, i secondi, dei sovversivi. I primi sono rigidi e rigoristi; i secondi, sono molli e lassisti. I primi separano; i secondi confondono. Per i primi l’essere è verticale, per i secondi è orizzontale. Occorre spiegare ad entrambi come nella Chiesa i due valori di fondo dell’essere e del divenire devono essere congiunti.

Chi nell’ente diveniente ha visto giusto ed è stato capace di dirci come essere e divenire, come stasi e moto, come mutevole e immutabile si concilino nell’unico ente, dando a ciascuno dei due componenti il suo, è stato Aristotele.

Così per Aristotele l’ente vivente corporeo ha una sua identità propria, ha un’essenza e proprietà specifiche e individuali, ha una materia e una forma, è composto di sostanza e accidenti, ha un essere e un agire, accoppia in sé l’immutabilità dell’essenza col dinamismo dell’agire, è nello spazio e nel tempo, si sviluppa e progredisce, pur mantenendo intatta la sua identità.

Occorre considerare la crescita della sostanza vivente. Essa possiede un’essenza immutabile e delle potenzialità che nella fase dello sviluppo del soggetto producono effetti sempre migliori. Nella vita biologica a un certo punto il processo di crescita si arresta e comincia una fase di declino che conduce alla morte. Non così per la Chiesa. Essa è un organismo vivente in continua crescita perché organismo spirituale e l’organismo ben diretto ed alimentato non conosce declini o decadenze

Così con la Chiesa siamo davanti ad una sostanza vivente, a una mistica persona, il corpo mistico di Cristo, come insegna San Paolo, benché composta di persone, il popolo di Dio o comunità cristiana. E come un corpo ha molte membra, così noi siamo membra di questo corpo, parti integranti di questa persona mistica.

Il nostro tema è la Chiesa, sostanza vivente. È una comunità umana che cresce, si sviluppa, si rinnova, progredisce nella storia. Occorre aver ben chiara la sua essenza. Non muta la sua essenza. Mutano le sue forme storiche.

Come riconoscere ed apprezzare il suo progresso pur mantenendo immutata la sua essenza? Come viva persona corporeo-spirituale, la Chiesa ha un’anima e un corpo, una mente, una volontà, svolge nella storia e nello spazio un’azione, si accresce, si espande, si perfeziona, si conserva e nel contempo progredisce, si difende dalle forze nemiche, si nutre della verità e della grazia di Cristo, è guidata dallo Spirito Santo, è in cammino verso il Padre e la Gerusalemme celeste.

La Chiesa ancor oggi raccomanda San Tommaso, sapiente utilizzatore in chiave cattolica del pensiero di Aristotele, perché Tommaso, Dottore Comune della Chiesa, è impareggiabile nel porre termine alle controversie, nel creare accordi fra avversari, nella promozione del dialogo fra posizioni avverse, nel giocare come fattore di mediazione nei contrasti dottrinali, che sono fonti di discordie fra l’eternalismo e la rivoluzione, fra opposti estremismi.

Il tomismo lungo i secoli ha sempre dato in mano ai Pontefici ottimi strumenti dottrinali per tenere unita la Chiesa, salvare le diversità, comporre le contese, promuovere pace e concordia. Tanto la rigidità quanto il lassismo sono al di fuori della volontà di Dio e fattori di conflitto e di decadenza, perché non sono la verità totale, ma posizioni parziali ed unilaterali.

Il segreto per conciliare l’essere e il divenire, l’identità con la diversità, l’unità col pluralismo, la storia e la metafisica, la tradizione e il progresso, il permanente col cambiamento sta nel capire bene che cosa è l’uno e che cosa è l’altro conciliandoli come ci viene insegnato dal pensiero aristotelico-tomista da sempre raccomandato dalla Chiesa.

Il punto di applicazione della congiunzione di quei fattori che a noi qui interessa è la vita della Chiesa di oggi, lacerata da un antagonismo fra indietristi e modernisti, che quanto prima occorre far cessare per ottenere una vita ecclesiale serena e fruttuosa, secondo il programma del Concilio Vaticano II.

Gli errori dei modernisti di ieri e di oggi

I modernisti partono da un concetto di filosofia di origine cartesiana, per il quale il filosofo si presenta come un rivoluzionario del pensiero, un radicale riformatore o rinnovatore del pensiero, come uno che finalmente ha scoperto la verità dopo millenni di dubbio e di incertezza e di illusioni. Essi pertanto presentano il loro sistema come del tutto nuovo ed originale, privo di qualunque precedente, avulso da qualunque tradizione, per cui tutto ciò che è stato pensato prima di loro è da scartare e da relegare in un passato ormai superato.

Ma in realtà, se noi confrontiamo ciò che essi vorrebbero spacciarci come una loro formidabile scoperta che nessuno aveva mai fatto, e conosciamo la storia della filosofia, ci accorgeremo che quel pensiero che essi vorrebbero presentare come adatto ai tempi moderni, non è che la riedizione degli errori filosofici degli albori della filosofia greca, come quelli di Anassimandro, di Parmenide, di Melisso, di Eraclito, di Democrito, di Protagora, di Sesto Empirico, di Pirrone.

Quanto ai teologi modernisti, dietro alla loro istanza di soddisfare alle esigenze del pensiero moderno e alla pretesa di esprimersi in un linguaggio comprensibile dall’uomo d’oggi, se noi esaminiamo con attenzione ciò che vorrebbero farci credere, e nel contempo conosciamo la teologia di Lutero, ci accorgeremo che la loro pretesa di interpretare la Bibbia meglio e contro il  dogma, il Magistero e la Tradizione, non è altro che il riflesso delle eresie di Lutero peggiorate dal panteismo di Spinoza o dal protestantesimo liberale del sec. XIX, come per esempio quello di Schleiermacher o quello di Bultmann del secolo scorso.

Gli errori dei modernisti toccano l’ambito della gnoseologia e della metafisica. Partono da un concetto errato della conoscenza e dell’essere. Gli errori in gnoseologia sono molti e diversi. Mi limito ad elencarli, perché trattarne per ognuno allungherebbe troppo questo articolo e del resto basta consultare una buona storia della filosofia contemporanea. Essi sono il fenomenismo, la fenomenologia, l’empirismo, l’idealismo, il soggettivismo, il relativismo, lo scientismo, il fideismo, lo gnosticismo, l’agnosticismo.

Quanto agli errori metafisici, la loro esposizione si presta ad un quadro sintetico più breve, che possiamo riassumere in quattro punti: 1) essere e pensiero; 2) essere e divenire; 3) essere ed agire; 4) essere e apparire.

Essere e pensiero. È il principio idealistico e per conseguenza panteistico della identità o coincidenza del pensare con l’essere. Comporta la negazione dell’essere extramentale e del primato dell’essere sul pensiero o, come si esprime il Papa, del primato della realtà sull’idea.

Questa metafisica comporta non solo l’idealismo, come riduzione dell’essere al pensiero, ma anche il materialismo, come identificazione del pensiero con l’essere materiale. Infatti, se, come sostiene Berkeley, esse est percipi, l’essere è l’essere pensato, e se quindi l’essere materiale è un ente mentale, convertendo la tesi si darà che l’essere materiale è pensante, come appunto sosterrà Locke, rovesciando l’idealismo in materialismo. Da qui verrà fuori la teoria darwiniana della scimmia pensante come anello di congiunzione fra la scimmia e l’uomo.

Essere e divenire. L’essere si scambia col bene e col volere. Questa visione dell’essere converge facilmente con quella che identifica l’essere col divenire, perchè l’agire è un divenire. Inoltre converge con l’esistenzialismo, perché l’essenza astratta ed immutabile, oggetto dell’intelletto, è respinta in nome dell’esistenza e del concreto, campo dell’azione.

Bisogna considerare che esistono due modi del rapporto essere-divenire, del rapportarsi di ciò che è fermo o stabile col moto o movimento. Aristotele distingue un moto verso un termine, che esprime con la parola dynamis e la filosofia scolastica chiama potentia, il poter essere, l’agire per un fine, il tendere verso un fine o verso la perfezione.

Esiste poi il moto che promana dall’essere, dall’ente fermo o stabile, una potenza attiva, che Aristotele chiama energheia e la filosofia chiama actus, atto della potenza passiva dell’ente. Così un mobile in moto tende alla quiete come termine del moto. Qui abbiamo il divenire ordinato all’essere.

Invece l’attività dell’ente è un moto che esprime la perfezione dell’ente, come i raggi che emanano dal sole, non per nulla chiamati «energia solare». Qui abbiamo il divenire che segue all’essere. Così similmente la Chiesa. Essa è ente che col suo progredire nella storia, tende alla quiete del fine: il regno di Dio. E qui abbiamo l’istanza progressista.

Ma è anche col suo essere stabile, con la sua essenza immutabile, che la Chiesa è ente vivente che irraggia ed emana moto, calore e vita. E qui abbiamo l’istanza della tradizione e della conservazione. Ma i due aspetti del rapporto essere-divenire sono inscindibili e si richiamano a vicenda.

Esiste anche la pretesa modernistica dell’intelletto o del pensiero di sostituire il volere. L’astratto, il pensato viene entificato o ipostatizzato, come accade nell’idealismo platonico. Sono le forme dell’idealismo, dove l’essere e quindi il moto, il volere o l’agire sono ridotti al pensare, all’ideale. Il soggetto non agisce, ma si accontenta di pensare di agire senza agire realmente. Per lui l’azione è semplicemente l’azione pensata, dato che l’essere è l’essere pensato. Una maniera comoda per sottrarsi alle proprie responsabilità.

Bisogna considerare inoltre quello che è il motus imperfectus, il diventare o divenire, il passaggio dalla potenza all’atto o dal possibile all’attuale, il fieri, la generazione e la corruzione, la maturazione e l’invecchiamento, l’alterazione, la mutazione, il cambiamento, la trasformazione, lo spostamento, lo sviluppo, la concentrazione e la dispersione, il progresso e il regresso, l’aumento o crescita e la diminuzione, l’ampliamento e la restrizione, l’esplicitazione, l’implicazione, l’induzione la deduzione.

Essere ed agire. Secondo questa visione l’agire non segue all’essere, ma l’essere segue all’agire o si risolve nell’agire. Per quanto riguarda inoltre la dinamica dell’azione, esiste la forma normale, che è data dal giusto rapporto col sapere ed esistono altresì due forme anormali, che potremmo chiamare col nome di azionismo, prassismo, attivismo o volontarismo, dove il volere pretende di operare al posto del sapere o sostituire il sapere.

Abbiamo la forma estrema e una forma mitigata. La forma estrema (Ockham, Fichte, Marx, Nietzsche) dissolve l’intelletto nella volontà e fa coincidere senz’altro l’essere col volere o col fare e il vero col bene. Il vero non consegue all’essere e il bene non consegue al vero, ma il bene è determinato solo dal volere. La volontà non vuole ciò che è visto dall’intelletto, ma vuole se stessa. La verità non dipende dall’intelletto, ma dalla prassi.

Nel volontarismo l’agire non è la messa in pratica di una dottrina, di una teoria, di una legge, di un ideale preconcepito dall’intelletto, ma l’agire stesso coincide con la pratica della teoria e della norma morale. L’essere non è finalizzato all’azione, ma è la stessa azione, è il volere che produce l’essere. La conoscenza e la verità non conseguono all’atto dell’intelletto, ma al volere.

La forma mitigata (Platone, Lutero, Cartesio, Blondel) distingue intelletto da volontà, ma sostiene che l’intelletto non può da solo conoscere senza il concorso del volere. In Platone c’è l’origine tanto dell’idealismo intellettualista - l’idea al di là dell’ente - che del volontarismo – il bene al di là dell’ente -. Qui abbiamo la cosiddetta ontologia dell’amore di Giovanni Colzani e Piero Coda; e anche il bene che sostituisce l’essere (Jean-Luc Marion).

Inoltre, altri temi metafisici del modernismo sono i seguenti: in Parmenide, valorizzato da Severino c’è l’origine del panteismo: tutto è uno. In Eraclito, valorizzato da Hegel c’è l’origine dello storicismo e fenomenismo relativisti. In Democrito, valorizzato da Marx abbiamo l’origine del materialismo determinista. In Epicuro, valorizzato da Freud, c’è l’origine del pansessualismo. In Anassimandro e nel buddismo, valorizzato da Heidegger, abbiamo l’origine dell’inconoscibile[1] e del «Dio-senza-nome», del «mistero assoluto» ovvero del misticismo nichilista ed atematico di Rahner.

Essere e apparire. Qui abbiamo la caratteristica confusione hegeliana della dialettica con la scienza. Infatti, mentre, come spiega Aristotele, la dialettica è il dibattito fra il sì e il no, per cui la conclusione è sì e no, senza giungere a una conclusione univoca e certa ma solo probabile e quindi apparente, passibile di essere smentita,  quella che Platone chiamava doxa, opinione, la scienza, per converso, appurando dimostrativamente e con certezza la verità nel superamento delle ipotesi vicendevolmente opposte, si pronuncia decisamente, definitivamente e irrevocabilmente, chiaramente ed univocamente per un sì netto contro un no, ossia riconoscendo ed accettando il vero e rifiutando il falso. 

La scienza nasce dal bisogno di superare il fenomenismo[2] kantiano per il quale non possiamo conoscere la cosa in sé ma solo come appare a noi. La dialettica hegeliana è già prefigurata nella «dialettica trascendentale» kantiana della ragione, con la differenza che mentre per Kant questa dialettica non è scienza, ma comporta una forma di irresolutezza naturale della ragione (eredità del pessimismo luterano?) davanti ai problemi fondamentali dell’esistenza, per Hegel la dialettica diventa scienza. Il che vuol dire che l’intelletto non si ferma sul sì, ma ammette sempre anche il no.

Per Kant la dialettica non dà la verità, non dà il sapere ma solo l’apparire. Anche Hegel le pensa a questo modo, ma  d’altra parte vuole con essa fondare il sapere, per cui compie un atto di forza, obbligandola a svolgere l’ufficio del sapere, pur senza averne i titoli sufficienti, che sarebbero il possesso del puro sì sic et simpliciter.

Il fatto è che sia Kant che Hegel non accettano il concetto aristotelico di scienza come scienza dell’ente, ma sono legati al concetto cartesiano del sapere come soppressione forzata del dubbio volontario. Per questo succede che Hegel non sceglie tra il sì (tesi) e il no (antitesi), ma li mette assieme nella cosiddetta «sintesi», che non è affatto una sintesi, ma un servizio a due padroni.

Il fenomenismo hegeliano suppone peraltro anche la dottrina cartesiana della sensibilità, per la quale i sensi non ci danno delle qualità oggettive, ma solo delle apparenze soggettive. Ed inoltre suppone il soggettivismo luterano, per il quale l’interpretazione della Scrittura è rimessa alla coscienza soggettiva. 

Diverso dal sembrare è apparire inteso come apparizione, manifestazione, svelamento o rivelazione. L’apparenza, la doxa può ingannare. Il sembrare non è l’essere, non è il vero. La manifestazione o rivelazione, al contrario, è  la verità, perché è la rivelazione dell’essere, della realtà. Occorre tuttavia avere un’avvertenza. Questa concezione della verità presente in Husserl e in Heidegger non è sbagliata; tuttavia nel concepire l’essere che appare a me, devo fare attenzione a non mettere come proprietà dell’essere il fatto che appaia a me, come se, se non apparisse a me fosse nulla. No, la realtà esiste anche se non ci sono io a pensarla. Non sono così indispensabile all’esistenza del reale.

I modernisti partono dal concetto hegeliano dell’essere come divenire, ma non il vero divenire così come esso lo concepisce Aristotele, ma nel modo sbagliato, dialettico, come lo concepisce Hegel. Egli infatti, come è noto, parte dal concetto di essere come se la nozione di essere dovesse astrarre da ogni determinazione, dovesse astrarre da tutto: per forza, alla fine di questo processo fasullo, l’essere appare come completamente vuoto, insignificante e identico al nulla, un puro fantasma della mente di Hegel. Ma non è affatto questo il vero processo astrattivo col quale formiamo e cogliamo la nozione metafisica dell’essere. Tale processo astrae lasciando rimanere implicitamente ciò da cui si astrae, cioè le cose, tutto il reale. Per questo, anzichè lasciare tutto, conserva tutto e tutto rappresenta.

Ciò vuol dire allora che la vera nozione dell’essere non è univoca, ma analogica, come a dire che il significato della nozione dell’essere è sì intuitivo, ma non è affatto uno e semplicissimo, come credeva il Beato Duns Scoto, al contrario: pur essendo una ed universale, la nozione di essere, è nel contempo virtualmente polisensa, polivalente, molteplice e diversificata, dovendo rappresentare, benchè implicitamente e potenzialmente, tutte le infinite differenze e diversità di essere.

Quindi essa non ha niente a che vedere con un vuoto nulla, ma è pienissima di infiniti significati, benché implicitamente, data ovviamente la limitatezza della nostra intelligenza. In secondo, luogo Hegel ha l’infelice idea di concepire il divenire come opposizione di essere e nulla, facendolo quindi apparire come contradditorio, un’idea assolutamente ingiustificata, perché in realtà il divenire, come intuì Aristotele, non è altro che passaggio dall’essere in potenza all’essere in atto, è sempre sul piano dell’essere; il nulla non c’entra niente col divenire, ma introdurre il nulla per spiegarlo crea solo confusione e contraddizione. È vero che ciò che è divenuto non è più e ciò che avverrà o sta divenendo non è ancora, ma è logico che il divenire in atto escluda il divenuto e ciò che sarà. La stoltezza consiste nel voler inserire per forza il nulla o la negazione nell’atto stesso del divenire, che è atto d’essere diveniente

I modernisti inoltre – questo appare evidente in Küng - assumono il panteismo hegeliano, che suppone la nota confusione idealistica dell’essere col concetto di essere. Infatti, per fare un esempio, un conto è il concetto dell’essere infinito e un conto è l’essere infinito.

È chiaro che la nostra ragione è incapace di comprendere l’infinito ed è da esso infinitamente superata, mentre è vero che il nostro concetto dell’essere, come concetto universalissimo ha sotto di sé come differenze il finito e l’infinito. Ma questo non vuol dire che noi possiamo avere un concetto razionale esaustivo dell’infinito! La «scienza assoluta» di Hegel non è altro che quello gnosticismo che di recente il Papa ha denunciato e condannato.

È interessante peraltro come gnosticismo e agnosticismo[3]  - l’ignoranza totale e la conoscenza totale - siano l’immagine speculare l’uno dell’altro, si richiamino e si richiedano a vicenda, perché il vizio di fondo è sempre quello: è sempre l’io umano che, nell’esito finale del cogito cartesiano, ritenendosi l’assoluto ed autocoscienza assoluta si sente autorizzato o all’affermazione assoluta dell’io in possesso del sapere assoluto o all’affermazione assoluta del fenomeno davanti al mistero assoluto di cui nulla si può sapere così che non si distingue più la mistica dall’ateismo.

Il Concilio Vaticano II non ha proposto un’ecclesiologia che muta l’essenza della Chiesa, come sostiene Romano Amerio, ma ci delinea i compiti e i valori della Chiesa di oggi e del futuro[4], che non coincidono con quanto Enzo Bianchi[5] vorrebbe farci credere, legato com’è piuttosto a un modello di Chiesa di impronta protestante ossia privo dell’istituzione gerarchica e di impronta esclusivamente carismatica, dove l’escatologia manca di contenuto dogmatico e si presenta solo come il futuro storico e terreno  della libertà, della fraternità, della giustizia  e della pace. La medesima impostazione troviamo nelle ecclesiologie sedicenti conciliari ma in realtà moderniste di Küng[6], Rahner, Albert Nolan, Edward Schillebeeckx[7], Johann Baptist Metz[8] e Gustavo Gutiérrez[9].

I modernisti non sanno che cosa è la Chiesa perché sono degli immanentisti storicisti. La massima categoria della loro mente ristretta, terrena e «carnale», direbbe San Paolo è la categoria della storia, cioè del mutevole, del transitorio, della temporalità, dell’incerto, del precario e del corruttibile. Non sanno pensare niente che trascenda il tempo, il divenire e la storia e quindi, in sostanza, la materia. Non hanno il concetto dell’eternità. Tutto passa, niente resta. È la filosofia di Eraclito. Ma Gesù dice «cielo e terra passeranno; le mie parole non passeranno». Quindi costoro come fanno a dirsi cattolici?

Per questo non capiscono l’immutabilità del dogma, perchè non sanno comprendere il valore dell’essenza astratta, che ovviamente, prescindendo dallo spaziotempo, è immutabile. In sostanza il loro intelletto è così immerso nell’immaginazione, che a loro sfugge il puro essere, il puro intellegibile, l‘eterno, l’assoluto, l’infinito; non sanno elevarsi al piano del trascendente e della metafisica per fare veramente teologia e non mitologia. 

L’ecclesiologia del Concilio ripresenta sostanziante il medesimo concetto di Chiesa che troviamo nei trattati del preconcilio[10], e diversamente non potrebbe essere, dato che la Chiesa non può mutare nel definire se stessa. Cambiano le forme accidentali, le forme storiche, ma la Chiesa trascende la storia. Di essa si potrebbe dire parafrasando ciò che Cristo dice delle sue parole: «cielo e terra passeranno, ma la Chiesa non passerà».

Tornando alla questione della natura divina, diciamo che Dio è certo, come insegna o Concilio Vaticano I (Denz. 3001) , una sostanza singola, e la sua azione è «fuoco divorante» (Es 24, 17); ma non bisogna confondere questa concretezza spirituale e divina, comprensibile solo per mezzo dell’astrazione intellettuale, con la concretezza del materiale che cade sotto i nostri sensi.

Per questo i modernisti rifiutano la teologia speculativa per sostituirla con una «teologia narrativa». Per loro il teologare non è un indagare, un dimostrare o un dedurre, ma solo un immaginare, un simboleggiare e un raccontare.

Dio stesso per loro non è immutabile, ma diviene, non è puro spirito, ma spirito materializzato. Prendono a pretesto il dogma dell’Incarnazione per sostenere che Dio si muta in uomo e l’uomo si muta in Dio, l’uomo è  in Dio e Dio è nell’uomo non nel senso che Dio è presente nell’uomo o l’uomo è presente a Dio, come creatore dell’uomo, ma nel senso che l’essenza stessa di Dio è quella di essere nell’uomo, come se Dio fosse un attributo dell’uomo, ed è quella dell’essere dell’uomo in Dio, come se l’uomo fosse un attributo di Dio.

Da qui si capisce bene che per loro la Chiesa, neppure nel suo futuro escatologico trascende il divenire, il tempo e la storia. Non sanno niente della vita eterna e l’eterno a loro non interessa. Come per Comte, anche per loro «tutto è relativo e questo è l’unico principio assoluto».

Quindi che cosa c’è per loro dopo la morte? Che ne è dell’immortalità dell’anima? Essi parlano di «risurrezione immediata» e «Chiesa escatologica», che però è una loro fantasia, perché simile idea non ha alcun fondamento nel dogma. Ma noi sappiamo che cosa se ne fanno del dogma.

Gli errori dei lefevriani

Passiamo all’altro schieramento, quello della galassia lefevriana e filolefevriana, che il Papa chiama genericamente «indietristi». Sono molto meno numerosi dei modernisti, i quali posseggono una grossa fetta di potere nella Chiesa, nel clero nell’episcopato, tra i Cardinali, nelle istituzioni della Chiesa.

Difetto fondamentale dei  lefevriani e filolefevriani è quello di non aver capito la svolta storica data da San Giovanni XXIII alla pastorale della Chiesa nei confronti del mondo moderno. Eredi dell’antimodernismo da una parte efficace ma dall’altra troppo severo della Pascendi, sono rimati fermi a quel modello di Chiesa che fu proposto da Pio XII, certamente la vera Chiesa, ma mancante di quanto essa ha realizzato e di quanto essa è progredita in questi 60 anni del postconcilio, per averlo scambiato come tradimento della Tradizione e cedimento agli errori della modernità.

I lefevriani non hanno capito che il modello di Chiesa proposto dal Concilio è il modello che la Chiesa presenta da sempre e sempre presenterà fino alla fine del mondo, perché la Chiesa non può sbagliarsi o mutare nel definire se stessa, né l’essenza della Chiesa è mutevole. Credere che il Concilio abbia mutato l’essenza della Chiesa vuol dire mancar di fede nell’autorità della Chiesa e non saper distinguere ciò che nella Chiesa può mutare da ciò che non può mutare.

Pertanto i trattati cattolici di ecclesiologia precedenti il Concilio restano sostanzialmente validi. Ad essi il Concilio aggiunge solo alcuni chiarimenti sull’essenza della Chiesa, abolisce usi superati, migliora i costumi e le leggi ecclesiali, propone alla Chiesa un programma di azione per il nostro tempo, le prescrive come oggi essa deve vivere il suo rapporto col mondo, chiarisce taluni aspetti della condizione escatologica della Chiesa, le condizioni per appartenere alla Chiesa, chiarisce la collegialità e la sinodalità della Chiesa, il rapporto reciproco tra fedeli e pastori, la Chiesa come popolo di Dio guidato dallo Spirito Santo. 

Nel contempo i lefevriani,  se da una parte hanno saputo riconoscere gli errori di teologi del postconcilio come per esempio Schillebeeckx, Teilhard de Chardin, Schoonenberg, Cox, Hulsbosch, Von Balthasar, Rahner, Küng, Moltmann, Gutiérrez, Metz, Schillebeeckx, Sobrino, Segundo,  Boff, Forte, Kasper, dall’altra non hanno saputo riconoscere i loro meriti né quelli di altri, che hanno saputo precorrere o contribuire al progresso della teologia e della Chiesa promosso dal Concilio, come de Lubac, Maritain, Chenu, Congar.

Invece di accettare l’interpretazione delle dottrine del Concilio fatta dal Magistero postconciliare, che dimostrava la sua ortodossia, hanno preso per buona la falsa interpretazione data del Concilio da modernisti come Küng o Rahner e sono giunti al punto di giudicare come modernistico lo stesso Magistero ecclesiale postconciliare.

Per ritenersi liberi dall’aderire alle nuove dottrine del Concilio sostengono, contro affermazioni contrarie del Magistero e la realtà dei fatti, che il Concilio è stato solo pastorale, e prendono a pretesto che esso non contiene nuove definizioni dogmatiche. Da qui il loro rifiuto di accettare le nuove dottrine del Concilio trascurando il fatto che il cattolico è tenuto a prestare l’ossequio della sua intelligenza e della sua volontà anche a quegli insegnamenti in materia di fede e di morale, nei quali il Magistero non manifesta la volontà di definire come verità di fede. Ma ciò non toglie che quando la Chiesa insegna in materia di fede e di morale non possa cadere nell’errore, ma insegna sempre la verità.

Altro errore dei lefevriani è quello di sostenere un concetto errato di Sacra Tradizione[11], che li porta a negare la continuità degli insegnamenti del Concilio rispetto alla Tradizione. C’è, come Brunero Gherardini[12], chi sostiene che il Concilio presenta un concetto errato di Tradizione, quando invece è sbagliato quello che propone lui, che appunto si rifiuta di accettare quanto in materia insegna il Concilio.

 Tipico errore del lefevrismo è stato quello di Romano Amerio, il quale in una sua analisi delle dottrine del Concilio[13] lo ha accusato di aver mutato l’essenza della Chiesa.  Evidente incapacità di distinguere ciò che nella Chiesa può mutare da ciò che non può mutare. Giuste invece sono le sue critiche a posizioni moderniste, sedicenti interpretazioni del Concilio.

Fine Terza Parte (3/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 6 gennaio 2024

Alla radice prima del conflitto che oggi travaglia la Chiesa fra indietristi e modernisti sta in una questione di fondo metafisica che li coinvolge entrambi: il problema di come accordare il mutevole con l’immutabile, l’essere col divenire, l’essere con l’agire, la fedeltà al passato e la proiezione verso il futuro.

Chi nell’ente diveniente ha visto giusto ed è stato capace di dirci come essere e divenire, come stasi e moto, come mutevole e immutabile si concilino nell’unico ente, dando a ciascuno dei due componenti il suo, è stato Aristotele.

Per Aristotele l’ente vivente corporeo ha una sua identità propria, ha un’essenza e proprietà specifiche e individuali, ha una materia e una forma, è composto di sostanza e accidenti, ha un essere e un agire, accoppia in sé l’immutabilità dell’essenza col dinamismo dell’agire, è nello spazio e nel tempo, si sviluppa e progredisce, pur mantenendo intatta la sua identità.

Con la Chiesa siamo davanti ad una sostanza vivente, a una mistica persona, il corpo mistico di Cristo, come insegna San Paolo, benché composta di persone, il popolo di Dio o comunità cristiana. E come un corpo ha molte membra, così noi siamo membra di questo corpo, parti integranti di questa persona mistica.

La Chiesa è una comunità umana che cresce, si sviluppa, si rinnova, progredisce nella storia. Occorre aver ben chiara la sua essenza. Non muta la sua essenza. Mutano le sue forme storiche.

La Chiesa ancor oggi raccomanda San Tommaso, sapiente utilizzatore in chiave cattolica del pensiero di Aristotele, perché Tommaso, Dottore Comune della Chiesa, è impareggiabile nel porre termine alle controversie, nel creare accordi fra avversari, nella promozione del dialogo fra posizioni avverse, nel giocare come fattore di mediazione nei contrasti dottrinali, che sono fonti di discordie fra l’eternalismo e la rivoluzione, fra opposti estremismi.

Immagini da Internet:
- La Madonna del cucito, Quirinale
- Maria, Madre della Chiesa, Subiaco (Roma)

[1] Cf la Pascendi al n.11.

[2] Fenomenismo, come si sa, denunciato dalla Pascendi al n.7.

[3] Cf la Pascendi ai nn.9-10.

[4] Vedi per esempio di Maritain De l’Eglise du Christ. La peesonne de l’Eglise et son personnel, Desclée de Brouwer, Bruges 1970.

[5] Dove va la Chiesa? Edizioni San Paolo, 2023.

[6] Chiesa, Editrice Queriniana, Brescia 2021.

[7] Per una Chiesa dal volto umano, Editrice Queriniana, Brescia 1986.

[8]Marcel Xhauffaire, Introduzione alla ‘teologia politica’ di Johann Baptist Metz, Editrice Queriniana, Brescia 1974.

[9] Teologia della liberazione, Editrice Queriniana, Brescia 2012.

[10] J.V.De Groot, Summa apologetica de Ecclesia catholica ad mentem S. Thomae Aquinatis, Ratisbonae 1906; Reginaldus Garrigou-Lagrange, De Revelatione per Ecclesiam Catholicam proposita, Libreria religiosa F. Ferrari, Roma 1932; Reginaldus-Maria Schultes, De Ecclesia catholica. Praelectiones apologeticae, Lethielleux, Paris 1931; Arialdo Beni-Settimio Cipriani, La vera Chiesa. Le fonti della Rivelazione, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1958: Charles Journet, L’Eglise du Verbe Incarné, Desclée de Brouwer, Bruges, 1962-1969, 3 voll.

[11] Vedi di Mons.Lefebvre, Vi trasmetto quello che ho ricevuto. Tradizione perenne e futuro della Chiesa, SugarCoedizioni, Milano 2010.

[12] Quod et trudidi vobis. Vita e giovinezza della Chiesa, Casa Mariana Editrice, Frigento (AV) 2010.

[13] Iota unum. Studio sulle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, Edizioni Lindau, Torino 2009.

 

13 commenti:

  1. Caro Padre, mi scusi, ma mi sembra che, secondo lo schema degli errori metafisici, non abbiamo considerato il secondo: essere e divenire.
    Grazie.

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    1. Caro Dino,
      la ringrazio per la sua osservazione.
      Per la verità, nel testo che adesso ho corretto, c’era già la trattazione dell’essere e divenire, ma era mescolata con l’essere e l’agire.
      Allora, ho corretto il testo, rispettando l’ordine del programma dei quattro punti, in modo tale che la trattazione dell’essere e divenire si trova al secondo punto, come da programma.

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  2. "Nel contempo i lefevriani, se da una parte hanno saputo riconoscere gli errori di teologi del postconcilio come per esempio Schillebeeckx, Teilhard de Chardin, Schoonenberg, Cox, Hulsbosch, Von Balthasar, Rahner, Küng, Moltmann, Gutiérrez, Metz, Schillebeeckx, Sobrino, Segundo, Boff, Forte, Kasper, dall’altra non hanno saputo riconoscere i loro meriti né quelli di altri, che hanno saputo precorrere o contribuire al progresso della teologia e della Chiesa promosso dal Concilio, come de Lubac, Maritain, Chenu, Congar".

    Caro padre: le faccio presente che sono completamente d'accordo con tutto ciò che lei ha detto in questo lungo ma delizioso articolo sui modernisti e sui lefebvriani.
    Ma il fatto è che quando arriva a parlare dei lefebvriani parla della loro “teologia”, come se tra loro ci fossero dei teologi.
    Infatti: i lefebvriani (gli scismatici) non frequentano le facoltà teologiche, né hanno titoli che li rendano competenti per dedicarsi alla teologia. In ogni caso sono autodidatti, teologi per impegno personale, se ce ne sono tra loro.
    Per questo rifiutano le opere dei teologi dopo il 1958 come rifiutano la Nuova Messa, o la chitarra nella Messa, o l’ecumenismo, o la libertà religiosa, o l’architettura moderna nelle chiese, ecc, ecc. Tutto ciò che è moderno è demoniaco, compresa la teologia a partire dal Concilio. Non dobbiamo pensarci troppo: sono semplicemente "indietristi".

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    1. Caro Massimo,
      i lefevriani ci tengono molto alla teologia scolastica. Tra di loro è ammirato lo stesso San Tommaso. Il loro difetto, come è noto, è quello di non accettare il rinnovamento degli studi teologici e del metodo della teologia, promossi dal Concilio.
      Per questo essi non si sottraggono a un serio impegno di studi, che può comportare l’acquisto di titoli accademici, che però essi utilizzano per attuare il loro modo di fare teologia, che il Santo Padre qualifica come indietrista.

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  3. "Per ritenersi liberi dall’aderire alle nuove dottrine del Concilio sostengono, contro affermazioni contrarie del Magistero e la realtà dei fatti, che il Concilio è stato solo pastorale, e prendono a pretesto che esso non contiene nuove definizioni dogmatiche".

    Quei lefebvriani o filolefebvriani che affermano che "il Concilio Vaticano II è stato solo pastorale", si contraddicono dunque rifiutando le nuove dottrine del Concilio, perché con tale rifiuto affermano allo stesso tempo che il Concilio non è solo pastorale, ma anche dottrinale.

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    1. Caro Massimo,
      la sua osservazione è molto acuta e mi trova perfettamente d’accordo.

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  4. Caro Padre Giovanni, lei dici:
    "L’ecclesiologia del Concilio ripresenta sostanziante il medesimo concetto di Chiesa che troviamo nei trattati del preconcilio, e diversamente non potrebbe essere, dato che la Chiesa non può mutare nel definire se stessa".
    Ma il cardinale Wojtyla ha detto che: "La Chiesa del nostro tempo è diventata particolarmente consapevole di questa verità e, pertanto, alla sua luce, è riuscita a ridefinire, nel Concilio Vaticano II, la propria natura" (Cardinale Karol Wojtyla, predicazione del ritiro quaresimale del 1976 a Paolo VI e alla Curia Romana in Vaticano, pubblicata in Signo de contradicción, BAC, Madrid, 1978, p. 24).
    È stato uno dei principali artefici del concilio e poi papa, la sua opinione ha molto peso e credo che debba essere presa in considerazione quando si fa una lettura obiettiva dell'"evento conciliare"...
    Poi lei, padre Cavalcoli, dici:
    "Dio stesso per loro non è immutabile, ma diviene, non è puro spirito, ma spirito materializzato. Prendono a pretesto il dogma dell’Incarnazione per sostenere che Dio si muta in uomo e l’uomo si muta in Dio, l’uomo è in Dio e Dio è nell’uomo non nel senso che Dio è presente nell’uomo o l’uomo è presente a Dio, come creatore dell’uomo, ma nel senso che l’essenza stessa di Dio è quella di essere nell’uomo, come se Dio fosse un attributo dell’uomo, ed è quella dell’essere dell’uomo in Dio, come se l’uomo fosse un attributo di Dio".
    Ma papa Francesco sostiene il contrario: "Dio non può stare senza di noi: Lui non sarà mai un Dio 'senza l’uomo'; è Lui che non può stare senza di noi, e questo è un mistero grande! Dio non può essere Dio senza l’uomo: grande mistero è questo! (...) Pensiamo anche al Padre, a nostro Padre, che non può stare senza di noi, e che in questo momento ci sta guardando" (Udienza generale del 07/06/2017).

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    1. Caro Davide,
      il papa usa la parola “ridefinire” non nel senso di mutare definizione, ma nel senso di definire meglio, perché qualunque Papa sa meglio di noi che l’essenza della Chiesa è immutabile e per questo la sua definizione è una sola. Se si può dare mutamento nel definire non è cambiare la definizione, ma è un definire ancora più chiaro, più preciso e più ricco.

      Queste espressioni del Papa non vanno intese in senso metafisico, ma sono espressioni enfatiche, caratteristiche del linguaggio mistico e pastorale. Voglio dire che, da un punto di vista metafisico, Dio avrebbe potuto esistere benissimo da solo, dal momento che Egli è l’essere perfettissimo.
      Quindi, da questo punto di vista, Dio non ha bisogno di noi, ma siamo noi che abbiamo bisogno di Lui. Infatti Egli ci ha creati del tutto liberamente e per amore.
      Invece il linguaggio del Papa è il linguaggio dell’amore, come vediamo nel Cantico dei Cantici, che è appunto il simbolo dell’unione dell’anima con Dio. Qui abbiamo quello stesso linguaggio che esprimono gli innamorati: “senza di te non posso stare”. In questo senso Dio ci ama tanto che non può stare senza di noi.

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  5. (Continuazione del commento precedente)
    Poi, Padre Cavalcoli, affermi: "I lefevriani non hanno capito che il modello di Chiesa proposto dal Concilio è il modello che la Chiesa presenta da sempre e sempre presenterà fino alla fine del mondo, perché la Chiesa non può sbagliarsi o mutare nel definire se stessa, né l’essenza della Chiesa è mutevole".
    Ma Francesco sostiene che: "Molti pensano diversamente, sentono diversamente, cercano Dio o trovano Dio in modi diversi. In questa moltitudine, in questa gamma di religioni, c’è una sola certezza (…): siamo tutti figli di Dio" (Video del Papa del gennaio 2016).
    "Il mondo è cambiato e la Chiesa non può chiudersi in presunte interpretazioni del dogma. Dobbiamo affrontare i conflitti sociali, vecchi e nuovi, e cercare di dare una mano di consolazione, non di stigmatizzazione e non solo di contestazione" (Intervista a Joaquín Morales Solá del 10/05/2014).
    "Un cristiano restaurazionista, legalista, che vuole tutto chiaro e certo, non troverà nulla. Tradizione e memoria del passato devono aiutarci a raccogliere il coraggio necessario per aprire a Dio nuovi spazi. Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in modo esagerato alla sicurezza dottrinale, chi cerca ostinatamente il recupero del passato perduto, ha una visione statica e involutiva" (Intervista a padre Spadaro dell'agosto 2013).
    "Dialogare significa essere convinti che l’altro abbia qualcosa di buono da dire, fare spazio al suo punto di vista, alle sue proposte. Dialogare non significa rinunciare alle proprie idee e tradizioni, ma alla pretesa che siano uniche ed assolute" (Messaggio per la 48ª Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, 2014).
    "Se un bambino riceve la sua educazione da cattolici, protestanti, ortodossi o ebrei, questo non mi interessa. Quello che mi interessa è che lo educhino e gli tolgano la fame" (Intervista a Gerson Camarotti del luglio 2013).
    "Non si deve pensare che l’annuncio evangelico sia da trasmettere sempre con determinate formule stabilite, o con parole precise che esprimano un contenuto assolutamente invariabile" (Evangelii Gaudium, 24/11/2013, n.129).
    "Questa ricerca e questo trovare Dio in tutte le cose lascia sempre un margine di incertezza. Devi lasciarlo. Se una persona dice di aver trovato Dio con totale certezza e non c’è nemmeno un margine di incertezza, qualcosa non va. Ho questa come una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le domande, siamo di fronte alla prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta che usa la religione per il proprio bene. (…) Il rischio che esiste, allora, nel cercare e trovare Dio in tutte le cose, è il desiderio di essere troppo espliciti, di dire con umana certezza e arroganza: 'Dio è qui'. Troveremmo così solo un Dio su misura per noi" (Intervista a padre Spadaro dell’agosto 2013).
    Queste affermazioni di Francesco sembrano difficilmente conciliabili con la natura della Chiesa e della fede cattolica così come Ella l'ha sempre espressa attraverso il suo magistero...

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    1. Caro Davide,
      il Papa intende dire che tutti siamo chiamati a essere figli di Dio in Cristo. Questo stato di figliolanza determina il concetto di Chiesa. A questa Chiesa può partecipare chiunque, a qualunque religione appartenga, purché sia in buona fede e viva onestamente.
      Il Papa, parlando di religioni diverse, si riferisce evidentemente a una legittima diversità e non entra nella delicata materia degli errori che esse contengono, errori dai quali è esente la Chiesa Cattolica.

      Qui il Papa rileva i difetti dei filolefevriani. Uno di questi difetti è dare per certo ciò che non è certo. E questo può essere effetto di presunzione.
      Per quanto riguarda l’interpretazione del dogma, il Papa disapprova l’assolutizzazione di interpretazioni del dogma fatte con troppa sicurezza, inoltre nel bandire le stigmatizzazioni si riferisce ad atteggiamenti di facile condanna, ma è chiaro che non disapprova affatto la prudente confutazione dell’errore e ripete spesso che la dottrina non cambia.

      Il Papa sembrerebbe a tutta prima accettare l’indifferentismo religioso, ma ciò evidentemente non è possibile. Credo che intenda sottolineare quelli che sono i diritti fondamentali dell’uomo e la necessità che riceva una educazione. E’ evidente che il primato del cristianesimo sulle altre religioni resta sottinteso.

      Il Papa non esclude affatto il dovere di trasmettere le formule dogmatiche nella loro immutabilità, ma vuole sottolineare la necessità di accompagnarle con una predicazione che sappia mettere in campo anche opinioni interessanti o proposte nuove o l’opera di inculturazione, in modo che le formule dogmatiche siano comprese bene e sempre meglio.

      Anche qui è chiaro che il Papa non manca di rispetto nei confronti delle certezze teologiche, che costituiscono il valore del buon teologo, ma intende giustamente disapprovare un certo stile di evangelizzazione e un certo modo di pensare, che pretendono di dare certezze anche dove la certezza non c’è.

      Riconosco che queste affermazioni del Papa possono creare difficoltà, possono essere strumentalizzate dai modernisti ed essere fraintese.
      Esse corrispondono ai primi anni del suo pontificato, quando per la verità aveva un tono troppo polemico contro i passatisti e appariva troppo indulgente verso i modernisti.
      Da allora il Papa ha chiarito meglio i suoi intenti di fondo, sicché oggi possiamo notare come egli ha raggiunto una maggiore imparzialità.
      Questo aspetto della sua condotta riguarda la pastorale, dove il Papa può essere criticabile. Quello che è importante è ascoltarlo e interpretarlo bene nei suoi pronunciamenti dottrinali, dove ci insegna sempre la verità.

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  6. Caro Davide,
    il Papa intende dire che tutti siamo chiamati a essere figli di Dio in Cristo. Questo stato di figliolanza determina il concetto di Chiesa. A questa Chiesa può partecipare chiunque, a qualunque religione appartenga, purché sia in buona fede e viva onestamente.
    Il Papa, parlando di religioni diverse, si riferisce evidentemente a una legittima diversità e non entra nella delicata materia degli errori che esse contengono, errori dai quali è esente la Chiesa Cattolica.

    Qui il Papa rileva i difetti dei filolefevriani. Uno di questi difetti è dare per certo ciò che non è certo. E questo può essere effetto di presunzione.
    Per quanto riguarda l’interpretazione del dogma, il Papa disapprova l’assolutizzazione di interpretazioni del dogma fatte con troppa sicurezza, inoltre nel bandire le stigmatizzazioni si riferisce ad atteggiamenti di facile condanna, ma è chiaro che non disapprova affatto la prudente confutazione dell’errore e ripete spesso che la dottrina non cambia.

    Il Papa sembrerebbe a tutta prima accettare l’indifferentismo religioso, ma ciò evidentemente non è possibile. Credo che intenda sottolineare quelli che sono i diritti fondamentali dell’uomo e la necessità che riceva una educazione. E’ evidente che il primato del cristianesimo sulle altre religioni resta sottinteso.

    Il Papa non esclude affatto il dovere di trasmettere le formule dogmatiche nella loro immutabilità, ma vuole sottolineare la necessità di accompagnarle con una predicazione che sappia mettere in campo anche opinioni interessanti o proposte nuove o l’opera di inculturazione, in modo che le formule dogmatiche siano comprese bene e sempre meglio.

    Anche qui è chiaro che il Papa non manca di rispetto nei confronti delle certezze teologiche, che costituiscono il valore del buon teologo, ma intende giustamente disapprovare un certo stile di evangelizzazione e un certo modo di pensare, che pretendono di dare certezze anche dove la certezza non c’è.

    Riconosco che queste affermazioni del Papa possono creare difficoltà, possono essere strumentalizzate dai modernisti ed essere fraintese.
    Esse corrispondono ai primi anni del suo pontificato, quando per la verità aveva un tono troppo polemico contro i passatisti e appariva troppo indulgente verso i modernisti.
    Da allora il Papa ha chiarito meglio i suoi intenti di fondo, sicché oggi possiamo notare come egli ha raggiunto una maggiore imparzialità.
    Questo aspetto della sua condotta riguarda la pastorale, dove il Papa può essere criticabile. Quello che è importante è ascoltarlo e interpretarlo bene nei suoi pronunciamenti dottrinali, dove ci insegna sempre la verità.

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  7. Mi scusi, Padre Giovanni, se mi intrometto nel suo dialogo con il signor Davide. Ma mi limito a fare un'osservazione nella quale mi sembra di notare ancora una volta un punto di contatto tra l'indietrismo e il modernismo.
    Non ho dubbi che la posizione del signor Davide sia a dir poco indietrista (perché vi sono anche alcuni segnali di sedevacantismo). Ora, il signor Davide intende ricavare dalla constatazione di "errori dottrinali" in papa Francesco, in varie citazioni, che siano fatti o casi specifici del suo pontificato, la conclusione teologica che il papa è un eretico. Così mi sembra.
    Curiosamente, è lo stesso metodo induttivo che il modernismo, relativista e storicista, assolutizza oggi.
    Basterebbe che Davide ricorresse al metodo deduttivo, che un tradizionalista non può ignorare. Con il metodo deduttivo, sicuro del dogma dell'infallibilità del Papa in tutto il suo insegnamento dottrinale di fede e di morale, potresti risolvere tutti dubbi e perplessità su qualsiasi affermazione fatta da Papa Francesco.
    Davide, però, indietrista, sceglie qui di assolutizzare il metodo induttivo.
    Almeno così mi sembra.

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    1. Caro Silvano,
      le sue osservazioni mi trovano d’accordo.
      Ad ogni modo io ho risposto a Davide, interpretando in senso buono le frasi del Papa che egli mi cita, frasi che effettivamente fanno problema, ma, attraverso un’opportuna opera di contestualizzazione possono e devono ricevere una interpretazione benevola, soprattutto per il fatto che toccano temi dottrinali, dove il Papa non può sbagliare.
      Un’osservazione che si può fare è che le frasi citate appartengono ai primi anni del suo Pontificato, mentre negli anni successivi il Papa ha assunto un modo di esprimersi che meno si presta all’equivoco.

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