Dio non esiste ma insiste. La teologia di John Caputo - Seconda Parte (2/2)

 

Dio non esiste ma insiste.

La teologia di John Caputo

Seconda Parte (2/2)

 Dio è quell’ente la cui essenza è quella di essere

Se, come dice la Bibbia, «Dio ha creato tutte le cose per l’esistenza» (Sap 1,14), evidentemente non potrà essere che il sommo ente, primo ente ed ente supremo. Cristo dice nell’Apocalisse. «Io sono il Primo e l’Ultimo» (Ap 1,17). «Io sono il Principio e la Fine» (Ap 21,6 e 22,13). Dio dà principio e pone fine a tutte le cose.     

Dio è la causa prima e il fine ultimo. «Il Figlio sostiene tutto con la potenza della sua parola» (Eb 1,3). Fa essere e mantiene nell’esistenza tutte le cose. Senza questo sostegno cadrebbero nel nulla. Dà alla terra le sue fondamenta[1].

Dio stesso nella Bibbia rivela a Mosè il proprio «nome», ossia la sua essenza «Io sono Colui Che È. Io Sono mi ha mandato a voi» (Es 3,14). Mosè sa già che Dio esiste, sa che è un Dio personale, un Dio che gli parla e al quale può parlare. Questa coscienza che la Bibbia ha di Dio come Essere assoluto, infinito e sussistente, si riflette anche nei Salmi: «Da sempre e per sempre Tu Sei, Dio» (Sal 90, 2); «Da sempre Tu sei» (Sal 93,2).

Estremamente importanti per la questione dell’esistenza di Dio, dell’essere divino, della sua natura e della personalità divina sono le parole di Cristo dove egli attribuisce a sé il nome divino di Es 3,14: «Se non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati» (Gv 8,24); «Quando avrete innalzato il figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono» (Gv 8,28); «Prima che Abramo fosse, Io Sono» (Gv 8,58).

Se Dio è lo stesso Essere sussistente, vuol dire che in Lui non c’è nessuna potenzialità, cioè la sua essenza non è un poter essere rispetto al suo atto d’essere. Se io sono Giovanni, se il mio atto d’essere è essere Giovanni, ciò è dovuto al fatto che la mia essenza è il poter essere Giovanni. Ora però l’essere sussistente non lo si può concepire a questo modo, come l’attuazione di una potenzialità presupposta, ad esso precedente, perché se no non potrebbe essere quell’essere perfettissimo, infinito, sommo e totale, che è atto puro di essere ed è solo essere.

Un conto è dunque l’essere in atto, l’esistere, attuazione nella realtà della possibilità di esistere di un ente, e un conto è l’essere o essere come atto, l’atto di essere, attuazione di una potenza, che è l’essenza. Così io posso dire: io esisto, perché il mio essere è attuazione della mia essenza; ma non posso dire «io sono»: questo lo può dire solo Dio, il cui essere è la sua stessa essenza, dove l’essere in atto, l’esistere attuale coincide con l’essere come atto, che è puro atto d’essere senza potenza.

Il predicato dell’esistere in Dio come nella creatura non ha bisogno del predicato nominale. Invece il predicato dell’essere in Dio può stare da solo: Dio è, perché qui si fa riferimento all’essere totale ed illimitato; nella creatura ha bisogno di un predicato nominale, perché qui l’essere è limitato da una particolare essenza.

Una nozione che Caputo trascura è quella della sussistenza (subsistentia, ypostasis). Il sussistere è l’esistere in sé, che è proprio della sostanza, mentre l’esistere proprio dell’accidente è l’inerire. Ora, da ciò che ricaviamo da Es 3,14, impariamo che il sussistere non è proprio soltanto di un’essenza, di una forma o di una sostanza, cose normali in questo mondo, ma può appartenere anche all’essere. Ma ciò è proprio esclusivamente di Dio e lo caratterizza nella sua propria essenza o natura.

Ora nella creatura l’esistere o essere non sussiste, cioè non fa parte della sostanza o dell’essenza sussistente come in Dio, ma inerisce come un accidente, giacchè l’essenza della creatura è pensabile e completa come semplice possibile o creabile anche senza annettervi l’esistenza reale, anche se adesso essa non esiste più o esisterà in futuro.

Da notare inoltre che l’Essere sussistente non può che racchiudere in sé in una sola singola sostanza spirituale infinita la totalità dell’essere e l’attualità, l’essere in atto di tutte le possibili perfezioni. Dio è l’Essere perfettissimo, insuperabile e intrascendibile. È ciò di cui non si può immaginare nulla di maggiore. Gli enti posseggono un essere per partecipazione secondo diversi gradi, così da richiedere l’esistenza di un grado massimo di essere, che è quello dell’essere divino, che è non è un semplice ente, che ha l’essere, ma è lo stesso Essere per sé sussistente. Si possono forse cogliere tutti questi valori divini senza la metafisica?

Così Mosè, per rendersi credibile e persuasivo presso il popolo al quale Dio lo manda per liberarlo dalla schiavitù egiziana, chiede a Dio che gli riveli il suo nome proprio di Dio d’Israele, Dio degli dèi, il Signore dei signori, il nome che lo distingue dagli dèi degli altri popoli, un nome che faccia capire che il Dio d’Israele è nel contempo assoluto, altissimo, potente e misericordioso, al di sopra di tutti gli altri dèi in modo che il popolo abbia modo di verificare che si tratta proprio del vero Dio, il Dio di Israele, di Abramo, di Isacco e di Giacobbe.

Da queste considerazioni appare evidentissima l’importanza della metafisica per sapere chi è Dio. Senza la nozione di ente, esistenza, essenza, essere, sostanza, natura e persona è impossibile sapere chi è Dio. L’attributo dell’incondizionatezza è giustissimo, ma a patto che lo si interpreti come il fatto che Dio stesso, ossia la sua esistenza, la sua essenza, il suo essere, la sua sostanza, la sua persona sono incondizionati. Per questo il Concilio Vaticano I ha sentenziato che Dio è «una singularis, simplex omnino et incommutabilis substantia spiritualis»  (Denz.3001).

Aggiungiamo che Caputo sembra non comprendere che se Dio non esiste, abbiamo l’ateismo: «Lo stolto pensa: Dio non esiste» (Sal 53, 2). Non c’è via di mezzo tra l’esistere e il non-esistere. Dunque come fa ad ammettere l’esistenza di Dio? Come fa a dire che «Dio può essere identificato come lo stesso incondizionato assumendo così un profilo non più decostruibile»? Non serve a nulla dire che Dio è l’incondizionato e che chiama l’uomo a sé e all’amore, se poi Dio non esiste. Si tratta di un Dio immaginario.

A nulla serve, al lato pratico, definire un’essenza, anche divina, se questa essenza non ha l’esistenza. Il problema di Dio tocca la realtà, non l’immaginazione o il semplice concetto. Allora sì che mi creo un idolo e non certo con un concetto metafisico di Dio.

Se per ente intendiamo ciò che ha l’essere in un’essenza o ciò che ha l’essenza in atto d’essere, è vero che Dio non è ente in questo senso e in tal senso non esiste. Tuttavia, occorre tener presente che tutto ciò che pensiamo lo pensiamo riconducendolo alla nozione dell’ente, che è la più vasta, universale e comprensiva che esiste e possa esistere, nozione sotto la quale e nella quale tutte le altre si risolvono, giacchè al di fuori dell’ente non c’è che il nulla e lo stesso nulla lo pensiamo come se fosse essere.

Dio non è ente nel senso suddetto perché la sua esistenza è il suo essere sono intrinseci alla sua essenza. Come risulta da Es 3,14, Dio è lo stesso essere sussistente, è Colui che È. Dio non ha l’essere come noi e come ogni ente creato, ma Dio è l’essere per essenza.

Dal che consegue che è impossibile pensare o conoscere Dio se non concependolo come ente esistente, anche se naturalmente col mettere l’ente divino sotto la nozione trascendentale dell’ente non intendiamo dire che Dio sia un ente categoriale sottostante all’ente, così come un ente specifico è compreso da un genere. Allora sì che avrebbe ragione Caputo col dire che il concetto mette Dio nella prigione della nostra limitatezza. Si tratta invece  di tener presente che Dio come ipsum Esse trascende l’ente così come noi comunemente intendiamo l’ente riferito al finito.

Da che cosa dipende il disprezzo della metafisica?

Non comprendono l’importanza della metafisica e non ne capiscono neppure i concetti gli uomini, il cui intelletto è offuscato o reso ottuso dalle passioni e dall’attaccamento alle cose materiali. Essi sono incapaci di astrarre da esse per elevare lo sguardo al puro intellegibile, che è l’ente come tale, che può essere materiale come spirituale, creato o increato. 

Per loro la metafisica non ha senso, perché hanno senso solo le cose materiali, che cadono sotto i sensi. Per loro l’astrazione metafisica non immerge nella realtà, ma al contrario allontana dal reale per far vagare la mente tra le nuvole pascendosi di pure idee senza fondamento reale.

Ci sono altri, per esempio scienziati, psicologi o antropologi, che pure sono realisti e cercano la verità, i quali disprezzano la metafisica per un semplice equivoco, ossia perché è stata loro presentata male[2], perché si è loro fatta passare per metafisica una costruzione ideologica fatta di astrazioni senza appiglio o fondamento nella realtà esterna oggetto dei sensi.

La metafisica come la intende Cartesio non è vera metafisica, ma sofistica e astratto spiritualismo dualista, che porta all’idealismo e da qui al panteismo e all’ateismo. La metafisica che combatte Kant viceversa è quella giusta, realista, che egli vuol sostituire con una metafisica su base cartesiana. È ovvio che il realista al quale la metafisica viene presentata a questo modo, rifiuta la metafisica, ma solo perché non sa qual è la vera metafisica.

La fede dà certezza e non ci lascia nell’orizzonte dell’opinabile

Cristo dice: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (Mt 24,35). Cristo ha parole di vita eterna, che quindi non possono non rimanere in eterno. Il concepire Dio come evento gioca a Caputo un brutto scherzo. L’evento è qualcosa di temporale e contingente che viene e passa. L’evento è connesso con ciò che si genera e si corrompe, inizia e finisce, viene e se ne va. L’evento è l’atto accidentale e contingente di un agente temporale. Possiamo noi ridurre Dio a qualcosa del genere?

In questo storicismo ne va di mezzo la nozione della verità, della certezza, del sapere, della fede e della teologia. «Tutte le credenze – dice Caputo - sono costruzioni. Tutto ciò che è costruito è decostruibile». Non si dà mai nulla di definitivamente accertato, ma ogni affermazione, per quanto categorica, può essere rimessa in discussione. Non si può mai dar nulla per scontato. Ciò che era vero ieri, oggi è falso e ciò che era falso ieri oggi è vero. La Chiesa si illude di poter fissare dogmi immutabili. Ciò che crediamo oggi non ha lo stesso senso di ciò che credevamo ieri. Certe cose alle quali credeva Cristo oggi non valgono più. La verità non è fissa ma evolve.

Per Caputo la «rivelazione divina non descrive le cose come realmente sono e in tal modo pone fine al conflitto delle interpretazioni. La teologia respinge ciò che si è detto non appena lo si è detto». Per lui dovere del teologo non è mantenere ciò che ha detto, ma a dire il contrario, perché è impossibile sapere con certezza come stanno le cose. Da qui la sua stima per la teoria il pensiero debole di Vattimo, secondo il quale il sentirsi certi è sorgente di violenza sugli altri. «Custodire l’ortodossia» è una presunzione e un sopruso e «controllare» chi è fuori o chi è dentro la Chiesa, «chi entra e chi esce», o giudicare o fissare chi ha ragione e chi ha torto vuol dire opprimere l’altrui libertà di pensiero.

 Da qui la teologia del «forse».

 

«Nasce così una teologia in cui la categoria dell’evento sostituisce quella dell’essere e della sostanza nel nominare il divino, un pensiero teologico debole in cui il nome “Dio” denota più una chiamata che una causalità, più una provocazione che un’entità determinata. Si tratta di una teologia del forse, che funziona come un trampolino di lancio per la follia dell’impossibile. Se una teologia forte insiste sulle categorie bipolari di teismo e ateismo, fede e incredulità, esistenza e inesistenza, vero e falso, la teologia debole si accontenta di molto meno. Giocata sul “forse” si concentra su piccole proposizioni, che non fanno cogliere Dio come oggetto di discussione, che deve essere appropriato e “creduto”, ma che lo segnalano come percepibile nella esperienza della vita».

La teologia di Caputo non mette in gioco alternative radicali, non si interessa al destino eterno dell’uomo, non considera nulla seriamente, non prende posizione. Non fa scelte, non prende impegni irrevocabili e definitivi, non ammette valori assoluti che diano senso a tutta la vita, non afferma mai niente in modo assoluto, si tiene a pari distanza dal vero e dal falso, dal bene e dal male, prende accordi sia con Dio che col diavolo. 

Non sembra dunque provocata e stimolata dalla prospettiva dell’eternità o dal pensiero dell’essere o dalla tensione al mistero santo o dal problema del peccato, ma semplicemente dall’«evento», per cui potremmo pensare all’evento televisivo o al campionato di calcio o dalla partita a scacchi. 

La verità di Caputo

Questo aspetto scanzonato di Caputo fa di lui un significativo esemplare del modernismo di oggi, dell’uomo carnale che avendo smarrito il rispetto, l’interesse e l’amore per la metafisica ed anzi disprezzandola, tuttavia mantiene, insopprimibile, il bisogno di un assoluto e di un incondizionato, avvertendo confusamente l’appello del divino e la vocazione al divino.

Essendo chiuso tuttavia il suo animo nella sua autoreferenzialità cartesiana e nel soggettivismo protagoreo, il modernista rifiuta di guardare al cielo e mantiene ostinatamente ed ottusamente lo sguardo fisso sulla terra. Egli, privo di una stella polare e tuttavia bisognoso di verità, oscillante fra la furbizia e la sincerità, servo di due padroni, raccoglie alla rinfusa con affannata ingordigia tutto quello che gli capita sottomano senza preoccuparsi della coerenza e dell’ordine, senza mai trovar pace e soddisfazione, ma sempre di nuovo deluso di quel che ha trovato.

Ciò tuttavia non basta a farlo riflettere, perché non si decide mai ad abbracciare la via sicura della metafisica, che gli procurerebbe quella verità assoluta che cerca e gli darebbe quella pace che gli manca.

Egli non ha, a sua stessa confessione, un agostiniano cor inquietum che trova la pace in Dio, ma è semplicemente un cor inquietum senza pace. Dio lo chiama, ma egli risponde? Con un cuore del genere come sarà possibile procurare la pace nella società, evitare le guerre o risolvere i conflitti?

L’animo di Caputo, stando a quanto riferisce Nardello, sembra diviso tra il fideismo luterano di Tillich e lo scetticismo decostruzionista di Derrida, prendendo alla rinfusa da Heidegger, Husserl, Vattimo, Meister Eckhart, Kierkegaard, Nietzsche e quant’altro.

È verissimo, come dice Caputo, che «l’esperienza religiosa dell’Incondizionato si dà nella prassi a favore dell’umanizzazione del mondo». È verissimo che Dio è «Colui che chiama». È verissimo che si tratta di una «chiamata alla quale possiamo o non possiamo rispondere». È verissimo che il nome di Dio corrisponde al nome di un evento, ad una chiamata e che «il regno di Dio si attua quando gli uomini rispondono all’appello di questo evento, cioè s’impegnano per umanizzare il mondo».

Ma allora, se tutto ciò è vero, ci crediamo sul serio? Vogliamo mettere in pratica quello che diciamo, trarne le conseguenze, vogliamo accettare le premesse, o vogliamo distruggere con le nostre mani ciò stesso che abbiamo costruito?

P.  Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 19 marzo 2024


Se Dio è lo stesso Essere sussistente, vuol dire che in Lui non c’è nessuna potenzialità, cioè la sua essenza non è un poter essere rispetto al suo atto d’essere.

Un conto è dunque l’essere in atto, l’esistere, attuazione nella realtà della possibilità di esistere di un ente, e un conto è l’essere o essere come atto, l’atto di essere, attuazione di una potenza, che è l’essenza.

Una nozione che Caputo trascura è quella della sussistenza (subsistentia, ypostasis). Il sussistere è l’esistere in sé, che è proprio della sostanza, mentre l’esistere proprio dell’accidente è l’inerire. Ora, da ciò che ricaviamo da Es 3,14, impariamo che il sussistere non è proprio soltanto di un’essenza, di una forma o di una sostanza, cose normali in questo mondo, ma può appartenere anche all’essere. Ma ciò è proprio esclusivamente di Dio e lo caratterizza nella sua propria essenza o natura.

Ora nella creatura l’esistere o essere non sussiste, cioè non fa parte della sostanza o dell’essenza sussistente come in Dio, ma inerisce come un accidente, giacchè l’essenza della creatura è pensabile e completa come semplice possibile o creabile anche senza annettervi l’esistenza reale, anche se adesso essa non esiste più o esisterà in futuro.

Immagini da Internet: Dio Creatore, Michelangelo



[1] Gb 38,4; Pr 3,19;8,29; Sal 89,14;102, 26;119,90; Zc 12,1; Eb 1,10.

[2] Esistono molte presentazioni della metafisica che non corrispondono a ciò che è veramente la metafisica, ne presentano un’immagine falsata e ingannevole, gradita agli idealisti e quindi la rendono odiosa agli amanti della verità. Per esempio: H. Bergson, Introduzione alla metafisica, Editori Laterza, Bari 1994; Gustavo Bontadini, Conversazioni di metafisica, Edizioni Vita e Pensiero, Milano 1995, 2 voll.; Karl Jaspers, Metafisica, Edizioni Mursia, Milano 1972; M. Heidegger, Che cosa è la metafisica? Edizioni Adelphi, Milano 2001.

2 commenti:

  1. Per me, l'esempio di Caputo, illustra l'eterna ricerca umana del voler valere nel quotidiano come persona, e qui anche come studioso. Tocca tutti, ma stupisce che certe vette e quindi clamorosi errori (come quelli che abbiamo appena letto) vengano proprio da teologi che dovrebbero invece sentirsi infinitesimamente piccoli davanti a Dio. Il tutto non é altro, secondo me, che l'antico peccato originale: mettere l'io (l'ego) al posto di Dio. Cosa che anche Lei ha ottimamente osservato alla fine.

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    1. Caro Alessandro,
      secondo me il caso di Caputo è un caso oggi frequente tra certi teologi, i quali danno una eccessiva importanza al problema del linguaggio, con la conseguenza che ce ne scapitano i contenuti.
      C’è una specie di mania di essere moderni nel linguaggio, col rischio di assumere certi modi espressivi grossolani, equivoci, impropri, i quali, invece di farti capire il contenuto, lo deformano. Per esempio, che senso ha definire Dio come evento? Lo so che è un termine di moda preso da Heidegger, che oggi va per la maggiore. Ma a che cosa serve un’operazione del genere, se poi si usa un termine assolutamente inadatto ad esprimere la natura divina? Quale teologia ne viene fuori? Non si rischia di raccontare delle favole, come avverte San Paolo?

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