Ateismo e salvezza - Quarta Parte (4/10)

 

Ateismo e salvezza

Quarta Parte (4/10)

Concetti di Dio imperfetti ma sufficienti

Brahmanesimo

La più antica nozione di Dio e di alta qualità la troviamo nella letteratura vedica a partire dal sec. XIV avanti Cristo, scritta da autori ignoti che asseriscono di trasmettere una tradizione sacra (smrti) ricevuta per rivelazione (sruti).

Questa nozione espressa dalla parola Brahman, ha un duplice orientamento semantico: da una parte induce al teismo e dall’altra suggerisce il panteismo. Quindi nel primo senso si tratta di un concetto salvifico, perché l‘io (jivan) o anima (atman) è distinto da Brahman. Abbiamo allora la visione «duale» (dvaìta) sostenuta da Ramanuja nel sec. XIII, di tendenza realistica favorevole alla Trascendenza.

Viceversa, se l’io o l’anima sono visti come apparenza sensibile e fenomenica di Brahman come Io vero, profondo e assoluto (vedi l’Io trascendentale degli idealisti), abbiamo la visione «non-duale» (advaìta), che potremmo chiamare monistica, della quale abbiamo un parallelo in Occidente in Parmenide.  Questa è l’impostazione di Shamkara nel sec. VIII-IX.

Brahman è «nirguna» ossia senza attributi per i brahmini, che sono i mistici veggenti. Veda ha la radice vid che vuol dire video, vedere, visione. L’idea platonica (v-idea) è una visione. I brahmini tacciono.  Ma c’è anche il Brahman «saguna», con attributi concettualizzabili e quindi esprimibile in parole. E questa è la letteratura vedica.

Occorre pertanto distinguere Brahman dai Deva. Il Deva, ossia il Dio, è l’avatar, ossia la molteplice apparizione di Brahman, è Brahman in quanto può essere adorato, pregato ed invocato dal comune fedele nei riti religiosi. L’avatar principale di Brahman è la Trimurti, la sacra Triade di Brahman, Sciva e Vishnù, corrispondente ai tre attributi ontologici principali di Brahman: Sat (Essere)-Citta (Intelletto)-Ananda (Amore).

Il cammino di liberazione dell’uomo è diverso nell’advaita e nel dvaita. Nel primo, Brahman appare nel Deva, che è un Tu al quale il fedele offre sacrifici, preghiere e suppliche. L’anima, mediante la reincarnazione, il samshara, al termine del cammino di purificazione, liberata per sempre dal corpo, al di là delle apparenze di maya, l’illusione della materia, si immerge e scompare per sempre nell’Assoluto come la goccia d’acqua nell’oceano.

Nel secondo, l’iniziato, sotto la guida del guru, attua mediante lo yoga un cammino di presa di coscienza del suo vero essere, l’essere divino, ossia del suo essere Brahman[1],  essere eterno, eterno divenire, essere ciclico, che alla fine è ciò che era all’inizio, come nella dialettica hegeliana.

Qui la perfezione spirituale, è come una ruota, dove lo spirito si fà materia e la materia spirito, la vita muore e la morte risorge a vita, una successione senza fine di sì e di no originata da Brahman, attratta da Vishnù, azionata da Sciva, simboleggiata dalla svastica, simbolo assunto dai nazisti per rappresentare l’eterno ritorno, principio fondamentale del pensiero di Nietzsche, maestro del nazismo[2].

 

Platone

La conoscenza per Platone si pone su di un duplice piano: uno, basso, terreno, volgare, incerto,  quello del diveniente e del corruttibile, dell’apparenza sensibile ingannevole ed illusoria, passionale, tentatrice e seduttrice, la doxa, che impedisce la visione del piano superiore,  quello alto, sicuro e celeste, dell’eterno e dell’immutabile, del perfetto e dell’incorruttibile, della visione intellettuale, beatificante e liberatrice, l’episteme, effetto della visione dell’eidos o idea intellegibile, il noetòn, supremo modello di perfezione, al sommo o vertice del quale c’è l’Idea del Bene, al di là dell’essenza, epèkeina tes usias, che è Dio. 

L’aisthesis, la sensazione ha per oggetto il soma, la realtà corporea; la noesis, l’intellezione hanno per oggetto l’idea l’on, l’ente; il pathos, la passione e l’eros, l’amore, epithymia, il desiderio, e la volontà, bùlesis, hanno per oggetto l’agathòn, il bene, rispettivamente quello sensibile e quello intellegibile.

Il sensibile è immagine, eikòn, partecipazione, mèthexis, imitazione, mimesis dell’intellegibile.  In Platone c’è dunque ad un tempo una contrapposizione ed una continuità fra sensibile e intellegibile, fra passione ed eros: l’intellegibile è ostacolato e offuscato dal sensibile, ma nel contempo l’intellegibile può diventare sensibile e il passionale può identificarsi col volontario. Sicchè può sorgere un intendere che è un sentire e un sentire che è un intendere, un sapere che è un amare, e un amare che è un sapere. Tale concetto del conoscere come intriso di affettività, è già presente nella Bibbia

In tal modo in Platone è teorizzata una conoscenza del Dio-Amore, che sarà utilizzata dai mistici cristiani, a cominciare da Sant’Agostino e da Dionigi l’Areopagita, per esprimere come sia possibile sentire e gustare Dio benché Egli sia immateriale e invisibile[3].

Mentre Aristotele arriva a Dio partendo dall’esperienza dei sensi, guardando alle cose che esistono fuori della mente, e passando dall’effetto alla causa, Platone arriva a Dio abbandonando l’esperienza dei sensi ed entrando nella coscienza, dove trova l’Idea del Bene, il sole della mente, al di sopra della mente, modello della mente e dalla quale la mente dipende.  Sia Platone che Aristotele salgono a Dio dalle cose e dall’io: il primo passando dal partecipante al partecipato, il secondo dall’effetto alla causa.

Da notare infine la differenza fra l’idealismo platonico e quello tedesco: che mentre in Platone l’io dipende dall’Idea assoluta che è regola della condotta morale dell’io, nell’idealismo tedesco l’io assolutizzato («Io trascendentale») si regola da sé perché produce l’Idea assoluta e s’identifica con essa.

Sant’Agostino

Quanto all’illuminismo agostiniano, per il quale Dio illumina la mente nella verità su Dio, similmente a quanto avviene in Platone, esso non conosce, come in San Tommaso, l’attività dell’intelletto agente che astrae l’essenza universale ed immutabile dal particolare, ma non lo nega neppure e addirittura lo sottintende, perché Agostino riconosce che le nostre idee suppongono l’esperienza sensibile e nel contempo la loro eternità, che ci fa capire che il nostro intelletto partecipa della verità eterna divina, lumen publicum.

La nozione agostiniana di Dio come suprema Essenza e suprema Idea, Dio come sapiente e onnipotente creatore del cielo e della terra, sommo Bene e Amore sussistente, è del tutto utile alla salvezza, anche se resta in ombra l’azione della Causa prima sulle cause seconde, per cui non è chiarito come il libero arbitrio resti ibero sotto l’influsso della grazia.

Dionigi l’Areopagita

Una nozione di Dio sufficiente alla salvezza benché imperfetta è quella di Dionigi l’Areopagita[4]: sufficiente perché corredata di tutti gli attributi divini, come li troviamo nel suo trattato sui nomi divini; imperfetta perché troppo carica di negazioni, fino al punto che sembra rovesciarsi nella stessa negazione dell’esistenza di Dio, per il fatto che Dionigi calca troppo nel voler escludere la finitezza, ma così facendo, dato che il nostro concepire è connesso col finito,  nella volontà troppo accentuata di voler togliere i finito, finisce per togliere anche i concetti.

Ora, dato che è per mezzo del concetto che noi cogliamo l’essere, il teismo troppo apofatico rischia di rovesciarsi in ateismo e nichilismo. È possibile che l’apparente ateismo di Heidegger sia motivato da una simile istanza? Si potrebbe trovare questa istanza anche in Rahner, per quanto formulata in termini idealistico-panteisti?

Il Dio islamico

Il Concilio Vaticano II [5] ha riconosciuto che il Dio del Corano è il vero Dio, uno e unico, creatore del cielo e della terra, sapiente, provvidente, giusto e misericordioso, che si rivela e parla all’uomo. Questo concetto di Dio è imperfetto, però, perché rende impossibile la Trinità delle persone divine e perché possiede una volontà non saggia ma dispotica, i cui comandi fanno patire violenza e suscitano violenza. Col pretesto che Dio tutto governa, il musulmano assume una concezione deterministica e fatalista dell’esistenza, per la quale l’uomo non agisce più liberamente, ma necessitato dalla volontà divina sia che vada in paradiso sia che vada all’inferno.

Il Concilio tace su questo aspetto, che invece è stato fatto presente da Benedetto XVI nel suo famoso discorso a Ratisbona.  Questo punto di contrasto col concetto cristiano di Dio è all’origine della persecuzione dei musulmani nei confronti dei cristiani, che essi attuarono sin dal loro primo sorgere e che continua ad essere attuata da parte degli islamici che l’accettano.

Viceversa i musulmani che accolgono quel concetto di Dio che è delineato dalla Nostra aetate, vivono pacificamente con i cristiani, benché non senza un complesso di superiorità nei loro confronti, tale da frenare in vari modi la loro libertà e attività.

Il difetto del Dio islamico dipende dal fatto che esso non è basato su di una nozione analogica dell’essere, quindi del vero, della ragione, del bene e della volontà, ma su di una nozione univoca, che per salvare la pluralità, ammette l’equivocità e la contraddizione. Inoltre l’unità divina è intesa così monisticamente, da escludere la Trinità, perché questa, sempre a causa dell’univocismo e della negazione dell’analogia, appare come negazione dell’unità.

Se qui dunque c’è la pretesa di salvare il principio di non-contraddizione, il musulmano non si fà scrupolo di violarlo quando concepisce un Dio benevolo e violento, sincero e bugiardo, motivato e immotivato, santo e peccatore, provvidente e distruttore, affidabile e inaffidabile, ragionevole e irrazionale, saggio e stolto, fedele e infedele, giusto e ingiusto, liberatore ed oppressivo, dispotico e tollerante, autoritario e permissivo, crudele e misericordioso.

In tal modo, col pretesto che Dio è il nostro Signore e Legislatore, che decide di ciò che è bene e ciò che male, che può fare e ha diritto di fare tutto quello che vuole, senza spiegarcene i motivi e senza dover render conto a noi, è un Dio che ha diritto di imporci la sua volontà, sicchè noi non possiamo conoscere il perché dei voleri divini. Per cui il musulmano confonde l’incomprensibilità e il mistero dei decreti divini con l’idea che Dio possa comandare o render lecito il peccato e proibire o punire la giustizia.

È evidente allora che il musulmano, partendo dal concetto di un Dio dispotico ed arbitrario, che esercita la violenza ed un potere irrazionale, si sente autorizzato a sua volta da una parte a concedersi anche cose illecite e a comportarsi con gli altri con la stessa licenza, violenza e crudeltà con le quali suppone che Dio si comporti con lui.

Se il concetto di Dio è assunto dall’islamico nei termini descritti dal Concilio, rinunciando all’aspetto difettoso denunciato da Benedetto XVI, il concetto può essere salvifico. Lascia sottintendere l’assunzione di tale concetto l’accordo di Abu-Dhabi stipulato da Papa Francesco col Grande Imam del Cairo Ahmad Al-Tayyeb.

Sant’Anselmo

Questa nozione di Dio resta salvifica, benché ricavata da un circolo vizioso, come è capitato a Sant’Anselmo perché restiamo nell’ambito del realismo: Dio non è un’idea della mente, ma esiste realmente fuori di me ed è il mio creatore. Il che non è accettato dall’idealista, il cui Dio è un prodotto della sua mente, una pura idea reificata.

Una nozione di Dio difettosa ma sufficiente alla salvezza, tanto che la si riscontra addirittura in un Dottore della Chiesa come Sant’Anselmo, è quella famosa, che ebbe successo nell’idealismo da Cartesio ad Hegel, per la quale Dio viene bensì concepito come ente supremo e perfettissimo, necessario, immutabile ed eterno, sapiente e onnipotente, creatore del mondo, ma ritiene che la sua esistenza si possa dimostrare in base allo stesso concetto di Dio, come ente perfettissimo.

Mentre la teologia di Hegel cade giustamente sotto la critica di Feuerbach, dato che Hegel identifica l’essere col pensiero, per cui per lui Dio è prodotto del pensiero,  Sant’Anselmo, che a tutta prima sembrerebbe aver qualche somiglianza con l’idealismo hegeliano, in realtà è un realista, per il quale l’essere, quindi Dio, trascende il pensiero umano, per cui egli, benché tragga l’affermazione del esistenza di Dio dal suo concetto di Dio, è al riparo dalla critica feuerbachiana contro l’idolatria, contro il Dio immaginario.

Anselmo infatti è realista, ammette la distinzione del pensiero dall’essere extramentale e quindi ammette Dio come esistente fuori della mente e creatore della mente.  Anselmo ha un completo ed altissimo concetto di Dio. Il suo Dio non è affatto un prodotto arbitrario della sua mente, non è un idolo. Il suo difetto è solo quello di non accorgersi di cadere in un circolo vizioso per il fatto di ammettere in partenza quell’identità in Dio di essenza ed essere che appare fondata solo una volta che, partendo dalle creature, si dimostra l’esistenza del creatore.

Il difetto di tale nozione non sta nel contenuto come tale del concetto, ma nel fatto che questo contenuto è considerato dal pensante come ricavato non dalla realtà esterna, ma dalla sua semplice attività di pensante. Ora è vero che il concetto è formalmente prodotto dalla mente, ma non è necessariamente prodotto dalla mente il contenuto del concetto, se questo concetto intende rappresentare la realtà esterna, giacchè se le due cose coincidessero, verrebbe fuori che noi col pensiero produciamo la realtà e quindi in questo caso produrremmo Dio.

San Bonaventura

San Bonaventura nell’Itinerarium mentis in Deum punta non tanto sul passaggio dall’effetto alla causa, quanto piuttosto sulla purificazione del concetto dell’essere. Più che un processo induttivo, segue un processo astrattivo, come se Dio fosse l’essere liberato da tutte le sue determinazioni sensibili, immaginative, quantitative, limitate, formali, qualificative, come se già nella nozione di qualunque ente sensibile che cade sotto i sensi fosse nascosta la nozione di Dio come puro Essere, che Bonaventura identifica senz’altro con l’ipsum Esse. Bonaventura segue pertanto il procedimento Anselmo: il concetto del puro essere dice essere perfettissimo, che non può non esistere realmente.

Beato Giovanni Duns Scoto[6]

Duns Scoto ammette due possibili prove dell’esistenza di Dio: una partendo dalla realtà esterna, cioè dall’esperienza delle cose sensibili contingenti (a posteriori) ed applicando il principio di causalità che conduce ad affermare una causa prima e un’altra partendo dal possibile, concepibile o pensabile, cioè concetto dell’assolutamente necessario che non può non essere, necessariamente esistente. Questo è lo stesso argomento di Sant’Anselmo, viziato pertanto dallo stesso difetto: invece di formare il concetto di Dio partendo dall’esperienza delle cose, si pretende di affermare l’esistenza di Dio partendo dal concetto di Dio.

Ora Scoto afferma invece che l’argomento a priori è migliore, più certo e più rigoroso di quello a posteriori. Mentre il primo si baserebbe sul contingente, sorgente di incertezza, il secondo si baserebbe sul necessario, che è la forma del sapere scientifico.

Ma qui Scoto sbaglia: l’argomento veramente rigoroso, necessario e scientifico nel caso del problema dell’esistenza di Dio, non è quello a priori, che, come abbiamo visto per Sant’Anselmo, è un circolo vizioso, ma è l’argomento a posteriori, conforme all’insegnamento biblico (Rm 1,20; Sap 13,5), in quanto qui l’assolutamente  necessario,  del quale si prova necessariamente l’esistenza, ossia in base al principio di causalità per induzione, cioè partendo dall’effetto, è ciò che è realmente necessario e necessariamente esistente, ossia Dio.

Nessuno mette in dubbio che il sapere scientifico è un sapere fondato sulla necessità e che procede per necessità razionali. Ma per ottenere questo sapere non è necessario partire sempre da un dato a priori come potrebbe essere una intuizione inconfutabile o una tesi evidente o già dimostrata, ma si può partire anche da un dato contingente dell’esperienza. L’importante è che la conclusione sia necessaria in quanto scopriamo un ente realmente necessario, necessario non perché siamo partiti da un concetto o da un’intuizione o da una tesi necessarie, ma perché alla conclusione del ragionamento, ci accorgiamo che per concludere rigorosamente il ragionamento, dobbiamo necessariamente ammettere l’esistenza di un Ente necessariamente esistente, la cui essenza coincide col suo essere.

Un conto è il procedimento necessario della dimostrazione scientifica e quindi la necessità della conclusione del ragionamento, procedimento che può essere a priori come a posteriori, e un conto è riconoscere, con metodo a posteriori, che l’esistenza del contingente chiede necessariamente l’affermazione dell’esistenza del necessario.

Ora, per dimostrare l’esistenza di Dio, l’unico metodo è quello a posteriori, perché non si tratta di partire da una tesi necessaria già data, ma di chiedersi qual è la ragione dell’esistenza del contingente. Solo rispondendo a questa domanda potremo affermare necessariamente, legittimante, ragionevolmente e scientificamente l’esistenza di Dio come l’assolutamente Necessario.

Si vede che Duns Scoto ha poca fiducia nel valore ontologico del principio di causalità e troppa fiducia nelle conseguenze ontologiche dei nostri concetti. Si vede che preferisce l’apriori all’aposteriori, l’essenza all’esistenza, il possibile all’attuale, l’univoco all’analogo, il logico al reale.

Ciò è segno ad un tempo di diffidenza ed incertezza nei confronti dei sensi, di una sottile presunzione razionalistica e di una mancanza di umiltà verso la realtà, cose delle quali il Beato certamente non si rende conto, pensando invece di dar maggior rigore alla metafisica ed alla teologia. Ma così la debole convinzione del valore della causalità preparerà l’empirismo scettico e i dubbi metafisici di Ockham e il rifiuto della metafisica di Hume, mentre l’eccessiva fiducia nel potere del concetto preparerà prima il razionalismo aprioristico di Cartesio, Leibniz e di Wolff e poi l’idealismo tedesco del sec. XIX.

Gregorio Palamas

Salvifica può essere la nozione di Dio in Gregorio Palamas[7]. Egli intende interpretare il Dio cristiano, anche se intende l’essenza divina non come assoluta, ma come dotata di energie, simili ai raggi che escono dal sole. Non sono il sole; eppure fanno parte dell’essenza del sole. Le energie, secondo Palamas, non compromettono la semplicità dell’essenza, che è quella dell’ente la cui essenza è quella di essere, puro atto di essere sussistente. Infatti esse non si aggiungono all’essenza e non costituiscono un composto con essa, benchè siano distinte dall’essenza. Ma si tratta di una distinzione di ragione, come tra due aspetti intellegibili per noi, ma che sono in Dio una cosa sola.

Questa distinzione è ignorata dai Latini, che preferiscono attenersi alla semplicità dell’ipsum Esse, mentre l’energia viene identificata con la stessa essenza. Quello che non è accettabile in Palamas è che nella visione beatifica l’intelletto veda le energie e non l’essenza, perché ciò contrasta con la prospettiva giovannea: «Lo vedremo com’è» (I Gv 3,2).

Palamas teme che se vedessimo l’essenza, saremmo Dio. Le energie consentirebbero di dire che vediamo Dio per partecipazione e non per essenza. Ma non c’è bisogno di queste cautele per evitare il panteismo, perché l’atto del nostro intelletto, benché abbia per oggetto l’Infinito, è finito. Vedere l’essenza non vuol dire che il nostro sia un vedere per essenza, un vedere divino.

Probabilmente Palamas confonde la grazia celeste dei beati con la visione beatifica. Siccome la grazia è partecipazione della natura divina, crede che l’intelletto in cielo vede una partecipazione della natura divina, appunto l’energia.  Oltre a ciò, sembra confondere l’essere intenzionale con l’essere reale. In cielo l’intelletto si identifica effettivamente con l’essenza divina, ma in modo solo intenzionale, ovvero conoscitivo, non reale. Da questo punto di vista è chiaro che resta la distinzione reale fra l’intelletto e Dio.

In tal modo sembra che Palamas confonda l’ordine dell’essenza con quello della partecipazione. Ciò si deduce dal fatto che Palamas ritiene che in cielo l’intelletto non vede l’essenza divina, ma una sua partecipazione. E teme che ammettendo la visione immediata dell’essenza divina, il nostro intelletto non sia più un intendere finito, per partecipazione, quindi un sapere per partecipazione, ma diventi intelletto per essenza, infinito, un sapere per essenza, come quello divino.

Ma col suo confondere la visione con la grazia, rischia di confondere la grazia con la visione, sicchè, se la visione è visione di Dio, allora la grazia diventa Dio. Palamas non vede nella grazia l’aspetto di partecipazione, l’aspetto creato, ma solo l’aspetto divino, sicchè alla fine la grazia s’identifica con Dio. Ma allora l’intelletto in grazia diventa Dio. Così Palamas, forse senza accorgersene, con la sua teoria della grazia e della visione basata sulle energie, finisce proprio per cadere in quel panteismo che voleva evitare.

Per giustificare la concezione palamita della visione di Dio si potrebbe forse dire che la visione delle energie rappresenta quanto dell’essenza divina possiamo vedere, mentre l’ignoranza dell’essenza significa quanto dell’essenza non possiamo vedere. Ciò corrisponderebbe alla differenza che San Tommaso pone tra la visione limitata dell’essenza, che spetta a noi e la visione illimitata e totale dell’essenza che spetta solo a Dio.

Naturalmente ciò non significa che tale conoscenza parziale supponga che l’essenza venga parzialmente conosciuta, dato che essa, assolutamente semplice o viene conosciuta tutta o non viene conosciuta. Questa parzialità o limitatezza si riferisce invece al modo limitato di conoscere l’essenza.

Fine Quarta Parte (4/10)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 3 novembre 2023

Il difetto del Dio islamico dipende dal fatto che esso non è basato su di una nozione analogica dell’essere, quindi del vero, della ragione, del bene e della volontà, ma su di una nozione univoca, che per salvare la pluralità, ammette l’equivocità e la contraddizione. Inoltre l’unità divina è intesa così monisticamente, da escludere la Trinità, perché questa, sempre a causa dell’univocismo e della negazione dell’analogia, appare come negazione dell’unità.

Se qui dunque c’è la pretesa di salvare il principio di non-contraddizione, il musulmano non si fà scrupolo di violarlo quando concepisce un Dio benevolo e violento, sincero e bugiardo, crudele e misericordioso.

In tal modo, col pretesto che Dio è il nostro Signore e Legislatore, che decide di ciò che è bene e ciò che male, che può fare e ha diritto di fare tutto quello che vuole, senza spiegarcene i motivi e senza dover render conto a noi, è un Dio che ha diritto di imporci la sua volontà, sicchè noi non possiamo conoscere il perché dei voleri divini. Per cui il musulmano confonde l’incomprensibilità e il mistero dei decreti divini con l’idea che Dio possa comandare o render lecito il peccato e proibire o punire la giustizia.

 

È evidente allora che il musulmano, partendo dal concetto di un Dio dispotico ed arbitrario, che esercita la violenza ed un potere irrazionale, si sente autorizzato a sua volta da una parte a concedersi anche cose illecite e a comportarsi con gli altri con la stessa licenza, violenza e crudeltà con le quali suppone che Dio si comporti con lui.

Se il concetto di Dio è assunto dall’islamico nei termini descritti dal Concilio, rinunciando all’aspetto difettoso denunciato da Benedetto XVI, il concetto può essere salvifico. Lascia sottintendere l’assunzione di tale concetto l’accordo di Abu-Dhabi stipulato da Papa Francesco col Grande Imam del Cairo Ahmad Al-Tayyeb.

Immagine da Internet

[1] Vedi Raphael, Tat tvam asi, Tu sei Quello, Edizioni Asram Vidya, Roma 2001.

[2] Il punto di contatto fra Nietzsche ed Hitler non è la questione di Dio perché Hitler è uno pseudoteista, e il suo Dio è il Dio di Hegel, mentre Nietzsche è ateo. Il punto di accordo è il primato del Tedesco sull’umanità. Il Tedesco è per Nietzsche il superuomo e per Hitler è il nazista. Occorre comunque ricordare che le radici spirituali del nazismo non sono soltanto ideologiche e politiche, ma anche e più profondamente medianiche, magiche ed occultistiche. Il fatto che Hitler, pratico di occultismo, riuscisse con la sua oratoria a galvanizzare e fanatizzare milioni di tedeschi non persuadendoli con argomenti razionali, ma provocando in loro processi psicoemotivi automatici irresistibili, lascia supporre un potere magico-medianico guidato da forze preternaturali o demoniache. Vedi per esempio gli studi di René Alleau, Le origini occulte del nazismo, Edizioni Mediterranee, Roma 1989 e di Giorgio Galli, Hitler e la cultura occulta, BUR, Rizzoli, Milano 2016.

[3] Cf Marco D’Avenia, La conoscenza per connaturalità in San Tommaso d’Aquino. Edizioni ESD, Bologna 1992.

[4] Vedi di Dionigi Mistica teologia e Epistole I-V, Edizioni San Clemente-ESD, Bologna 2011.

[5] Nostra aetate, 3.

[6] Vedi Efrem Bettoni, Duns Scoto filosofo, Vita e Pensiero Milano 1966; Etienne Gilson, Jean Duns Scot. Introduction à ses positions fondamentales, Vrin, Pars 1952.

[7] Vedi per esempio di Palamas Luce del Tabor e Difesa dei Santi esicasti, Edizioni San Clemente-ESD, Bologna 2022.

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