Il significato mistico del senso del tatto (Terza Parte di Tre Parti)

Il significato mistico del senso del tatto

 Terza Parte di Tre Parti

L’uso del simbolo del tatto in mariologia

Caso specialissimo ed unico di verginità è la verginità della Madonna e di Gesù Cristo. Non ha nulla a che fare con la verginità di tipo ascetico, di emergenza, transitorio, motivata dallo stato di natura decaduta, perché i soggetti sono assolutamente innocenti, ma rappresenta l’eccellentissima vita in Dio dei due soggetti, così da riverberare il divino, evidentemente asessuato, nella loro umanità. La loro verginità non è quindi da considerare modello di vita religiosa o di celibato sacerdotale, perché sarebbe un atteggiamento presuntuoso. Ma dev’essere solo oggetto di ammirazione, di ringraziamento e di contemplazione delle grandi opere del Signore. Indubbiamente tutti possiamo e dobbiamo rivolgerci a Gesù e Maria, affinchè ci aiutino nella pratica della castità.

Modelli adeguati alla nostra condizione di peccatori sono invece quelli dei Santi, che hanno sperimentato le miserie e le cadute della natura decaduta, hanno dovuto lottare contro la concupiscenza tutta la vita, fuggire le occasioni, dominare a fatica le passioni, fare aspre penitenze, difficili rinunce, attuare una dura disciplina, senza mai peraltro riuscire a vincere del tutto il fomite del peccato.

D’altra parte, la Beata Vergine Maria è detta indubbiamente intatta, inviolata, immacolata. Ma che vuol dire? Intatta non vuol dire che non ha toccato o non è stata toccata dal sesso, quasi che l’atto sessuale sia un atto contaminatore, ma che non è stata toccata dal peccato. Inviolata non vuol dire che non è stata violata dal sesso, quasi che l’atto sessuale sia una violazione, ma che non è stata violata dal peccato. Immacolata non vuol dire che l’atto sessuale sporchi o macchi, ma che non è stata macchiata dal peccato.

C’è inoltre da considerare che mai come oggi Maria appare ed è il modello supremo della femminilità, non è un essere asessuato. Essere donna non è un difetto, ma un pregio. Per troppo tempo nei secoli passati abbiamo avuto un’iconografia mariana irrispettosa della femminilità corporea della Vergine, come se essere donna fosse vergognoso o scandaloso.

Nell’iconografia bizantina è rappresentato il sacro, ma manca la femminilità. In quella rinascimentale c’è un sottile sensualità e scarseggia il sacro. Bisognava arrivare all’iconografia mariana postconciliare per vedere finalmente una immagine della Madonna veramente biblica, che congiunga il sacro col femminile. È finito il tempo dell’opposizione tra il sacro maschile e il profano femminile, senza che occorra arrivare alle divinità femminili tipo Pachamama.

L’orrenda sconcezza del genderismo

All’estremo opposto di questa lacerante dialettica di carne e spirito abbiamo la concezione edonista e freudiana oggi diffusissima, violenta e delirante reazione al rigorismo dualistico del passato. Tale concezione, come sappiamo bene, dice che qualunque toccare sessuale col suo conseguente piacere, è sempre lecito e buono, quale che sia il mezzo col quale quel piacere è ottenuto.

Non c’è un toccare lecito e un toccare illecito, ma solo un «diversamente toccare», come dice il buon Padre James Martin. È ciò che oggi è chiamato «genderismo», un abuso della categoria del genere sessuale (gender), che sostituisce alle due differenze specifiche naturali divinamente rivelate maschio e femmina, una pluralità di altre differenze artificiali innaturali.

Urge dunque più che mai in questa torrenziale orgia di sesso ridare a questa essenziale dimensione della persona umana la sua vera dignità, senza utopie e senza bassezze, alla luce della legge naturale e della dottrina morale della Chiesa, senza restringere lo sguardo alle attuali condizioni della natura decaduta, che mostra solo l’aspetto ascetico, come si è usato fare fino al Concilio Vaticano II, ma allargando lo sguardo, senza illusori utopismi, allo stato d’innocenza, che mostra l’originaria volontà divina: «maschio e femmina li creò» e «non son più due ma una sola carne» e alla condizioni della resurrezione futura, che mostra la meta ultima da raggiungere, al di là delle miserie e delle rinunce della vita presente. L’unione dell’uomo e della donna, come diceva San Giovanni Paolo II, più ancora che la procreazione, riguarda il «senso dell’esistenza umana».

Conclusivamente dobbiamo dire che l’etica della sensibilità, che è parte della virtù della temperanza, insegna il buon uso dei sensi in modo da far attuare il loro fine, che è quello di render possibile e condizionare decentemente la buona vita morale e spirituale. Contro l’edonismo insegna che il piacere sensibile non è un fine assoluto, che vada sempre e comunque cercato e potenziato al massimo con qualsiasi mezzo, mentre che il dolore sia un male assoluto da fuggire sempre e comunque con qualsiasi mezzo. Vi sono infatti casi nei quali occorre rinunciare al piacere ed accettare la sofferenza per dar spazio o per salvare i valori superiori dello spirito e la dignità della persona fatta per unirsi con Dio.

Toccare Dio

L’amore spinge all’unione. Il senso del tatto entra sommamente in funzione nell’unione d’amore tra due persone umane. E l’unione più intima è quella fra uomo e donna. Ora, poiché chi ama Dio cerca l’unione con Lui, si comprende come l’unione con Dio è rappresentata dalle letterature religiose dell’umanità con l’unione dell’uomo con la donna. Ed è rappresentata facendo rifermento ovviamente al paragone col toccare.

A sua volta il toccare suppone il vedere, in quanto l’unione finale con Dio è la conseguenza della visione beatifica, che è l’atto dell’intelletto col quale la mente, dopo la morte, intuisce e contempla immediatamente in eterno l’essenza del Dio Trinitario. Se dunque il senso del tatto simboleggia l’unione beatifica della volontà con Dio in paradiso, il senso della vista simboleggia il vedere intellettuale proprio della visione beatifica.

Ma nella vita presente non si dà un vero e proprio vedere Dio, perché quaggiù l’intelletto conosce Dio in modo mediato, partendo dai sensi attraverso le creature e nella luce della fede. Ora il toccare rappresenta un contatto immediato. Per questo la semplice conoscenza di Dio mediante la ragione e la fede non può essere simboleggiata col toccare. Il contatto immediato intellettuale con Dio possiamo averlo solo in paradiso.

Ma anche in tal caso la Scrittura non parla di «toccare», ma di «vedere»: è, come si è detto, la visione beatifica. La Scrittura non parla mai di toccare Dio, ma semmai di toccare Cristo (Mt 14,36; Mc 3,10; I Gv 1,1), che non è la stessa cosa, perché qui il toccare è un toccare fisico: toccare il corpo di Gesù, anche se è vero che si tratta del corpo di un uomo che è Dio. E a tal riguardo vedremo un’interessantissima differenza tra la mistica del gustare propria di San Tommaso e la mistica del toccare propria di San Bonaventura. Mentre entrambi accettano l’immagine del vedere propria della visione beatifica.

Diciamo intanto che per quanto riguarda la simbologia dei sensi nella conoscenza di Dio la Scrittura utilizza, oltre al senso della vista, il senso dell’udito e quello del gusto. Quanto all’udito, si tratta dell’udito nel senso vero e proprio, in quanto si riferisce all’ascolto fisico delle parole del predicatore, come dice San Paolo: «la fede viene dall’udito (ek akoès, Rm 10,17) e «l’udito si attua per mezzo della Parola di Cristo». Il senso dell’udito insieme con la vista è tra i cinque sensi, quello più spirituale, perché fa udire la parola, che è segno del concetto. Ma è chiaro che ascoltare la Parola di Dio non è ancora contattare Dio direttamente o vedere Dio.

Se la Bibbia non utilizza il senso del tatto per esprimere un contatto diretto con Dio, utilizza però il senso del gusto, che indubbiamente dice contatto, ma in un senso molto più ristretto del senso del tatto: è il contatto del palato col cibo: «Gustate e vedete come è buono il Signore» (Sal 34,9). Qui la Bibbia non si riferisce al vedere Dio proprio del paradiso, eppure è chiaro che con l’usare il simbolo di questo senso, allude a un qualche contatto fin da adesso, e contatto gustosissimo.

Se si può parlare di un toccare Dio, qui la Bibbia parla effettivamente, benché simbolicamente, di un toccare Dio, ma in un senso ben preciso e delimitato, che va determinato con cura, per evitare di pensare a una visione diretta dell’essenza di Dio, a un toccare diretto già nella vita presente, cosa che invece la Bibbia riserva alla vita futura ed ammette quaggiù solo un vedere mediato, «come in uno specchio, in enigma» (I Cor 13,12).

Con l’esercizio della carità l’anima entra a contatto immediato con Dio. Già in questa vita l’anima in grazia possiede Dio stesso, misticamente rappresentato con l’immagine dello Sposo. Anzi la Santissima Trinità viene ad abitare nell’anima in grazia. Questo contatto è sentito dall’anima? Te per soporem sentiant, dice un inno di Compieta. È un gustare, direbbe San Tommaso. È un toccare, direbbe San Bonaventura. Vediamo intanto i precedenti del «toccare» nella letteratura mistica.

Si può parlare di un «toccare Dio», secondo una letteratura mistica che risale ai primi secoli. Esistono sensi spirituali. Origene, Evagrio Pontico e Diadoco di Fotica nei primi secoli li ammettono. Parlano di un «senso del divino». Essi sono  seguìti da Sant’Agostino e San Gregorio Magno agli inizi del Medioevo, e nel Medioevo stesso, da San Bernardo, Guglielmo di Saint-Thierry, Guglielmo di Auxerre, Alessandro di Hales, San Bonaventura e Sant’Alberto Magno[1]. Occorrerebbe fare un confronto con la teoria de mistici tedeschi del Gemüth, presente in Meister Eckhart[2] e ricordata anche da Edith Stein.

Tuttavia Dio è purissimo Spirito, coglibile solo con l’intelletto, mentre i sensi colgono i corpi. Esiste tuttavia un’analogia fra senso e intelletto, per cui si può parlare della conoscenza di Dio paragonandola a una conoscenza o esperienza sensibile. La dottrina dei sensi spirituali intende esprimere un’esperienza affettiva di unione mistica con Dio. Tuttavia – bisogna dirlo - si tratta di paragoni rischiosi e poco calzanti, data l’immensa distanza che esiste fra il senso e l’intelletto di fede illuminata dal dono della sapienza, che è l’organo della contemplazione mistica. L’unico organo di senso che costituisca un paragone calzante è la vista, perché la beatitudine consiste nella visione intellettuale dell’essenza di Dio.

Come allora possiamo esprimerci? Che dire? San Tommaso, basandosi su Is 11, 2, spiega che la contemplazione mistica è effetto del dono della sapienza, uno dei sette doni dello Spirito Santo, per il quale l’anima del credente in grazia, animato dalla carità, è condotta dallo Spirito Santo ad esprimere sulle cose divine un giudizio per inclinazione o per connaturalità affettiva, che si aggiunge, perfezionandolo, al giudizio speculativo proprio della fede e lo rende più penetrante e più luminoso.

Ora il termine sapienza (eb. hokmàh, gr. sofia) viene dal lat.sapere, che significa «aver sapore». Dio dalla Bibbia è paragonato quaggiù ad un cibo gustoso: «Gustate e vedete come è buono il Signore» (Sal 33,2). Naturalmente è sempre Dio conosciuto per mezzo della fede. Tuttavia, siccome nella carità noi siamo uniti a Dio direttamente sin da quaggiù, l’esperienza della dolcezza mistica che proviene dalla nostra unione con Dio può essere significata anche con l’immagine del toccare. Tuttavia l’Aquinate non parla mai del toccare, ma solo di gustare. Ne parla invece, come vedremo, il Serafico.

Continuiamo comunque dicendo che il sapiente cristiano è una persona che «ha sapore», sa discernere i sapori buoni da quelli cattivi, sa gustare il «sapore» delle cose divine, insegna a gustarle e dà sapore a quello che dice, offrendo cibi saporiti.

Cristo paragona la sapienza al sale (Mc 9,51) e presenta il cristiano come «sale della terra» (Mt 5,13): il cristiano dà sapore al mondo, reso insipido dal peccato. Il cristiano, dunque, non può permettersi discorsi insipidi, vani, banali, frivoli, insensati, sciocchi, vuoti e stolti, ma da buon gustaio e cuoco di cibi deliziosi, deve offrirli al mondo, almeno a coloro che hanno il palato sano e vogliono mangiar bene.

A questo punto però comprendiamo perché, come riferisce Rahner[3], San Bonaventura preferiva, nell’esprimere il nostro rapporto con Dio quaggiù, il senso del tatto a quello del gusto. Il motivo è che egli non pensa prevalentemente, come San Tommaso, alla conoscenza di Dio come tale e alla visione beatifica, ma a Cristo, nella concretezza della sua umanità tangibile di Figlio di Dio, crocifisso e risorto, così come è vissuto tra noi, e toccato da chi Lo ha amato e da chi Lo ha odiato.

Mentre San Tommaso, allora, alla scuola di San Giovanni e di Dionigi l’Areopagita incentra la sua speculazione sulla pregustazione della visione beatifica, le «primizie dello Spirito» (Rm 8,23), senza per questo dimenticare il pati divina del Beato Ieroteo, del quale parla Dionigi, la speculazione mistica bonaventuriana si svolge alla luce del paolino «discorso della croce» (logos tu staurù, di I Cor 1,17), la logica della croce, nella luce del commosso ed incancellabile ricordo dell’esperienza estatica, sconvolgente e beatificante di San Francesco, che ricevette le Stigmate di Cristo dai dardi del Serafino.

Nel Breviloquio così infatti si esprime il Serafico a proposito del tatto spirituale: «Adstringitur summa suavitas sub ratione Verbi incarnati inter nos habitantis corporaliter et reddentis se nobis palpabile, osculabile, amplexabile per ardentissimam caritatem, quae mentem nostram per ecstasim et raptum traensire facit ex hoc mundo ad Patrem»[4] 

Terza Parte di Tre Parti

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 20 settembre 2020

Prima Parte: https://padrecavalcoli.blogspot.com/2020/09/il-significato-mistico-del-senso-del.html

Seconda Parte: https://padrecavalcoli.blogspot.com/2020/09/il-significato-mistico-del-senso-del_24.html

Terza Parte:  https://padrecavalcoli.blogspot.com/2020/09/il-significato-mistico-del-senso-del_25.html


L’unione dell’uomo e della donna, come diceva San Giovanni Paolo II, più ancora che la procreazione, riguarda il «senso dell’esistenza umana».

 

 

Nel Breviloquio così infatti si esprime il Serafico a proposito del tatto spirituale: «Adstringitur summa suavitas sub ratione Verbi incarnati inter nos habitantis corporaliter et reddentis se nobis palpabile, osculabile, amplexabile per ardentissimam caritatem, quae mentem nostram per ecstasim et raptum traensire facit ex hoc mundo ad Patrem»

 


[1] Seguo qui i due interessanti studi di Rahner, I “sensi spirituali” secondo Origene (1932) e La dottrina dei «sensi spirituali» nel medioevo. Il contributo di Bonaventura (1934), in Teologia dell’esperienza dello Spirito, Nuovi Saggi VI, Edizioni Paoline, Roma 1978, pp.133-208.

[2] cf G. Faggin, Meister Eckhart e la mistica tedesca preprotestante, Fratelli Bocca Editori, Milano 1946, pp.192-194; 201; 296, 288ss.

[3] Op.cit., p.196.

[4] Brevil. V, 6 (V 259b).

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