Trattato sugli Atti umani - P. Tomas Tyn - Lezione 7 (2/2)

 

 Trattato sugli Atti umani

P. Tomas Tyn

Lezione 7 (Parte 2/2)

P.Tomas Tyn, OP - Corso “Atti Umani” - AA.1986-1987 - Lezione n. 16 (A-B)

Bologna, 10 marzo 1987

http://www.arpato.org/corso_attiumani.htm

Dopo avere studiato le fonti della moralità nella complessità dell’atto umano, di quell’atto che è nella sua unità e interiore ed esterno, vi ricordo sempre come S.Tommaso distingue sempre secundum rationem, la dualità dell’atto interno ed esterno. In fondo sono un unico atto, uno nell’essere morale, di per sé uno nell’essere morale. Però è bene analizzare separatamente l’aspetto di interiorità e di esteriorità. E’ certo che non c’è un atto esterno senza un atto interiore; c’è però un atto interiore senza un atto esterno.

Per esempio, dare esteriormente l’elemosina non è mai senza una certa disposizione interiore, o caritatevole o farisaica, ma in ogni caso una certa disposizione interiore ci dev’essere. Invece amare Dio è solo un atto interiore. Nessuno lo vede, nessuno lo sa, e però è un atto interiore. Quindi, insomma, ci possono essere degli atti interiori senza un aspetto esterno. Ma non c’è atto esterno ovviamente senza un aspetto interno, da cui procede. E ovviamente la parte determinante dell’atto umano è la parte interiore.

Ebbene, cominciamo adesso anzitutto con l’analisi dell’atto interiore. Soprattutto c’è da chiedersi se la bontà o la malizia dell’atto interiore dipenda dall’oggetto. E qui penso che possiamo dire: evidentemente, sì. Non c’è dubbio. Come per l’atto morale in genere la prima bontà o malizia è quella dell’oggetto, così per l’atto interiore ovviamente la bontà e la malizia viene determinata dall’oggetto.

E’ interessante il modo in cui S.Tommaso dimostra questo punto. Ricorre a quanto ha detto prima. E cioè che il bene e il male morale differenziano specificamente l’atto umano; sono specie diverse di atto umano. L’atto umano buono è specificamente diverso da quello cattivo.

Perché? Perchè il bene e il male si rapportano per se e non per accidens, alla facoltà razionale, da cui dipendono il bene e il male morale. Secondo quanto abbiamo detto, agire moralmente bene, anzi, l’esistere secondo la bontà morale è esse secundum rationem, esistere all’altezza della propria razionalità.

Quindi, vi ripeto sempre quell’esempio che S.Tommaso fa. Cioè, mentre il colore e il suono si riferiscono per se al senso, così da differenziare due sensi distinti: l’udito per il suono e la vista per il colore, non si differenziano, invece, ma si rapportano solo accidentalmente alla concettualità della ragione. Cioè la ragione può formare indifferentemente il concetto di un colore o il concetto di un suono. Quindi, il colore e il suono che specificano sensi diversi, non specificano facoltà intellettive diverse, ma la stessa facoltà intellettiva conosce l’uno e l’altro.

Ora, siccome il bene e il male si rapporta per se alla ragione, ecco che quell’atto che è determinato dalla ragione e dalla volontà, non può che essere specificamente distinto in buono o cattivo.

Ora, dato che negli atti, come pure negli abiti e nelle potenze, in tutto l’ambito operativo, la specie deriva sempre dall’oggetto, dalla ratio formalis obiecti, la conclusione è che, evidentemente, data la distinzione specifica tra atto umano buono e cattivo, non c’è dubbio che tale distinzione specifica, quindi la stessa bontà e malizia morale che sono specificamente distinte, questa bontà e malizia saranno fondate a loro volta su di una diversa ratio formalis obiecti.

Quindi non c’è dubbio che l’atto interiore riceve la sua specie morale dall’oggetto. Questo non ci sorprende, ma quello che è un po’ sorprendente, è il passo successivo. E cioè nel secondo articolo S.Tommaso appunto sostiene una tesi che apparentemente potrebbe lasciare un po’ perplessi. E cioè che, mentre le fonti della moralità, come abbiamo visto, per l’atto umano nella sua complessità sono tre, l’oggetto, il fine e le circostanze, per l’atto umano interno ce n’è una sola ed è l’oggetto, l’oggetto che qui coincide con l’oggetto della volontà[1]

Breve interruzione

L’oggetto della volontà è il fine per cui si agisce. Nelle altre facoltà c’è un oggetto che non è necessariamente il fine. Invece la volontà ha sempre per oggetto il fine. La volontà è per eccellenza la facoltà del fine.

Quindi, l’atto interiore della volontà è sempre determinato psichicamente e anche moralmente, dall’oggetto, il quale oggetto non si differenzia dal fine, che è determinato solo dall’oggetto. Non ci sono le altre fonti, ossia il fine distinto dall’oggetto e le circostanze. Per questo bisogna trovare una certa plausibilità, per spiegare questo fatto, come mai nell’ interiorità dell’atto umano accade questo.

E qui c’è l’argomentazione di S.Tommaso. Mi piace tanto, seppure ovviamente non sia proprio rigorosa nel senso di certezza matematica, cosa impossibile in questo campo. Però c’è una certa plausibilità fondata ancora su di una analogia con la entità metafisica, ontologica, se volete. Ossia, il principio è questo: ciò che è l’entità primaria in un determinato genere è sempre un qualcosa di semplice,e  di incomposto, qualche cosa che consiste in una sola cosa.

Questo si connette molto con la filosofia della partecipazione, la quale è limitazione e moltiplicazione nel contempo. E’ interessante questo fatto che, in fondo metafisicamente considerata, la moltiplicazione non è un accrescimento dell’essere, ma suppone una divisione.

Nell’ambito matematico, la divisione e la moltiplicazione sono operazioni contrarie. La divisione proprio divide, la moltiplicazione accresce, Nell’ambito ontologico la moltiplicazione accade tramite una divisione, rivela una divisione accaduta, una frantumazione[2]. In questo Parmenide non sbaglia, Parmenide era colui che ha colto appunto l’unità dell’essere. Quindi, l’intuizione della molteplicità è come un venir meno, non un accrescere l’essere, perché che all’essere non si può aggiungere nulla. Ma è un diminuire l’essere moltiplicato.

In questo senso, vedete, le realtà composte, quindi moltiplicate, sono delle realtà derivate, diminuite in qualche modo nel loro status ontologico. Quindi la realtà prima e fondante è sempre una realtà semplice, dove semplice non vuol dire povera. E’ questo  che voglio dire. E’ la semplicità della somma ricchezza, in sostanza. Vedete, vedete, miei cari, pure questo va connesso o riconnesso con la morale evangelica. E’ la semplicità evangelica, la povertà secondo lo spirito. Non è la povertà di spirito nel senso proprio di mancanza delle facoltà mentali, seppure ci siano dei cristiani che la pensano in questa maniera. Insomma, più uno rinuncia alla ragione, più diventa gradito a Dio.

 Ebbene, no! La semplicità del cristiano è un’ imitazione per quanto è possibile della simplicitas Dei. Pensate, Dio, che è la pienezza di essere, è sommamente semplice. Così la semplicità dell’uomo perfetto è proprio un assimilare se stesso, non alla semplicità di una pietra - capite quello che voglio dire -. Ma alla semplicità divina. Che ovviamente è ricchezza, altissima ricchezza spirituale.

In questo senso, dice S.Tommaso, la prima fondante realtà in ogni genere è sempre un qualche cosa di semplice. Così anche nell’agire umano, in fondo l’atto interiore è il fondamento dell’atto preso nella sua completezza. Quindi l’atto interiore è proprio il primum costitutivo di tutto l’atto umano. E allora ciò che vale in genere, per ogni ente, dovrà in qualche modo valere anche per il fondamento dell’atto umano. vedete, si tratta proprio di un argomento di plausibilità.

Quindi, se il fondamento di ogni genere di ente è un fondamento semplice, così anche l’atto umano nella sua globalità avrà un fondamento interiore semplice. Quindi, mentre la moralità dell’atto umano derivato è complessa, deriva cioè non solo dal fine, ma anche dall’oggetto e dalle circostanze, la moralità dell’atto interiore deriva solo da quell’oggetto che è nel contempo anche il fine. Non c’è distinzione ovviamente tra fine e oggetto.

Questa identità di oggetto e di fine poi la potete leggere per conto vostro nell’ad primum di questo secondo articolo della XIX questione. Nell’ad secundum invece, S.Tommaso spiega come non esistono circostanze interiori. Nell’ad primum spiega come l’oggetto e il fine coincidono, cosicchè non è più possibile distinguere nella volontà l’oggetto dal fine. Invece è possibile distinguere l’oggetto dell’atto esterno dal fine della volontà, che compie l’atto esterno, finalizzandolo a ciò che la volontà, in ultima analisi, vuole.

Importante è adesso vedere come anche le circostanze non possono qualificare moralmente l’atto umano interno. Ora, ci sono solo due possibilità. Le circostanze possono rapportarsi all’oggetto dell’atto umano interiore. Quindi, io interiormente voglio. Voglio che cosa? Compiere un’azione esterna in circostanze non dovute. Ma in tal caso le circostanze non sono quelle dell’atto umano interiore, ma bensì dell’atto umano esterno, che io intendo.

Quindi entrano in qualche modo a essere circostanze dell’oggetto, non dell’atto stesso interiore, in quanto interiore. Per esempio, se io voglio dedicarmi alla preghiera o allo studio in un tempo inopportuno, mentre c’è bisogno di fare qualcosa altro. Questo volere dedicarmi ad una attività in un tempo inopportuno, non è una circostanza che squalifica il mio volere, è una circostanza che squalifica l’oggetto del mio volere. Oppure la circostanza effettivamente si rapporta al volere stesso, e così potrebbe qualificare appunto l’atto interiore.

In tale ipotesi bisognerebbe, per esempio, pensare a un volere il bene in circostanza inopportuna, volere il bene quando non è opportuno volere il bene. Ora, dice S.Tommaso, è inutile fare questa ipotesi, perchè il bene bisogna sempre volerlo. Quindi, non c’è circostanza nella quale in qualche modo uno non dovrebbe volere il bene. Può capitare, ma solo per accidens, accidentalmente, che uno volendo una cosa o pensando a una cosa, non pensa e non vuole un’altra cosa.

Quindi pensando un bene, volendo un bene, io incidentalmente non penso a un altro bene, a cui forse dovrei pensare di più che a quel bene a cui penso. Però, siccome i beni in fondo sono connessi tra di loro, è solo accidentale che io pensando ad un bene ne escluda un altro, di per sé i due beni non sono in contrasto.

Quindi, di per sé la circostanza non può qualificare moralmente un atto umano interiore, ma l’atto umano interiore dipende tutto unicamente dal suo oggetto, che in tal caso è anche il suo fine. Ciò che io intendo, quello che io voglio ovviamente qualifica la mia volizione.

E questo chiarisce il terzo articolo, che è più importante di quanto potrebbe suggerire la sua brevità. Poi lo rivedremo massicciamente[3] nella questione veramente vexata e difficile della coscienza e della rettitudine della coscienza. Nel terzo articolo S.Tommaso si adopera a spiegare come la bontà o la malizia della volontà, cioè dell’atto umano interno, dipenda dalla ragione pratica che presenta l’oggetto.

Questo è sempre da tenere ben presente. In fondo vi subentra l’assioma, è il caso di dire proprio assioma, nihil volitum nisi praecognitum, ossia l’oggetto della volontà, prima di essere oggetto della volontà è sempre, senza eccezione, l’oggetto della volontà. Prima di esserlo rispetto alla volontà, è sempre anzitutto oggetto della ragione. Ossia la volontà non si rapporta mai a un oggetto immediatamente, si rapporta all’oggetto sempre tramite la presentazione della ragione.

Quindi la realtà è l’oggetto per la ragione e tramite la ragione la bontà della realtà, rappresentata concettualmente tramite il concetto pratico, il giudizio pratico, diventa oggetto anche per la volontà. S.Tommaso dice chiaramente che la volontà, come appetitus intellectivus, come appetire, e tendere razionale, è tutta interamente fondata fondata sulla razionalità.

Quindi non è possibile che la volontà si muova dopo una presentazione sensitiva dell’oggetto. Non si può dire che la volontà sia mossa dalla presentazione sensibile dell’oggetto nella sua concretezza, perché la volontà non tende a questo o quel bene particolare, se non in quanto il bene particolare è rivestito della ratio universalis boni.

Notate bene, non è che la volontà non tenda al bene particolare, ci tende, certamente. La volontà tende al bene particolare, però sempre tramite la sua partecipazione alla ratio boni; non vi tende immediatamente. Invece gli appetiti sensitivi tendono immediatamente al bene concreto e di fatto sono preceduti solo da una presentazione concreta sensibile individuale dell’oggetto.

Quindi la volontà tende al bene concreto, reale così come è in rerum natura, dove certamente esiste concretamente, però tramite la presentazione della ragione, che presenta alla volontà il bene dell’oggetto in quanto è una partecipazione alla ratio universalis boni, e solo così la volontà può portarsi al suo oggetto. Quindi, nessuna volizione può essere dispensata da questa presentazione razionale. Quindi l’oggetto della volontà è un oggetto mediato razionalmente, proposto dalla ragione.

Quindi ovviamente la bontà e la malizia dell’atto umano dipendono dalla ragione. Se la ragione è buona, l’atto umano è buono; se è cattiva, è cattivo. Ebbene, dov’ è questa bontà della ragione? Ovviamente nella verità del giudizio pratico-pratico. Se il giudizio pratico-pratico, specificante l’atto della scelta, è vero e quindi buono, anche la scelta è buona. Se il giudizio pratico-pratico non è vero, sappiamo che la sua non verità non è una falsità speculativa, ma una falsità di cui si è a nostra volta responsabili. E quindi la volontà, che segue un tale giudizio pratico-pratico, diventerà a sua volta cattiva.

E questo[4], ahimè, la morale contemporanea non lo considera, ma è molto giusto tenerlo; molto giusto; è essenziale e fondante prenderlo in considerazione, mentre l’etica moderna, bontà sua, se ci arriva, lo considererebbe a livello delle virtù teologali. Cioè Dio come la regola suprema dell’atto umano.

Invece,  S.Tommaso non ha dubbi che in Dio, nella razionalità di Dio, quella che egli chiama Lex aeterna, la Legge eterna, cioè Dio in quanto è norma, in quanto è fine ultimo e sommo bene, è sempre la regola a cui deve sottomettersi ogni atto umano.

Quindi, nella bontà e nella malizia del nostro agire interiore noi siamo in qualche siamo modo diretti non solo dalla nostra ragione, ma anche dalla partecipazione in noi della ragione divina. Sono le rationes aeternae. Qui S.Tommaso ovviamente attinge a piene mani al platonismo agostiniano. Si tratta di consultare la ragione superiore, le rationes aeternae, che ci sono ovviamente in Dio.

Quindi, penso che sia un articolo che merita molta attenzione. Cioè bisogna sempre considerare l’immanenza della nostra razionalità, alla luce della razionalità trascendente, di cui la nostra razionalità è sempre e solo ed essenzialmente una partecipazione. S.Tommaso ha ancora molta consapevolezza di questo. Consapevolezza, ahimè, smarrita nel nostro immanentismo contemporaneo.

Infatti, all’uomo d’oggi un articolo come quello di S.Tommaso sembra istituire una specie di eteronomia morale, per adoperare i termini di Kant.  Secondo S.Tommaso, noi troviamo la suprema regola del nostro agire in una Legge, che non è la razionalità umana, ma che è la razionalità suprema di Dio. Ora, ovviamente questo discorso tomistico può essere attendibile solo se la ragione umana in qualche modo dipende dalla razionalità divina.

Ovviamente la concezione moderna è quella che toglie nettamente ogni aggancio della ragione umana dalla razionalità superiore. La ragione umana nell’etica kantiana e post-kantiana è un passaggio obbligatorio ormai per tutti i moralisti contemporanei. L’autonomia morale significa che la razionalità umana è elevata a principio assoluto.

           In fondo, questo è un po’ anche il cogito cartesiano. Cartesio ovviamente non vede la cosa sotto il punto di vista morale, ma dal punto di vista speculativo: la certezza fondante è quella che l’uomo trova in sè, non in Dio. Dio è solo poi una garanzia secondaria. Così anche per Kant. Dio poi subentrerà appunto a livello dei postulati della ragion pratica, ma non è costitutivo per la moralità dell’atto umano.  

Per S.Tommaso, invece, la razionalità divina incide, certo tramite quella umana, ma dato che la causa seconda dipende dalla causa prima e l’effetto dipende da quella prima, ancor più che dalla causa seconda, non c’è dubbio che sull’atto umano la sua sottomissione alla regola della ragione divina, la Lex aeterna, incide ancor più che la sua sottomissione alla regola della ragione umana.

Quindi, è molto bello considerare questo fatto della normatività, non solo della ragione umana, che in qualche modo interpreta la verità dell’uomo, ma vedere anche la normatività della stessa ragione divina, nella quale la verità umana, la verità dell’essere umano è interpretata non formalmente, ma radicalmente, causalmente, perchè Dio è causa della stessa natura umana.

Questo discorso poi tornerà, vi diventerà facilmente familiare, perché lo ritroverete nel trattato sulla legge, che mi pare facciate pure quest’anno con Padre Alberto. Questo rapporto tra legge naturale e legge eterna divina sembra un relitto del Medioevo; e invece è essenziale.

Questa vera antropologia, è una antropologia, che vede proprio la razionalità umana, cioè la dimensione più specificamente umana, nella sua autonomia, perché ciò che S.Tommaso dice per tutte le creature, cioè che il loro essere tali non coincide con il loro essere causato, vale certamente ancora più per l’uomo.

Avere la ragione, per l’uomo, non si riduce ad averla dall’altro; però di fatto la nostra ragione non può derivarci se non dall’altro, giacché è una razionalità finita, una spiritualità finita, limitata. E quindi non può che essere causata. Come l’essere limitato non può che essere causato e partecipato, così anche la razionalità, questa perfectio simpliciter simplex, non può che essere causata dall’altro.

Questo articolo è molto importante dal punto di vista metafisico. C’è tutta una metafisica dei trascendentali e quelli che Padre Boccanegra chiama i “perfettibili”, ma forse si potrebbe dire perfezioni graduali. Io non lo seguo in questa terminologia, perchè perfettibile significa un che di potenziale, nella terminologia, no? Perfettibile è ciò che è suscettibile di perfezionarsi. E’ per questo che preferisco “perfezione graduale”, che dà più l’impressione di un che di attuale, quindi appunto di perfetto.

Ad ogni modo, c’è questo fatto della perfezione, che è la quarta via di S.Tommaso, in sostanza. Nel caso della la perfezione finita, si tratta di una perfectio simpliciter simplex. La perfezione finita non può che essere causata da quell’ente che possiede quella perfezione per essenza e in misura infinita.

E S.Tommaso qui ricorre addirittura all’autorità della Scrittura, a quel bellissimo Salmo, che dice appunto: “Signatum est super nos lumen vultus tui, Domine”, “E’ stata segnata sopra di noi la luce del tuo volto, o Signore”. Quindi, in qualche modo, Dio illumina la nostra intelligenza. Ma non nel senso agostiniano. S.Tommaso non comprende questo come se Dio intervenisse volta per volta per illuminare la nostra razionalità, ma lo comprende nel senso strutturale, cioè la ragione strutturalmente per natura sua, è un derivato causale e partecipativo della razionalità divina.

E quindi, c’è una cosa molto interessante. S.Tommaso dice che, quando mancano le rationes humanae, bisogna ricorrere alle rationes eternae, alle rationes divinae.. Questo si connette, nel trattato della prudenza, con la gnome. Voi sapete che quando c’è una circostanza particolare non prevista dalla legge, bisogna ricorrere alla legge superiore.

Quindi, se la legge positiva per esempio non si esprime in una determinata materia, è sempre bene rifarsi alla legge naturale, per interpretare la legge positiva, anche contro la lettera, ma sempre nello spirito della legge stessa, dato che lo spirito più intimo della legge positiva è la sua applicazione della legge naturale. Il senso della legge positiva è applicare la legge naturale. E’ chiaro che i nostri giusnaturalisti contemporanei, però stranamente giusnaturalisti, non mi daranno ragione. Invece, quei veri giusnaturalisti, che ammettono proprio la lex naturae, questi daranno ragione senz’altro.

Cioè, il senso della legge positiva non è quella di, così, di legiferare in assoluto, no? Ma di applicare là dove non ci sono in qualche modo delle, delle norme particolari della legge naturale, di applicare la legge naturale regolandone la disciplina nella singolarità dell’atto umano, no? Ecco. Allora. Se la legge positiva non prevede una determinata circostanza, ci si rifà appunto alla legge naturale. Non so se rendo l’idea. Vedete.

Per esempio, miei cari, non voglio turbare la vostra coscienza, ma nella vexata quaestio, del digiuno del venerdì, c’è poco da fare. Il canone 1251, fino a prova contraria, prevede che si digiuni tutti i venerdì. Mi dispiace per i reverendi che dicono il contrario, ma spetta alla Conferenza Episcopale, secondo il canone 1253, stabilire una disciplina particolare ben determinata, e non una vaga disciplina per dire che si fa come prima. Il che sarebbe un po’ troppo facile.

Insomma, proprio come prevede il canone, stabilirà una disciplina particolare per la Chiesa locale, e, finchè non ci sarà un decreto del genere, mi pare che, interpretando la legge textus et contextus, bisogni proprio applicarla a norma del canone 1251. Però, anche se così non fosse, nella perplessità bisognerebbe in qualche modo ricorrere alla stessa natura dell’uomo[5].

Alla quale, tema quaresimale, fa tanto bene, miei cari, esercitare certe opere di penitenza, non solo dando l’elemosina e pregando il Signore Dio Onnipotente, ma ogni tanto privandoci anche di qualche cosa nel cibo e in queste, come si potrebbe dire, ricercatezze del vitto e via dicendo.

Quindi, nella perplessità circa la legge positiva si ricorre in qualche modo alla legge naturale. Così, invece, nella perplessità naturale, si ricorre a che cosa? Alla Legge eterna. Ovviamente non è facile. Infatti, come si fa a consultare il Padre eterno? Non so se mi spiego. E quindi, certo, ripeto, soprattutto poi subentra insomma, ovviamente la grazia santificante, la fede, che ci illumina anche soprannaturalmente e quindi che ci fa capire in qualche modo tramite la Rivelazione ciò che è, potremmo dire, la logica di Dio, e qui non posso dare del tutto torto a quelli che lo collegano questo discorso con temi soprannaturali,

Però, è molto bello questo tema naturale, proprio naturale, prima che soprannaturale, della Lex aeterna di Dio, che non solo è il fine ultimo, ma proprio come fine ultimo, come summum bonum, come anche somma verità e somma razionalità, Dio si costituisce anche come norma della legge.

Come le finalità particolari dell’essere umano sono altrettanto promulgazioni della volontà del Creatore, così si potrebbe dire che Dio in Sè è già una finalità promulgata, Dio in Sè nella sua bontà è espressione della sua volontà.

Anzi, l’oggetto primario della volontà divina, è la stessa bontà divina. Capite quello che voglio dire. Quindi, siccome la volontà di Dio è una volontà legislatrice, il bene, che la volontà divina ha per oggetto proprio immediato, sarà il bene sommamente normativo. La promulgazione della legge suprema avviene nella manifestazione della bontà di Dio in Sè, quella bontà che appunto è oggetto primario della volontà stessa di Dio.

Seppure non è appunto facile conoscere questa volontà quoad nos, in questa altissima espressione. Però è sempre bene tenerne conto. Vedete come la metafisica tomistica fa appunto vedere la razionalità umana, sì, ad imaginem Dei, ma nel contempo ontologicamente dipendente da Dio come una partecipazione della sua razionalità. Allora pensateci che il nostro atto umano non deve regolarsi solo secondo la norma diciamo prossima della nostra stessa razionalità umana, ma anche secondo la norma remota e ultima della razionalità divina.

Adesso affrontiamo le due vexatae quaestiones. Che Dio ci aiuti proprio, mandandoci il sostegno del suo Paraclito. Sono due questioni di estrema importanza. Voglio proprio attirare la vostra attenzione su questo tema, e cioè la questione della coscienza errante. E qui subentra ciò che vi dissi prima, riguardo all’articolo tre, cioè la mediazione razionale nell’oggetto della volontà. La volontà riceve un oggetto non immediatamente, ma tramite la presentazione della ragione.

Ora, S.Tommaso svolge l’argomento in due questioni, che egli propone. Ed è molto importante. Premettiamole, chè poi le commentiamo in particolare. E’ molto bene vederne la connessione.  La prima questione è questa, se la volontà discordante dalla ragione errante, cioè se la volontà che discorda o che si discosta dalla ragione errante, sia una volontà cattiva.

E questa questione coincide con il problema se la coscienza errante obblighi. Cioè, se io ho il dovere di seguire coscienza, nel caso che essa erri o io abbia una coscienza che mi dice delle cose sbagliate, e nel caso che non la segua, se io pecchi. Non c’è dubbio che S.Tommaso fa degli esempi addirittura molto poderosi[6].

Per esempio, la fede cristiana è certamente buona e necessaria per la salvezza delle anime. Checché ne dica il Padre Chenu, il quale mi pare che dica che non vale più extra Ecclesiam nulla salus. Io sono ancora con il Concilio di Firenze. Mi dispiace per Padre Chenu. Ad ogni modo, il fatto è che la fede cristiana è assolutamente indispensabile per la salvezza delle anime, come dice S.Tommaso. E però se una coscienza errante concepisce la fede cristiana come un qualcosa di sbagliato, di deteriore, quel tale, che erra se si discosta dalla sua coscienza, deve seguire la sua coscienza.

Per esempio, la fede cristiana è un qualche cosa di buono; lui però la considera come un crimine. E lasciare un crimine impunito è certamente un male. Quindi lui, lasciando i cristiani impuniti, anche se la sua coscienza erra, al limite agisce male. Pensate appunto ai persecutori dei primi cristiani. Erano dei Romani, pagani, che veramente, pensavano al cristianesimo proprio come ad una specie di crimine contro lo Stato e via dicendo.

Ora, certamente non tutti erano in buona fede. Ma si potrebbe forse supporre che alcuni effettivamente avessero una preoccupazione tale, da costituire una coscienza addirittura invincibilmente errante. Comunque, la prima questione è questa: se la coscienza mi presenta un oggetto in maniera sbagliata, cioè non secondo la verità delle cose, mi presenta insomma un bene come un male e un male come un bene - la domanda è questa -, se io ho una coscienza errante, mi è lecito scostarmi, insomma agire contro quella coscienza? O, in altre parole: la coscienza errante, nonostante il suo errore, obbliga o non obbliga?

L’altra questione è questa, e cioè: se la volontà concordante con la coscienza errante o con la ragione errante, sia buona. E questa questione coincide con il problema: se la coscienza errante scusi dal peccato.. Quindi, la prima è se la coscienza errante obblighi; l’altra è se la coscienza errante scusi o meno dal peccato, nel caso che ci si adegui a quella stessa coscienza nell’agire.

Anzitutto la prima domanda: se la volontà, che segue la coscienza errante, sia una buona. Ossia, se è lecito scostarsi in qualche modo dalla coscienza errante, se la coscienza errante obbliga o meno. S.Tommaso, all’inizio, espone un’opinione, che reputa giustamente del tutto errata. In fondo, è una scappatoia molto, molto, raffinata. C’erano infatti alcuni, che veramente io capisco, perché è cosa grossa. Guardate, lì S.Tommaso ne dice veramente una di calibro piuttosto notevole.

C’erano infatti alcuni che dicevano che, quando in un tema di morale di vitale importanza, o di legge naturale o di legge addirittura soprannaturale, come la fede cristiana necessaria per la salvezza, eccetera, quando in un tema così importante la coscienza erra, non può essere obbligatoria. Però dev’essere il caso in cui, per togliere lo scrupolo, quindi questa tesi va un po’ incontro agli scrupolosi, la coscienza erra in materia indifferente nella  specie, come abbiamo visto, per esempio, fare la passeggiata o non farla.

Se la mia coscienza è ossessiva, mi presenta come assolutamente necessario un qualcosa che in fondo non lo è, come fare una passeggiata o meno, oppure un ipocondriaco, eccetera, un maniaco della salute. Per lui la passeggiata diventa proprio la via della salvezza Queste vie di salvezza proliferano in questa epoca somatolatrica, dove il nostro caro soma è assolutamente il finis ultimus omnium rerum.

Quindi, il discorso di qulle sette, che, che curano appunto il nostro corpicino, è veramente qualche cosa di spaventoso. Mi hanno colpito soprattutto questi cinesi ting, mi pare che si chiamano così. Ci sono cure di erbe e diversi digiuni. Adesso nella Santa Chiesa di digiuni ce ne sono fin troppo pochi, mentre lì subentrano poi questi digiuni, astinenze, eccetera. Condannano il consumo della carne, che per loro è qualche cosa di effettivamente deleterio. Insomma, la salute per loro è tutto. Escogitano anche delle norme assolutamente inattendibili dal punto di vista scientifico, per conservare la nostra preziosa salute.

Se in questa materia che in fondo è indifferente, uno diventa ossessivo, maniaco, e quindi ha una coscienza ovviamente errante, che gli presenta una entità indifferente come la via unica di salvezza, allora questi tali dicono: sì, è meglio che si adegui alla sua coscienza. Per esempio, se uno è scrupoloso e pensa che mangiar carne sia comunque, peccato mortale, è meglio che si adegui[7]. Di per sé, è cosa indifferente, tranne che il venerdì, per disposizioni della legge positiva ecclesiastica. Comunque, per gli altri giorni è cosa, di per sé indifferente.

E allora, a questo punto, può esserci lo scrupoloso che dice: no, bisogna che io viva da vegetariano, perché sennò, e via dicendo. Allora, dicono questi[8], nel caso di una materia indifferente è bene che egli segua la coscienza errante. Quindi compia come obbligo ciò che obbligo obiettivamente non è. Però la coscienza erroneamente glielo presenta come tale. O viceversa ci può essere una materia indifferente, dove la coscienza presenta qualche cosa come consigliato o come obbligatorio e quindi in qualche modo è la modalità, diciamo, della presentazione che è errata[9].

Quindi, i teologi di questa opinione non ammettevano che in una materia specificamente buona o cattiva, ci possa essere la liceità di seguire o addirittura la obbligatorietà di seguire la coscienza errante. Invece S.Tommaso dice che in fondo non c’è differenza, prchè l’errore della coscienza in materia indifferente è lo stesso  della coscienza in materia moralmente già qualificata.

Si tratta sempre di un oggetto proposto alla volontà, tramite una ragione che sbaglia rendendo obbligatoria una cosa non obbligatoria, o presentando come cattiva una cosa buona o presentando come cosa buona una che è cattiva.

Allora, per S.Tommaso, dato questo fatto, che l’oggetto della volontà è sempre mediato dalla ragione, e quindi l’oggetto diventa tale per la volontà solo tramite la ragione, la volontà deve sempre adeguarsi alla proposta della ragione, perché, se io apprendo con la ragione una cosa buona come cattiva e in qualche modo agisco, agisco contro la coscienza, per cui di fatto faccio un atto cattivo, perchè la mia consapevolezza è quella di agire male.

Se io penso che una cosa buona sia cattiva e agisco contro coscienza, agisco secondo verità, ma contro coscienza, per cui io certamente sbaglio. Per esempio, - adesso questi sono esempi veramente estremi, -, ma, mettiamo un persecutore dei cristiani, il quale è convinto che il cristianesimo è un delitto contro la sicurezza pubblica, se non perseguita i cristiani, si mette in stato di peccato. Anche se oggettivamente fa bene, lo fa per accidens, ma moralmente fa male, perché agisce appunto contro la presentazione dell’oggetto. L’oggetto gli è presentato come cattivo e lui agisce sottoposto a una coscienza di fare del male, anche se di fatto materialmente fa del bene.

S.Tommaso fa un altro esempio, molto moderno quello quanto alla coscienza errata. E’ l’esempio dell’adulterio. In fondo certamente l’adulterio è una cosa cattiva, sbagliata. Però, se uno avesse una coscienza errante, che gli presenta l’adulterio come uno stile di vita. Come, ahimè, al giorno di oggi succede! Veda lo stile dei mass-media, o meglio, non veda la stile mass-media.

Ad ogni modo, uno ne fa proprio uno stile di vita, come succede appunto largamente, a questo punto, se la coscienza gli dice: tu, figliolo, non devi privarti; se te ne privi, guai a te! Quante ce ne sono di queste capziose argomentazioni! Diventerai malato, eccetera, e via dicendo. E’ inutile che insistiamo sull’argomento. Ebbene, insomma, se la mia coscienza in qualche modo comprende l’astinenza sessuale, che di fatto è buona,  come un qualche cosa di cattivo, se uno si astiene, facendo materialmente del bene, formalmente, moralmente farà del male.

Ma ovviamente ci sono veramente delle cose piuttosto notevoli, che S.Tommaso qui dice. Perciò io capisco un po’ lo scrupolo di quei moralisti che accuratamente distinguevano tra materia indifferente, dove l’errore era ammesso, e materia moralmente qualificata. S.Tommaso ha veramente un notevole coraggio nel dire che, se la volontà si scosta dalla coscienza errante, non è mai volontà buona.

Quindi, una volontà che non sottostà al modo in cui le è presentato l’oggetto, è una volontà sempre comunque cattiva. Però, non basta. Questo è importante Se infatti la volontà non sottostante alla coscienza errante, è sempre cattiva, non è detto che la volontà, per il solo fatto di conformarsi alla coscienza errante, sia buona. E’ questo che è curioso. E’ severo il nostro Amico. Sembrerebbe essere molto di larga manica, ma in fondo è severo.

Dice egli infatti che se la volontà, si scosta dalla coscienza errante, è cattiva. In tal caso io faccio magari un bene, ma pensando di fare un male, e quindi moralmente faccio un male. Per esempio, astenendomi dall’adulterio, là dove la coscienza me lo detta come un atto doveroso, faccio soggettivamente del male. Oggettivamente faccio bene, il Padre Eterno mi benedice, ma non mi benedice dal punto di vista interiore, soggettivo, e quindi moralmente qualificato.

Mi dispiace di fermarmi a metà. Però, bisogna che introduciamo almeno questo tema. Scrivetelo bene, e imparatelo a memoria. Cioè, l’atto umano, se si scosta ed se è difforme, rispetto alla coscienza errante, è cattivo. Però - notate bene -, non è buono per il solo fatto di conformarsi a una coscienza errante. La grande differenza sarà nella questione se la coscienza errante scusi o meno dal peccato. La grande differenza sarà l’invincibilità o meno dell’errore. Cioè se l’errore è invincibile, la coscienza errante scuserà, perché causerà l’involontario. Altrimenti invece bisogna prima deporre l’ignoranza e poi agire.

Ma comunque di tutto questo ci intratterremo la prossima volta.

Nel nome del Padre … Amen.

Ti ringraziamo … Amen.

Nel nome del Padre … Amen.

Grazie dell’attenzione e arrivederci.

Padre Tomas Tyn, OP

 Registrazione di Amelia Monesi
Trascrizione di Sr. Matilde Nicoletti, OP – Bologna, 16 marzo 2014
Testo rivisto con note da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Varazze, 1 settembre 2015
 
 

Se io penso che una cosa buona sia cattiva e agisco contro coscienza, agisco secondo verità, ma contro coscienza, per cui io certamente sbaglio. Per esempio, - adesso questi sono esempi veramente estremi, -, ma, mettiamo un persecutore dei cristiani, il quale è convinto che il cristianesimo è un delitto contro la sicurezza pubblica, se non perseguita i cristiani, si mette in stato di peccato. Anche se oggettivamente fa bene, lo fa per accidens, ma moralmente fa male, perché agisce appunto contro la presentazione dell’oggetto. L’oggetto gli è presentato come cattivo e lui agisce sottoposto a una coscienza di fare del male, anche se di fatto materialmente fa del bene.

S.Tommaso fa un altro esempio, molto moderno quello quanto alla coscienza errata. E’ l’esempio dell’adulterio. In fondo certamente l’adulterio è una cosa cattiva, sbagliata. Però, se uno avesse una coscienza errante, che gli presenta l’adulterio come uno stile di vita. Come, ahimè, al giorno di oggi succede! Veda lo stile dei mass-media, o meglio, non veda la stile mass-media.


Ad ogni modo, uno ne fa proprio uno stile di vita, come succede appunto largamente, a questo punto, se la coscienza gli dice: tu, figliolo, non devi privarti; se te ne privi, guai a te! Quante ce ne sono di queste capziose argomentazioni! Diventerai malato, eccetera, e via dicendo. E’ inutile che insistiamo sull’argomento. Ebbene, insomma, se la mia coscienza in qualche modo comprende l’astinenza sessuale, che di fatto è buona, come un qualche cosa di cattivo, se uno si astiene, facendo materialmente del bene, formalmente, moralmente farà del male.

Ma ovviamente ci sono veramente delle cose piuttosto notevoli, che S.Tommaso qui dice. Perciò io capisco un po’ lo scrupolo di quei moralisti che accuratamente distinguevano tra materia indifferente, dove l’errore era ammesso, e materia moralmente qualificata. S.Tommaso ha veramente un notevole coraggio nel dire che, se la volontà si scosta dalla coscienza errante, non è mai volontà buona.

Quindi, una volontà che non sottostà al modo in cui le è presentato l’oggetto, è una volontà sempre comunque cattiva. Però, non basta. Questo è importante. Se infatti la volontà non sottostante alla coscienza errante, è sempre cattiva, non è detto che la volontà, per il solo fatto di conformarsi alla coscienza errante, sia buona. E’ questo che è curioso. E’ severo il nostro Amico. Sembrerebbe essere molto di larga manica, ma in fondo è severo.


Immagini: P. Tomas Tyn:
- nel chiostro del convento di Bologna;
- nel parlatorio del convento di Bologna, ottobre 1989, foto di Roberta Ricci

[1] Parole probabilmente mancanti.

[2] Rimpicciolimento.

[3] Estesamente.

[4] Cioè la ragione come guida della volontà.

[5] Al buon senso.

[6] Significativo, importane

[7] Non contrariarlo.

[8] Alcuni moralisti.

[9] Non il contenuto, che appare come buono.

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