Le prove della esistenza di Dio secondo Kant - Quarta Parte (4/4)

 Le prove della esistenza di Dio secondo Kant

Quarta Parte (4/4) 

Le possibili prove secondo Kant

Secondo Kant, quindi, tutti i possibili argomenti per la dimostrazione dell’esistenza di Dio – 1. quello ex motu (primum movens vel motor immobilis), 2. quello ex causa efficienti (prima causa vel ens primum), 3. quello ex contingentia mundi (ens necessarium), 4. quello ex gradibus entis (ens summum vel supremum), 5. quello ex finalitate mundi (finis ultimus vel summum bonum)[1] si riducono all’argomento ontologico di Sant’Anselmo ex essentia Dei ut id quo nihil maius cogitari potest.

E questo come mai? Perché Kant non è capace di prendere in considerazione il problema dell’essere e della causa dell’essere. Egli parla bensì di esistenza, ma si tratta dell’essenza, non dell’atto d’essere dell’essenza. Ora, siccome Sant’Anselmo parte dal concetto di Dio, ossia considera l’essenza di Dio, qui Kant si sente a suo agio; senonché, accorgendosi che Anselmo vuol concludere all’esistenza ed avendo un concetto solamente empirico di esistenza, oltre a sapere che essenza non vuol dire ancora esistenza (vedi il discorso dei cento talleri)[2], osserva giustamente che l’argomento di Anselmo non è dimostrativo perchè dà per scontato proprio ciò che vuol dimostrare, ossia che Dio esiste. Kant si accorge che Anselmo vuol dimostrare l’esistenza di un Dio che suppone già esistente, partendo dalla definizione della natura divina, la cui essenza coincide con l’esistenza.

Kant, quindi, non respinge la prova di Sant’Anselmo perché non rispetta il principio di causalità, perché per lui è impossibile dimostrare l’esistenza di Dio mediante l’applicazione del principio di causalità, ma perché Anselmo concepisce Dio come ente extramentale, mentre per Kant Dio è un ente ideale, di ragione. Invece il fatto che Anselmo concepisca Dio come id quo nihil maius cogitari potest a Kant va benissimo a patto che non lo si concepisca come ente extramentale ma come ente ideale. Di fatti questo concetto di Dio diventerà comune a tutti gli idealisti da Hegel a Gentile a Bontadini.

C’è da dire inoltre che Kant non capisce le prove dell’esistenza di Dio dall’ente mobile alla causa motrice e quella dall’ente efficientemente causato alla causa efficiente – quelle che egli chiama rispettivamente, in maniera mescolata e molto confusa, «prova cosmologica» e «prova fisico-teologica»[3], prova che con miglior traduzione è da chiamarsi «teleologica», ossia riguardante il fine, sicchè in quelle due prove Kant mescola la I, la II e la V via di San Tommaso. 

Questa incomprensione dipende dal fatto che Kant non possiede il concetto metafisico del divenire come passaggio dall’ente in potenza all’ente in atto e come trasformazione sostanziale nel caso degli enti composti di materia e forma, per cui la materia, restando la stessa, cambia forma sostanziale.

Questo difetto in Kant si nota anche quando parla del rapporto sostanza-accidente. Là infatti dove parla del mutamento della sostanza che si limiterebbe a cambiare accidente, trascura il fatto che anche la sostanza, quando è generabile e corruttibile, come la sostanza materiale, muta essa stessa dalla potenza all’atto o dall’atto alla potenza.

Kant conosce solo la differenza fra il possibile e l’attuale. Ma questa è una divisione che tocca solo l’essenza e trascura l’essere. Il passaggio dal possibile all’attuale non è ancora il passaggio dalla potenza all’atto: il passaggio dalla vita alla morte, per esempio, è un passare dal possibile all’attuale, ma non è un passaggio dalla potenza all’atto, il quale dice passaggio dal meno a più essere, dall’imperfetto al perfetto. Invece il morire è un passare dall’essere al non-essere, benché sia l’attuazione di una possibilità.

Il passaggio dunque possibile-attuale riguarda solo l’essenza, indipendentemente dal fatto di una crescita o decrescita nell’essere. È un passaggio sul piano delle idee o dei concetti, non sul piano dell’essere o del reale. Per questo nel campo dell’essere, o del reale esistente, bisogna distinguere, come fece Aristotele, il poter essere (dynamis o potentia essendi) dall’atto di essere (energheia o actus essendi). Invece la coppia possibile-attuale tocca solo il piano della pura intellegibilità o pensabilità, esista o non esista il soggetto del quale ci occupiamo.

Per questo occorre distinguere, come propone il Padre Fabro esplicitando il pensiero di San Tommaso, l’esse in actu – attuazione del possibile – dall’esse ut actus attuazione del poter essere. Il morire, per esempio, è l’attuazione di una possibilità, ma non l’atto di una potenza. Atto di una potenza è il passare da una vita inferiore a una vita superiore, il passare dal meno essere al più essere. Il migliorare, l’imparare, il lavorare, il progredire, il crescere, il perfezionarsi, l’aumentare sono tutti effetti del passaggio sì dal possibile all’attuale, ma comportano soprattutto passaggio dalla potenza all’atto.

È quando si è compreso tutto ciò, che allora la ragione si domanda: se l’ente esistente è una potenza attuata e se la potenza non passa all’atto se non c’è un atto che la attui, occorrerà ammettere un puro atto d’essere, un essere sussistente che la attui. E questo puro atto d’essere senza base materiale e senza poter essere, è Dio.

Il sistema kantiano, come tutti i sistemi idealistici a partire da Cartesio fino a Giovanni Gentile, non è interessato alla realtà, ma alle idee. Per questo ciò che ad esso interessa non è l’essere, il reale per eccellenza, ma l’essenza[4]. Quello che interessa gli idealisti è organizzare un perfetto, sistematico, ordinato ed unitario complesso di idee, e di sillogismi rigorosamente dedotto da una prima originaria idea (il cogito di Cartesio), badando non all’aderenza dell’ideale al reale, ma alla supposta validità assoluta dell’idea in se stessa. Per questo, per loro Dio non è il primum, supremum, realissimum ens, ma è la prima, suprema e realissima, reificata o ipostatizzata Idea della Ragione.

Leggendo le opere degli idealisti non abbiamo l’impressione che essi ci mettano a contatto con la realtà, ma di sfogliare un album di fotografie o di vedere un film alla TV. L’idealista non c’insegna come vedere la realtà, ma come lui la vede. All’idealista interessa che impariamo le sue idee. Se poi a queste idee non corrisponde la realtà, peggio per la realtà.

Quanto alla prova per i gradi dell’essere (IV via di San Tommaso), Kant parla bensì di un summum ens e di supremum ens, ma non riesce a giustificarlo metafisicamente, perché gli manca la nozione di partecipazione (esse per participationem ed esse per essentiam). E questo dipende dal fatto che gli manca la nozione dell’analogia dell’essere[5]. È infatti su questa base che si capisce la partecipazione, perché l’analogato inferiore partecipa della perfezione del sommo analogato.

Kant inoltre trascura la prova dall’ente come fine o dalla causa finale (V via di San Tommaso), benché egli, nella Critica del Giudizio, sembri in qualche modo approvarla mediante la ripresa del tema platonico del bello come buono e come fine disinteressato soprattutto nella versione del sublime, che rappresenta, come lo stesso Kant riconosce, un qualcosa di incommensurabile, che suscita la nostra ammirazione e commozione.

La prova mediante la ragion pratica

Kant afferma che l’analisi della legge morale conduce a stabilire la

«completezza necessaria della parte prima e principale del sommo bene» (non trascendente ma immanente all’uomo), «la moralità; e poiché questo problema non può essere risolto completamente se non in un’eternità, al postulato dell’immortalità. Questa stessa legge deve anche condurre alla possibilità del secondo elemento del sommo bene, cioè alla felicità proporzionata a quella moralità, con tanto disinteresse come prima, per semplice e imparziale ragione, vale a dire alla supposizione dell’esistenza di una causa adeguata a questo effetto, deve cioè postulare l’esistenza di Dio»[6].

«Dunque, la causa suprema della natura, in quanto dev’essere presupposta per il sommo bene, è un ente che mediante l’intelletto e la volontà è la causa (perciò l’autore) della natura, cioè Dio.  Per conseguenza il postulato della possibilità del sommo bene derivato dal mondo ottimo è nello stesso tempo il postulato della realtà di un sommo bene originario, cioè dell’esistenza di Dio. Ma era dovere per noi promuovere il sommo bene» (la massima perfezione umana), «e quindi è non solo un diritto, ma anche una necessità legata come bisogno col dovere, supporre la possibilità di questo sommo bene, il quale, avendo luogo soltanto con la condizione dell’esistenza di Dio, lega inseparabilmente la supposizione di questa esistenza con il dovere; ossia è moralmente necessario ammettere l’esistenza di Dio.

Qui si deve ben notare che questa necessità morale è soggettiva» (riguarda l’interesse del soggetto, sorge dall’io penso), «cioè un bisogno e non oggettiva» (non è fondata sulla pura verità oggettiva o speculativa), «cioè anche un dovere: poiché non vi può essere punto un dovere di ammettere l’esistenza di una cosa» (perché ciò riguarda semplicemente l’uso teoretico della ragione» (ciò che per me è bene non è detto che debba essere qualcosa di oggettivamente esistente, perché posso porlo io stesso con la mia volontà).

«Nemmeno s’intende con questo che sia necessario ammettere l’esistenza di Dio come principio di ogni obbligo in genere (poiché questo principio, come si è dimostrato abbastanza, si fonda soltanto sull’autonomia della ragione stessa)». (Infatti la legge morale non è un comando divino, anche se la si può immaginare come tale, ma è un semplice comando della ragion pratica).

«Al dovere qui appartiene soltanto di lavorare alla produzione e al promovimento del sommo bene nel mondo» (il progresso morale ed umano), «di cui quindi la possibilità può essere postulata, ma che la nostra ragione non trova concepibile se non col supporre un’intelligenza suprema. Quindi l’ammettere l’esistenza di questa intelligenza è così legato con la coscienza del nostro dovere[7]» (coscienza apriori, di tipo cartesiano, non derivata dalla conoscenza oggettiva della natura umana e dei suoi fini), «benché questo fatto stesso dell’ammetterla appartenga alla ragione teoretica, rispetto alla quale soltanto essa, considerata come principio di spiegazione, può essere chiamata ipotesi; ma in relazione all’intellegibilità di un oggetto (il sommo bene)» (umano) «dato a noi tuttavia mediante la legge morale e quindi di un bisogno nell’aspetto pratico, può chiamarsi fede e invero fede razionale pura[8], perché semplicemente  la ragion pura (tanto secondo il suo uso teoretico, come da quello pratico) è la sorgente da cui deriva»[9].

È da notare che l’esistenza della legge, per Kant, non induce a provare ma a postulare o a supporre (ipotizzare) l’esistenza di Dio. L’affermazione dell’esistenza di Dio non è cioè provata partendo dalla considerazione della legge morale come effetto creato dall’onnipotenza divina.

Per Kant l’esistenza di Dio è semplicemente posta non per un motivo speculativo e per un bisogno di verità, ma per un motivo soggettivo; riguarda l’interesse pratico del soggetto: obbedire all’imperativo categorico, il quale però non ha un contenuto definito dalla volontà divina, ma dalla stessa ragion pratica, la quale, come ipostatizza l’ideale supremo della ragione speculativa, così ipostatizza l’ideale della ragione pratica, ossia la legge morale, sotto la raffigurazione dell’esistenza di Dio come sommo legislatore e giudice della condotta umana. L’esistenza di Dio non è regola della condotta morale, ma è funzionale alla regolazione morale che la ragione dà a se stessa. In tal senso non è dimostrata ma postulata, ossia richiesta dalla ragion pratica per rendere l’attuazione dei suoi fini pratici autonomamente da lei fissati.

Per Kant, quindi, la ragione non ha nulla da imparare da Dio in fatto di morale; conosce già perfettamente da sé quali sono i suoi doveri; né ha bisogno dell’aiuto di una grazia per realizzarli in pienezza, perché, benché egli riconosca che l’uomo è pervertito e afflitto da un «male radicale», ritiene che comunque egli possa vincere il male con le semplici sue forze. L’idea di un’espiazione del peccato alla sequela di Cristo gli pare una forma di irrazionale autolesionismo.  Egli si rifiuta di spiegare l’origine del male nell’uomo col dogma cristiano del peccato originale, che per lui è un semplice mito, ma lo considera il male intrinseco alla natura umana, che per lui è «naturalmente cattiva»[10].

D’altra parte Kant non ricava i contenuti della legge morale da un’analisi sperimentale e filosofica della natura umana finalizzata a Dio suo Signore e creatore, obbligata ad obbedire alla legge impostagli dal creatore[11]. Secondo Kant noi nella nostra coscienza avvertiamo spontaneamente con impellenza assoluta («imperativo categorico») i nostri diritti e doveri non perché ricavati dall’esperienza, ma in forma apriorica ed intuitiva.

Non è peraltro per Kant la ragione ad essere al servizio di Dio, ma è Dio che è funzionale all’attività pratica della ragione. Così in un’automobile non è l’auto che serve al funzionamento del motore, ma è il motore che serve al funzionamento dell’auto. Dio non è un ente creatore della ragione, ma è l’idea suprema della ragione, un’ideale, del quale la ragione si serve per organizzare ed unificare il suo sapere. E questa idea può esser resa più efficace fingendo che si tratti di una trascendente personalità divina benevola, provvidente e giusta (idea di Dio), ipostatizzando l’idea come se fosse un ente supremo, ciò che comunemente chiamiamo «Dio». Non si deve però prender sul serio tale immaginaria ipostatizzazione. perchè allora cadremmo nella fantasticheria, nella superstizione e nel fanatismo. Non è proibito, peraltro, precisa Kant, pensare come possibile l’esistenza di Dio, a patto che non ne facciamo una realtà, ma ci fermiamo al livello dell’ipotesi.

Dio non è una persona ma un’idea

Dice Kant:

«Si disconosce senz’altro il significato dell’idea di Dio, se la si considera  come l’affermazione o anche soltanto la presupposizione di una cosa reale, cui si voglia attribuire il principio della costituzione sistematica del mondo; piuttosto si lasci interamente indeciso, quale natura abbia in sé questo principio che si sottrae ai nostri concetti e si ponga soltanto l’idea come punto di vista, dal quale solamente è dato di estendere quell’unità così essenziale alla ragione e così salutare all’intelletto; in una parola: questa cosa trascendentale è semplicemente lo schema di quel principio regolativo, per cui la ragione, per quanto è in lei, estende l’unità sistematica a tutta l’esperienza»[12].

Secondo Kant, infatti, l’idea di Dio non  è

 «un principio costitutivo dell’ampliamento della nostra conoscenza sopra più oggetti che non ne possa fornire l’esperienza; ma è un principio regolativo dell’unità sistematica del molteplice della conoscenza empirica in generale, la quale viene così meglio stabilita e regolata dentro i suoi confini»[13].

Kant pertanto avverte:

«Prendere il principio regolativo dell’unità sistematica della natura per un principio costitutivo e presupporre ipostaticamente come causa ciò che soltanto idealmente è posto a base dell’uso coerente della ragione, significa soltanto imbrogliare la ragione»[14].

Possiamo osservare che indubbiamente prendere per realtà ciò che è una semplice idea significa ingannarsi. Ma è inganno anche prendere per un’idea quella che è una realtà. Chi afferma l’esistenza di Dio non ipostatizza affatto l’ideale supremo della ragione consistente nel creare la massima unità sistematica di tutte le sue conoscenze.

Questa semmai sarà l’operazione ingannevole del razionalista, che assolutizza la sua ragione come fosse Dio. Questa è l’operazione di Kant, che col pretesto dell’ideale della ragione deifica la ragione e abbassa la realtà divina alla limitatezza di un’idea umana dimenticando che la ragione umana sta sotto la Ragione divina.

Il bello è che Kant con la sua teologia si proponeva di sconfiggere l’ateismo e invece, come dimostreranno i due secoli a lui successivi, dalla ragione deificata kantiana verrà fuori prima il panteismo hegeliano della divinizzazione dell’uomo e successivamente l’ateismo marxista dell’uomo che si sostituisce a Dio, perché egli stesso è Dio.

Chi afferma l’esistenza di Dio ha ben altro da fare che ipostatizzare idee, ma compie ben altra operazione; chi dimostra l’esistenza di Dio non ipostatizza nessuna idea come l’idealista, ma adegua le proprie idee al reale, si tiene ben stretto alla realtà e procede nella linea realtà passando dagli effetti alle cause, dal motore al mosso, dal contingente al necessario, dall’analogante all’analogato, dal partecipante al partecipato, dal finalizzato al finalizzante.

È chiaro che se Dio è una semplice idea, e non una persona o un Tu, non ha senso colloquiare con un’idea. Per questo per Kant la preghiera non ha senso. Un ideale non ci rivela dei misteri nascosti, che dobbiamo accogliere sull’autorità dell’ideale. Un ideale certamente può prescrivere, ordinare, comandare, può rispondere alle nostre domande, può lasciarsi indagare. Ad esso dobbiamo essere fedeli, Esso è immutabile ed eterno. È luce per il nostro intelletto e modello di comportamento per il nostro agire morale. Un ideale però non ci manda in paradiso o all’inferno.

L’ideale come principio e metodo di fabbricazione e di produzione, è criterio di giudizio, di discernimento e di valutazione. Ci indica la strada, il fine, la perfezione.  Va assolutamente ascoltato e messo in pratica. Ma non è un soggetto personale, al quale noi possiamo essere simili nei nostri rapporti umani. È solo una concezione della nostra mente, un imperativo interiore. Non possiamo pregarlo, confidare in lui, immaginare che egli rimetta i nostri peccati, offrirgli sacrifici e chiedergli che abbia di noi misericordia, credere che egli premi e castighi. E per questo Kant, sebbene parli di religione, trascura completamente questi aspetti essenziali della religione, considerandoli superstizione, magia o meschino interesse.

Dio per Kant non è un ente reale sovrarazionale, ma un ente ideale, un ente di ragione, perfettamente conoscibile dalla ragione, anzi ciò che la ragione conosce meglio e con maggior certezza, idea del tutto indipendente dalla sensibilità, ma sempre la luce suprema e fondante che la ragione usa al servizio di se stessa.

Essa non è altro che la semplice idea suprema della ragione, avente lo scopo e la funzione di fondare, giustificare, unificare e sintetizzare tutto il sapere della ragione. Quindi non può essere intesa come fosse una persona. Non si tratta di un Ente esterno all’uomo, un Ente sostanza, ma di un «Ente di ragione ragionata»[15], un’idea che esprime l’effetto del massimo delle forze e della capacità conoscitiva della ragione.

Quindi non è qualcosa di misterioso, che contenga qualcosa che supera le capacità della ragione, che dia alla ragione nuove conoscenze, che essa non sappia acquisire con le sue forze, perché è un prodotto della stessa ragione. È un’idea «regolatrice», non di contenuto («costitutiva»); quel Dio, che, come dice Kant nel titolo di una delle sue opere, entra nei «limiti della ragione»[16], quasicchè l’oltrepassare questi limiti, come pretendono di fare le religioni rivelate, non sia un superare la ragione, ma un andar contro la ragione.

Da qui si capisce che per Kant ipotizzare o figurarsi questa idea come fosse una persona assoluta che riveli alla ragione qualcosa di se stessa, non ha senso, è un inaccettabile antropomorfismo. Da qui si capisce come la teologia kantiana neghi la possibilità stessa che Dio riveli qualcosa di sé alla ragione, così da diventare oggetto di fede.

Lodevole, comunque, è lo sforzo di Kant, di rendere l’idea di Dio puramente noumenica razionale ed intellegibile, pura e libera da qualunque aggancio alla materia, alla corporeità, alla sensibilità, al fenomeno.  Kant è lontano le mille miglia da certe attuali concezioni di Dio, di origine hegeliana, che, col pretesto dell’Incarnazione, abbassano il divino al livello del divenire, della passionalità, della storia, della materialità.

Ma bisogna dire che nella teologia kantiana l’Incarnazione diventa impossibile: come può incarnarsi in una natura umana un’idea della ragione?  Hegel, il quale divinizza apertamente la ragione kantiana, potrà rifarsi al Logos giovanneo. Ma in Kant non c’è dubbio che il mistero di Cristo Dio non ha senso. Cristo è un megalomane e un esaltato. Kant si limita a chiamarlo il «maestro del Vangelo».

Per questo, non è lecito, per Kant, ipostatizzare questa idea, farne una sostanza o ente o una persona esterna all’uomo, perché ciò sarebbe rendere reale ciò che è soltanto ideale. Certamente per Kant Dio è spirito; ma appunto per questo egli concepisce Dio come somma e suprema Idea, perché Kant confonde lo spirituale con l’ideale. Lo spirituale, per lui, non è fuori, ma solo interno alla mente umana («la legge morale in me»)[17]. Fuori della mente, nel tempo e nello spazio, c’è solo la sostanza materiale, ci sono solo i corpi, le cose in sé che appaiono come fenomeni, gli enti e gli oggetti della tecnica, della natura e del cosmo («il cielo stellato sopra di me»)[18].

Conclusione

                                                                       Dixit insipiens in corde suo: Deus non est

Sal 13,1

La ragione umana naturale, riflettendo sull’origine delle cose, se non è guasta da ragionamenti sofistici o da cattive passioni, cose sempre possibili ma rimediabili, si accorge con certezza almeno implicitamente dell’esistenza di Dio sommo Bene e Fine ultimo della sua vita, come Signore provvidente e Creatore onnipotente, Giudice giusto e misericordioso, al Quale è tenuto a render conto delle sue azioni per ricevere il premio o il castigo.

Qualunque uomo di sana ragione, anche indotto, è obbligato da prove evidenti e indubitabili a riconoscere che Dio esiste, e si sente obbligato in coscienza a credere in Lui e ad obbedire ai suoi comandi. Il rifiutarsi di ammettere l’esistenza di Dio come senso fondamentale della propria vita o anche il solo dubitarne o il darne per ipotetica e non certissima l’esistenza, non può essere privo di colpa dovuta a protervia o al desiderio empio di spezzare il vincolo dell’obbedienza a Dio per fare la propria volontà.

Si può dimostrare che Dio esiste, ma non si può dimostrare che non esiste. È impossibile, pertanto, invalidare dimostrativamente, come tenta di fare Kant, le prove dell’esistenza di Dio supponendo un retto concetto di Dio, così da arrivare a sostenere che la sua esistenza è solo ipotetica. Se non è ipotetica l’esistenza del sole e della luna, ma certa, molto più certa sarà l’esistenza di Dio che li ha creati.

Scrivere un libro di 600 pagine per fondare l’oggettività della conoscenza razionale e al punto conclusivo della dimostrazione dell’esistenza di Dio sostenere che non siamo certi che esista ma ne formiamo solo un’ipotesi per un problema che sa risolvere anche l’indigeno dell’Amazzonia o l’aborigeno dell’Australia, è una cosa quasi ridicola, che non fa onore ad Emanuele Kant, col rispetto dovuto al suo genio e alla sua lunga, tormenta e faticosa ricerca. Per dimostrare che Dio esiste può valere la pena di scrivere un libro di 700 pagine, come ha fatto il Padre Reginaldo Garrigou-Lagrange. Ma per fare una semplice ipotesi circa l’esistenza di Dio è sufficiente una piccola dose di pigrizia mentale e di miopia intellettuale.

Per distruggere ci vuole poco; la fatica è costruire. Chi cerca la verità e capisce quanto è importante il problema dell’esistenza di Dio, legge il libro del Padre Garrigou. Chi ha voglia di ragionamenti tortuosi e di sottrarsi alla disciplina del vero e della virtù trova sempre un pretesto per ipotizzare o per negare che Dio esiste senza bisogno di leggere le 600 pagine di Kant.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 2 febbraio 2022

Il sistema kantiano, come tutti i sistemi idealistici a partire da Cartesio fino a Giovanni Gentile, non è interessato alla realtà, ma alle idee. Per questo ciò che ad esso interessa non è l’essere, il reale per eccellenza, ma l’essenza. Quello che interessa gli idealisti è organizzare un perfetto, sistematico, ordinato ed unitario complesso di idee, e di sillogismi rigorosamente dedotto da una prima originaria idea (il cogito di Cartesio), badando non all’aderenza dell’ideale al reale, ma alla supposta validità assoluta dell’idea in se stessa. Per questo, per loro Dio non è il primum, supremum, realissimum ens, ma è la prima, suprema e realissima, reificata o ipostatizzata Idea della Ragione.

Leggendo le opere degli idealisti non abbiamo l’impressione che essi ci mettano a contatto con la realtà, ma di sfogliare un album di fotografie o di vedere un film alla TV. L’idealista non c’insegna come vedere la realtà, ma come lui la vede. All’idealista interessa che impariamo le sue idee. Se poi a queste idee non corrisponde la realtà, peggio per la realtà.


Per Kant, quindi, la ragione non ha nulla da imparare da Dio in fatto di morale. Egli si rifiuta di spiegare l’origine del male nell’uomo col dogma cristiano del peccato originale, che per lui è un semplice mito, ma lo considera il male intrinseco alla natura umana, che per lui è «naturalmente cattiva». 

Per Kant ipotizzare o figurarsi questa idea come fosse una persona assoluta che riveli alla ragione qualcosa di se stessa, non ha senso, è un inaccettabile antropomorfismo. Da qui si capisce come la teologia kantiana neghi la possibilità stessa che Dio riveli qualcosa di sé alla ragione, così da diventare oggetto di fede.

Fuori della mente, nel tempo e nello spazio, c’è solo la sostanza materiale, ci sono solo i corpi, le cose in sé che appaiono come fenomeni, gli enti e gli oggetti della tecnica, della natura e del cosmo («il cielo stellato sopra di me»).

Immahini da Internet


[1] Le famose cinque vie di San Tommaso.

[2] Critica della ragion pura, p.482.

[3] Secondo la traduzione di Giovanni Gentile del 1909.

[4] In L’être et l’essence (Vrin, Paris 1981) Etienne Gilson ha fatto un’ottima disamina storica di come la filosofia precedente a Cartesio è arrivata a Cartesio. Essa parte dalla concezione scotista dell’essere notoriamente univocista e non analogica, ma come «simplicissimum», per cui non vede l’analogia della potenza con l’atto e quindi un essere superiore dell’atto sulla potenza. Non s’accorge dei gradi dell’essere. Pur volendo fare metafisica e credendo di renderla più semplice, più rigorosa ed intellegibile, la matematizza, vive nell’astrazione, non utilizza nozioni trascendentali, ma di tipo logico-matematico-quantitativo come finito-infinito, formale-materiale, possibile-attuale, semplice-complesso, universale-singolare, generico-specifico. Ora sappiamo che l’ente matematico è estraneo all’essere reale: è semplice ente ideale o di ragione. Da Scoto deriverà poi Suarez, che media Scoto con Cartesio. Dopo questi avremo Leibniz e Wolff, che è il maestro d Kant.

[5] Cf Tomas Tyn, OP, Metafisica della sostanza. Partecipazione e analogia entis, a cura di Giovanni Cavalcoli, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009.

[6] Critica della ragion pratica, Laterza Editori, Bari, 1979, p.151.

[7] 152

[8] Chiaramente non si tratta di fede in Dio, ovvero di un sapere mediato, ma di un’intuizione immediata razionale ed apriorica della legge morale, fondata sull’io penso. Kant prende qui il concetto di fede da Lutero, con la differenza che mentre in Lutero l’oggetto della fede è la Parola di Dio, qui l’oggetto è il dettame della ragion pratica.

[9] 152-153

[10] Queste idee Kant le espone ne La religione entro i limiti della pura ragione. Sulla concezione kantiana della religione, cf Fernando Fiorentino, Filosofia e religione in San Tommaso e Kant, Editrice Domenicana Italiana, Napoli-Bari 1997.

[11] Vedi una buona esposizione critica della morale kantiana in J. Maritain, La filosofia morale. Esame storico e critico dei grandi sistemi, Morcelliana, Brescia, 1971, c.VI. Vedi anche F. Ibranyi, Ethica secundum S. Thomam et Kant, Collegio Angelico, Roma 1931.

[12] 539

[13] 532

[14] 547

[15] Cf I. Mancini, Kant e la teologia, op. cit., pp.209-215.

[16] La religione entro i limiti della pura ragione.

[17] Parole dell’iscrizione sulla sua tomba.

[18] Ibid.

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