La vera essenza della filosofia moderna - Terza Parte (3/4)

 La vera essenza della filosofia moderna

Terza Parte (3/4) 

La rifondazione kantiana della metafisica

Era un detto corrente presso gli scolastici del preconcilio che Kant sarebbe l’affossatore della metafisica per la sua proibizione all’intelletto di travalicare con puri concetti l’ambito dello sperimentabile. Ora l’oggetto della metafisica va ben oltre il semplice sperimentabile. Dunque Kant distrugge la metafisica. Ma se leggiamo Kant con attenzione, noteremo che egli ci dice che il suo intento, ben lungi dal negare il valore della metafisica come farebbe un volgare empirista sul tipo di Hume o di Comte, è quello di darle una base sicura.

Ora è vero che Kant è l’affossatore della metafisica realista, che è quella vera. Tuttavia egli è convinto di aver fondato la vera metafisica. Per questo nel criticare Kant non basta fermarsi a dire che egli distrugge la metafisica, ma bisogna dimostrare che la sua metafisica è falsa, ossia idealista. Bisogna dimostrare che non può esistere altra metafisica che quella realista.

Oggetto della metafisica kantiana è l’autocoscienza cartesiana esplicita nella critica della ragion pura. Sembra un’eco dell’assioma agostiniano exteriora materialia, interiora spiritualia, se non fosse che Agostino non nega affatto la veracità del senso, dal quale sale per la conoscenza delle idee.

Kant concepisce la metafisica come la concepiva Cartesio, il quale infatti non intitola forse «Meditazioni metafisiche» la sua dottrina del cogito? È evidente che con questa dottrina Cartesio crede di far metafisica, anzi una metafisica migliore di quella realista, che si basa sulla conoscenza delle cose sensibili esterne, della quidditas rei materialis. E Kant lo stesso. Egli ammette bensì contro Cartesio, con i realisti e ogni uomo di buon senso, che è evidente l’esistenza delle cose fuori di noi, per cui è inutile e stolto voler dimostrare che esistono, quando il nostro sapere parte proprio dal contatto con le cose.

E tuttavia – e questa è la cosa sconcertante che lo ha reso famoso – afferma che non le possiamo conoscere in se stesse così come sono. È qui che Kant riprende l’idealismo di Cartesio, che viene in fondo a dire la stessa cosa quando affermiamo che i sensi ci ingannano e che quindi sbagliamo quando crediamo che all’idea o alla sensazione di una cosa esterna corrisponda quella cosa.

Ed è da notate che Cartesio non supera il dubbio con una semplice verifica sperimentale, perché per principio dubita o non crede alla veracità del senso, per cui il dubbio o lo scetticismo resta e solo una rivelazione divina lo assicura che se ho la sensazione del rosso, vuol dire che la mela è veramente rossa.

Per questo il dubbio cartesiano non è un dubbio metodico, quale quello che si trova anche in Aristotele, Agostino e Tommaso, ma è un dubbio sistematico, che pertanto richiede che per fondare la certezza occorre abbandonare i sensi  e cercare un altro principio, che sarà poi quello del cogito. Ma così facendo, Cartesio, in ciò seguìto da Kant torna all’antico principio sofistico che afferma che esse non est quod est, sed quod videtur.

Il metodo cartesiano di concepire la verità sensibile come rivelazione divina dà man forte al fideismo luterano, per il quale la verità non è contenuta nella ragione ma nella fede. Uno potrebbe dire: ma come? Se c’è un razionalista, questo è proprio Cartesio! Sì, ma proprio questo è il paradosso del razionalismo cartesiano: di non riconoscere veramente il funzionamento della conoscenza razionale, che è tratta dalla verità del senso, ma di risolvere l’attività della ragione nella coscienza di sé (il cogito).

Da ciò sorge la conseguenza che la verità non è più effetto del discorso razionale, ma della rivelazione divina nella coscienza. Questo concetto di verità è già presente in Lutero e riappare in Heidegger. Hegel concepisce il vero come rivelazione perché mette la ragione al posto della fede.

Kant, dal canto suo, nella questione della verità ha un bel distinguere l’Escheinung (fenomeno) dal Schein (apparenza o parvenza), in se stesso giusto. Ma quando ci viene a dire che non conosciamo la cosa così com’è, come possiamo avere il criterio per sapere che non conosciamo l’in sé ma solo l’apparire, se non facciamo il confronto con la stessa cosa in sé? Altrimenti ci manca uno dei due termini del paragone. Noi possiamo dire che una data cosa ci è sconosciuta, perché la confrontiamo con altre conosciute. Ma come possiamo dire che la cosa stessa, che è l’oggetto dell’intelletto, ci è sconosciuta?

Se l’intelletto ha per oggetto la cosa, la res, l’ente, il reale, che dir si voglia, come si fa a dire che non li conosce? Occorrerà trovare un sostituto, una controfigura. Ma che bisogno c’è? In base a quale principio? Un doppione dell’oggetto? Questa è la tragedia dell’idealismo, che in esso l’oggetto del sapere nega se stesso e finisce nel nichilismo e nell’insensatezza. Chi vuol essere troppo intelligente, finisce nella stoltezza. Dio acceca i superbi ed illumina gli umili.

In altre parole, come Kant sa che noi conosciamo solo l’apparire e non l’essere, se non conosce quell’essere in base al quale accorgersi dell’apparire? È vero che c’è differenza tra il sembrare e l’apparire. Ma se noi non possiamo confrontarli con l’essere in sé, non possiamo più distinguere l’apparizione dalla falsa apparenza. E quindi tutta la dottrina kantiana entra in contraddizione con se stessa e crolla.

Se possiamo dire di conoscere un apparire o una sembianza, è perché conosciamo quell’essere, che ci permette di fare il confronto. Altrimenti scambiamo l’apparire per l’essere, perché l’intelletto ha per oggetto l’essere e non l’apparire. Noi vogliamo conoscere le cose e non solo il loro apparire.

Anche Kant, quindi, sbaglia completamente quando afferma che fino ai suoi tempi non esisteva ancora una metafisica come scienza. Egli, che pretende di fare un esame definitivo del potere della ragione, si mostra di una biasimevole ignoranza della filosofia aristotelica, la fondatrice della logica, dell’epistemologia e della metafisica.

Per questo, il compito che egli si assume di dare finalmente alla metafisica uno statuto scientifico basandosi sull’io penso di Cartesio, non fa che ripetere l’inganno del cogito cartesiano: la pretesa di ricavare il fondamento primo e la certezza iniziale del sapere non dal contatto con le cose esterne, ma da un’autocoscienza, che per voler essere non l’effetto del sapere diretto, ma la sua condizione di possibilità e quindi senza esser stata previamente riempita dall’esperienza del mondo esterno, è vuota di contenuto.

Il modo e il contenuto del conoscere

Kant distingue in linea di principio il modo del conoscere dall’oggetto del conoscere; ma nel momento in cui precisa questo modo e questo contenuto, dimostra di confonderli, perché applica due categorie del tutto inadatte, ossia la distinzione tra materia e forma, che non valgono a definire il conoscere, ma la sostanza materiale.

Così Kant assimila il modo del conoscere alla forma e il contenuto alla materia, per cui afferma l’esistenza di «una materia, che viene dai sensi e una certa forma per ordinarla, proveniente dalla fonte interiore del puro intuire e del pensiero»[1]. In tal modo egli cade in una concezione materialistica del conoscere paragonando l’atto conoscitivo a quello dello scultore che dà al marmo la forma della statua.

Kant confonde la materia cosmologica con la materia logica, l’oggetto cosmologico – il sinolo – con l’oggetto logico (ob-jectum). La materia del conoscere, ossia la materia in senso logico[2] non è come la materia cosmologica, che è informata dalla forma, così come lo scultore dà forma al marmo. La materia in senso logico non è altro che l’oggetto del conoscere, così come diciamo che la data cosa è materia di studio.

Per questo la materia del conoscere non viene solo dai sensi, ma è anche l’essenza o forma intellegibile della cosa, che può essere anche spirituale, anche Dio e non solo la cosa sensibile o il fenomeno. La materia sensibile è oggetto della conoscenza sensibile, che abbiamo in comune con gli animali. Non esiste una forma del conoscere così come la forma del formaggio dà forma al formaggio parmigiano.

Il conoscere non è una forma vuota da riempire con un contenuto che viene dal di fuori. L’intelletto non è una specie di bicchiere che dev’essere riempito di vino, ma è una potenza dell’anima mediante la quale l’anima acquista intenzionalmente la forma del bicchiere e del vino. «L’anima, come dice Aristotele, è in qualche modo tutte le cose» mediante la conoscenza. Non dà forma alle cose, ma è intenzionalmente la forma delle cose.

Quindi non solo il contenuto della cosa, ma anche la sua forma vengono dal di fuori, ossia dalla cosa e insieme compongono l’essenza della cosa, che è l’oggetto del conoscere, si tratti di una cosa materiale (materia e forma) o di una cosa spirituale (pura forma).

Certo il conoscere ha una forma e vi sono diverse forme di conoscenza. Ma allora si tratta del modo di conoscere, non dell’oggetto. Quanto all’oggetto o contenuto, anch’esso ha una forma. E questa è la forma (species impressa) dalla quale è informato l’intelletto, che poi a sua volta esprime in un concetto (species expressa) quanto ha compreso dell’oggetto e della cosa. L’intelletto forma il concetto della cosa, che diventa un oggetto interiore, oggetto della riflessione e della logica (intentio intellecta). Non dà senso alla cosa, come crede Husserl, ma coglie il senso della cosa. È Dio che dà senso alle cose, perché le crea Lui.

La conoscenza ha effettivamente un aspetto attivo e un aspetto recettivo. L’intelletto assomiglia effettivamente ad un recipiente con una data forma, paragonabile a un calice, che ricevendo il vino, fa sì che esso assuma la forma del calice. Senonchè però c’è una differenza e cioè che nel caso della conoscenza l’oggetto ovvero la cosa ha una forma per conto proprio, per cui l’intelletto non dà forma all’oggetto in base alla propria forma, ma assume la forma dell’oggetto, non solo la materia, ma anche la forma.

Il paragone col calice vale invece per quanto riguarda il modo del conoscere. In questo senso si può e si deve dire che l’intelletto ha una forma apriori, che determina non l’oggetto, ma il modo di apprendere l’oggetto. E qual è questo modo? È la parte attiva del conoscere: la formazione o produzione del concetto, immagine della cosa per mezzo della quale l’intelletto conosce la cosa.

Quindi in fin dei conti si può dire che la conoscenza ha una materia ed una forma. Ma bisogna precisare che la materia, ossia l’oggetto, ha già la sua forma per conto proprio, per cui non spetta all’intelletto dargliela. Quanto alla forma del conoscere, essa non è altro che il modo del conoscere, dato dalla forma dell’intelletto, che per sua natura, apriori, produce il concetto, ossia dà forma (conceptus formalis) a un contenuto od oggetto interiore (conceptus obiectivus), immagine della cosa, contenuto del concetto, nel quale e col quale apprende l’essenza della cosa.

Si può e si deve parlare di materia e forma non per la conoscenza, ma per la logica, che non è la scienza del reale, ma la scienza del concetto e del ragionamento. Non la conoscenza, ma la logica ha una forma e una materia, dove la forma è la coerenza, la correttezza e regolarità del ragionare (conceptus formalis), mentre la materia è il contenuto del concetto e del ragionamento (conceptus obiectivus). La logica formale insegna come si ragiona e quella materiale su cosa è possibile ragionare[3].

A riguardo della logica Husserl male distingue una logica formale, che per lui sarebbe quella aristotelica, da una logica «trascendentale». E ciò per due motivi: primo, perché Aristotele contempla anche una logica materiale, secondo la distinzione di cui sopra. E secondo, perché non esiste una logica trascendentale.

Il trascendentale qualifica la metafisica, non la logica. Questa considera il trascendentale come uno dei suoi oggetti, accanto al categoriale. Ciò che la qualifica non è il trascendentale, ma l’ens rationis logicum, che può essere sillogistico (logica formale) o dimostrativo (logica materiale).

Il modo o forma del conoscere sono soggettivi e apriori; e qui Kant ha ragione; il contenuto o materia del conoscere, in quanto concetto oggettivo o contenuto del concetto formato dall’intelletto, è oggettivo e a posteriori, nel senso che segue all’esistenza dell’intelletto; e qui Kant va ancora bene; ma l’oggetto del conoscere, in quanto cosa, è anch’esso forma apriori, nel senso che esiste prima dell’atto conoscitivo dell’intelletto. E questo è ciò che Kant non vede. Per questo Kant finisce col dire che noi conosciamo non la cosa, ma il concetto o «fenomeno» della cosa. Arriverà poi Hegel a dire esplicitamente che la cosa non è altro che il concetto della cosa, il «razionale è il reale». E questo è il tipico difetto dell’idealismo di confondere l’essere col pensiero.

Occorre altresì ricordare che la materia o il contenuto o l’oggetto del conoscere è l’ente, non importa che sia materiale (composto di materia e forma) o spirituale (pura forma). Al conoscere, pertanto, non sta davanti (ob-jectum) solo l’oggetto materiale, ma può stargli davanti anche un oggetto spirituale, anche Dio. Per «oggetto», quindi non si deve intendere solo la realtà materiale o il fenomeno, ma anche quella spirituale, che Dio. Dio non è un oggetto fisico, certamente. Ma ciò non toglie che sia oggetto logico o formale, ossia oggetto di conoscenza.

Potremmo chiederci che cosa intende Kant col termine «forma». Egli non si ferma mai a chiarire i significati del termine e da qui sorge la confusione nella quale egli cade e che è all’origine dell’idealismo. Si vede che Kant confonde la forma come forma, la forma assoluta, pura ed immateriale con la forma della materia, la forma che dà forma alla materia. Confonde la forma intellettuale o cognitiva con la forma cosmologica ossia la forma sostanziale del composto fisico di materia e forma.

La forma apriori nell’idealismo

La forma, in sé e per sé, in generale, è l’atto dell’ente in quanto è qualcosa di determinato, è tale ente (aliquid) o questo (hoc) ente. Essa può essere inerente o sussistente. È inerente se dà forma sostanziale (per esempio l’anima) o accidentale (essere rosso) a una materia. È sussistente se è capace di sussistere da sé separatamente e indipendentemente dalla materia (anima umana, angelo, Dio). Essa può sussistere nel pensiero e allora abbiamo la forma logica (ens rationis) o può sussistere nella realtà e allora abbiamo la forma ontologica (ens reale).

La materia è ciò che nell’ente è in potenza ad essere formato dalla forma o è formato dalla forma, come soggetto (sub-jectum) della forma. Nel composto di materia e forma (compreso l’uomo) il sussistente è il medesimo composto. Anche la materia può essere logica ed ontologica allo stesso modo della forma. Un conto è per esempio una materia di scuola e un conto la materia del legno.

Quando si parla di «materia» della conoscenza, s’intende evidentemente la materia logica, giacchè il conoscere è notoriamente un fatto immateriale. Per questo, questa materia non va plasmata da una forma, come credeva Kant, quasi sia una materia cosmologica, perché con questo termine «materia», quando si tratta di conoscenza, s’intende l’oggetto del conoscere, oggetto che, se è materiale, è composto di materia e forma o può essere una pura forma immateriale, ideale, logica o spirituale.

La forma dell’ente reale o ideale è l’oggetto del sapere. Può essere una pura forma (sostanza spirituale) o una forma della materia (per esempio l’anima umana). Può essere una forma esemplare, l’idea, trascendente alla cosa o una forma inerente o immanente alla cosa. La forma esemplare è principio e regola del sapere. La forma esemplare prima e somma è l’idea divina.

La seconda forma è l’essenza. Se l’ente è una pura forma (per esempio l’angelo) la forma coincide con l’essenza. L’angelo non ha un’essenza, ma è un’essenza. Se invece l’ente è composto di materia e forma (per esempio l’uomo), la forma (cioè l’anima) è una parte dell’essenza. Cartesio e Kant, che non ammettono l’anima come forma sostanziale, fanno dell’anima una pura forma («io puro»), come se fosse un puro spirito.

Tuttavia, la forma intellegibile ed intesa della cosa, il concetto, appartiene sì all’intelletto, nel senso che è immanente all’intelletto, come ob-jectum, contenuto di concetto, ma non nel senso che appartenga all’essenza dell’intelletto, come crede Kant. Invece è la forma della cosa intesa.

Tuttavia Kant ha ragione nel dire che l’idea è principio di conoscenza. Questa è una verità contenuta nell’idealismo, che esso ha in comune col realismo. Il suo sbaglio è che egli crede che questa forma non sia esterna al pensiero, non appartenga alla cosa in sé, ma sia una forma pensata, una pura «idea della ragione».  Quanto alla nostra conoscenza dell’ente materiale, dobbiamo invece dire che noi ne conosciamo la materia indirettamente, attraverso la forma.

Il concetto kantiano del fenomeno è utile per definire lo statuto epistemologico delle scienze sperimentali, che ormai tutti oggi chiamiamo, in omaggio a Kant, «scienze dei fenomeni». Certo, non il senso ma l’intelletto coglie la forma dell’ente o della cosa. Il senso però coglie le qualità sensibili. E perciò Kant, che ammetteva, contrariamente a Cartesio, il valore realistico dell’esperienza, ha detto giustamente che la scienza dei fenomeni è oggettiva, universale necessaria.

D’altra parte, è indubbio che l’intelletto abbia una forma; ed anzi esso stesso è una forma pura e sussistente, una forma spirituale. Questo, Kant lo ha capito. Ma l’intelletto non possiede per natura o apriori la forma del suo oggetto, - e qui Kant ha fallito - perché l’oggetto, ossia la cosa, ha già per conto proprio la sua forma creata da Dio, ossia la sua essenza; e l’intelletto non deve far altro che cogliere intenzionalmente la forma o essenza della cosa.

Kant confonde la funzione che l’intelletto svolge nel modo del conoscere, funzione che è certo un apriori perché è essenziale all’intelletto, con la forma dell’oggetto, che è il contenuto del conoscere. Invece forma e contenuto del conoscere sono distinti non nel senso che il primo sia apriori e il secondo sia «dato» (dato da chi?), ma in quanto un conto è la forma soggettiva dell’intelletto, prodotta dall’intelletto, forma apriori mediante la quale l’intelletto conosce (il modo e il mezzo del conoscere) e un conto è la forma dell’oggetto ovvero della cosa che è l’oggetto del conoscere.

L’intelletto dà forma al concetto della cosa, non all’oggetto del conoscere, che è la cosa. Tanto il sensibile che l’intellegibile del fenomeno e della cosa sono dati all’intelletto, non perché se li dà da sè, ma perché gli sono dati da Dio, creatore della realtà. E qui che Kant, insieme con tutti gli idealisti fallisce completamente.

Il conoscere umano afferra o comprende bensì intellettualmente la forma o essenza della cosa interiormente, astrattivamente e immaterialmente, senza la sua materia, benché il soggetto sappia benissimo che si tratta di una sostanza materiale.

Sorprende che una gnoseologia come quella idealista, che vuol considerarsi opera dello spirito e della coscienza, non ne capisca l’attività peculiare e propria, intenzionale e rappresentativa, confondendo la formazione del concetto con la formazione della realtà.

Certo Kant si guarda bene dall’affermare che l’intelletto dà forma alla cosa e si limita a dire che forma l’oggetto interiore, il concetto. Su ciò ha perfettamente ragione. Ma questo scrupolo è eccessivo, perché giunge a separare la cosa dall’intelletto rendendola inaccessibile, cadendo quindi nello scetticismo, nonostante tutta la sua preoccupazione di fondare l’oggettività della conoscenza.

Ma la vera oggettività non sta nel semplice produrre oggetti logici, magari geniali e sorprendenti, non sta nel semplice produrre idee, ma nel curare che l’idea rispecchi la cosa esteriore e nel verificare se le idee sono o non sono conformi alle cose. Infatti gli idealisti sono fecondissimi nel produrre idee e nello scrivere libri, ma inetti, in fin dei conti, con queste idee a metterci a contatto con la realtà.

Per dirla con un’espressione popolare, non parlano di qualcosa, ma «si parlano addosso». Non vogliono attirare l’attenzione alla realtà, ma a loro stessi. Essi non ci fanno conoscere la realtà, ma ciò che ne pensano loro. Non scoprono ma inventano.  Confondono la filosofia con la poesia. Con la parola non significano la cosa, ma un’altra parola. Non sono dei veri ragionatori, ma dei sofisti, Non danno vere certezze, ma conducono allo scetticismo. Non ci fanno vedere, ma si fanno vedere.

Sembrano elevare alle altezze dello spirito, ma in realtà sono dei maestri di superbia e di vanagloria. Somma aspirazione dei loro discepoli non è quella di approfondire quella realtà che il maestro ha scoperta, ma di ripetere le formule del maestro. Il bello poi è che si piccano di escludere il dogmatismo. Nello stesso tempo, mantenendo il metodo cartesiano del rifare tutto daccapo, ognuno di loro presenta il proprio pensiero come rivoluzionario, come il vero fondamento della filosofia.

Così, sempre restando idealista, Kant ha soppiantato Cartesio, Fichte ha soppiantato Kant, Hegel ha soppiantato Fichte, Gentile ha soppiantato Hegel, Heidegger ha soppiantato Gentile, Severino ha soppiantato Heidegger. Attendiamo il prossimo. Abbiamo esattamente l’applicazione della dialettica hegeliana: l’identità nella contraddizione.

Ma che cosa m’interessa sapere che cosa pensa Hegel o Fichte o Severino, se poi questi non mi chiariscono la realtà delle cose? Che cosa m’interessa chi è Dio per Cartesio o per Kant o per Rahner? A me interessa sapere chi è Dio in sé così com’è (I Gv 3,2). È chiaro che se non si può conoscere la cosa in sé, non si può neppure conoscere Dio in sé.

Invece, affinchè vi sia conoscenza e verità occorre ammettere che la forma della cosa nella cosa è la stessa che si trova nell’intelletto sotto forma di concetto. La cosa ha un’essenza o forma, senza la quale la cosa non può esistere. E d’altra parte, se la conoscenza non è conoscenza dell’essenza o forma della cosa, la conoscenza non può esistere.  Se noi diciamo di una cosa che non sappiamo che cosa è, intendiamo dire che non la conosciamo.

Se diciamo di conoscere un fenomeno o la natura di un fenomeno, quel fenomeno è la cosa che conosciamo. Possiamo ammettere che quel fenomeno sia il vicario dell’essenza della cosa, che non ci direttamente nota, ma non possiamo ammettere che l’essenza della cosa ci resti ignota, perché è il fenomeno che ce la manifesta.

Se l’intelletto non conosce la cosa, la conoscenza non esiste. Per questo Kant sbaglia nel sostenere che noi non conosciamo la cosa, ma l’oggetto, che egli chiama «fenomeno», che è un oggetto interiore, per metà proveniente dal soggetto e per metà proveniente dalla cosa. Ma io non posso ammettere che metà della cosa provenga da me o gliela metta io.  Io desidero conoscere la cosa tutta intera, non solo la metà.

Con quale diritto io poi dovrei aggiungere a una parte dell’oggetto l’altra parte? Da dove la cavo questa parte? L’ho inventata io la cosa? Non posso dire di conoscere quella metà che ci metto io, perchè conoscere non è fare, ma accogliere. Oppure conosco già una metà della cosa? E come è possibile che questa metà sia in me prima di avere contattato la cosa? Ma allora metà della cosa l’ho fatta io? Vediamo in quale guazzabuglio conduce la concezione kantiana della conoscenza.

Dall’idea innata di Cartesio alla forma a priori di Kant

Kant trasforma le idee innate di Cartesio nelle sue cosiddette «forme» o categorie apriori dell’intelletto. Certamente Kant ha fatto bene a respingere la teoria cartesiana delle idee innate, come se il loro sorgere dovesse corrispondere all’atto biologico della nostra nascita. Tuttavia egli è rimasto soggiogato dal concetto cartesiano dell’intelletto, che esclude la potenzialità, per cui per Cartesio il nostro spirito non è una res quae potest cogitare, ma è una res cogitans in atto. Il pensare non è un accidente proprio del nostro spirito, ma è l’essenza del nostro spirito.

Per questo per Cartesio è inconcepibile un intelletto totalmente ignorante o che non pensa, ma per lui l’intelletto, come l’intelletto divino, è per essenza conoscente in atto. Ma in realtà solo Dio è pensante per essenza. Solo Dio è una res cogitans. Anche l’intelletto angelico, che è pure puro intelletto, passa dalla potenza all’atto.

Ora invece bisogna dire che è vero che il nostro intelletto ha una sua propria essenza o forma prima che esso conosca qualunque cosa.  Non c’è dubbio comunque che il nostro intelletto è un apriori ontologico, più importante dell’aposteriori del senso. Eppure l’intelletto umano inizia a conoscere aposteriori, ossia partendo dall’esperienza sensibile e si eleva successivamente con fatica e spesso errando alla percezione dell’apriori, ossia dello spirito.

La forma apriori di Kant è detta così da lui perché è una forma spirituale, una forma dell’intelletto che ha un primato non temporale ma ontologico sulla forma aposteriori, tratta all’esperienza. Temporalmente, come per i realisti, l’esperienza viene prima dell’intellezione; tuttavia l’apriori kantiano non è effetto di un’attività astrattiva, come per il realista, ma condizione di possibilità dell’esperienza, ossia della conoscenza a posteriori.

Per tanti di noi la certezza sensibile è irrefutabile e sarebbe da dementi il negarla, mentre è dubbia l’esistenza dello spirito. Kant non ha dubbi circa la veracità del senso, al quale attribuisce la comunicazione di ciò che proviene dalla cosa in sé (la «materia» del conoscere). Solo che sta ancora con Cartesio nel sostenere il principio del cogito.

Kant riconosce contro Cartesio che la nostra conoscenza ha inizio dall’esperienza sensibile, ma poi si lascia ingannare da Cartesio quando deve spiegare l’origine della conoscenza apriori, ossia del sapere scientifico e filosofico. Qui Kant dimentica la funzione preparatoria del senso e ricasca nel cogito cartesiano, che egli chiama «io penso» o «appercezione trascendentale». Sarà poi l’Io puro di Fichte e di tutti gli idealisti seguenti fino a Husserl.

Del resto, non è affatto vero, come dice Cartesio, che la conoscenza dello spirito sia più facile di quella dei corpi. Essa è certo più sicura, ma la fallibilità della nostra ragione, conseguente al peccato originale, ci ha portati ad essere dei materialisti[4] e a confondere lo spirito col mondo delle nostre idee, come capita appunto agli idealisti.

Alla nostra nascita il nostro intelletto è puramente in potenza, il che vuol dire che esso non conosce nulla di nulla. Non ha alcuna conoscenza apriori, ossia spirituale, prima di conoscere aposteriori, ossia di conoscere mediante i sensi le cose esterne materiali. Solo a queste condizioni, istruito da una buona educazione, concepisce le categorie o predicamenti, nonché i trascendentali, arriva a conoscere lo spirito, l’autocoscienza, i valori morali e Dio.

Ora Kant ha ragione nell’ammettere che il conoscere ha un aspetto produttivo e un aspetto recettivo. Solo che egli confonde l’oggetto del conoscere in quanto oggetto dall’oggetto in quanto cosa. Siccome egli sostiene che noi non conosciamo le cose, ma solo fenomeni delle cose, e deve pur affermare che la conoscenza ha un oggetto, per non parlare di «cosa», sostituisce il termine col termine «oggetto», invece di parlare di conoscenza delle cose parla di conoscenza degli oggetti.

Ma così ne viene la conseguenza incresciosa che l’oggetto della conoscenza è l’oggetto. Ma questo è appunto l’idealismo, perché ciò vuol dire scambiare l’oggetto per la cosa. Ciò infatti corrisponde esattamente alla concezione cartesiana, per la quale noi conosciamo originariamente ed inizialmente apriori le idee e non le cose sensibili. Infatti l’oggetto non è altro che la cosa in quanto sta davanti (ob-jectum) al nostro intelletto. 

Un conto è la cosa in se stessa e un conto è la cosa che ci è rappresenta dal concetto della cosa. Un conto è la cosa e un conto è quanto comprendo della cosa nel mio concetto della cosa. Ma il fatto che io produca questo oggetto interiore, distinto dalla cosa fuori di me, non significa che io non possa conoscere, magari imperfettamente, l’essenza della cosa nel mio concetto della cosa.

L’oggetto del conoscere infatti è ad un tempo il termine dell’atto conoscitivo, e qui coincide con la cosa stessa, ed è anche la cosa oggettivata da me nel mio concetto della cosa, la cosa in quanto concepita e pensata da me. Se io riduco il mio conoscere all’oggetto interiore prodotto da me, ossia il concetto o idea della cosa, scambio la cosa con la mia idea della cosa. E qui sta l’errore dell’idealismo, iniziato da Cartesio e continuato da Kant, benché egli contro Cartesio, giudicasse ovvia l’esistenza del lacosa in sé esterna al pensiero.

In tal modo Kant intende la conoscenza trascendentale non come conoscenza delle proprietà dell’ente, ossia della cosa, sia essa materiale o spirituale, poiché è evidente che quando egli parla di «cosa», intende la cosa materiale sensibile, ma, siccome confonde l’oggetto del sapere col modo del sapere, abbiamo la sua famosa definizione della conoscenza trascendentale come quella che non si occupa di oggetti, ma del modo di conoscerli apriori.

Il trascendentale kantiano e la questione delle categorie

Nel famosissimo passo nel quale Kant dichiara che cosa intende per «trascendentale», egli cambia evidentemente di senso alla parola così come era intesa in precedenza. Cioè per lui il trascendentale non è più proprietà dell’ente o, come si esprime impropriamente, dell’«oggetto», ma del soggetto conoscente: il trascendentale diventa il pensante, il cogito, l’io penso di Cartesio.

Come mai questo mutamento di significato della parola? Perché Kant ha falsificato il concetto di trascendentale, togliendogli il significato ontologico-realista, riferito alla cosa in sé, alla res, per dargli un senso idealista, ossia per riferirlo al soggetto pensante in quanto pensante, alla res cogitans di Cartesio o, più radicalmente allo stesso cogito o io penso di Cartesio.

Kant affetta disprezzo anche per i predicati trascendentali dell’ente fissati da Aristotele: unum, res, aliquid, verum, bonum, pulchrum. Kant ha infatti frainteso la dottrina aristotelica dei trascendentali, che sono i predicati dell’ente, scambiandoli per «esigenze logiche»[5], «criteri del pensiero»[6], «criteri della possibilità del concetto»[7]. Questa incomprensione del vero significato dei trascendentali prepara la sua concezione idealistica del trascendentale, nella quale il trascendentale non è più modo d’essere dell’ente, ma modo del conoscere del conoscente, che però concorre apriori alla produzione dell’oggetto del conoscere. E siccome il conoscente è uno, ecco che i trascendentali da cinque diventano uno solo.

In realtà il trascendentale non è uno solo, come credono gli idealisti, ma esiste una pluralità di trascendentali, come dimostra rigorosamente S.Tommaso, che distingue i trascendentali assoluti (res, aliquid, unum,), dati dal semplice ente, dai trascendentali relazionali (verum, bonum, pulchrum), relazionali perché suppongono il rapporto con lo spirito conoscente, amante e gustante.

Kant distingue con i realisti il trascendentale dal categoriale, ma mentre il primo è limitato all’orizzonte dell’autocoscienza, il secondo è ristretto solo ai fenomeni o dati empirici. Ne viene che, mentre il trascendentale diventa l’orizzonte di pensiero della filosofia idealista, che essa appunto, sulla scorta di Kant, chiama «trascendentale»[8], il campo del categoriale viene lasciato alle scienze empiriche, il cui realismo resta comodo all’idealista per i suoi bisogni quotidiani.

Nella visione realista il trascendentale si distingue dal categoriale in base rispettivamente ai predicati dell’ente e della sostanza materiale. I predicati trascendentali coprono tutta l’estensione dell’ente e sono modi di essere dell’ente come ente. Essi, considerando l’ente in modo assoluto, sono l’uno, la cosa, il qualcosa. Considerando invece l’ente come si manifesta allo spirito, abbiamo il vero che appare all’intelletto, il buono in relazione alla volontà e il bello che appare all’intelletto in quanto piace alla volontà[9].

I predicati categoriali o predicamenti sono invece i generi supremi dell’accidente della sostanza materiale.  Kant ha voluto sostituire una tavola delle categorie a quella formata da Aristotele, pensando che la sua fosse rigorosa ed esauriente, mentre quella di Aristotele raffazzonata ed incompleta. Dice infatti Kant:

«Aristotele, non avendo nessun principio, raccolse affrettatamente i concetti fondamentali, come gli si presentavano. Ma la sua tavola rimase sempre difettosa»[10].

Viceversa Kant si vanta di aver trovato «tutti i concetti puri dell’intelletto», che corrisponderebbero alle «funzioni logiche che si hanno in tutti i giudizi possibili, le quali funzioni esauriscono completamente l’intelletto e ne misurano tutto il suo potere»[11].

Si tratterebbe di

«concetti puri, che l’intelletto contiene in sé apriori e soltanto in virtù dei quali è anche intelletto puro: solo per mezzo di essi si comprende qualche cosa nel molteplice dell’intuizione, cioè pensare un oggetto di essa. Questa divisione è ricavata sistematicamente da un principio comune, cioè dalla facoltà di giudicare, che equivale alla facoltà di pensare»[12], cioè, pertanto, l’io penso di Cartesio.

Se poi andiamo a vedere quali sarebbero queste decantate categorie, vediamo che Kant mescola trascendentali (uno, molti, tutto, realtà, esistenza,) con categorie logiche (possibile, negazione, impossibile, necessario, contingente) e con veri categoriali (inerenza, sussistenza, relazione, azione, passione, causalità).

Kant trascura di elencare fra i trascendentali la res, la cosa ovvero la realtà, l’ens reale. La res è l’ente in quanto reale, dotato di essenza ed essere, come nota San Tommaso[13]. Kant cita bensì la famosa «cosa in sè», distinta dall’intelletto ed esterna all’intelletto; ma la cosa in sé per lui è semplicemente l’«oggetto del senso», ossia la cosa materiale. È pensabile («noùmeno»), ma è ciò che appare come «fenomeno», oggetto della scienza sperimentale. Invece in realtà la res come trascendentale può essere materiale come spirituale. Sono i visibilia et invisibilia del Simbolo della Fede cristiana.

Invece oggetto della filosofia per Kant è l’«io penso», l’autocoscienza cartesiana, soggetto della ragione e della volontà, potremmo dire dello spirito, che Kant chiama con un antico vocabolo tedesco, Gemüt, che significa letteralmente «animo emotivo». Da qui si capisce che il giudizio, per Kant, prima di essere il giudizio teoretico e morale, è il giudizio estetico o, come egli si esprime, «di gusto».

Per questo titola la sua estetica «critica del giudizio». L’oggetto della conoscenza pertanto, per Kant, in fin dei conti non è tanto l’ens o la res, ma il pulchrum, che è bonum da vedersi o, come dice Tommaso, quod visum placet. Kant, al di là del suo razionalismo, è un precursore del «sentimento» (Gefühl) romantico. La gnoseologia di Von Balthasar è su questa linea.

Manca inoltre fra le categorie kantiane la categoria della sostanza. Kant ammette bensì  la sussistenza; ma essa è distinta dalla sostanza, perché in realtà essa è l’atto della sostanza. Come mai questa differenza con Aristotele?  Perchè le categorie kantiane non sorgono, come in Aristotele, dalla nozione dell’ente, ma sono i predicati categoriali del fenomeno, che per lui è l’«oggetto dei sensi» al posto della sostanza materiale. Quindi il fenomeno è per Kant il sussistente.

Il fenomeno kantiano ha una sussistenza, ma non è una sostanza, perché per lui la sostanza è solo la sostanza chimica, ossia quella sensibile e materiale e non pensa ad applicare questa categoria alla sostanza spirituale, cioè l’anima, l’angelo e Dio, perché Kant non considera l’ente e quindi la sostanza in senso analogico, per cui per lui si può predicare la sostanza solo della sostanza chimica o empirica.

Invece ad Aristotele interessano le possibili categorie dell’ente come tale. Per questo egli si accorge che l’ente può essere sostanza o accidente, dal che nascono le famose dieci categorie: sostanza, qualità, quantità, abito, relazione, azione, passione, dove, sito e quando.

Inoltre Aristotele possiede notoriamente una concezione analogica dell’ente, per cui il suo concetto di sostanza si presta ad un significato analogico, e per questo in Aristotele si può parlare di sostanza materiale e sostanza spirituale, cosa impossibile per Kant, per il quale, se di sostanza si può parlare, questa è solo la «sostanza-fenomeno». Per questo, mentre il categoriale aristotelico è analogico e vale per i corpi e per gli spiriti, il categoriale kantiano vale solo per i fenomeni, ed è riservato allo spirito cioè al cogito il trascendentale, che è l’espansione trascendentale del cogito cartesiano, il cosiddetto «io trascendentale»

 Inoltre Kant trascura il quando (tempo), il luogo (dove) e la situazione (sito), perché invece di riconoscere che sono accidenti della sostanza, ne fa le «forme apriori della sensibilità», scambiando l’oggetto del senso, ossia la qualità sensibile della cosa materiale col modo col quale il senso la percepisce, così come confonde l’oggetto dell’intelletto, l’intellegibile o essenza dell’ente, col modo col quale l’intelletto conosce le cose.

Manca anche tra le categorie kantiane quella dell’abito (exis), sicchè vien meno la possibilità di fondare la dottrina delle abitudini e delle virtù come disposizioni pratiche stabili acquisite. Di fatti nella gnoseologia e nella morale kantiana sembra che l’intelletto e la volontà agiscano non in forza della rispettiva virtù intellettuale e morale, ma apriori, in forza della loro stessa essenza, come potrebbe avvenire nell’intelletto e nella volontà divini.

L’abito invece è necessario per determinare una facoltà o potenza di per sé non determinata, ma aperta a diverse possibilità, quali sono appunto l’intelletto e la volontà umani, inizialmente in potenza a qualunque atto. Ora Kant parla sì di facoltà, ma ne resta solo la parola, perchè col suo apriorismo sistematico di fatto misconosce il ruolo dell’aposteriori, ossia del processo graduale di formazione e sviluppo realistico dell’attività dell’intelletto e della volontà sulla base dell’esperienza, e quindi dell’aposteriori.

Sembra che per Kant tutta l’attività dello spirito umano di risolva nell’applicazione autocosciente di leggi apriori, come il funzionamento di un’automobile si avvia con l’accensione del motore. È vero che egli ammette il libero arbitrio, ma anche questo sembra garantire sufficiente onestà morale dalla semplice esecuzione di un dovere apriori non fondato sulla conoscenza della cosa in sé e della volontà divina, ma sulla semplice volontà riflessa della ragion pratica. È chiaro che in queste condizioni l’abito della virtù non è più necessario, visto che lo spirito funziona già da sé apriori secondo leggi e forme che esso stesso si è imposto e possiede in se stesso.

Riguardo alla conoscenza sensibile ed alla sensazione, Kant è sulla linea del soggettivismo cartesiano: le sensazioni non ci fanno conoscere qualità oggettive appartenenti alla cosa, ma sono delle semplici modificazioni della sensibilità. La differenza con Cartesio è che mentre questi  ammette almeno l’estensione e la temporalità come proprietà dei corpi, Kant, nella linea del suo concetto di conoscenza come dar forma a una materia, riconosce bensì l’esistenza in sé della cosa sensibile, ma avoca alla sensibilità ciò che appartiene all’oggetto sensibile, ossia la forma sensibile dell’oggetto, sicchè Kant finisce col concepire spazio e tempo non come proprietà delle cose materiali, ma come proprietà del senso, come se il senso desse forma all’oggetto anziché assumesse intenzionalmente la forma dell’oggetto.

Ora è vero che il senso ha un suo modo naturale ed apriori di funzionare, ma siamo sempre lì: Kant confonde questo apriori modale con un inesistente apriori contenutistico, avocando al senso la creazione di quelle proprietà del sensibile, che non sta al senso determinare, ma solo a Dio, creatore della sensibilità e dell’oggetto del senso[14].  

In tal modo il trascendentale, che sarebbe per gli idealisti la massima categoria, è diventato una specie di mantra o parola magica o passe-par-tout, con i quali coprono con una cortina fumogena i problemi irrisolti, oppure vogliono incutere rispetto e soggezione nel lettore con un termine solenne ed altisonante.

Quindi con Kant qui non abbiamo affatto il passaggio, come vorrebbero farci credere gli idealisti e i modernisti, dal trascendentale antico al trascendentale «moderno», come se per essere moderni e aggiornati critici e non ingenui, occorresse assumere il trascendentale kantiano e respingere quello tomista.

 Invece abbiamo un abbandono dell’apertura della mente alla sconfinata vastità e varietà dell’essere nelle sue modalità essenziali per chiuderci nei limiti del nostro io, che è diventato il cappello del prestigiatore dal quale egli trae fuori meraviglie per coloro che non conoscono il trucco.

Fine Terza Parte (3/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 6 settembre 2022

Kant confonde la materia cosmologica con la materia logica, l’oggetto cosmologico – il sinolo – con l’oggetto logico (ob-jectum). La materia del conoscere, ossia la materia in senso logico non è come la materia cosmologica, che è informata dalla forma, così come lo scultore dà forma al marmo. La materia in senso logico non è altro che l’oggetto del conoscere, così come diciamo che la data cosa è materia di studio.

Per questoa materia del conoscere non viene solo dai sensi, ma è anche l’essenza o forma intellegibile della cosa, che può essere anche spirituale, anche Dio e non solo la cosa sensibile o il fenomeno. La materia sensibile è oggetto della conoscenza sensibile, che abbiamo in comune con gli animali. Non esiste una forma del conoscere così come la forma del formaggio dà forma al formaggio parmigiano.

Il conoscere non è una forma vuota da riempire con un contenuto che viene dal di fuori. L’intelletto non è una specie di bicchiere che dev’essere riempito di vino, ma è una potenza dell’anima mediante la quale l’anima acquista intenzionalmente la forma del bicchiere e del vino. «L’anima, come dice Aristotele, è in qualche modo tutte le cose» mediante la conoscenza. Non dà forma alle cose, ma è intenzionalmente la forma delle cose.

Quindi non solo il contenuto della cosa, ma anche la sua forma vengono dal di fuori, ossia dalla cosa e insieme compongono l’essenza della cosa, che è l’oggetto del conoscere, si tratti di una cosa materiale (materia e forma) o di una cosa spirituale (pura form

Immagini da Internet:
- Copia, Michelangelo fanciullo scolpisce la testa del Fauno
- Diego Velàzquez, Il pranzo degli agricoltori


[1] Critica della ragion pura, op.cit., p.27.

[2] Così come si dice la materia di studio o la materia del discorso.

[3] Josephus Gredt, Elementa philosophiae aristotelico-thomisticae, Herder, Friburgi Brisgoviae 1937, vol.I.

[4] «Uomini carnali», direbbe San Paolo.

[5] Critica della ragion pura, op.cit., p.124.

[6] Ibid.

[7] Ibid., p.125.

[8] Vedi per esempio di Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, Editori Laterza, Bari 1990; oppure Autori vari, Studi di filosofia trascendentale, Vita e pensiero, Milano 1993.

[9] Quaestio disputata De Veritate, q.1, a.1.

[10] Critica della ragion pura, Laterza Edizioni, Bari 1965, p.119.

[11] Ibid., p.118.

[12] Ibid., p.119.

[13] Quaestio disputata De Verutate, q., a.1

[14] La fenomenologia della percezione, Morcelliana, Brescia 1961.

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