A Luigino
piace la sete
Luigino ne ha
combinata un’altra delle sue
Su Avvenire
del 5 luglio scorso è tornato in gran forma Luigino Bruni col suo articolo La beatitudine della sete. Luigino finge
un incontro fra il suo io da ragazzo assetato di Dio e il suo io adulto, ancora
assetato di Dio, ma carico di tante impurità accumulate nel corso della vita e
quasi irriconoscibile da parte del ragazzo.
Eppure
Luigino adulto non si perde d’animo: vuol ritrovare quel ragazzo innocente,
vuol farsi da lui riconoscere, nonostante «la sua pelle imbrunita dal sole del deserto,
la polvere accumulata nel cammino, le ferite di cui soffre, sue e del prossimo».
Eppure Luigino si sente ancora più che mai come
la cerva del Salmo 42-43, Salmo che si ferma a commentare nei
seguenti versetti: «come la cerva anela ai corsi d’acqua, così la mia anima
anela a Te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e
vedrò il volto di Dio? Le lacrime sono il mio pane giorno e notte, mentre mi
dicono sempre: “dov’è il tuo Dio?”» (v. 1-2).
Tuttavia, secondo Luigino, «la sete di questa
cerva non è la sete buona di chi sta arrivando all’acqua. È la sete di chi vaga
nel deserto cercando l’acqua in un’oasi sconosciuta in altri attraversamenti e
che ora si è seccata. Quindi geme, anela, grida, urla per una sete che non può
estinguere perché l’acqua non c’è».
Luigino vede allora nella vicenda della cerva
l’avventura di certe anime pie ma comodine, le quali si attendono troppo
dall’acqua della fede, come se questa potesse estinguere adesso la sete di Dio.
Egli non nega che la fede calma la sete di Dio, ma nota giustamente che nella
vita presente non la toglie del tutto, per cui se in questa vita dovessimo
sentirci sufficientemente dissetati nel nostro bere l’acqua della fede, non
sarebbe un buon segno, perché ci adageremmo nei limiti e nelle miserie della
vita presente, come se essa fosse sufficiente a donarci un rapporto con Dio,
che non possiamo e non dobbiamo considerare come pienamente soddisfacente.
Egli disapprova queste anime con le seguenti
espressioni ironiche: «errore molto comune, di chi pensa la fede come stabile bivacco
in un’oasi ricca d’acqua, che, trovata al termine di un primo cammino, non lo abbandona
più. Qui la cerva riposa, serena e dissetata, in quel nuovo giardino, da cui non
si allontana per nuove peregrinazioni. È questa la visione della fede come
consumo di beni spirituali, come comfort, come piena soddisfazione del
consumatore religioso».
Luigino critica questo atteggiamento
osservando: «anche se troviamo qualche sorgente lungo il cammino, occorre
subito levar la tenda, riprendere senza indugio la via e rifare presto la
stessa esperienza della sete-fede». Vengono in mente le parole della Lettera
agli Ebrei: «Non abbiamo qui una città stabile» (13,14). Tuttavia, Luigino
trascura il fatto che chi trova la fede, trova già adesso una sorgente perenne
ed inesauribile di acqua viva, alla quale sempre attingere e sempre abbeverarsi,
pregustazione di quel dissetarsi definitivo e per sempre saziante che caratterizzerà
la vita eterna, dove non avremo più sete, ma ci sarà solo il gusto del bere.
Questa possibilità di dissetarsi fin d’ora a
quella sorgente perenne che è la Parola di Dio, non toglie al credente la
voglia, il desiderio ed anzi il dovere di fare nuove esperienze della stessa
Parola di Dio, non perchè la fonte alla quale attinge si possa esaurire, ma perchè
il credente può e deve trovare nuovi modi di attingervi.
Comunque, chi non sente in questa vita sempre
rinnovarsi la sete di Dio, osserva Luigino, chi non sente rinnovarsi la sete
dopo ogni volta che ha bevuto, non è veramente alla ricerca di Dio. In questo contesto
Luigino afferma: «la crisi della fede non è l’aridità, ma l’estinzione della
sete». E pertanto, continua, «finché custodiamo la sete di Dio e di vita,
stiamo camminando nell’unica strada buona».
Un Dio che ci disseta pienamente in questa
vita, sembra dire Luigino, non è il vero Dio, ma è un idolo. E peraltro, chi
non ha sete di Dio, è un illuso che si crede sufficiente a sé stesso. «Se ci
sentiamo religiosamente dissetati, - continua Luigino - è molto probabile che
stiamo bevendo l’acqua degli idoli». Ed è anche vero che «la fede non è
possesso, ma promessa»: il pieno, sicuro e definitivo possesso di Dio, sembrerebbe
dire Luigino, è la visione beatifica in cielo. Solo lì, come dice l’Apocalisse,
non avremo più sete (Ap 7,16).
E invece, ecco, improvvisamente ed
inaspettatamente, la brusca virata, come ci siamo accorti essere già negli
altri articoli, il procedere balzano di Luigino, che tutto ad un tratto salta
fuori con una smentita netta di quello che ha detto fino a quel momento, e
fatta con una tale nonchalance, che
pare stia dicendo la cosa più naturale del mondo.
E la virata è data dal suo totale
travisamento nientemeno che delle parole del Signore alla samaritana, dove Gesù
dice alla donna: «chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve
dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli
darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,
13-14).
Gesù evidentemente si riferisce a quel
dissetarsi definitivamente e totalmente saziante e gratificante nella vita
eterna, che non avrà più bisogno di essere ripetuto, come le bevute di quaggiù,
le quali hanno bisogno di essere continuamente ripetute perché qui l’acqua,
ossia la fede, non estingue mai del tutto la sete. Ebbene – horribile dictu! – Luigino porta queste
parole di Cristo proprio ad esempio dell’errore di coloro che concepiscono la
«fede come l’acqua che estingue la sete», quasi che Cristo avalli la visione
della fede, della quale ha parlato all’inizio, «come consumo di beni
spirituali, come comfort, come piena soddisfazione del consumatore religioso».
Che cosa dobbiamo dedurre da questo
improvviso voltafaccia? Che allora a Luigino non sta a cuore l’estinzione della
sete, ma la sete stessa, fine a
stessa! Beati no sono coloro che bevono l’acqua di Cristo e sono dissetati per sempre,
ma coloro che bevono senza mai essere dissetati e quindi non saranno mai dissetati!
Lo stesso titolo dell’articolo «la beatitudine della sete» insinua questa
enorme stoltezza. Che è una storpiatura delle parole del Signore: «beati quelli
che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5,6). Dovrebbe
essere abbastanza evidente che qui Gesù non proclama beati gli assetati, in quanto assetati, ma in quanto saranno
saziati».
E qui troviamo un grave difetto della
teologia di Luigino: porre la beatitudine non nel pieno conseguimento del fine,
ma nella semplice tendenza al fine, non nella perfezione ma nell’imperfezione,
così come egli, in un recente articolo su Avvenire,
che ho criticato, ha rifiutato l’ideale della perfezione evangelica, sostenendo
che basta solo tendervi, così come nell’ultimo articolo che ho criticato esalta
l’utopia come tensione continua verso un ideale mai raggiunto perché
irraggiungibile. Ora tutto ciò è falsissimo per quanto riguarda la concezione
cristiana dell’agire morale in ordine alla beatitudine.
Un Dio
assetato
Luigino poi cita una strana espressione, piuttosto
infelice, del grande scrittore francese Léon Bloy: «Dio assetato di sé». E qui
emerge purtroppo la morbosa tendenza di Luigino, che ho segnalato più volte in
miei precedenti articoli su di lui, ad antropomorfizzare Dio e a metterlo alla
pari dell’uomo, soggetto all’uomo come una specie di poveraccio e sfortunato
compagno di viaggio del «mal comune mezzo gaudio», un Dio bisognoso dell’uomo
come l’uomo ha bisogno di Dio, un Dio che ha bisogno di essere convertito,
corretto, arricchito, migliorato e questa volta, a quanto pare, dissetato.
Luigino, che lavora troppo di fantasia e
scambia la teologia per mitologia, forse non si accorge di come sia assurdo e
blasfemo immaginare un Dio che ha sete, così da pensare ad «un’acqua capace di dissetare
Dio», come se Dio fosse oppresso dal caldo e sudato o come se addirittura non
potesse esistere senza di noi o senza che gli offriamo bicchier d’acqua. Credo
che neppure un ragazzo normale prenderebbe sul serio queste fandonie. Un Dio
simile non sarebbe più Dio.
Salvo che Luigino non intenda dire che Dio ci
ama e desidera essere amato da noi. Ma non bisogna calcare troppo su queste
espressioni, perché non ci montiamo la testa pensando, come purtroppo ha detto
Luigino, che noi possiamo mutare l’essenza di Dio, ridurlo al nostro livello,
salvo poi a considerare noi stessi come dotati di un potere divino per poter
influire su di lui. Le parole di Gesù sulla croce: «ho sete» evidentemente sono
parole di Gesù uomo che ha sete delle nostre anime.
Ci potremmo chiedere che nesso c’è tra il
modo col quale Luigino s’immagina Dio e il modo col quale egli s’immagina la beatitudine
evangelica. Essa consiste secondo lui nella reciprocità fra uomo assetato e un
Dio assetato.
In questi ultimi due mesi ho avuto modo in
altri quattro miei articoli su questo blog di criticare altrettanti articoli di
Luigino su Avvenire, di comprendere che
idea di Dio si è fatta Luigino. Appare ormai chiaramente che egli concepisce
Dio in maniera grossolanamente antropomorfica, in tutto degna di un dio pagano,
non come Essere infinito, trascendente e perfettissimo, ma come un partner
dell’uomo, allo stesso livello dell’uomo, in un rapporto di mutua
complementarità e reciproco aiuto, senza che l’uno possa fare a meno dell’altro.
Si completano a vicenda. L’uomo non è
creato da Dio, ma è un dio compagno di Dio.
Così nel primo articolo di circa due mesi fa Luigino
ha respinto il concetto del sacrificio espiatorio di Cristo in nome di questa reciprocità
fra Dio e l’uomo, reciprocità che sarebbe misconosciuta dall’idea di un
sacrificio espiatorio, che supporrebbe una superiorità di Dio sull’uomo e un
sacrificarsi dell’uomo per Dio, mentre essi sono alla pari, soffrono l’uno per
l’altro e sono a servizio l’uno dell’altro.
Nel secondo articolo Luigino ha respinto il concetto
di perfezione evangelica in nome del fatto che tanto Dio che l’uomo sono imperfetti
e la felicità consiste nell’imperfezione. Nel terzo articolo Luigino ha
sostenuto che Dio e l’uomo devono convertirsi reciprocamente l’un l’altro. Nel
quarto ha detto che Dio e uomo si arricchiscono e si migliorano reciprocamente.
In questo vediamo che se l’uomo è assetato di
Dio, anche Dio è assetato dell’uomo. Nessuno dei due, tuttavia, estingue la sua
sete, perché la beatitudine non consiste nell’essere dissetati per sempre, ma nell’aver
continuamente sete. Ho obiettato che in realtà, come risulta dalla Scrittura,
la beatitudine eterna consiste nel non aver
più sete, mentre il restare assetati in eterno senza aver speranza di essere
rifocillati è la condizione di frustrazione propria della dannazione infernale.
Per cui devo notare ancora una volta come il metodo teologico di Luigino sia
quello che oggi si chiama metodo «creativo», che consiste nello scegliere tra gli
attributi assegnati a Dio dalla Bibbia quelli che ci piacciono, aggiungendo altri
attributi di nostro gradimento inventati da noi.
Luigino
confonde la condizione del beato con quella del dannato.
Si può dire che l’uomo come tale ha una
naturale «sete di Dio», insita nella sua stessa natura e prima ancora
dell’esercizio del suo libero arbitrio, che lo fa tendere a Dio volontariamente,
per libera scelta. Egli allora, se corrisponde alla grazia divina, acquisisce
una sete volontaria di Dio, una sete che egli può saziare obbedendo ai suoi
comandi e tende a Dio nell’amore come a suo ultimo fine e sommo bene. Nella
vita presente il giusto beve a sorsi continui all’acqua della fede, senza qui
poter essere mai sazio, anche se sa che quell’acqua è di per sé fatta per
saziarlo per sempre. Ma sa anche che solo in paradiso ne farà una tale bevuta
da esser dissetato per sempre.
L’empio, viceversa, in quanto creatura fatta per
trovare in Dio la sua beatitudine, prova anch’egli inevitabilmente e necessariamente
sete di Dio, perché per lui come per ogni uomo Dio è un bisogno vitale ed
insopprimibile, insito da Dio nella stessa sua natura. Egli dunque ha sete di Dio,
ma sta a lui scegliere se dissetarsi alla acqua limpida di Dio o alle acque sporche
del mondo, che alla fine non lo dissetano del tutto ed anzi lo infettano. Se
dunque l’empio non si pente e non cerca di dissetarsi all’acqua di Dio, gli
resta la sete di Dio, ma una sete insoddisfatta e che egli non vuole, per la
sua superbia, soddisfare.
Ebbene, Luigino che cosa fa? Fa le lodi della
sete fine a sé stessa! Della sete insoddisfatta, sempre risorgente e mai
estinta! Questa, secondo lui, sarebbe la beatitudine. Ma la sete di Dio resta
anche nel dannato. La differenza dal beato sta nel fatto che mentre il dannato
è frustrato nella consecuzione di Dio come fine ultimo e sommo bene, per cui il
dannato da una parte non può non sentire la sete di Dio, ma dall’altra parte la
odia in quanto la sua estinzione coinciderebbe con quell’unione d’amore finale con
Dio, che lo disseterebbe, ma che egli rifiuta. A lui piace la sete ma non l’estinzione
della sete. Luigino conclude il suo articolo dicendo a se stesso: «ti attende
una vita assetata e meravigliosa». Ma non è questa la vita del dannato? Che
cosa combinerai la prossima volta?
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 7 luglio 2020
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