La nuova esegesi del racconto del sacrificio di Abramo - Prima Parte (1/2)

 La nuova esegesi del racconto del sacrificio di Abramo

Prima Parte (1/2)

Il nostro Lettore Bruno ci ha proposto nuove obiezioni circa la mia interpretazione del sacrificio di Abramo.

Cf. https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/il-dio-dellamore-non-puo-volere.html

Il punto di dissenso tra me e lui sembra essere il problema di quale metodo interpretativo far uso, piuttosto che una differenza di contenuti dottrinali significati del testo biblico.

La questione qui è l’uso degli antropomorfismi per parlare della natura e degli attributi divini. Questo tipo di linguaggio ha una sua indubbia utilità per chiunque, soprattutto per la gente semplice ed indotta. Nel contempo però la Scrittura insegna gli attributi propri della natura divina, comprensibili alla ragione filosofica, che elabora la teologia naturale.

È chiaro che questo linguaggio è accessibile soltanto ai dotti, da qui il loro dovere di spiegarlo al popolo, in formule che possono essere di carattere antropomorfico. Bisogna però fare presente che, se il linguaggio antropomorfico non è controllato dalla filosofia, rischia di condurre all’idolatria, dove l’immaginazione prevale sulla intellezione, per cui il risultato increscioso sarà quello di perdere di vista la spiritualità divina e concepire Dio in un modo materialistico.

Caro Padre Giovanni,
trovo un po’ ingeneroso, da parte sua, scrivermi che «Tutto quello di cui Lei è capace di dire è che Dio non vuole la morte di Isacco, però vuole la morte di Isacco». La frase che lei mi attribuisce va corretta in “Dio non vuole la morte di Isacco, però vuole che Abramo lo creda per il tempo della prova”. È ciò che ho sostenuto nei miei commenti. Perché per lei, “Dio fa credere ad Abramo (per il tempo della prova) di volere la morte di Isacco” coincide con “Dio vuole la morte di Isacco”? Eppure, sono due frasi diverse.

Caro Bruno,

il sostenere che Dio ha voluto che Abramo credesse di dover sacrificare il figlio equivale esattamente a quello che ho detto io, e cioè alla pretesa che Dio in un primo tempo abbia voluto il sacrificio di Isacco.

Perché affermo questo? Perché non è possibile ritenere che Dio inganni Abramo facendogli credere di avere una volontà contraria a quella che in realtà ha. In tal modo lei presenta Dio come un impostore.


Immaginiamo una coppia di innamorati, il cui amore è contrastato da un figlio di lui. La donna dice al suo innamorato: “se davvero mi ami, prendi questa pistola e spara a tuo figlio”. L’uomo, pur soffrendo, fa ciò che gli viene chiesto e uccide il proprio figlio. Non c’è dubbio che questa donna sia responsabile di istigazione all’omicidio.
Consideriamo ora la seguente variante. La donna, dopo aver detto quelle stesse parole, consegna all’uomo una pistola che sa essere scarica. L’uomo punta la pistola verso il figlio, ma quando sta per premere il grilletto, la donna gli dice: “basta così, volevo sapere quanto mi ami.” In questo secondo caso, la donna è responsabile di istigazione all’omicidio? L’intenzione della donna nella seconda storiella, che ferma la mano dell’uomo e si è cautelata che non possa accadere nulla di grave, è di testare sin dove arriva l’amore dell’uomo. Le parole “prendi questa pistola e spara a tuo figlio”, pur essendo esattamente le stesse in ambedue le storielle, assumono il significato di istigazione all’omicidio, soltanto nella prima.
La “pistola” di Abramo è stata sempre scarica, dall’inizio alla fine della prova, perché Dio misericordioso non avrebbe mai permesso la consumazione dell’uccisione di Isacco.

Questo paragone suppone l’interpretazione letteralistica, che ho già confutato.

Inoltre, bisogna dire che una donna che si comporta in questo modo istiga all’omicidio, in quanto fa credere all’amante che lei vuole obbligarlo a uccidere il figlio. Il fatto che la pistola sia scarica non scagiona assolutamente la donna dall’istigazione a delinquere, e nemmeno rimane innocente il padre, perché era disposto ad uccidere il figlio.

Se lei ora mi replicasse che «se Dio comanda l’uccisione di Isacco significa che “vuole” l’uccisione di Isacco», è come se, alla precedente domanda, lei rispondesse «sì la donna, per il solo fatto di aver detto “prendi questa pistola e spara a tuo figlio”, è responsabile di istigazione all’omicidio».
Probabilmente, lei mi dirà “non si possono paragonare comportamenti, peraltro discutibili, di esseri umani con l’operare di Dio. Una volta che Egli manifesta la sua intenzione, non può cambiarla, altrimenti sarebbe un dio volubile, ecc…” Ma è proprio così? La Sacra Scrittura, tanto nell’Antico che nel Nuovo Testamento, ci testimonia un Dio che a fronte del comportamento degli uomini è disponibile, proprio in virtù della sua infinita misericordia, a modificare il suo atteggiamento, soprattutto passando dalla condanna al perdono. Del resto, se così non fosse, che senso avrebbe il relazionarsi di Dio con l’uomo?

Gli episodi biblici che ci raccontano di un Dio che, dopo aver minacciato un castigo e aver visto che il peccatore si pente, Egli pure si pente del castigo che aveva minacciato, vanno anch’essi interpretati col metodo storico-critico, il quale ci insegna che la Scrittura parla di Dio secondo due registri: in modo metaforico, secondo uno schema antropomorfico, e in modo proprio, secondo l’intellegibilità metafisica.

Il modo metaforico serve alle menti semplici, che hanno difficoltà a capire la metafisica. Questo secondo modo invece è indispensabile per sapere come Dio agisce veramente, al di là del mito, del paragone, della parabola, dell’immagine secondo lo schema antropomorfico, per il quale Dio è rappresentato come un personaggio simile a noi, ma molto più potente.

E’ secondo questa modalità espressiva che la Bibbia parla di un Dio che si pente, ma da un punto di vista metafisico ciò non ha nessun senso, perché Dio, Bontà infinita, non può pentirsi di nulla.

A questo punto una giusta interpretazione ci dice che Dio in realtà non ha mai voluto la morte di Isacco, ma ha voluto permettere che Abramo fraintendesse, per poi illuminarla per mezzo dell’angelo. Il che non vuol dire che Dio abbia ingannato Abramo, ma semplicemente ha permesso il fraintendimento. Così per esempio, io posso dire una cosa ad un amico, che egli fraintende, ma questo non vuol dire assolutamente che io lo inganni, semmai è lui che non comprende ciò che dico.

In realtà Dio ha il suo progetto di salvezza, che ha compreso anche vari momenti critici di questo tipo, ma che con Mosè giungerà a definirsi il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.

Un esempio fra i tanti dall’A.T. è quello di Genesi 18, che ho citato nel mio terzo commento a https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/nel-sacrificio-di-abramo-dio-non-si_27.html.
Dapprima Dio manifesta il proposito di punire con la massima severità gli abitanti di Sòdoma e Gomorra, poi, a fronte delle richieste supplicanti di Abramo, si dice disposto a perdonarli, se vi troverà almeno 50 giusti, poi 40, poi 30 e poi 10. Un paio di esempi fra i tanti dal N.T.:
«Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto, e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà». (Mt 6,6).
«E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente». (Lc 18,7-8).
Evidentemente, secondo le promesse del Signore, se passiamo dal non pregare al pregare autentico, l’atteggiamento di Dio nei nostri confronti potrà mutare. Non è volubilità se Dio cambia atteggiamento a fronte di come noi lo corrispondiamo. Una volta che Abramo ha dimostrato quanto è grande la sua fede obbedienziale, non vi è evidentemente alcuna ragione per Dio di mantenere il comando di sacrificare Isacco.

Anche nel caso di Sodoma e Gomorra, non è Dio che cambia, ma è Abramo che cambia, nel senso che è Dio stesso ad ispirare ad Abramo il suo grande potere di intercessione, del resto voluto da Dio stesso dall’eternità. Quindi Dio già dall’eternità era intenzionato a fare quella misericordia della quale Abramo lo supplica, al di là delle parole inziali di Dio che vanno interpretate in quel senso storico-critico che mi sembra di aver ormai spiegato con chiarezza.

Quindi non è Dio che fa la volontà di Abramo, ma è Abramo che fa la volontà di Dio. La salvezza di Sodoma e Gomorra era legata alla presenza di uomini giusti in quelle città.

Rilevo, in alcune sue affermazioni, le seguenti contraddizioni.
Nell’articolo https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/dio-non-e-ambiguo-e-non-vuole-un_30.html,
lei, Padre Giovanni, afferma:
1) «Ripeto che il comando divino non è per nulla ambiguo, ma molto preciso: sacrificare Isacco.»
2) ma più avanti lei scrive «Abramo riceve un ordine molto chiaro, anche se egli in buona fede crede che sia un ordine divino.» Ora, se Abramo “crede” che sia un ordine divino, lei lascia intendere che, in realtà, non lo è. Ma allora non è più vera l’affermazione del punto 1, dove lei afferma che il comando divino è precisamente sacrificare Isacco.

Se Abramo non avesse inteso come comando divino il sacrificio di Isacco, non si sarebbe accinto a farlo, e se lo avesse fatto avrebbe peccato. In questo senso, per Abramo, il comando divino non è per nulla ambiguo.

Ricordo ancora una volta la necessità di distinguere l’interpretazione letteralistica da quella letterale. L’interpretazione letteralistica è quella per la quale Dio vuole il sacrificio di Isacco. Invece secondo l’interpretazione letterale, che è quella giusta secondo il metodo storico-critico, abbiamo qui una espressione antropomorfica di un Dio che cambia idea nel corso di una prova, e che quindi non può corrispondere a quella che è la coerenza del pensiero divino.

Le mie osservazioni sono vere tutte e due, a patto che si distingua il senso letteralistico (Dio vuole il sacrificio di Isacco) dal senso letterale (Abramo intende come se Dio volesse il sacrificio di Isacco).

Il senso letteralistico entra in contraddizione con la vera natura divina, la quale richiede la totale esclusione dell’autocontraddizione. Per questo motivo occorre evitarlo, per non offendere l’attributo divino della sincerità e della coerenza del suo pensiero e della sua volontà.

3) poi lei scrive «Abramo in un primo tempo non intende ciò che Dio voleva veramente […] Abramo in un primo tempo intende sacrificare il figlio, perché le formali e testuali parole di Dio erano il comando di sacrificare il figlio». Ma se le parole di Dio, nella forma e nel testo, comandavano di sacrificare il figlio, e però questo non corrisponde a “ciò che Dio voleva veramente”, è difficile non dover ammettere un’ambiguità nelle parole divine. Secondo lei, Dio farebbe risuonare nella mente di Abramo le “formali e testuali parole… di sacrificare il figlio”, ma in realtà vorrebbe che il patriarca le interpreti come comando di sacrificare un ariete. Eppure, il comando biblico specifica per ben tre volte che si tratta del figlio:
prima volta: “Prendi tuo figlio”,
seconda volta: “il tuo unico figlio che ami”,
terza volta: “Isacco”.

Con l’espressione “formali e testuali parole” intendo il senso letteralistico e non quello letterale.

Come ho argomentato nel mio secondo commento a https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/nel-sacrificio-di-abramo-dio-non-si_27.html, commento a cui lei non replicò, per ipotizzare un possibile fraintendimento, da parte di Abramo, del comando divino, siamo costretti ad ammettere una qualche ambiguità nel comando divino, ovvero un’apertura alla possibilità del sacrificio umano. Ma come ha detto lei giustamente «quello che assolutamente non possiamo ammettere è che Dio si sia espresso in maniera ambigua».
Dunque, se Dio dice ad Abramo “Isacco” non dice “ariete”; se Dio dice ad Abramo “ariete” non dice “Isacco”. Tertium non datur. Se il comando divino avesse richiesto un generico sacrificio, senza specificare di chi, allora un fraintendimento da parte di Abramo sarebbe stato possibile. Ma, ripeto, il comando divino enfatizza per ben tre volte che si tratta di Isacco e solo di lui. Più chiaro di così…
Suvvia, Padre Giovanni, deve riconoscere che su questo punto la sua tesi risulta piuttosto debole se non contraddittoria.

La sua argomentazione si basa sempre e solo sul senso letteralistico. Resta pertanto vero che Abramo fraintende, mentre il senso letterale, cioè quello autentico, emerge alle parole dell’angelo. Infatti il senso letteralistico conduce a negare la coerenza del volere divino, mentre il senso letterale delle parole dell’angelo fanno comprendere l’immensa bontà divina.

Nelle parole dell’angelo abbiamo quindi una coincidenza del linguaggio metaforico con quello metafisico, mentre nelle parole relative alla richiesta di sacrificare Isacco, il linguaggio antropomorfico entra in collisione con il linguaggio proprio della metafisica, per cui bisogna mantenere questo e respingere quello. Il che vuol dire che parlare di Dio in modo antropomorfico in linea di principio può essere utile a livello popolare; ma se capita che esso contraddica al senso proprio dell’essere divino, deve essere abbandonato, altrimenti si cade nell’idolatria.

Si deve pertanto interpretare la richiesta del sacrificio di Isacco come altri racconti biblici, che introducono e portano a una specifica rivelazione divina, in questo caso che Dio non vuole sacrifici umani. Ricordiamo che all’epoca di Abramo c’era l’uso dei sacrifici umani.

Lei ha scritto: «Osservo che, ragionando con la mentalità letteralistica di Beauchamp, si verrebbe a dare alla famosa frase di Giosuè “Fermati, o sole” un significato letterale tale per cui si verificherebbe un miracolo assurdo».
Come dichiara il Concilio Vaticano II, per altro anticipato da affermazioni analoghe dello stesso Galileo, «i libri della Sacra Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, a causa della nostra salvezza, volle che fosse consegnata alle Sacre Lettere» (Dei Verbum n. 11).
L’«inerranza» – come si diceva in passato – o meglio la «verità» di cui è dotata la Bibbia non è di tipo scientifico, ma teologico e, quindi, il passo citato del libro di Giosuè deve necessariamente essere interpretato in modo non letterale.
Ma davanti al testo di Genesi 22,1 non vi è alcuna legge scientifica che verrebbe violata, tale per cui non sarebbe possibile accoglierne il significato letterale. Pertanto, il confronto che lei opera con Gs 10,12-13 non appare molto pertinente.

Il problema che si pose nel caso Galileo non è molto diverso da quello che si pone nell’interpretare il sacrificio di Isacco. Certo, nel caso di Galileo era in gioco l’interpretazione scientifica del sistema solare, mentre nel caso nostro ciò che è in gioco è una certa interpretazione della natura divina, che risente di un antropomorfismo inaccettabile, antropomorfismo che sarà corretto dalla concezione mosaica della natura divina, come Colui Che E’.

È evidente che un Dio concepito in questo modo non ha nulla a che vedere con un Dio pagano, che contraddice se stesso. Per questo dobbiamo dire con tutta franchezza che quel Dio che appare a tutta prima ad Abramo, un Dio che vuole un sacrificio umano, non può essere il vero Dio, ma è una divinità che risente del paganesimo estraneo ad Israele. C’è un progresso nella Rivelazione divina, come è narrata dalla Bibbia e che termina con l’ultimo degli Apostoli Giovanni, e nella conoscenza di Dio da parte nostra e da parte della Chiesa stessa.

Prima di ironizzare sulla “mentalità letteralistica” di Beauchamp, la inviterei a documentarsi sui numerosi riconoscimenti che ha ricevuto.
Qualche esempio di quanto è stato scritto su di lui:
«Per la sua scienza e la sua erudizione fu certamente un eminente esegeta. Ma, lettore di una Bibbia che sapeva essere scrittura vitale, poiché la Parola di Dio vi unisce l'uomo, non ha mai smesso di oltrepassare i limiti di una semplice esegesi storico-critica. Parimenti, non mancò di essere attento ai suggerimenti delle scienze umane, ma mantenne sempre piena libertà rispetto ai metodi e ai temi del momento.» (Anne-Marie Pelletier).
«Ampiamente riconosciuto come esegeta biblico e teologo di ampiezza e profondità davvero eccezionali, bisogna ammettere che il suo pensiero, la sua espressione, spesso intimidiscono anche i più coraggiosi […] L'unica cosa a cui ha dedicato tutta la sua vita è stato il mistero dell'unità dei due Testamenti, entrambi legati in un unico libro. Ciò che ha sempre cercato, appassionatamente, è come l'Uno "si compia" nell'Altro. Quanti articoli, interi capitoli dei suoi libri sono dedicati al «compimento delle Scritture», che trova il suo posto nel mistero pasquale, nella croce di Cristo. Per questo ha voluto restaurare la lettura tipologica o figurativa praticata dai Padri della Chiesa che videro in Cristo Colui che riempie e porta a compimento tutte le figure del Primo Testamento. Ma ha anche dimostrato che poteva essere fatto solo su basi radicalmente nuove. Il fondamento su cui tale lettura figurativa può e deve essere costruita è in realtà tanto semplice quanto innovativo: mostrare che questa lettura non è specifica del Nuovo Testamento, ma che è già all'opera all'interno dell'Antico, che il compimento è perciò chiamato "rispondente" fin dall'inizio, dalla prima pagina del Libro.» (P. Roland Meynet)
«P. Beauchamp (1924-2001) traccia un solco fecondo circa il modo di affacciarsi alla Bibbia in nome di una teologia biblica adeguatamente sostenuta da una consapevolezza teologale, teologica, antropologica, e quindi necessariamente e sanamente letteraria – poetica perché sapiente e vitale – della Bibbia presa en bloc, come «racconto totale», che lancia la più grande sfida di significazione possibile.
«L’Écriture, c’est le Dieu inattendu; la lecture met la foi à l’épreuve comme la vie met la foi à l’épreuve». Il lettore è chiamato ad esporsi a uno sconvolgimento (bouleversement), ad un risveglio, a decidere se assumere o meno il timor Domini, consentendo a «l’attirance du désir, consciente du danger de l’aventure divine» (PES, 41). B. chiama tutto ciò «intimazione» della Parola – legge, figura – «che intima all’intimo del cuore un consenso amoroso» con impatto al tempo stesso estetico/etico, configurante all’obbedienza di Gesù al Padre». (Roberto Vignolo, https://www.gliscritti.it/blog/entry/4270)

Caro Bruno,

quando, senza nessuna ironia, parlo di letteralismo intendo l’assumere materialmente certe parole della Scrittura interpretandole così come esse suonano alla nostra cultura di oggi. Ciò vuol dire trascurare quello che è il vero significato di ciò che l’agiografo intende dire. Il letteralismo è quello che dice San Paolo (2 Cor 3,6): la lettera uccide e lo Spirito vivifica.

Questo vero significato si coglie, come ho detto, usando il metodo storico-critico: “storico” vuol dire che noi dobbiamo metterci al livello della cultura dell’agiografo, prescindendo da quella del nostro tempo. Per esempio, dobbiamo capire che concetto di Dio aveva l’agiografo, concetto arretrato rispetto a quello che noi abbiamo oggi dopo 3.000 anni di progresso della conoscenza teologica, la quale ha avuto un decisivo impulso con la venuta di Cristo.

Metodo “critico” significa uso della critica razionale basata sulla metafisica, la quale sola consente di concepire Dio nel suo Nome proprio “Colui che E’” e quindi di avere un concetto proprio di Dio, paradigmatico e superiore a tutte le rappresentazioni antropomorfiche o metaforiche, per quanto utili.

Ricordiamo che Dio e Gesù Cristo sono i primi e massimi Maestri di metafisica. A proposito le consiglio la lettura del mio libro Cristo fondamento del mondo del 2019, Ed. L’Isola di Patmos, Roma. In esso lei troverà nelle parole stesse di Nostro Signore quel supremo concetto di Dio, che deve illuminare criticamente tutto quanto insegna la Scrittura.

Per quanto riguarda P. Beauchamp, non metto in dubbio il suo valore e le sue competenze di biblista. Tuttavia devo ribadire che su questo punto del sacrificio di Isacco purtroppo non usa in modo sufficiente il metodo storico-critico con la conseguenza incresciosa che non si accorge che l’interpretazione tradizionale non può più essere accettata a causa del grave inconveniente che presenta un Dio che vuole sacrifici umani.

Io non sono un biblista, ma sono un metafisico e mi accorgo se un biblista è carente in metafisica. Infatti, da otto secoli i Papi raccomandano la metafisica di San Tommaso d’Aquino, precisamente allo scopo di ricordare agli esegeti che, per poter interpretare senza sbagliare la Sacra Scrittura, occorre una preparazione metafisica.

Fine Prima Parte (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 25 ottobre 2022

 

È secondo questa modalità espressiva che la Bibbia parla di un Dio che si pente, ma da un punto di vista metafisico ciò non ha nessun senso, perché Dio, Bontà infinita, non può pentirsi di nulla.

Una giusta interpretazione ci dice che Dio in realtà non ha mai voluto la morte di Isacco, ma ha voluto permettere che Abramo fraintendesse, per poi illuminarla per mezzo dell’angelo. Il che non vuol dire che Dio abbia ingannato Abramo, ma semplicemente ha permesso il fraintendimento.

In realtà Dio ha il suo progetto di salvezza, che ha compreso anche vari momenti critici di questo tipo, ma che con Mosè giungerà a definirsi il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.


Immagni da Internet:
- Anonimo del XVII secolo
- Marc Chagall

2 commenti:

  1. Caro Padre

    È molto utile leggere queste sue precisazioni e osservazioni. E’ molto raro avere il punto di vista di un metafisico come Lei che bene fa a spiegarci anche solo attraverso l’intuizione di chi legge (a causa dell’ovvio dislivello), quanto immensamente oltre la nostra comprensione sia Dio, il quale tuttavia vuole farsi piccolo e come noi per starci vicino attraverso tutta la storia umana.
    La frase “Dio si pentì” letta poche settimane fa durante la prima lettura della Liturgia della Parola fu spunto di una piccola discussione con il mio parroco dopo la Santa Messa ed entrambi concordammo sul senso antropomorfico del testo. Ora Lei lo spiega ancora meglio. Da solo, mi venne anche il pensiero che, proprio seguendo l’Aquinate che spiega come in Dio siano assenti i sentimenti , si possa perfino dire che Dio non ami, ma anzi che in Dio "é in essere" molto di più perché Dio “è” Amore con la A maiuscola. Di conseguenza, affermare con le nostre semplici parole che Dio ci ama risulta essere addirittura riduttivo del Suo amore per noi. Seguendo poi la sua spiegazione magistrale della sapienza e preveggenza di Dio, anche il concetto di castigo divino si spiega come il modo assolutamente inimmaginabile ed unico di Dio di agire dall’eternità sul presente senza essere un gendarme ma un Padre di sapienza, scienza, potenza e bontà infinita. E’ giusto quello che dico, o mi sbaglio in qualcosa?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Caro Alessandro, lei ha compreso in pieno quello che intendevo dire e la cosa mi dà molta gioia, non tanto perché ha compreso quello che ho detto io, ma in quanto si tratta di nozioni molto elevate nelle quali San Tommaso è un sommo maestro, come ci ha indicato di recente Papa Francesco.
      Effettivamente la metafisica è indispensabile per interpretare rettamente, per quanto ci è possibile, gli attributi della natura divina, giacchè, dato che essa usa spesso il linguaggio antropomorfico o metaforico, che può prestarsi all’equivoco, una esegesi basata sulla metafisica consente di evitare questi equivoci.
      D’altra parte, come ho detto, il linguaggio metaforico è indispensabile a livello popolare in quanto fa leva sull’immaginazione, che è la qualità di tutti noi, mentre la metafisica richiede una speciale educazione dell’intelligenza ed una speciale responsabilità educativa nei confronti dei giovani.
      D’altra parte bisogna tenere presente che le prime e fondamentali nozioni della metafisica nascono spontaneamente nella mente di tutti noi, anche se poi hanno bisogno di essere affinate. Tuttavia, prendendo per esempio la nozione dell’essere, che è l’oggetto della metafisica, questa nozione è già presente implicitamente nella mente del fanciullo quando usa il verbo essere nei giudizi che esprime.
      Inoltre faccio presente che purtroppo esistono anche errori in metafisica, i quali sono molto pericolosi. Da qui la necessità di ricorrere a veri maestri, come San Tommaso, da sempre raccomandato dalla Chiesa.

      Elimina

I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.