Il Dio dialettico - Occorre bloccare l’operazione per la quale si vuole inserire il male in Dio e scagionare l’uomo - Terza Parte (3/4)

 

Il Dio dialettico

Occorre bloccare l’operazione per la quale si vuole

 inserire il male in Dio e scagionare l’uomo

 Terza Parte (3/4)

 Dio oppone sé a sé nel peccato e si riconcilia con sé nella misericordia.

La teologia di Jakob Böhme

La concezione böhmiana di Dio è uno sviluppo del concetto kabbalistico della mano destra (bontà) e della mano sinistra (malvagità) di Dio. Böhme parte da due presupposti, che si ritroveranno nell’idealismo tedesco a partire da Fichte: la coscienza richiede l’opposizione di soggetto e oggetto; il libero arbitrio suppone l’opposizione del bene e del male. Dice Böhme:

 

«L’Uno non ha niente dentro di sé da poter desiderare, né una tale unità potrebbe sentire il proprio sé. Questo è possibile solo in uno stato di dualità»[1]. «L’Uno, il Sì è un puro potere e la vita e la verità di Dio stesso; ma Dio sarebbe inconoscibile a se stesso e in lui non vi sarebbe alcuna gioia o percezione se non fosse per la presenza del No. Quest’ultimo è l’opposto o l’antitesi del positivo o verità; esso fa sì che questa divenga manifesta e ciò è possibile solo perché è l’opposto in cui l’amore eterno può divenire attivo e percettibile»[2].

 

«La luce e il buio sono opposti fra loro, ma esiste fra di essi un legame, così che nessuno di essi può esistere senza l’altro»[3]. «In Dio ci sono due stati, eternamente e senza fine: la luce eterna e l’oscurità eterna. La luce è Dio e nell’oscurità non vi sarebbe alcun dolore se non fosse per la presenza della luce. La luce fa sì che l’oscurità aneli alla luce e ne soffra di conseguenza»[4].

Come in Dio per Böhme il pensiero va contro se stesso, così la volontà. Essa comporta

 

«un desiderio appropriante e riflettente, una volontà-propria» - una volontà finita, la creatura, che però è Dio opposto a Dio - «che non potrà coincidere con l’unico volere. Perché l’unico volere vuole l’unico bene, che è esso stesso, vuole solo se stesso nell’identità. Ma la volontà fluente all’esterno» - la creazione - «vuole la diversità» - il mondo - «per distinguersi dall’identità ed essere il proprio qualcosa» - ossia un qualcosa di determinato, la creatura, - «perché l’eterno vedere abbia qualcosa da vedere e da sentire.

E dalla volontà propria nasce il No» - il peccato dell’uomo contro Dio, che è Dio contro Dio -, «perché essa entra in una proprietà che vuole imporsi come propria. E volendo essere qualcosa, non può coincidere con l’unità, che è un puro fluire e un puro Sì» - è il Dio iniziale -  «libero nel suo spirare e insensibile, perché non ha nulla in cui possa sentirsi, se non fosse lo schermo della volontà deviata» - il peccato - , «cioè il No» - la creatura, Dio che Dio oppone a se stesso, creatura  - , «che è un limite del Sì in cui il Sì diventa manifesto e ha qualcosa da volere»[5].

In sostanza, Dio, per conoscersi e volersi, deve creare il mondo che, opponendosi a lui e peccando contro di lui, consente a Dio di negare questa negazione di Dio e di tornare a se stesso. Il peccato diventa necessario perchè Dio sia Dio. Dio pecca contro se stesso nell’uomo per riconciliarsi con sé.

Questo intrigo tremendo dipende dal fatto che Böhme ignora che cosa comporta il moto spirituale dell’autocoscienza. Esso, a differenza dell’azione fisica dei corpi, che va verso l’esterno e ha bisogno di un oggetto esterno, sicchè qui l’azione comporta la dualità di soggetto e oggetto, l’autocoscienza è un moto immateriale circolare di uscita e ritorno del sé a sé entro se stesso, per il quale il soggetto, cioè lo spirito torna completamente su se stesso facendo scomparire intenzionalmente la separazione fra soggetto e oggetto e recuperando così l’unità iniziale. Similmente accade per il volere, per il quale Dio vuole se stesso in un oggetto esterno.

Ma Böhme cade in un secondo errore, confondendo la creazione divina propria della natura divina con la processione divina propria della persona divina. In tal modo Dio non produce un ente finito dal nulla, ma pone un altro da sé[6] opposto a sé della sua stessa essenza, ma un’essenza limitata, pone un Dio opposto a lui, il Dio del No opposto a lui che è il Dio del sì. E questa sarebbe la creatura, la quale però nel contempo è il No a Dio, che induce Dio a negare se stesso per tornare all’identità o unità iniziale, così che il cerchio si chiude.

Un terzo errore sta nel fatto che Böhme intende la creazione divina come autolimitazione divina, ed in ciò consisterebbe il male, ossia il No al Dio del Sì. Ora, però, dato che il Sì e il No sono per Böhme costituitivi del divino, ne viene che la negazione della negazione ricostituisce sì l’identità, ma nel contempo riavvia il processo dell’opposizione del No al Sì.

Tutto ciò vuol dire che per Böhme Dio, per conoscere e volere se stesso, pone sé come oggetto non solo fuori di sé, ma contro sé, si sdoppia in soggetto e oggetto, in Sì e No, oppone sé a sé. Se Dio inizialmente è Sì, pone un anti-Dio, un No contro se stesso. Questo No uscito da Dio è al contempo l’anti-Dio, è la creatura, che con ciò stesso, in quanto limitata e opposta al Dio del Sì, è cattiva e pecca contro il Dio del sì.  Ma ecco il colpo di scena: siccome è lo stesso Dio del Sì che ha posto il Dio del No, è Dio stesso che ha fatto questa operazione e la promuove appunto per essere Dio autocosciente e autovedente. Dio si divide in se stesso per tornare in pace con se stesso.

Da notare che con questa opposizione di sé a sé, Dio esce da sè e crea l’uomo, il quale appunto peccando, ossia dicendo di no a Dio, consente a Dio di cui egli è finitizzazione, di negare il Dio del No e di ricostituire il Dio iniziale del Sì. Dio quindi nega due volte: la prima è quella per la quale nell’uomo oppone sé a sé; la seconda è quella per la quale nega la negazione e ritrova l’identità e la pace sà. Ma questa è già è la dialettica hegeliana. Quindi bisogna dire che Hegel ha preso da Böhme la sua dialettica.

Così per Böhme come non c’è soggetto senza oggetto e viceversa, non c’è bene senza male e viceversa. Siccome in Dio c’è autocoscienza e volontà, così in Dio avviene questo sdoppiamento, affinchè Dio sia Dio. L’Uno non può non dividersi in Due; ma il Due dà luogo al Tre, perché il terzo per conciliarsi col secondo opposto al primo, torna ad essere Uno, e il cerchio si chiude. Questo è lo schema anche di Plotino, che ritroviamo in Origene.

C’è qui già in nuce la dialettica hegeliana, che Von Balthasar farà propria: Dio oppone Sé a Sé – il Padre oppone Sé al Figlio (questa sarebbe la kenosi del Figlio dannato all’inferno) -;  ma siccome non è possibile che Dio non sia Uno, ecco che occorre lo Spirito Santo per riconciliare Dio con Dio, ossia il Padre col Figlio. Ora con l’incarnazione il Figlio si è unito ad ogni uomo.

Ciò comporta che ogni uomo segue la vicenda tragica e gloriosa del Figlio: essere dannato ed essere salvo. La sofferenza è indisgiungibile dal peccato. È la confusione fra male di colpa e male di pena. E pertanto ci si salva non solo soffrendo ma anche peccando, come ha fatto Cristo, il quale per salvarci ha abbandonato la sua innocenza e per noi si è fatto peccato.

Ma Von Balthasar è il primo nella storia della teologia cattolica ad applicare con maggior radicalismo la concezione hegeliana dialettica della Trinità. Hegel infatti si ferma a vedere nella Trinità delle persone un’immagine o figura della dialettica dell’essere. Invece Von Balthasar, affetta di prendere sul serio la realtà delle divine persone applicando nei loro rapporti il principio della dialettica hegeliana, proveniente da Böhme, da Plotino, da Proclo e dalla Kabbala.

Quanto avviene nella Trinità avviene quindi nell’umanità: dannata e ad un tempo salva in Cristo, salva proprio perché dannata. In questo senso Von Balthasar sostiene che tutti si salvano. Egli non nega quindi l’esistenza dell’inferno (in tal senso per lui l’inferno non è vuoto), perché anzi tutti in Cristo sono all’inferno, solo che in quanto salvi sono contemporaneamente in paradiso (dialettica del sì-no). È sempre, a funzionare il simul justus et peccator di Lutero.

Se vogliamo trovare alle origini dell’escatologia e della soteriologia balthasariana, oltre a Plotino, alla Kabbala e il precedente di Hegel, dobbiamo dunque risalire a Jakob Böhme, dal quale Hegel stesso attinge per il suo concetto dialettico di Dio, sintesi di bene e di male. Per Hegel l’essere assoluto, per esser tale, deve contenere in sé anche il male, l’unità degli opposti:

 

«Se Dio l’essere assoluto, ci si chiede: quale essere assoluto è mai codesto, che non ha in sé ogni realtà, in particolar modo il male? Böhme perciò tende … ad arrivare a scoprire come il male sia contenuto nel bene, che è problema del tempo nostro». 

 

Böhme ha «l’idea profondissima di Dio, la quale si sforza di recare o collegare in unità le opposizioni più assolute, non però per la ragione pensante. Diremo dunque in breve che Böhme ha lottato per intendere in Dio e da Dio il negativo, il male, il diavolo, per cogliere Dio come assoluto».

 

«L’idea fondamentale di Jakob Böhme è il tentativo di ottenere tutto in unità assoluta: infatti egli vuole mostrare l’assoluta unità divina e l’unificazione di tutte le opposizioni in Dio. Il suo pensiero fondamentale, anzi si può dire il suo pensiero unico, che tutto compenetra, è in generale quello di  comprendere in tutto la sacra triplicità, di vedere in tutte le cose il disvelamento e la manifestazione di essa, che così è il principio universale in cui tutto è, precisamente in guisa tale che tutte le cose hanno in se stesse soltanto questa trinità divina, non come trinità della rappresentazione, ma come trinità reale dell’idea assoluta. Tutto quel che è, secondo Böhme, è soltanto questa trinità; questa trinità è tutto. Per lui dunque l’universo è un’unica vita divina, un unico svelarsi di Dio in tutte le cose, per modo che più precisamente dall’unica essenza di Dio, somma di tutte le forze e qualità, viene eternamente generato nel Figlio, che in quelle forze risplende: l’interiore unità di questa luce con la sostanza delle forze è lo Spirito. …

 

Il primo è Dio, il Padre; questo primo è ad un tempo differente in sé, ed è l’unità di questi due. “Dio è tutto – egli dice - è tenebra e luce, amore ed ira, fuoco e luce; ma nomina se stesso soltanto il Dio uno secondo la luce del suo amore. Egli è un eterno contrarium tra tenebra e luce; nessuna delle due afferra l’altra; nessuna è l’altra, tuttavia si ha soltanto un’essenza unica, ma distinta per via del tormento; e anche per via della volontà, ma tuttavia non è essenza separabile. Un unico principio si attua nella distinzione, che l’uno è nell’altro come un nulla e tuttavia è secondo la proprietà di esso, ma non manifestamente»[7].

Da questa concezione böhmiana di Dio Hegel è partito per sostenere che la nostra ragione può sapere non solo perché Dio è uno, ma anche perché è trino. Egli infatti non pone in Dio solo l’uno, ma anche il due, ossia l’opposizione, che si trova invece solo nella creatura, come per esempio la distinzione di essenza ed essere o l’opposizione fra bene e male. Ora invece nella natura divina non c’è alcuna opposizione o composizione, perché l’essenza divina è semplicissima, è puro atto d’essere. Dio nella sua essenza è assolutamente Uno. Su ciò Platone, Aristotele, Plotino e Maometto hanno ragione con Abramo e Mosè.

Ma Cristo ci dice che in Dio c’è anche il Tre. Qui dobbiamo fare un atto di fede, perché con la nostra sola ragione non riusciamo a capire perché in Dio ci sia il Tre, Padre, Figlio e Spirito Santo. L’errore di Hegel ingannato da Böhme, è stato quello di pretendere di sapere razionalmente, con necessità logica, perché in Dio c’è il Tre.

Per fare questa dimostrazione ha utilizzato il Due, che in realtà non c’è in Dio, ma solo nella creatura e questo due sono le coppie: essenza ed essere, essere-non-essere (essere-nulla), sì-no, bene-male, vita-morte. Non si tratta di negare il principio di non-contraddizione, come molti hanno rimproverato ad Hegel con una certa ragione, perché egli non si spiega con chiarezza, ma si tratta di opposizione conflittuale, cosa che può avvenire nella creatura, ma non certo in Dio. E invece Hegel, utilizzando questa dualità, ha preteso di dimostrare la Trinità con la famosa dialettica.

Da questa visione dialettica di Dio sorge l’attuale idea buonista che il peccato è perdonato nel momento stesso in cui viene commesso senza bisogno di pentimento e penitenza, perché Dio non esige che la volontà da cattiva diventi buona, ma semplicemente considera come buona la volontà cattiva. Dio stesso vuole il peccato, ma nel contempo lo nega. Non è un Dio del puro sì, ma un Dio del sì-no. È la cosiddetta «giustificazione forense» di Lutero, un eufemismo offensivo del giudizio forense, cosa che sarebbe meglio chiamare giustificazione simulata.

Così, se andiamo ad esaminare le origini storiche, di questo Dio più buono di Gesù Cristo, ci accorgeremo di precedenti molto interessanti che ci portano a scoprire che questo Dio superbuonissimo è ad un tempo autore del peccato, della morte e identico al demonio. Vediamo questi precedenti.

Tutto parte dall’interpretazione kabbalistica del peccato originale. Da questa interpretazione risulta che il vero Dio, il Dio liberatore dell’uomo, che svela all’uomo la sua dignità, non è il Padre che è nei cieli, ma il serpente. È il demonio che svela ad Adamo che il suo creatore è un tiranno geloso dell’uomo, al quale tiranno è possibile strappare il potere (vedi il mito di Prometeo) appunto mangiando dell’albero del bene e del male[8].

Secondo questa interpretazione il Dio liberatore non è il Dio creatore, ma il demonio: è lui e non Cristo che divinizza l’uomo appunto compiendo l’azione che Dio aveva proibito, sicchè l’uomo peccando si ritrova sì nudo e viene castigato con la morte; ma ormai è in possesso della conoscenza del bene e del male, che gli permetterà di liberarsi da Dio e di seguire il demonio suo vero Dio.

Occorre tuttavia a questo punto distinguere l’interpretazione kabbalistica di Dio, che è anticristiana, dall’interpretazione gnostica pseudocristiana che si ispira a Plotino e al dualismo iranico. Qui Cristo appare sì come Salvatore, non però nel presupposto di un Dio, qual è veramente il Dio biblico, giusto e misericordioso, ma di un Dio buono e ad un tempo cattivo come quello kabbalistico, che quindi è l’autore del bene e del male e come tale scagiona l’uomo, il quale si salva in Cristo soffrendo e peccando: justus et peccator.

Ecco dunque dove si trova l’origine di questo Dio buonissimo e misericordiosissimo, che non castiga nessuno. Ci accorgeremo che è un Dio immaginario, un Dio di comodo, niente affatto «biblico», un Dio ad usum delphini, ossia tale da lasciar liberi gli uomini di commettere tutti i peccati che vogliono, e che del resto non possono non volere a causa della «concupiscenza» o della «fragilità» umana, peccati che in tal modo non sono più peccati, sicchè non sono affatto puniti ma sono scusati e perdonati in un’eterna felicità dopo la morte, quella che loro chiamano «salvezza», senza chiarire o ammettere che la salvezza consiste appunto del vedere in cielo, puri da ogni peccato,  il volto di quel Dio al quale si è obbedito su questa terra.

Avviene così che questo Dio dialettico, preparato dalla Kabbala e nell’emanazionismo plotiniano, già proposto dallo gnosticismo del sec. III, teorizzato da Hegel e precorso dal mistico luterano Jakob Böhme, appare oggi in grande stile nella teologia di Von Balthasar[9], di Teilhard de Chardin e di Rahner.

Bisogna allora dire che questo Dio della misericordia, della tenerezza e del perdono, questo Dio non solo buono ma troppo buono, si rivela nel contempo, alla fine del circolo dialettico, proprio per la sua struttura dialettica del sì-no, come stiamo vedendo, come il Dio della massima crudeltà e malvagità.

Da che cosa dipende questo sorprendente seppur inevitabile capovolgimento? Da una metafisica che non sa concepire il puro essere senza negarlo col nulla, non sa concepire l’essere senza il non-essere, un bene puro senza il male, un puro sì non legato al no, l’affermazione senza la negazione, qualcosa di certo che non possa essere negato.

Non sa concepire una verità che non possa essere messa in dubbio, non sa concepire un bene puro libero dal male, un agire senza un patire; ma atto buono e atto cattivo vanno sempre assieme; vero e falso, gioia e sofferenza, vita e morte vanno sempre assieme anche in Dio. Si tratta di un pensare per opposizioni che non sa liberarsi o non vuole dalla conflittualità e dalla contraddizione.

Perché queste coppie inscindibili? Perché si confonde il reale col pensiero, la metafisica con la logica. Faccio un esempio: sul piano logico dei concetti, io capisco che cosa è il bene confrontandolo col male e viceversa. È normale che i due opposti nella mia mente stiano assieme: l’uno richiama l’altro, l’uno si capisce alla luce dell’altro. Ora, che cosa può accadere? Che se io, come fanno gli idealisti, mi chiudo nel mio pensiero e, come dice Husserl, «metto tra parentesi il reale», le mie idee vengono a sostituire la realtà e siccome esse si basano sui contrari, ecco che io vedo tutta la realtà fatta a coppie di contrari.

Questo è un pensare che ha il gusto di mettere assieme cose reciprocamente incompatibili, un pensare che esclude ciò che dovrebbe includere ed include ciò che dovrebbe escludere, che contrappone cose che dovrebbero essere unite e confonde ciò che dovrebbe essere distinto. È un pensare sleale, divisivo, confusionario, viscido, basato sulla doppiezza, l’ambiguità, la menzogna e l’ipocrisia.

Ma perchè l’essere e il non-essere, il vero e il falso, il bene e il male sono anche in Dio? Il motivo è semplice: perché questa «teologia» - se così possiamo chiamarla - non sa concepire Dio se non essenzialmente connesso al mondo, come dice Hegel: «Dio senza il mondo non sarebbe Dio», in ciò in perfetta linea con Lutero, per il quale Dio non può esistere se non come Dio incarnato.  

Ora è evidente che nel mondo c’è il vero e il falso, il bene e il male. Ma se Dio coincide col mondo, allora è chiaro che vero e falso, bene e male passano in Dio, anzi ne è lui il principio, se è vero che è il creatore del mondo.

La tesi di Rahner che la Trinità non esiste se non come Trinità «economica», ossia incarnata, si pone sulla linea della teologia di Lutero e di Hegel. Per questi teologi è impensabile che Dio avrebbe potuto esistere da solo, anche senza creare il mondo. Per loro Dio non è creatore per volontà, ma per essenza. Se Dio non avesse creato il mondo e non si fosse incarnato, non sarebbe stato Dio. Egli si è completato con la creazione.

Soloviev dà una perfetta descrizione del Dio dialettico di Hegel che, per essere Dio, deve includere in sé anche la sua negazione e quindi il male, in quanto il male è concepito come elemento perfettivo dell’essere, senza il quale l’essere sarebbe difettivo e quindi non assoluto. Dice Soloviev[10]:

«La necessità e il principio motore del processo dialettico sono inclusi nel concetto stesso dell’assoluto. In quanto tale esso non può avere un rapporto puramente negativo nei confronti di ciò che gli si contrappone, (che non è assoluto, ma finito), ma deve racchiuderlo in se stesso»; il finito è concepito come negazione non solo logica, ma reale dell’assoluto infinito, «perché in caso contrario, se lo avesse fuori di sé, ne sarebbe limitato e finito, verrebbe ad essere il limite autosufficiente dell’assoluto, che in tal modo, si trasformerebbe esso stesso in finito.

Di conseguenza, l’autentico carattere dell’assoluto si palesa nell’autonegazione», la kenosi divina come la intende Von Balthasar, Cristo all’inferno, Dio contro Dio, «nel fatto che esso pone il suo contrario o il suo altro», cioè il mondo, «il quale, in quanto posto dal’assoluto stesso, ne è il riflesso; l’assoluto, poi, un questo suo esser-fuori o esser-altro trova se stesso».

Ecco il tema böhmiano del soggetto che ha bisogno dell’oggetto per conoscersi, «come unità realizzata di sé e del proprio altro», unità di sì e di no, di bene e di male, di Dio e del mondo. «Ora, dato che l’assoluto è ciò che è in tutto, questo stesso processo viene ad essere la legge di ogni realtà», da qui il tutti salvi e tutti dannati. «La forza della verità assoluta, che si cela in tutte le cose infrange i limiti delle determinazioni particolari, le libera dal loro immobilismo, costringe l’una a passare nell’altra e a far ritorno a sé in una nuova forma più vera e libera.

È in questo movimento, che è presente in ogni cosa e a ogni cosa dà forma, che va cercato tutto il senso e tutta la verità di ciò che esiste, quel vivo nesso che unisce intimamente tutte le parti del mondo fisico e spirituale tra di loro e con l’assoluto. Il quale assoluto poi, al di fuori di questo nesso, se fosse ridotto a qualcosa di a sé stante», cioè di trascendente e sussistente da sé indipendentemente dal mondo e dal male, «non esisterebbe affatto»[11], dove vediamo che la concezione dialettica di Dio si sposa ad un tempo col panteismo e con l’ateismo.

Fine Terza Parte (3/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 22 febbraio 2024

Dalla concezione böhmiana di Dio Hegel è partito per sostenere che la nostra ragione può sapere non solo perché Dio è uno, ma anche perché è trino. Egli infatti non pone in Dio solo l’uno, ma anche il due, ossia l’opposizione, che si trova invece solo nella creatura, come per esempio la distinzione di essenza ed essere o l’opposizione fra bene e male. 

Ora invece nella natura divina non c’è alcuna opposizione o composizione, perché l’essenza divina è semplicissima, è puro atto d’essere. Dio nella sua essenza è assolutamente Uno. Su ciò Platone, Aristotele, Plotino e Maometto hanno ragione con Abramo e Mosè.

Ma perchè l’essere e il non-essere, il vero e il falso, il bene e il male sono anche in Dio? Il motivo è semplice: perché questa «teologia» - se così possiamo chiamarla - non sa concepire Dio se non essenzialmente connesso al mondo, come dice Hegel: «Dio senza il mondo non sarebbe Dio», in ciò in perfetta linea con Lutero, per il quale Dio non può esistere se non come Dio incarnato.  

Ora è evidente che nel mondo c’è il vero e il falso, il bene e il male. Ma se Dio coincide col mondo, allora è chiaro che vero e falso, bene e male passano in Dio, anzi ne è lui il principio, se è vero che è il creatore del mondo.

Soloviev dà una perfetta descrizione del Dio dialettico di Hegel che, per essere Dio, deve includere in sé anche la sua negazione e quindi il male, in quanto il male è concepito come elemento perfettivo dell’essere, senza il quale l’essere sarebbe difettivo e quindi non assoluto.


Immagine da Internet: La predicazione dell'anticristo, Luca Signorelli e la sua scuola 


[1] Cit. da Franz Hartmann, Il mondo magico di Jakob Böhme, Edizioni Mediterranee, Roma 2005, p.75.

[2] Ibid.

[3] Ibid.

[4] Ibid.

[5] Cit. da Flavio Cuniberto, Jakob Böhme, Edizioni Morceliana,Brescia 2000, p.95.

[6] Un «non-Io», direbbe Fichte.

[7] Lezioni sulla storia della filosofia, Edizioni La Nuova Italia, Firenze 1981,vol.III,2, pp.41-45.

[8] È interessante come Hegel interpreta proprio in questo modo il racconto del peccato originale. Vedi Lezioni sulla filosofia della religione, Zanichelli Editore, Bologna 1974, vol.I, p,363; vol.II, p.78. Eric Fromm, Voi sarete come dèi, Ubaldini Editore, Roma 1970. Satana simbolo del Dio liberatore è una figura nota della massoneria esoterica. Vedi gli studi del Padre Paolo Siano.

[9] Vedi la presentazione del suo pensiero in merito nel mio libro L’inferno esiste. La vertà negata, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2011.

[10] Le parole di Soloviev sono tra graffette. Le altre sono le mie.

[11] Vladimir Soloviev, La crisi della filosofia occidentale altri scritti, Cooperativa editoriale La Casa di Matriona, Milano 1986, pp.356-357.

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