Dignità e limiti del pensiero - Prima Parte (1/4)

 Dignità e limiti del pensiero[1] 

Prima Parte (1/4)

Signore, non si inorgoglisce il mio cuore

 e non si leva con superbia il mio sguardo

Sal 130,1

L’avanzata dell’idealismo 

Assistiamo oggi in campo teologico ad un forte ritorno di idealismo, che, sotto pretesto del progresso della teologia promosso dal Concilio Vaticano II, riprende l’equivoco progetto modernistico già a suo tempo condannato nella Pascendi di San Pio X.

Che cosa è esattamente l’idealismo? Lo dice la parola stessa: è l’anteporre l’idea alla realtà, il credere che il reale non ci sia dato prima e indipendentemente dalle nostre idee, ma che esse siano e debbano essere il principio del reale. Quindi il sapere non è dato dall’adeguare le nostre idee a una realtà esterna a noi, ma consiste nella presa di coscienza che siano noi, come Io assoluto o Idea assoluta o Pensiero assoluto (gnosi), a porre sia il reale che le nostre idee ad esso conformi. L’idealismo fu condannato da San Pio X nell’enciclica Pascendi sotto il nome di «immanentismo» e da Pio XII nell’enciclica Humani Generis del 1950.

L’idealismo sostiene fondamentalmente l’identità dell’essere col pensare o, come diceva Schelling, dell’ideale col reale o, come diceva Hegel, del razionale col reale; sicchè, sempre secondo Hegel, la cosa s’identifica col concetto della cosa, la metafisica s’identifica con la logica, per giungere oggi a Rahner, per il quale la gnoseologia s’identifica con la metafisica con l’antropologia con la cristologia e con la teologia[2]. Tutto è uno perchè tutto è Dio. E abbiamo il panteismo.

Papa Francesco ha più volte denunciato l’avanzata dell’idealismo, consistente, come egli dice, nella negazione del primato della realtà sull’idea. L’idea perde la sua funzione di rappresentare la realtà e si sostituisce alla realtà. L’uomo, anziché assoggettare le sue idee alla realtà, pretende di piegare la realtà alle sue idee tracotanti, che vorrebbero sostituire l’uomo a Dio, mentre l’uomo che si fa Dio, vorrebbe mettersi al posto di Dio.

Secondo il modulo già più volte proposto dal Magistero della Chiesa, il Papa ha riproposto il realismo come rimedio all’idealismo. Volendo peraltro ridurre all’essenziale il contrasto realismo-idealismo, potremmo dire che mentre il realismo distingue pensiero (idea) ed essere (realtà), l’idealismo li identifica tra di loro, sfociando nel panteismo, giacchè solo in Dio pensiero ed essere s’identificano, mentre il realismo, appunto distinguendo il pensare dall’essere, salva la distinzione fra il pensiero creato e il pensiero increato, quindi fra il mondo e Dio.

Nell’insegnamento del Papa, l’idealismo appare peraltro strettamente imparentato con lo gnosticismo, che si configura come l’esito finale dell’ambizione idealistica di assorbire l’essere nel pensiero e che conferisce al pensare umano uno strapotere tale da pareggiarlo al sapere divino – la «gnosi» - e così raggiungiamo l’altra definizione dell’idealismo, cara agli stessi idealisti, per la quale il pensare coincide con l’essere ovvero l’essere è pensare.

Papa Francesco, oltre a riprendere la tradizionale condanna dell’idealismo, ha avuto la felicissima ed opportunissima idea pastorale di condannare anche lo gnosticismo, cosa finora mai fatta dal Magistero pontificio, il quale non pensò di condannare il fenomeno neppure al momento del suo apogeo nei primissimi secoli del cristianesimo, perchè furono sufficienti gli interventi di poderosi lottatori della fede come Sant’Ireneo e Clemente Alessandrino a vincere lo gnosticismo. 

Occorre dire con chiarezza e semplicità che l’idealismo ha avuto il grande merito di porre l’ardua, difficilissima e fondamentale questione metafisica e trascendentale del rapporto dell’essere col pensiero e di dar prova con ciò stesso di una sottile attitudine speculativa. Dalla soluzione di questa questione dipende infatti la soluzione di tutti i problemi fondamentali della filosofia e per conseguenza la possibilità stessa della fede cristiana.

La tragedia è che purtroppo la soluzione idealistica, benché fascinosa ed avvincente, è falsa. Ma questa falsità, che appare ai semplici, è per certi aspetti così ben celata che può sfuggire ai dotti, ed inoltre è talmente profondo, sconfinato e misterioso il tema trattato – il rapporto essere-pensiero – che quanto essi dicono appare a volte incomprensibile e bisognoso di un’interpretazione, che è raramente sicura.

Chi può dire d’aver interpretato con certezza Cartesio? Chi può dire di aver capito bene Kant, Schelling, Fichte, Hegel o Heidegger? Questo non vuol dire che facendo uso di un criterio tomista, non sia possibile separare il grano dal loglio.

Quello che affascina i moderni nel pensiero idealista è l’apparenza di essere un pensiero critico, che supererebbe l’ingenuità del realismo medioevale. Sarebbe la cosiddetta «filosofia moderna» nata da Cartesio, la quale tutti noi oggi, a sentire gli idealisti, oggi i modernisti, dovremmo accogliere per essere «moderni», così come oggi usiamo il trattore e non più l’aratro, l’automobile e non più il calesse, l’aereo e non più la nave a vela, i capelli naturali e non più la parrucca.  

Ma la vera ingenuità, che però è anche superbia, come fece notare San Pio X nella famosa enciclica Pascendi, è il credere che la vera modernità sia Cartesio e non un tomismo moderno. E il Concilio Vaticano II ci ha mostrato, come aveva auspicato e realizzato il Maritain, che una sana assunzione critica della modernità non suppone affatto l’abbandono, ma la conferma della genuina speculazione tomista.

Nel secolo scorso ci sono stati infatti alcuni, come Maréchal, Rahner, Lonergan, Lotz, Coreth o Bontadini, i quali hanno creduto di trovare in Tommaso un precorrimento di Cartesio o un’anima parmenidea, ma hanno potuto sostenere questo solo al prezzo, come vedremo, di una falsa interpretazione di Tommaso. Sono più sinceri e leali filosofi come Spaventa, Croce, Gentile, Husserl, Heidegger o Severino, i quali hanno detto chiaramente che loro con Tommaso non hanno nulla da spartire e che realismo ed idealismo si oppongono come il sì e il no o al massimo come l’apparenza e la verità.

Noteremo allora come alla concezione idealistico-gnostica del sapere e del pensare corrisponda la sua visione panteistica dell’essere e del reale, per il fatto che l’uomo che si fa Dio nel sapere è chiaramente l’uomo che si fa Dio nell’essere, se è vero che pensiero ed essere coincidono. Ed ecco allora che Papa Francesco ci rende oggi pienamente consapevoli dell’inscindibilità dei termini di questa triade: idealismo-gnosticismo-panteismo.

L’identità idealistica del pensiero e dell’essere comporta lo gnosticismo, ossia l’identità del sapere umano con quello divino e dello stesso essere umano con quello divino, ossia il panteismo. Se il pensiero s’identifica con l’essere è chiaro che solo Dio esiste, identico al mondo. Tutto è l’Uno e l’Uno è tutto. Non si dà un mondo creato da Dio ed esterno a Dio. Non esiste un mondo in divenire esterno a Dio, ma tutto è eterno in Dio. Il mondo è solo in Dio come identico a Dio. Il mondo è l’apparire di Dio.

Tuttavia si deve dire che in fondo l’istanza gnostica in se stessa non è sbagliata: non è altro che il bisogno di una piena conoscenza di Dio, che non è altro che l’istanza della teologia e di ogni mente umana conscia della sua dignità. Non è altro che l’istanza suprema del pensiero.  Profondamente sbagliato è il modo di volerla soddisfare: con la pretesa che la mente umana non sia altro che il grado empirico di una soggettività assoluta, che sarebbe la radice originaria preconcettuale ed autocosciente al suo grado proprio ed assoluto, di quello stesso livello empirico nel quale quella soggettività discende e si manifesta come essere umano, che, autotrascendendosi, sale al vertice del suo essere segreto e preconscio uguagliandosi a quella soggettività assoluta, che è la radice prima ed ineffabile del suo essere empirico, che si manifesta nel mondo.

L’idealismo, come si sa, è nato con Cartesio. Egli ha creduto di reimpostare la questione della conoscenza in modo veramente critico, superando quella che egli riteneva essere l’ingenuità medioevale del realismo tomista. E questo pregiudizio dell’ingenuità medioevale è sempre rimasto negli idealisti, come Fichte, Hegel ed Husserl.

Come è noto, Cartesio credette di fondare la certezza della verità su di una base più salda e definitiva, rispetto al realismo tomista. Egli credette di ottenere questo risultato accantonando la testimonianza dei sensi, che per lui non era affidabile. Invece il realismo tomista parte proprio dalla testimonianza dei sensi, che per Tommaso, sono la facoltà che per prima, inizialmente ed originariamente, ci mette a contatto con la realtà nella forma delle cose esterne sensibili.

Se il senso sbaglia, osserva l’Aquinate, se ne accorge da sé e si corregge. Invece Cartesio non riuscì a superare il dubbio circa la veracità del senso e pensò di cercare un’altra fonte di certezza e di verità, credendo di trovarla nel famoso cogito, l’autocoscienza di sé pensante. Ma il cogito tagliò i ponti con le cose sensibili esterne. Come fare adesso per raggiungerle? Il senso comune è convinto della loro esistenza e conoscibilità. Ma come esserne certi?

Cartesio credette di trovare questa certezza e il ponte per raggiungerle in quella che egli riteneva essere l’idea innata di Dio, il quale, nella sua veracità ed affidabilità, ci assicura che quelle idee che abbiamo di quelle date cose, corrispondono veramente alle cose in se stesse. Cartesio mantiene quindi la preoccupazione realistica di ammettere le cose esterne.

Ma ormai il realismo è minato da un tarlo che lo distruggerà, perché l’idea per Cartesio non è più ricavata dalla realtà esterna, come per Tommaso, ma è la realtà che è affermata in base all’idea, che quindi diventa l’oggetto primo dell’intelletto al posto dell’ente esterno. Da qui il termine «idealismo». E ciò vale per conseguenza anche per la questione dell’esistenza di Dio.

Dio per Cartesio esiste in sé fuori di me, come già ammetteva il realismo. Ma adesso con Cartesio so che esiste non perchè, partendo dai sensi, ho applicato alle cose il principio di causalità, ma perchè, avendo l’idea innata di Dio, da questa stessa idea perfettissima io ricavo la certezza della sua esistenza.

Insomma, la coscienza è chiusa nelle sue idee, perché non può servirsi dei sensi che di per sé ingannano. D’altra parte Dio mi garantisce che li posso usare, ma niente di più: non mi conducono a Lui, e del resto io so già che Egli esiste in forza della idea innata di Dio.

Ma ecco allora che se da una parte lo spirituale mi si racchiude nell’orizzonte della mia coscienza, e diventa un puramente ideale, il sensibile, bloccato verso lo spirito, si chiude in se stesso e diventa sensuale o, con linguaggio paolino, diventa carnale. Con tutto ciò l’idealista mantiene, nonostante questo suo evidente fallimento, un tono di superiorità e di sussiego nei confronti del realista. Egli assume il tono dell’adulto che giudica il bambino che crede nella befana e in Babbo Natale. Non è un tono di condanna o disapprovazione, ma di indulgenza o di accondiscendenza o di compatimento.

Anche l’idealista, peraltro, quando gli conviene, come quando sono in gioco interessi materiali, non ha difficoltà a valersi dell’impostazione del realismo, purchè però con esso non si pretenda di fare gnoseologia, metafisica, morale, filosofia o teologia, poiché non si capirebbe nulla della dignità dell’«essere», dell’«io», del «soggetto», del «pensiero», dello «spirito», della «coscienza» e della «libertà».

Husserl, per esempio, dice che egli non giudica falso l’«atteggiamento naturale» (cioè il realismo). Dice però che chi vuol veramente fare filosofia deve «sospenderlo» ed assumere l’«atteggiamento fenomenologico», per il quale il mio io empirico appare come la manifestazione sensibile della mia egoità come autocoscienza originaria ed assoluta, esplicitazione del cogito cartesiano.

Ma in realtà, come ha osservato giustamente Heidegger, Cartesio è ricascato nell’antico soggettivismo protagoreo, dell’uomo «misura di tutte le cose». Cartesio in certo modo è stato, come ha notato il Gilson, una ripresa estremizzata dell’interiorismo agostiniano, come lo era stato prima di lui Lutero. Ma questi è meno pericoloso di Cartesio, perché Lutero resta un realista, come in fondo lo era Agostino secondo l’impostazione biblica: Dio esiste effettivamente ed oggettivamente davanti a me, come un Tu, anche se Egli è in me. Invece per Cartesio Dio è una mia idea innata, per cui Dio in Cartesio l’idea di Dio perde la sua oggettività e diventa una pura idea apriori del soggetto. Così si spiega il Dio kantiano «supremo ideale della ragione».

L’idealismo ha una forte carica metafisica, una forte percezione dell’essere, dell’unità, dell’ideale, del pensiero, dell’universale, dello spirito, della vita, della coscienza, del sapere, della libertà, dell’eterno, dell’assoluto, dell’infinito, del divino. Sono questi elementi, indubbiamente nobili in se stessi, che costituiscono il fascino che attira gli spiriti intelligenti ma superbi.

L’idealismo avanza energicamente l’istanza della verità e della certezza, ma nasconde un sostanziale scetticismo (il dubbio cartesiano) ed al contempo presunzione di sapere (il cogito cartesiano), per cui finisce per deluderla con la sua doppiezza e disonestà nel ragionare (la dialettica hegeliana). Assicura di cogliere la realtà (Husserl), deridendo il realista, ma se c’è uno che perde di vista la realtà per chiudersi nelle proprie idee, questi è proprio l’idealista.

Esistono oggi due forme di idealismo: una, di origine eraclitea, per la quale il pensare è l’essere in divenire, è storia. E questo è l’idealismo hegeliano, storicista, per il quale tutto diviene, idealismo ancora presente in Gentile. Si trova anche in Heidegger, per il quale il pensare è l’evento (Ereignis) o progetto (Entwurf) dell’essere uomo che s’interroga sull’essere come suo essere, come Dasein e la verità non è l’adaequatio intellectus et rei, ma è l’apparire o rivelazione dell’essere, il vero ontologico.

E c’è l’idealismo di origine parmenidea, per il quale il pensare coincide con l’essere inteso come essere pensato, essere necessario, sussistente, uno ed eterno. È l’idealismo eternalista di Emanuele Severino, preparato, seppure involontariamente[3], da Gustavo Bontadini, per il quale tutto è eterno e tutto è Uno. Per lui, contrariamente ad Hegel e a Gentile, l’agire e il divenire non esistono, andrebbero contro il principio di non-contraddizione. Essi non sono altro che il successivo molteplice apparire e scomparire dell’unico Essere.

Su questa linea è l’idealismo di Husserl, per il quale il pensare s’identifica con la Wesenschau, ossia con la visione dell’essenza nel senso di autocoscienza cartesiana assoluta. Husserl, come è noto, parla qui di «essere fenomenologico» come «correlato di coscienza». È questa la forma più pura e radicale, puramente spiritualista, perché l’altra che tira in ballo il divenire, è mista di materialità. 

L’idealismo, intendendo il pensiero come pensiero assoluto, concepisce il pensante come unico, ossia l’Io assoluto. Il pensare è l’essere e l’essere è uno. Stando così le cose, l’idealismo non riesce evidentemente a fondare metafisicamente la molteplicità dei pensanti finiti, uomini o angeli che siano.

Siccome tuttavia non può non riconoscere l’evidente esistenza della loro molteplicità, ma nel contempo vuol salvare il monismo dell’essere e del pensare, per l’idealista i molti pensanti non sono altro che momenti o manifestazioni empiriche molteplici nello spazio e nel tempo dell’attuazione dell’Assoluto. Il che vuol dire che ogni individuo è e si sente l’Assoluto, e nel contempo relativizza a sé gli altri individui, benchè anche loro siano convinti di essere l’Assoluto. Egli sa che l’Assoluto, ossia il Pensiero assoluto non può che essere uno solo. Ciascun idealista si considera l’Assoluto.

Ne viene che il rapporto sociale degli idealisti fra di loro è concepito come una reciproca relativizzazione dell’assolutezza dell’altro a favore della propria assolutezza. In tal modo l’idealista evita la molteplicità degli Assoluti. Ognuno ritiene di essere lui il vero assoluto, mentre gli altri ne sono solo un’apparenza empirica ed effimera.

La condotta dell’idealista 

Per l’idealista l’essere è pensiero, tutto è pensiero, tutto si riduce a pensiero. Materia, divenire, azione, storia, volontà, vita, mondo, umanità, Dio, cielo, terra sono pensiero. Esiste solo il pensiero e precisamente, come diceva Gentile, l’atto del pensare. Allora però ciò vuol dire che pensiero è tutte quelle cose. Se la materia è spirito, allora lo spirito è materia. Idealismo e materialismo si toccano.

La gnoseologia idealista è tutto un giocare sull’equivoco. Parlando dell’idea non si capisce se è quella umana o quella divina. È tutta una confusione prodotta ad arte per dare all’uomo l’illusione di possedere un pensiero e un potere divini, fingendo di riconoscere i limiti dell’umano.

Parlando in Cartesio dell’autocoscienza, non si capisce se è quella umana o quella divina. Parlando in Kant della ragione non si capisce se è quella umana o quella divina. Parlando un Fichte dell’io non si capisce se è quello umano o quello divino. Parlando in Schelling del soggetto, non si capisce se è quello umano o quello divino. Parlando in Hegel dello spirito o del sapere, non si capisce se sono quelli umani o quelli divino. Parlando in Gentile del pensiero, non si capisce se è quello umano o quello divino.

Alcuni come Maréchal o Rahner – i cosiddetti «tomisti trascendentali», come vedremo in questo saggio - arrivano al punto di sostenere che anche San Tommaso in fondo era un idealista e che il suo realismo era soltanto un espediente pedagogico e un’accondiscendenza al senso comune per purificare ed elevare anagogicamente la mente ingenua al livello dell’autocoscienza assoluta e del puro pensiero.

La gnoseologia idealista attribuisce all’uomo ciò che appartiene a Dio ed attribuisce a Dio la limitatezza dell’umano. Miete successo tra gli spiriti tentati alla superbia e all’ipocrisia e senza dirlo apertamente, ma lasciandolo chiaramente intendere, vuol convincere l’uomo di essere Dio, secondo le mire della gnosi.

Nel contempo, per scrollarsi di dosso il giogo della legge divina, aspirando ad una falsa libertà. abbassa la nozione di Dio all’umano, magari col pretesto dell’«Incarnazione», al fine di farsi giudice e dominatore del divino secondo le mire della magia o più semplicemente del libertinismo e dell’individualismo. Non pone confini tra l’umano e il divino, ma passa disinvoltamente dall’uno all’altro come fosse facoltà dell’uomo elevarsi da sé a volontà al divino e l’uomo fosse un Dio che si abbassa all’umano.

Il fine è quello di far ruotare tutto attorno all’io. Tutto nell’io, tutto per l’io, tutto relativo all’io, tutto risolto nell’io, tutto è ideato e pensato dall’io,  tutto è deciso dall’io, tutto è prodotto dall’io, tutto è espressione dell’io e dominato dall’io. Nulla al di sopra e al di fuori dell’io, nulla senza l’io, tutto immanente all’io. È la filosofia della tracotanza e dell’egocentrismo.

Per questa sua concezione dell’io, l’idealista non ha la percezione del tu umano o divino, che gli sta davanti. Non è capace di un vero e proprio rapporto interpersonale o sociale, perché per lui, come per Fichte, è l’io che all’interno di se stesso, pone il non-io. L’altro, sia esso il prossimo o Dio, per lui, non è una realtà esistente indipendentemente da lui, ma un’idea della sua mente, posta dalla sua mente e finalizzata quindi a lui.

Ne viene la conseguenza sul piano sociale che l’altro, per lui, sia uomo o sia Dio, e quindi il bene comune, non hanno una realtà oggettiva indipendente da lui, ma essendo posti da lui, sono funzionali a lui. Ne viene, sul piano morale, che l’idealista non concepisce affatto un suo agire che non abbia come fine supremo il proprio interesse o successo personale, dato che lui è l’Assoluto e tutto deve servire all’Assoluto.

Del fatto che pure gli altri idealisti si considerino a loro volta l’Assoluto, egli se ne infischia. L’importante per lui è prevalere su di loro ed utilizzarli per i suoi scopi, finchè gli riesce, e comunque condurre contro di loro una guerra spietata (la «dialettica»), così come facciamo guerra a un nemico che vuol sostituirsi a noi. Famose sono rimaste le polemiche fra Kant e Fichte, fra Schelling ed Hegel, fra Hegel e Schopenhauer, fra Hegel e Jacobi, o i contrasti di Gentile con Hegel o fra Croce e Gentile: tutte liti in famiglia, ma senza esclusione di colpi. 

Se io infatti sono l’Assoluto, non c’è spazio per un altro Assoluto. Così avviene che gli idealisti davanti alla società danno mostra di formare una corrente compatta ed autorevole, al fine di imporsi nella società; ma appena possono si rifanno le scarpe, come si suol dire, gli uni con gli altri, pur restando tutti fermi nei medesimi errori teoretici

C’è inoltre una dottrina metafisica che è per l’idealista come fumo negli occhi, perché fa saltare tutti i suoi piani e svela tutte le sue imposture, e questa dottrina è quella della creazione. Essa è come una pietra d’inciampo perché s’incunea tra Dio e il mondo, mandando in fumo il panteismo ed affermando in modo perentorio la distinzione fra il pensiero e l’essere, in modo tale che l’idealista vede dissolversi le sue belle astrazioni campate per aria ed è chiamato dalla realtà materiale a render conto davanti al suo tribunale, dal quale egli vorrebbe sfuggire atteggiandosi a vate e mistagogo dello spirito e dell’Idea, quando poi in realtà, col suo ridurre l’essere al pensiero, finisce per ridurre il pensiero all’essere materiale.

La dottrina della creazione suppone l’accettazione del principio di causalità efficiente e motrice, e quindi la distinzione dell’ente in potenza ed atto, nonché materia e forma. Invece l’idealismo pretende di spiegare il divenire e la storia con semplici schemi gnoseologico-logici, per esempio l’essere-apparire in Severino, la dialettica in Hegel. La creazione, per loro, non è altro che l’essere che appare come empiria o l’essere dialettico che si fa storia.

Severino crede di rispettare il principio di non-contraddizione negando il divenire e il contingente. Hegel crede di salvare il divenire e la storia col principio dialettico di contraddizione. Ma l’uno e l’altro svuotando la materia nel pensiero, finiscono per svuotare il pensiero nella materia.

Il filosofo idealista ha inoltre un altissimo, spropositato concetto del suo filosofare e di se stesso. Egli infatti non ammette che il filosofo possa mai avere dubbi, incertezze, formulare semplici ipotesi, commettere errori, correggersi, cercare una verità ignota, ma si considera come un’apparizione e uno svelamento definitivo e assolutamente sicuro del pensiero assoluto, il vate e il sacerdote comunicatore all’umanità nei secoli e in eterno della verità assoluta da lui direttamente veduta in forma globale, ineffabile e preconcettuale.

La filosofia è certamente il saper più alto della ragione, soprattutto nel suo esito metafisico e teologico, ma essa sale ad un più alto sapere lasciandosi illuminare dalla superiore verità rivelata accolta nella fede, dalla quale provengono insegnamenti che la perfezionano nel suo campo e fanno salire la ragione a conoscenze divine, che mai la ragione avrebbe potuto raggiungere se non fossero provenute dalla parola di Cristo per il tramite della Chiesa.

Filosofare non è sempre quel beato viaggio celeste del quale parlano gli idealisti, ma a volte può comportare un sofferto travaglio dello spirito, pressato da angosciosi problemi, vedi quella Angst e quella Sorge, delle quali parla Heidegger, o può comportare «quella sottile astuzia, della quale parla S.Paolo, secondo l’inganno degli uomini, che tende a trarre nell’errore» (cf Ef 4,14).

È noto peraltro che l’idealista, soprattutto a partire da Kant, non ammette la possibilità che la ragione umana riceva una rivelazione da Dio, sia perché Dio è una semplice idea della ragione, sia perchè la ragione umana è per sé divina, per cui non ha da imparare nulla da nessuno, ma solo da se stessa guardando nel mistero preconscio o subconscio ed ineffabile dell’autocoscienza o attingendo all’esperienza trascendentale apriorica ed originaria del sé, dell’essere e di Dio.

Per questo gli enunciati fondamentali dell’idealismo, come per esempio l’identità del pensare umano e del pensare divino o del pensiero identico con l’essere, sono proclamati in tono solenne e commosso come fossero verità divinamente rivelate o definizioni dogmatiche o verità di per sé note ed evidenti, non bisognose di essere dimostrate.

Da qui il tono spesso oracolare, emozionato, entusiastico e non argomentativo del filosofo idealista nel rivelare la verità del Pensiero assoluto. Interessante è l’uso del termine «celebrare», usato soprattutto da Gentile preso dalla liturgia, quasi fosse il filosofo il sacerdote della dèa Ragione. Per questo, per converso, chi osa contraddirlo, è considerato un profanatore, un empio e un sacrilego o, bene che vada, è considerato un subnormale, che osa opporsi alla rivelazione della verità assoluta.

Questo atteggiamento da iniziatore ai divini misteri fa pensare che l’idealista sia un sacerdote mancato e manifesta che quando egli è sacerdote, strumentalizza il suo ministero per far passare come Parola di Dio le sue idee, comportandosi da perfetto clericalista.

Le omelìe delle sue Messe sembrano astratte lezioni di scuola. Le sue lezioni di scuola sembrano l’annuncio della Parola di Dio. Abbassa la religione a filosofia e sacralizza la sua filosofia come fosse religione, secondo quanto Hegel stesso ha esplicitamente teorizzato ed eseguito.

E del resto, lo stesso hegeliano Gentile, da ministro della pubblica istruzione durante il fascismo, elaborò una riforma della scuola e dell’università, tuttora vigente, nella quale la religione era ammessa ai licei ma non all’università. E ciò in ottemperanza alla dottrina fascista, che non era altro che un’applicazione del concetto hegeliano dello Stato. Ne risultava, secondo il modulo hegeliano, che la disciplina principe all’università doveva essere la filosofia e naturalmente la filosofia di Hegel.

Aggiungiamo che per il suo atteggiamento assolutista all’idealista non tollera di essere criticato. Si comporta in maniera ancor più dura ed intransigente dell’autorità ecclesiale in occasione della diffusione di qualche eresia. Alle critiche, anche le più fondate, reagisce con l’insulto e il disprezzo, considerandole calunnie o diffamazione o scemenze. I suoi seguaci, fanatizzati dalla sua abile oratoria, lo appoggiano in questa reazione scomposta, non usando controargomenti, perché non li hanno, ma calunniando e diffamando l’avversario, non importa chi egli sia, potrebbe essere il più fedele discepolo di San Tommaso o del Magistero della Chiesa.

Fine Prima Parte (1/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 8 marzo 2022


Papa Francesco ha più volte denunciato l’avanzata dell’idealismo, consistente, come egli dice, nella negazione del primato della realtà sull’idea.

Papa Francesco, oltre a riprendere la tradizionale condanna dell’idealismo, ha avuto la felicissima ed opportunissima idea pastorale di condannare anche lo gnosticismo, cosa finora mai fatta dal Magistero pontificio.

Quello che affascina i moderni nel pensiero idealista è l’apparenza di essere un pensiero critico, che supererebbe l’ingenuità del realismo medioevale. Sarebbe la cosiddetta «filosofia moderna» nata da Cartesio, la quale tutti noi oggi, a sentire gli idealisti, oggi i modernisti, dovremmo accogliere per essere «moderni», così come oggi usiamo il trattore e non più l’aratro, l’automobile e non più il calesse, l’aereo e non più la nave a vela, i capelli naturali e non più la parrucca. 

 

L’idea per Cartesio non è più ricavata dalla realtà esterna, come per Tommaso, ma è la realtà che è affermata in base all’idea, che quindi diventa l’oggetto primo dell’intelletto al posto dell’ente esterno. Da qui il termine «idealismo». E ciò vale per conseguenza anche per la questione dell’esistenza di Dio.

La dottrina della creazione suppone l’accettazione del principio di causalità efficiente e motrice, e quindi la distinzione dell’ente in potenza ed atto, nonché materia e forma. Invece l’idealismo pretende di spiegare il divenire e la storia con semplici schemi gnoseologico-logici, per esempio l’essere-apparire in Severino, la dialettica in Hegel. La creazione, per loro, non è altro che l’essere che appare come empiria o l’essere dialettico che si fa storia.

Immagini da internet


[1] Ho già trattato questo argomento più di vent’anni fa in due puntate in Divinitas: Pensare il pensiero. Considerazioni sulla dignità, le funzioni e i limiti del pensiero, parte prima, III, 2000, pp.279-300; parte seconda, I,2001, pp.43-72. Ho pensato di riprendere l’argomento con l’aggiunta di nuove considerazioni di carattere critico nei confronti di posizioni idealistiche e materialistiche oggi diffuse.

[2][2] Vedi il mio recente articolo Karl Rahner secondo Giorgia Salatiello.

[3] Involontariamente, in quanto Bontadini, benché partisse da Parmenide, si rifiutò di trarre da lui, come fece Severino, le estreme conseguenze ateo-panteistiche che tutto è uno ed eterno, ma, da teista cattolico qual era, volle trarre argomento proprio dalla tesi parmenidea della contradditorietà del divenire per affermare l’esistenza di Dio, senza il quale la contraddizione sarebbe insanabile. Il suo pensiero, preparato da Mons. Amato Masnovo all’Università Cattolica di Milano, fu seguito dalla filosofa tomista Sofia Vanni Rovighi. È un argomento che prescinde dal divenire e ragiona soltanto sulla base della causa formale e del principio di non-contraddizione. Esso però non tiene conto della causa efficiente e quindi rischia di non comprendere il concetto di creazione come productio totius entis ex nihilo.  Riduce l’essere all’essenza e quindi rischia l’idealismo.

4 commenti:

  1. Caro Padre Giovanni,
    davvero molto bello e importante quanto ha scritto in questo primo articolo sul tema “Dignità e limiti del pensiero”.
    Mi consenta un’unica perplessità.
    Lei ha scritto:
    “si deve dire che in fondo l’istanza gnostica in se stessa non è sbagliata: non è altro che il bisogno di una piena conoscenza di Dio, che non è altro che l’istanza della teologia e di ogni mente umana conscia della sua dignità. Non è altro che l’istanza suprema del pensiero”.
    Se per “piena conoscenza” (di Dio) si intende la maggior conoscenza umanamente possibile, non si può che convenire con la sua affermazione.
    E però non le sembra, Padre Giovanni, che un’interpretazione puramente letterale di “piena conoscenza di Dio” potrebbe risultare eccessiva, ovvero sconfinare nella pretesa di comprendere in toto il mistero divino?
    Mentre invece, come lei stesso ha giustamente scritto (https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/sul-concetto-rahneriano-di-dio-seconda.html):

    “la vera conoscenza cristiana del mistero, che poi è la teologia e la dogmatica, è la possibilità che ci è data, grazie alla fede, di capire concettualmente qualcosa del mistero, la cui intellegibilità supera del resto infinitamente la capacità di comprensione dei nostri concetti”.

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    1. Caro Bruno,
      comprendo la sua difficoltà ed ammetto che la mia espressione potrebbe prestarsi all’equivoco. Però vedo che lei l’ha interpretata nel senso giusto. Infatti dovrebbe essere chiaro da tutto il contesto del mio discorso che io per “piena conoscenza di Dio” intendo quella conoscenza dalla quale noi, sia come filosofi che come credenti, possiamo entrare in possesso.
      Quindi l’aggettivo “piena” non è riferito all’oggetto divino, che è infinito, per cui, per ipotesi assurda, noi potremmo comprenderlo esaustivamente nella sua pienezza, ma si riferisce alla pienezza del nostro conoscere come tale, nel senso del raggiungimento della piena attuazione della nostra forza e capacità intellettuale. Solo Dio conosce pienamente Se Stesso.

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  2. Ho poi trovato particolarmente interessante questa sua frase:

    “se da una parte lo spirituale mi si racchiude nell’orizzonte della mia coscienza, e diventa un puramente ideale, il sensibile, bloccato verso lo spirito, si chiude in sé stesso e diventa sensuale o, con linguaggio paolino, diventa carnale.”

    Con essa, Padre Giovanni, lei porta alla luce un aspetto, forse in generale poco trattato, delle conseguenze, sul piano etico, che comporta la svalutazione della conoscenza sensibile, tipica dell’idealismo.
    Se intuisco correttamente il suo pensiero, nel momento in cui si afferma che l’unica vera conoscenza è la dialettica concettuale di un pensiero che non necessita adeguarsi alla realtà esterna, ne segue che tutto ciò che attiene al sensibile, e quindi anche al corporeo, perde di rilevanza e dunque non ha più nemmeno senso, chiedersi se si debba indulgere ai richiami della carne piuttosto che resistergli…

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    1. Caro Bruno,
      lei ha toccato un punto paradossale dello spiritualismo idealista, che ha origine da Cartesio ed arriva ad Hegel, per il quale il reale coincide col razionale e cioè con il concetto, per cui, per Hegel, la cosa coincide col concetto della cosa.
      Nella visione idealistica sembra a tutta prima che l’essere materiale si risolva nel pensiero. Infatti, per Gentile, tutto è pensiero. A questo punto uno si può domandare: ma, allora, che ne è per l’idealista della materia e del piacere sensibile? Egli a tutta prima fa la figura dell’angelo del tutto indifferente alle cose materiali. Ma non è affatto così.
      Se noi riflettiamo attentamente sulle conseguenze dell’antropologia cartesiana, vediamo che Cartesio pone due antropologie: una è quella della res cogitans e l’altra è quella della res extensa. Quindi in Cartesio abbiamo già in nuce l’opposizione tra l’antropologia idealista e l’antropologia materialista. Ma il bello qui deve ancora arrivare, perché, come è noto, dall’idealismo cartesiano viene fuori l’idealismo hegeliano della coincidenza del pensiero con l’essere e quindi, in ultima analisi, del pensiero con la materia, perché l’essere evidentemente è anche l’essere materiale.
      Questa materializzazione del pensiero, che paradossalmente è lo sbocco della gnoseologia hegeliano, fu ben notata da Marx, il quale, come è noto, capovolse la dialettica hegeliana, che faceva dipendere la materia dallo spirito. Hegel invece, applicando lo stesso principio dialettico hegeliano, ebbe la possibilità di affermare la materialità del pensiero.
      Quali sono le conseguenze etiche di questa gnoseologia? Sono abbastanza evidenti. Se con Hegel abbiamo il disprezzo gnostico della materia, con Marx appare il retroscena della dialettica hegeliana e cioè la possibilità di assolutizzare il piacere materiale a danno del piacere spirituale. In tal modo l’etica hegeliana, messa in luce nelle sue conseguenze da Marx, pone l’uomo in un duplice estremismo: o il disprezzo della materia, in nome dello spirito, o il disprezzo dello spirito, in nome della materia.
      In poche parole: chi confonde la materia con lo spirito finisce per confondere lo spirito con la materia. Queste sono le conseguenze ultime della antropologia dualistica cartesiana, che offre la possibilità di scegliere tra un’etica idealista ed un’etica materialistica e di passare dall’una all’altra.

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