Le opinioni del Papa
Seconda ed utima Parte
L’insegnamento
di San Giovanni XXIII
Fondamento della tesi del Papa, sembrano
essere le famose parole di S.Giovanni XXIII, nel discorso inaugurale del
Concilio «Gaudet mater Ecclesia» dell’11 ottobre 1962, dove il Santo Pontefice
parla del fatto che oggi la Chiesa «preferisce
usare la medicina della misericordia piuttosto che le armi della severità» (potius quam arma severitatis)[1],
mentre Papa Francesco, almeno nella versione di Tornielli, le cambia a questo
modo: «San Giovanni XXIII disse che la Sposa di Cristo preferisce usare la
medicina della misericordia invece di
abbracciare le armi del rigore»[2].
Queste parole cambiano il testo di Papa
Giovanni, dove non c’è nessun «invece», che dà l’impressione che la
misericordia sostituisca la severità,
anziché accompagnarla o stare assieme con lei, seppure ad un livello superiore,
il che è invece il senso delle parole autentiche di Papa Giovanni. Invece
questi non accantona e non esclude affatto la severità, ma la mantiene, seppure
al di sotto della misericordia. Infatti nel
testo giovanneo non c’è un «invece», ma un «piuttosto che», il che è ben
diverso.
Papa Francesco, invece, sembra restare frastornato
dal fantasma delle «armi», fatte per uccidere.
Non coglie il fatto che anche la severità è una medicina fatta per guarire. Si tratta dunque del castigo correttivo, strumento pedagogico ed educativo
indispensabile ad ogni educatore, sia nella pedagogia umana come nella pedagogia
divina.
La netta impressione che traiamo dalle parole
del Papa è che esse non esprimono una serena visione teoretica, ma uno stato
d‘animo turbato o di forte tensione o irritazione emotiva, vanamente rimossa,
probabilmente l’effetto non estinto ma dolorosamente agente nel suo subconscio
del terribile trauma patito dall’allora Padre Bergoglio, trauma del quale narra
egli stesso, quando, da Provinciale dei Gesuiti in Argentina, dovette impotente
assistere allo strazio della Chiesa argentina, spaccata fra una corrente vicina
alla teologia della liberazione ed una opposta, composta di elementi governativi,
sedicenti cattolici, responsabili del tragico fenomeno dei desaparecidos.
Dio è buono
anche quando è severo
È evidente il fraintendimento di Papa
Francesco: la severità vista non come aspetto della giustizia, come medicina,
come correzione, collegabile con la bontà e con l’amore e, in fin dei conti,
con la misericordia, ma come violenza, omicidio, malvagità, peccato. Così,
mentre nelle parole autentiche di San Giovanni XXIII, la misericordia, benché
preferibile alla severità, ci congiunge tuttavia con essa ed entrambe sono
medicine, derivanti entrambi da Dio bontà, misericordia e giustizia infinite, a
Francesco, al contrario, appare empio attribuire a Dio la severità, che sostanzialmente
non si limita a far soffrire, ma appare come un vero e proprio far del male, un
peccato.
Ora è evidente che attribuire a Dio, bontà infinita,
il peccato, è una gravissima bestemmia. Ma qui c’è evidentemente un equivoco
circa il concetto della bontà divina. Si confonde il vero e proprio peccato,
che è un voler far del male, causato dall’odio, dal far soffrire o indurre alla
sofferenza o il mandare la sofferenza per giustizia o come punizione del
peccato. Invece il causare con volere di beneplacito il peccato è certamente
segno di malvagità e non può essere assolutamente attribuito a Dio.
Il Papa tende molto a parlare del peccato
come «ferita», il che va anche bene, ma si presta all’equivoco di scambiare il
male di colpa con quello di pena. Il peccatore, infatti, più che un ferito è un
feritore. Se parliamo sempre e solo
di feriti, a un certo punto ci domanderemo dove sono i feritori, giacché non può
esistere un ferito, se non c’è il feritore. Ora il peccare è propriamente un
ferire, ossia un fare del male, più che un essere ferito, ossia subìre del male.
Semmai il subìre del male è il castigo del peccato. Ma siamo sempre lì: il non vedere
il ferire e il limitarsi all’essere ferito porta a vedere il peccato solo nella
luce della misericordia, il che è certamente necessario, ma insufficiente,
perchè non coglie l’essenza del peccato, ma solo le sue conseguenze. Per questo,
togliere la sofferenza è opera sacrosanta, ma non è ancora togliere il peccato.
Alleviare la sofferenza può essere opera umana, ma Dio solo può cancellare la
colpa del peccato.
Questa concezione del peccato come ferita è
in perfetta linea col misericordismo. Infatti, il ferito dev’essere
compassionato, ma il peccatore, ossia il feritore va punito. Se la questione
del peccato si risolve nel semplice esser feriti, un semplice male di pena e
non di colpa, è chiaro che il castigare non ha più ragion d’essere. Ma il
feritore ha campo libero per continuare a ferire, certo dell’impunità, perché
«Dio non castiga».
Il peccato è
una macchia
In connessione a questo brutto ridurre il peccato
ad un esser ferito, stupisce alquanto il tono ironico col quale il Papa tratta l’immagine
spontanea e popolarissima del peccato come «macchia»[3],
accusando addirittura di «ipocrisia quanti credono che il peccato sia una
macchia, soltanto una macchia, che basta andare in tintoria, perché te la
lavino a secco e tutto torni come prima.
Come si porta a smacchiare una giacca o un vestito. Si mette in lavatrice e
via» (ibid.).
Ma non c’è da pensare ad immagini strane:
basta pensare all’acqua battesimale,
che lava i peccati. La confessione non è altro che il prolungamento del lavaggio battesimale. Quando l’anima è lavata dal
sacramento, che altro deve restare del peccato? Nulla! La «ferita»? Ma la
ferita è uno strascico psicologico del peccato, non è più il peccato! Se la grazia
non dovesse togliere completamente la macchia del peccato, dove sarebbe l’efficacia
della grazia?
Dopo la confessione del peccato, di esso non resta
nulla. Resta però la ferita, ossia la tendenza a peccare. È su ciò che il confessore
deve lavorare per aiutare il penitente a vincere questa tendenza. Ma un conto è
il peccato e un conto è la tendenza a peccare o lo strascico traumatico del peccato,
strascico che resta anche se il peccato è cancellato.
L’immagine del peccato come macchia è un’immagine
non solo profondamente biblica[4],
ma comune a tutte le religioni, che comportino riti di purificazione,
altrimenti detti «lustrali», immagine facilmente legata all’uso dell’acqua,
simbolo efficacissimo per rappresentare la purificazione dell’anima. Pensiamo
per esempio al battesimo cristiano o a quello di Giovanni o a quello della
Comunità di Qumran o ai bagni nel Gange della religione induista.
La scomparsa o l’assenza totale della macchia
del peccato e la conseguente «bianchezza», è indicata nella Bibbia anche con
l’immagine della «neve»[5]
o della «veste bianca»[6].
Isaia, al riguardo, ha una bella espressione: «anche se i vostri peccati
fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve» (Is1,18).
L’immacolatezza, come sappiamo, è addirittura
un attributo morale di fede della persona di Maria Santissima. Per questo, non appare
assolutamente conveniente respingere un’immagine così semplice, universale ed
intuitiva, consacrata dalla Bibbia, di un mistero così profondo, qual è
l’opposizione fra il peccato e la santità.
Il Papa respinge invece l’idea che il peccato
concepito come macchia sia tale, per cui, una volta tolto, «tutto torna come
prima». Bisogna intendersi. Il Papa dice che non è vero che tolto il peccato,
tutto torna come prima, perché «il peccato è più che una macchia. Il peccato è
una ferita, va curata, medicata».
Ora, è indubbio che, tolto il peccato, resta in
noi una ferita psichica, più o meno durevole, a seconda della gravità del
peccato, che è anche il castigo intrinseco del peccato. Ma questa non ha più nulla a che vedere col peccato
che è stato tolto e cancellato. Si tratta, invece, di una ferita nel senso di
una tendenza a peccare, a fare il
male, a ricadere nello stesso peccato, quella che il Concilio di Trento
(Denz.1515), con Sant’Agostino chiama «concupiscenza» (concupiscentia).
Ora la
grazia della remissione del peccato cancella totalmente la colpa, sicché di essa non resta assolutamente nulla: una pulizia perfetta, nessunissima traccia di colpa. Questo è
il potere divino della grazia. L’anima ritorna pura, esattamente come era prima
che cadesse nel peccato. Per questo, l’immagine della smacchiatura fisica è
perfettamente aderente a quanto avviene effettivamente nell’anima e non
dev’essere oggetto di ironia.
L’impressione che dà il rifiuto del Papa di
immaginare il peccato come una macchia, è che dietro a tale rifiuto si nasconda
una confusione fra la concupiscenza,
che resta effettivamente anche dopo
la remissione del peccato, e il peccato stesso cancellato, confusione denunciata dal Concilio di Trento riguardo a
Lutero (Denz.1515), il quale appunto credeva che l’uomo in questa vita, come è
sempre inclinato a peccare, così è effettivamente sempre in stato di peccato (peccatum prmanens), per cui
l’assoluzione sacramentale non toglie o non cancella il peccato così come non
toglie la «ferita» del peccato, ossia la concupiscenza.
Il Concilio di Trento riconobbe che Lutero
aveva ragione nel sostenere che l’assoluzione sacramentale non toglie la concupiscenza
(la «ferita»), ma gli dette torto, quando egli pretendeva di sostenere, in base
al suo concetto sbagliato di peccato come colpa-concupiscenza,
che l’assoluzione non toglie del tutto il peccato, per cui, se toglie la
macchia, non toglie la ferita.
Invece
il Concilio precisò che la confessione toglie la macchia, ma non toglie la ferita;
ma per togliere il peccato ovvero la colpa è sufficiente togliere la macchia, cioè
l’assoluzione sacramentale, perché la ferita
non è essenziale al peccato. La ferita, al contrario del peccato, non è
colpevole, perché non è volontaria, ma è una situazione inevitabile dei figli di
Adamo, per cui essa dev’essere continuamente medicata con la penitenza e gli
esercizi ascetici. Ma non costituisce colpa. Semmai è la pena e il castigo del
peccato. Sentirsi in colpa per la ferita è uno scrupolo dannoso che blocca la vita
spirituale, getta nella disperazione e fa sentire Dio come tiranno
crudele.
Per questo Lutero ancora giovane monaco si sentiva
ancora in colpa anche dopo essersi confessato, perché non capiva che macchia era
tolta, cioè era perdonato, anche se sentiva
la ferita. Ma siccome credeva che la ferita facesse parte del peccato e non riusciva
ovviamente a togliere la ferita, credeva di essere ancora un peccato e che la
confessione non gli fosse servita a nulla. Una situazione terribile ed
insopportabile, dalla quale egli credette illusoriamente di liberarsi con la
sua famosa trovata, che oggi più che mai riscuote successo, che Dio perdona
anche se si è in peccato e si acquista così una presuntuosa autocertezza
assolutamente infondata. Ci si considera perdonati senza porre le condizioni
per essere perdonati.
Il fatto che il buon confessore debba
continuare a prendersi cura del peccatore anche dopo che gli è stato rimesso il
peccato, non è giustificato dal fatto che la macchia non sia stata tolta del
tutto, ma dal fatto che nel peccatore resta
la concupiscenza, la quale lo inclina a ricadere in quel peccato.
Non è vero che «il peccato è più che una macchia»,
ma è anche una ferita. No, il peccato è solo
la macchia, della quale, dopo il perdono divino, non resta nulla. Tale è l’efficacia della grazia. Resta invece la vera
ferita, che è la concupiscenza, che non è peccato, ma tendenza o inclinazione a
peccare. Non sta alla grazia, invece, nella vita presente, togliere del tutto la
concupiscenza, perché essa sarà estinta solo in paradiso.
Il Papa, dunque, non fa bene ad accusare di
ipocrisia quei confessori, i quali ritengono che, tolta la macchia, sia tolto il
peccato. No, hanno ragione. Invece, per Papa Francesco, tolta la macchia, non tutto
il peccato sarebbe tolto, ma resterebbe, del peccato, la «ferita». Ma io ho già
dimostrato che la ferita non è, come credeva Lutero, parte essenziale del peccato, ma solo istigazione passionale ed
istintiva a peccare, è premessa e pena del peccato.
Certamente, quei confessori che non s’accontentano
di una pura e semplice confessione dei loro penitenti, ma li seguono
premurosamente da buoni medici, fanno benissimo. Ma non si può pretendere dal
confessore di un Santuario mariano che confessa trenta persone al giorno di
seguirle poi una per una per una, per curare di ognuna le ferite e correggerne
le cattive tendenze, come se fosse il direttore spirituale di ognuna.
Dio permette
il peccato e vuole la sua punizione
Invece la permissione o volontà permissiva
del peccato si trova in Dio e non contraddice alla sua bontà, perché questo
peccato è causato solo dalla creatura
e precisamente dal cattivo uso che la creatura fa del suo libero arbitrio. Dio,
in linea di principio, potrebbe volgere la direzione della volontà della
creatura dal male al bene, ma per certe creature non lo fa, perché vuole
utilizzare il loro peccato per donare al mondo una grazia ancora maggiore di
quella che avrebbe avuto, se il peccato non ci fosse stato. Per esempio, Dio ha
permesso il peccato degli angeli, perché dall’eternità aveva in mente il
progetto di donarci Cristo[7],
che non sarebbe venuto, se Adamo non avesse peccato, sedotto dal demonio, angelo
decaduto.
Quanto alla sofferenza, conseguenza del
peccato, essa è non solo permessa, ma positivamente voluta da Dio, senza che
anche ciò e a maggior ragione del caso precedente del peccato, implichi la
minima ombra di malvagità in Dio, perché, se la permissione divina del peccato
lascia intatta la sua bontà, ancor più la salva e la fa risplendere la
giustizia divina, anche se arreca sofferenza alla creatura peccatrice. Infatti,
giustizia vuole che il peccato sia punito, anche se è facoltà della divina misericordia
alleviare o estinguere la pena del peccato.
Si deve dire pertanto che, essendo la
giustizia divina attuazione dell’amore col quale Dio vuol il bene della
creatura, in ultima analisi Egli castiga
per amore, perché il castigo, anche quello infernale, procura il bene del
dannato, che è proprio quello di permettergli di scegliere e fare quello che
vuole, ossia la sua volontà, anche se oggettivamente il dannato ha voluto il
suo male; e, ancor più in radice, Dio manda la sofferenza per porre l’occasione
all’esercizio della sua misericordia, dando all’uomo la possibilità di
soddisfare in Cristo per i suoi peccati. Chi quindi non capisce che Dio è buono anche
quando castiga o manda la sventura, non comprende pienamente neppure che cosa è
la misericordia divina.
Se Dio fa sempre misericordia e non castiga,
si comprendono le conclusioni di Rahner e Von Balthasar che tutti si salvano e
nessuno va all’inferno. Ma ciò contraddice
nettamente all’insegnamento esplicito di Cristo, il quale in più occasioni
annuncia o prevede l’esistenza di dannati[8],
dottrina confermata dal Chiesa soprattutto al Concilio di Quierzy dell’853
(Denz.623) e a quello di Trento (Denz.1523), il quale parla dei «predestinati»
(Denz.1540, 1567), insieme con il Concilio di Quierzy (Denz.621) e quello di
Valenza dell’855 (Denz.828-829), predestinati, dei quali parla S.Paolo (Rm
8.29-30; Ef 1, 5.11), che corrispondono al concetto biblico degli «eletti»[9].
Non c’è dubbio che la dottrina che non tutti
si salvano suscita la questione di come interpretare (I Tm 2,4): «Dio vuole che
tutti si salvino e giungano alla conoscenza della verità». Esiste una volontà
divina che viene frustrata da una contraria volontà umana, che è quella del
peccatore che si danna. Sembra che una cattiva volontà umana possa vanificare
la volontà divina.
Ma non è esattamente così. Qui infatti per
«volontà» divina non s’intende l’atto col quale Dio vuole realizzare qualcosa.
Questo atto è onnipotente ed invincibile; è di un tale forza, che nessuna
creatura lo può bloccare o frustrare. Qui vale quello che dice la Scrittura:
«quando Egli apre, nessuno chiude e quando chiude, nessuno apre» (Ap 3,7). Qui
per «volontà» che può essere frustrabile, s’intende il comando divino.
L’uomo può frustrare la «volontà divina» nel
senso che può disobbedire ai suoi comandi, perché, se Dio vuole nel senso di
muovere dal possibile all’attuale o dalla potenza all’atto, nulla e nessuno la
può contrastare e l’effetto si produce
immancabilmente. In questo senso Dio vuole salvare alcuni e non altri.
Salva coloro che predestina e li muove all’osservanza dei comandamenti.
Non predestina e non salva coloro Gli
disobbediscono e peccando annullano in stessi la grazia. Dio non predestina
all’inferno perché la predestinazione così come la intende San Paolo è una mozione
alla salvezza. Se Dio volesse, potrebbe muovere tutti alla salvezza, ma di
fatto, secondo la Scrittura, non lo fa, e ciò risulta appunto dal concetto di
predestinazione riservata solo ad alcuni e dall’esistenza di coloro che essa
chiama gli «eletti». Infatti il parlare di eletti sottintende evidentemente che
siano stati scelti da un insieme più ampio di non eletti. Il che lascia
evidentemente intendere che l’opera divina della salvezza comporti il fatto
che, dall’intera umanità, Dio sceglie
coloro che vuol salvare.
Il
confessore dev’essere misericordioso,
ma
il penitente deve essere preparato
Preparati all’incontro con il tuo Dio
Amos 4,12
Una parte
dell’intervista è poi dedicata al sacramento della penitenza. Il confessionale,
infatti, è certamente il luogo d’elezione dell’esercizio della misericordia da
parte del confessore e dell’esperienza della misericordia da parte del
penitente. Ma anche qui il misericordismo tende purtroppo ad occupare tutto il
campo senza lasciare spazio al momento della giustizia e delle altre virtù
competenti, come la prudenza, la sapienza, la fermezza, l’umiltà, il
discernimento, la benevolenza, l’amicizia, non esclusa la severità.
Il grande
teologo moralista del secolo scorso, il domenicano tedesco Enrico Benedetto Merkelbach,
autore di un famoso trattato di Teologia morale in tre volumi, trattando del
sacramento della penitenza, dice che il confessore svolge quattro uffici:
quello di padre, quello di giudice, quello di maestro e quello di medico.
Quindi la misericordia, particolarmente riferita alla paternità, non è l’unica virtù
del confessore, ma ce ne sono altre tre, delle quali purtroppo il Papa parla poco
o nulla.
Questa del Merkelbach
è la visuale veramente completa del delicatissimo compito del confessore, senza
un’insistenza esagerata ed unilaterale sulla misericordia, che crea uno
squilibrio nelle virtù del confessore, tale da falsificare la stessa misericordia
e da rendere la sua azione inefficace e addirittura controproducente, come
vediamo nell’attuale situazione, nella quale il numero di chi si confessa è
spaventosamente calato in questi ultimi trent’anni, mentre quei pochi che sono
rimasti considerano la confessione come
l’occasione per parlare di tutto, all’infuori di ciò che riguarda il
confessionale.
Nello spazio
di cinquant’anni, come tutti gli anziani sanno, riguardo alla condotta dei
confessori e in generale nei metodi educativi, è avvenuto un cambiamento spaventoso,
per il quale si è passati da un eccesso all’altro. Prima del Concilio i
confessori erano spesso arcigni e troppo seriosi, irragionevolmente
colpevolizzanti, rigidamente fiscali, facilmente punitivi, maniaci della
mortificazione, troppo esigenti, per cui creavano o degli angosciati e degli scrupolosi
o persone disgustate e scandalizzate, che abbandonavano il sacramento della
confessione.
Adesso è
tutto l’opposto. I penitenti non sono affatto aumentati, anzi sono diminuiti. I
confessori sono degli amiconi o dei semplici notai, che scusano tutto, prendono
atto delle buone azioni vere o presunte compiute dal cosiddetto penitente, che
non è affatto pentito, e che si dichiara vittima di torti subìti, elenca le
disgrazie che gli sono capitate e si lamenta della cattiva sorte.
Questi
cosiddetti confessori ascoltano compiaciuti di volta in volta questi sfoghi
umorali e rancorosi, queste vanterie e
queste maldicenze e credono di essere accoglienti e misericordiosi, assolvendo sempre
e comunque burocraticamente l’impenitente, con un’assoluzione evidentemente
invalida, senza minimamente far presente al tizio che è venuto in confessionale
privo della dovuta preparazione e senza le necessarie disposizioni interiori per
ricevere il perdono divino, perdono che poi alla fine non gl’interessa neanche,
perchè intende perseverare nei suoi peccati, visto che il confessore non lo ha
affatto corretto, ma lo ha trattato con molta comprensione e simpatia.
Questi
pseudoconfessori sono evidentemente degli irresponsabili troppo indulgenti, che
creano a loro volta degli irresponsabili che se ne stanno adagiati nei loro
peccati per non dire che se ne vantano, senza emendarsi e senza fare il minimo
progresso. Per questo si può dire che il penitente che si confessava prima del Concilio
entrava con l’angoscia e la paura di chissaquali fulmini gli avrebbe scagliato
addosso il confessore, mentre adesso l’angosciato è il confessore zelante, il
quale si aspetta sempre che entri in confessionale un arrogante impenitente
male abituato da confessori modernisti, il quale si stupisce e si inalbera se
il confessore, come il buon medico, chiede al paziente quali sono i suoi
disturbi, ponendogli la più naturale e normale domanda per questa circostanza, se
gli chiede cioè di quali peccati si accusa o da quali peccati intende essere
assolto.
A questo punto, lo pseudopenitente si offende
ed interpreta questa domanda come un’accusa gratuita di colpevolezza perché
lui, a suo dire, è solo un povero innocente, che soffre per i torti subìti
chiedendo comprensione e misericordia. Prima del Concilio i confessori provavano
il sadico gusto di dominare le anime. Adesso, per influsso dei buonisti, col
pretesto della misericordia - il Concilio non c’entra – sono diventati complici
dei peccati dei cosiddetti penitenti.
Il medico è contento di sapere che disturbo ha il suo paziente,
perché così è in grado di offrirgli una cura ad hoc. Ci sono invece dei
falsi penitenti sviati da cattivi confessori, i quali credono di far contento il
confessore, se raccontano loro le opere buone che hanno fatto, attendendo una
lode dal confessore. Essi sono la perfetta immagine del fariseo della famosa
parabola del fariseo e del pubblicano.
Essi non si
rendono conto, invece, che il confessore, come buon medico, ha piacere di
conoscere i peccati non per una specie di crudeltà o per una vana o morbosa
curiosità. Non intende infatti colpevolizzarli per forza, ma solo conoscere
queste colpe per poterli liberare da esse, perché il confessore non ha altro
compito, in proposito, che stare a quello che il penitente dice di se stesso,
sia che si dichiari o sia che non si dichiari colpevole. Se il penitente mente,
dovrà renderne conto a Dio.
Lutero ha abbandonato la pratica del
confessionale per non aver trovato confessori misericordiosi. Oggi, sotto
l’influsso del misericordismo, i fedeli abbandonano il confessionale perché si
ritengono già perdonati o credono di non commettere alcun peccato.
Per questi motivi,
non c’è più bisogno oggi di raccomandare ai confessori la misericordia. Semmai occorre
raccomandare di averne una retta concezione. Questo della misericordia era il
problema degli anni ’50 del secolo scorso. Oggi invece occorre tornare a ricordare
ai confessori la serietà del loro sacro ministero,
il loro dovere di essere animati da un forte senso di responsabilità, e di
saper usare, all’occorrenza e con moderazione, una giusta severità.
Per questo,
ritengo che il Papa non dovrebbe limitarsi a fare raccomandazioni ai soli confessori,
come se la buona riuscita della confessione dipendesse solo da loro, perchè il
confessionale non è un bar per delle chiacchiere, ma è uno studio medico, è una
sala operatoria, è il pronto soccorso per i traumi dello spirito.
È quindi
sacro dovere del confessore allontanare o negare l’assoluzione, nei casi
opportuni, a chi non è dovutamente disposto. Se nella vita civile l’insegnante
non ammette all’esame lo studente non preparato, se il rappresentante del
ministro dell’interno respinge alla frontiera gli immigrati pericolosi ed irregolari,
se il dirigente d’azienda non ammette ad un dato impiego chi non ha i titoli
sufficienti, a maggior ragione il ministro di Dio non può ammettere alla
partecipazione dei sacri misteri chi ad essi non è iniziato.
Il Papa ha
molte volte commentato la parabola del figliol prodigo, ma curiosamente, si è
sempre fermato solo a lodare la misericordia del padre e a disapprovare la durezza
di cuore del fratello maggiore. Ma come e perché il figliol prodigo a un certo
punto decide di tornare dal padre e con quali propositi?
Non potremmo
veramente comprendere a fondo la misericordia del padre, se non ci fermassimo a
riflettere su cosa ha portato il figlio
al pentimento. È stata l’esperienza
del meritato castigo divino dei suoi peccati. Dal che vediamo come sia essenziale
associare sempre il discorso della
misericordia a quello della severità, se no non capiamo neanche che cosa è la
misericordia.
Il figliol
prodigo, nella sua onestà, non intende assolutamente farla franca, come fosse
un rahneriano ante litteram, ma
capisce benissimo di meritare dal padre il completamento del castigo divino già
ricevuto («non sono degno» …). È a questo punto, alla luce di queste premesse,
che possiamo apprezzare fino in fondo la misericordia del padre, il quale non solo
perdona i peccati del figlio, ma anche gli risparmia il castigo.
La
confessione non è una semplice conversazione umana, non è una cura psicologica,
non è telefono amico, non è uno sfogo emotivo, non è semplice mettersi in regola
nel fisco, non è una consulenza legale, non è una rivendicazione sindacale, non
è un ufficio reclami, ma è un mistero di
fede. E come ogni mistero di fede, per essere gustato e fatto fruttare, che
dico: per essere valido, dev’essere accostato da chi ha ricevuto un’apposita iniziazione. Così è per il sacramento
della penitenza, come lo è anche per tutti gli altri sacramenti.
Il
confessore non è solo padre misericordioso e medico competente e premuroso, ma,
soprattutto se è anche direttore spirituale, è anche maestro che illumina e
istruisce, fa conoscere meglio al penitente i suoi doveri, lo aiuta a interpretare
la situazione nella quale si trova, a capire meglio le insidie del demonio,
indica al pentente nuove mete e nuove vie di perfezione, ma, come insegna il Concilio
di Trento, è anche giudice
(Denz.1685, 1709) dotato di giurisdizione, tanto che se un confessore confessasse
senza giurisdizione, la confessione sarebbe invalida (Denz.1686). È il
cosiddetto «potere di legare e di sciogliere», il «potere delle chiavi».
Il
confessionale è dunque un tribunale, dove però l’imputato non è accusato da un
altro, ma accusa sé stesso. E come in un tribunale umano il giudice deve
imporre una pena, similmente il confessore, sempre secondo il Concilio di
Trento, deve imporre al penitente una giusta pena temporale (Denz.1713, 1715,
1689), quella che tradizionalmente si chiama «penitenza», che può essere anche
il solo prendere da Dio le sventure che gli capitano in sconto dei suoi peccati.
Certo, se si concepisce l’azione del
confessore solo in termini di misericordia e non anche di giustizia e di giusta
severità, è chiaro che questa parte del sacramento della penitenza viene
tralasciata, come purtroppo succede in questa intervista a Tornielli.
Ma allora
c’è da chiedersi se e come in questa intervista emerge veramente ed in pienezza
la dottrina della Chiesa circa la congiunzione – per usare il linguaggio di
S.Giovanni XXIII - della medicina della misericordia con la medicina della severità
e in particolare se ci viene data o no una visuale completa della dottrina
della Chiesa sul sacramento della penitenza.
P.Giovanni
Cavalcoli
Fontanellato
27 giugno 2020
[1] AAS 54 (1962), pp.791-792; inoltre cf
Enchiridion Vaticanum, Edizioni Dehoniane,Bologna 1975, (47).
[2] p.22.
[3] p.41.
[4] Cf per es. Sir 20,24; Ger 2,22; II Cor 7,1;
Sap 4,9.22.26; 8,20; I Tm 16,14; Gc 1,27; Ap 14,5 ecc.
[5] Sal 51,9; Dn 7,9.
[6] Dn 7,9; Mt 17,2; Mc 16,5; Ap 3,4.5.18; 4,4;
6,11; 7,9.
[7] Propter
nos homines et propter nostram salutem descendit de caelis. Altrimenti, se
ne sarebbe rimasto beato in cielo accanto al Padre, senza che ci fosse bisogno
di incarnarsi, venirci a salvare, morire sulla croce e concederci lo stato di
figli di Dio, superiore a quello del quale Adamo ed Eva avrebbero goduto, se
non avessero peccato.
[8] Cf il mio libro L’inferno esiste. La verità negata, Edizioni Fede&Cultura,
Verona 2011.
[9] Mt 22,14; Sal 88,4; Sap 3,9; Mc 13, 20,22;
Rm 8,33; II Tm 2,10; Tob 13,10; Ap 17,14.
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