La gratuità della grazia


La gratuità della grazia

Al cuore dell’etica cristiana

Il Santo Padre nell’omelia a Santa Marta il 19 dicembre u.s. e in quella della Messa della Notte di Natale ha parlato della gratuità della grazia in rapporto alla salvezza e al peccato. Ha insistito nel sottolineare la gratuità della grazia e sul fatto che «il peccato è la voglia di redimere noi stessi». Ha detto inoltre che «il peccato è non custodire la gratuità»; «se tu non ti affidi alla gratuità della salvezza del Signore non sarai salvo»; «nessuno di noi merita la salvezza». 

I temi accennati sono di grandissima importanza ed interesse. Vorrei  fare un breve commento alle parole del Papa con osservazioni integrative che mettono in luce taluni aspetti della tematica non toccati dal Papa. Cominciamo con alcune annotazioni generali riguardanti la grazia. Accenneremo poi ai temi del peccato e del merito.

La grazia di Dio, in generale, la cosiddetta grazia santificante o salvante, è una partecipazione abituale da parte dell’anima alla stessa vita divina, dono preziosissimo che Dio offre ad ognuno in ordine alla salvezza (grazia sanante) e per elevarlo ad una vita soprannaturale ad immagine di Cristo, la cosiddetta «figliolanza divina» (grazia elevante) comportante un rapporto con Dio ed una felicità immensamente migliori o superiori a quelli consentiti dal semplice soddisfacimento delle esigenze, bisogni, fini e diritti  della natura umana.

La grazia in generale è gratuita in quanto è un beneficio divino di incommensurabile valore, che non può essere meritato o comprato o pagato o acquistato con qualche opera o prestazione umana. Se esistono benefìci impagabili e senza prezzo sul piano umano, tanto più senza prezzo ed impagabili sono i doni della grazia, il cui valore è infinitamente superiore ai massimi beni della vita umana.  

La grazia sanante

La prima grazia in ordine di tempo, la grazia sanante, il «pronto soccorso» divino, per così dire, che libera l’uomo dall’iniziale stato di peccato o di colpa conseguente al peccato originale – la grazia battesimale - non può essere meritata e neppure la grazia della perseveranza finale. La prima grazia è quella che fa passare la volontà dal peccato alla giustizia, è la grazia che cambia il nostro cuore e lo rende eventualmente pentito e docile alla volontà di Dio. Una volta che l’anima possiede questa grazia, le sue opere, che prima del possesso della grazia erano inutili per la salvezza, diventano meritorie di un aumento della grazia, come «una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14). 

La grazia sanante è quella che solleva l’uomo dalla sua miseria conseguente al peccato e lo libera dalla colpa. Dopo il peccato originale l’uomo si è ritrovato in uno stato di miseria e debolezza tali, che da sè, giustamente castigato da Dio, non riesce a tornare a Dio, dal Quale, col peccato, si è allontanato e al Quale si è reso nemico. Ma Dio non ha voluto lasciarlo in questo stato, ha avuto misericordia di lui e gli ha dato Cristo redentore. 

La grazia sanante non è necessaria alla natura umana per raggiungere i suoi fini naturali o per appagare le sue esigenze essenziali, ma è necessaria nella supposizione della natura corrotta dal peccato, perché in queste condizioni la natura non riesce neppure a realizzare la perfezione delle virtù naturali, senza il soccorso della grazia, soccorso che da parte di Dio resta gratuito, non obbligatorio, perché l’uomo dopo il peccato originale non è più stato capace di meritare presso Dio, per cui Dio lo ha salvato non perchè abbia avuto un debito nei suoi confronti, ma perchè ha avuto pietà di lui. 

Entra allora in funzione la cosiddetta grazia della «giustificazione» (Rm 3,21). Dio la offre all’uomo peccatore per la sua conversione, ma per la sua cattiva volontà può essere respinta. La sua presenza nella nostra anima ci rende amici di Dio, eredi della vita eterna. La sua assenza ci lascia per colpa nostra nei nostri peccati, come nemici di Dio, esposti alla dannazione eterna.

 La perseveranza finale

Invece la perseveranza finale è una grazia non meritata perché essa consiste nel fatto che uno persevera nella grazia fino alla fine. Ma ciò può anche non accadere, perché può succedere che uno a un certo punto cade nel peccato mortale, per cui, se muore in queste condizioni non si salva.  Per questo occorre chiedere insistentemente nella preghiera la grazia della perseveranza finale, ossia la grazia di una buona morte.

Occorre fare attenzione a non confondere la grazia della perseveranza finale con l’ultimo atto di carità, quindi in grazia, compiuto nell’ultimo istante della vita subito prima della morte, atto che può esser stato meritato da un precedente atto in grazia. Infatti la perseveranza finale è una successione, magari discontinua, di atti in grazia fino alla morte («tutto è bene quel che finisce bene»), mentre qui siamo davanti ad unico atto in grazia immediatamente precedente alla morte, atto che può essere di pentimento per un’intera vita spesa nel peccato. 

La grazia elevante

La grazia elevante è gratuita, in quanto non serve e non è dovuta da Dio all’uomo per soddisfare esigenze della natura umana, e non ha diritto a riceverla, perché già la natura, in linea di principio, può ottenere questo fine semplicemente mettendo in atto le forze proprie della natura, intelletto e volontà, sì da raggiungere quella felicità che consiste nella contemplazione affettiva, tramite gli effetti, del Dio uno, causa e scopo dell’universo. 

Dio allora si obbliga con Se stesso e verso l’uomo, quando dona la grazia con le esigenze che essa comporta, mentre  l’uomo che ha assolto ai suoi doveri verso Dio, può a questo punto esigere da Dio il premio come corona a lui dovuta per giustizia. In tal modo la visione beatifica della SS.Trinità, dono della grazia elevante, del tutto al di sopra delle esigenze della natura umana, diventa per l’uomo in grazia, per il figlio di Dio, un’esigenza della sua felicità. 

Può invece essere meritato, con merito soprannaturale, quando già si è in grazia, l’aumento della grazia e il premio del paradiso. Infatti, la salvezza è dono della grazia. Il che però non toglie che noi dobbiamo operare per la nostra salvezza, altrimenti non ci salviamo. Il che vuol dire che Dio è disposto a salvarci a patto che noi siamo pronti a cooperare con la grazia mediante le buone opere. Non basta la fiducia che Dio ci salvi, ma per salvarci effettivamente, occorre che questa fiducia  sia accompagnata dalle buone opere, come ci avverte S.Giacomo. 

Dalla Scrittura risulta chiaramente che la salvezza è effetto di un’alleanza fra l’uomo e Dio. Dio è fedele alle promesse e sta ai patti. Dio salva l’uomo sì gratuitamente, perché per la salvezza occorre la grazia, ma non a qualunque condizione o senza condizioni. Al contrario Dio salva a ben precise condizioni, le quali sono oggetto del patto. Dio non salva l’uomo in ogni modo e indipendentemente da qualunque cosa l’uomo faccia o non faccia, sia che pecchi sia che non pecchi, ma solo se rispetta le condizioni pattuite, che poi sono l’osservanza dei comandi divini, sicchè, se l’uomo non sta ai patti e disobbedisce, non può salvarsi.

Se Dio desse la grazia e salvasse anche chi ostinatamente pecca e non si pente, diventerebbe complice e connivente col peccato, il che è una bestemmia al solo pensarlo. Se Dio lasciasse correre il peccato e non lo punisse, sarebbe un Dio ingiusto, malvagio e autore del peccato, il che di nuovo è bestemmia ed empietà. Il peccato di per sé richiede di essere castigato, così come il veleno non può non procurare la morte. Non punire il peccato vuol dire approvarlo. Ogni minimo senso di giustizia in campo civile dice che è odiosa e non agisce bene l’autorità che non punisce i delitti. 

E se chiediamo giustizia all’autorità umana, non dovremmo chiederla a Dio? Se fa giustizia l’autorità umana, non dovrà farla Dio e molto meglio? Dove sono finiti i «peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio» del Catechismo di S.Pio X? Sono tutti «sdoganati»? E chi rimedia ai difetti della giustizia umana, se non la giustizia divina? Chi sfugge a quella, può sfuggire a questa? Se dunque in forza della gratuità della grazia, possiamo peccare tranquillamente nella sicurezza di  salvarci lo stesso, che senso hanno i divini comandamenti e le minacce a chi disobbedisce? 

Sono infatti chiarissime e ripetute le gravissime minacce di Nostro Signore a coloro che disobbediscono ai suoi comandi. E se essi dovessero salvarsi comunque in forza della gratuità della grazia, perché minacciarli? O crediamo di essere più misericordiosi di Nostro Signore? Promettiamo dunque il paradiso anche a loro!

Se Dio non castiga è perché perdona il peccatore pentito, il quale accoglie la grazia del pentimento e si converte, pronto a espiare il suo peccato. Ma sarebbe l’empietà di Lutero credere che Dio dia il permesso di peccare: «pecca fortiter», non ti preoccupare, perché Dio dona sempre grazia e perdono senza condizioni; basta credere che ti salvi: «crede firmius». Un Dio che approva, premia e loda tanto il bene che il male, tanto il vero che il falso, tanto il peccato che la giustizia, tanto il giusto che l’ingiusto, tanto la colpa che l’innocenza, che Dio è?

Con i suoi avvertimenti Gesù vuol farci capire che peccare o non peccare non è cosa indifferente, perché comunque saremmo tutti oggetto della misericordia divina, ma che tra il vivere in grazia obbedendo a Dio e l’assenza della grazia nella disobbedienza a Dio, c’è un abisso invalicabile, perché la prima comporta un premio grandissimo (il paradiso), mentre la seconda un castigo severissimo (l’inferno). E sta noi la scelta. E non tutti scelgono bene. Vogliamo riflettere su queste cose e deciderci a prendere sul serio la vita cristiana?

Quando si parla della gratuità della grazia, sarebbe bene quindi fare queste precisazioni e dare questi avvertimenti, che del resto ci dà Cristo stesso, altrimenti chi ascolta, che è un figlio di Adamo peccatore,  rischia di fraintendere e voler fare il furbo pensando di potere farla franca comunque perchè Dio «ci ama»; ma, come avverte S.Paolo, «non ci si può prender gioco di Dio» (Gal 5,7).

La grazia è la causa del merito

Quanto alla  frase del Papa «nessuno di noi merita la salvezza», dopo quanto ho detto, possiamo comprendere come essa debba essere intesa. Essa va intesa come esclusione di meriti semplicemente umani, precedenti alla grazia, i quali supporrebbero, come credette Pelagio, che l’iniziativa della giustificazione non spettasse alla grazia, ma alla volontà umana. 

Ricordiamo che cos’è in generale il merito. È l’esigenza di una giusta retribuzione (premio o castigo) da parte dell’autorità (umana o divina) per un’opera buona o cattiva (in grazia o contro la grazia)  compiuta da un agente dotato di libero arbitrio (uomo o angelo). 

Il concetto del merito è fondamentale nell’etica naturale come in quella cristiana. Infatti in ogni atto morale naturale o soprannaturale troviamo tre condizioni: 1. il soggetto meritevole, al quale giustizia vuole che sia data una retribuzione; 2. la retribuzione e 3. l’autorità retribuente. Nell’etica soprannaturale cristiana la grazia non esclude il merito, perché la grazia viene da Dio, mentre il merito viene dall’uomo, ossia dal cristiano partecipe dei meriti di Cristo.

Bisogna allora dire che, stante questo concetto del merito, il Papa  non esclude, anzi sottintende i meriti soprannaturali provenienti dalla grazia. Infatti, come vedremo sotto, la Scrittura paragona il paradiso ad un salario, un premio o un oggetto di conquista. Lo sperare la salvezza senza badare a procurarsi meriti per il paradiso, il Concilio di Trento lo chiama, «la vana confidenza degli eretici» (Denz.1533-1534), con evidente riferimento al sola gratia di Lutero.

È chiaro peraltro che i nostri meriti sono solo una partecipazione a quelli di Cristo, i quali, essendo il Figlio di Dio, ha meritato in una misura assolutamente sufficiente e sovrabbondante; mentre a noi, per misericordia del Padre, viene concesso di meritare – compresa la Madonna – in modo solo conveniente e per pietà. Il nostro vanto, pertanto, come dice S.Paolo (Gal 6,14), non sono tanto i nostri meriti, che sono pur reali, e sarebbe ingratitudine a Dio misconoscerli, quanto piuttosto quelli di Cristo crocifisso. 

Occorre dunque meritare il premio celeste. Come avverte il Catechismo di S.Pio X,  non ci si può illudere di salvarsi senza merito. Il regno dei cieli è conquistato, come dice Gesù, dai «violenti» (Mt 11,12), naturalmente non nel senso di chi si lascia vincere dall’ira, ma in quanto nel violento si esprime una forte energia della volontà. S.Paolo paragona il paradiso alla corona conquistata dall’atleta, che gareggia nello stadio, al fine di conquistare il premio. Il paradiso è il salario dell’operaio. Il paradiso è il tesoro celeste o la perla preziosa, che sono oggetto di oculato acquisto.  

Certo, ciò che è gratuito non può essere pagato o comprato o meritato o compenso di un’opera. Tuttavia Dio non ci salva incondizionatamente, ma a condizione – ce lo dice espressamente - che osserviamo i comandamenti. Dire che la salvezza è gratuita non esclude che essa debba essere meritata, anche se ciò a tutta prima sembra una contraddizione. E invece occorre distinguere due punti di vista o piani d’azione differenti e la contraddizione si scioglie. Alla salvezza infatti concorrono due princìpi o fattori: l’azione divina e l’azione nostra. Da parte di Dio è gratuita, ma da parte nostra dev’essere meritata con le buone opere.

È dunque falsa l’umiltà di colui che asserisce di non potersi fare dei meriti. La Scrittura proibisce di presentarsi davanti al Signore «a mani vuote» (Es 23,15). Certo, non si tratta di vantare davanti a Dio meriti umani, come se fossimo davanti a un qualunque datore di lavoro. Ma si tratta di farsi quei meriti soprannaturali, che sono dono della grazia e risposta alla grazia. Evitiamo di fare come il servo infingardo, che seppellisce il proprio talento. Vera umiltà è quella di chi riconosce, come dice S.Agostino e ripete il Concilio di Trento, che i nostri meriti sono dono della sua misericordia. In questo senso ha ragione il Papa a ripetere quella famosa frase del curato di campagna di Bernanos: «Tutto è grazia». Ma bisogna ben parlare dei meriti, spiegare che cosa sono e perché ci vogliono, onde evitare il disastroso equivoco di Lutero.

Non è vera umiltà neppure quella di chi dice di non avere nessun merito. È infatti un brutto segno quello di chi dice una cosa del genere, perché vuol dire che non ha trafficato i talenti ricevuti. Questo discorso può valere se riferito a una grande grazia improvvisamente e inaspettatamente ricevuta, per la quale non si era affatto preparati, come per esempio, l’incontro con una persona santa o il ricevere dallo Spirito Santo uno speciale dono di sapienza o di fortezza.

La consapevolezza dei propri meriti e delle opere buone compiute, di per sé è utile e doverosa perché dà coraggio a proseguire e ci fà sentire Dio vicino. Tuttavia occorre fare attenzione a che non s’insinui la superbia. A tal proposito è molto istruttiva la parabola del fariseo e del pubblicano. Il fariseo non sbaglia nel presentarsi davanti a Dio ringraziandoLo per le opere buone compiute. Quale coscienza più consolante, in fondo, della  coscienza d’aver agito in buona fede, di aver evitato il peccato, d’aver compiuto il proprio dovere, d’aver agito bene davanti a Dio, d’aver fatto ciò che a Lui piace?

Che cosa c’è allora che non va nel fariseo? Trascura di chiedere perdono dei suoi peccati, si considera perfetto e superiore al pubblicano peccatore. Infatti, se per un verso noi compiamo opere buone, per altri versi commettiamo sempre dei peccati bisognosi di perdono. E qui abbiamo l’esempio del pubblicano. Cristo non parla dei meriti o delle opere buone del pubblicano. Ovvero suo merito del pubblicano è proprio il fatto di chiedere perdono. Con questa parabola Cristo ci vuole insegnare che il merito più grande che abbiamo non è tanto il fare opere buone, che pure ci vogliono, ma il riconoscerci peccatori e chiedere perdono dei nostri peccati. 

Dunque Davanti a Dio non dobbiamo essere dei millantatori o degli esibizionisti, non dobbiamo fare la parte dei finti incapaci, ma non dobbiamo neppure fare gli scrocconi o farci trascinare come pesi morti o peggio ancora fare il doppio gioco dei santarellini furbetti. 

Se Cristo ha dato tutto il suo sangue per noi, noi non dovremmo corrispondere con  le opere buone? Non tiriamo fuori scusa che siamo peccatori, perché il Concilio di Trento ci ricorda che il nostro libero arbitrio è ferito ma non distrutto, checchè ne pensi Lutero. Dio fa sempre la sua parte col donarci la grazia. Ma per salvarci occorre che anche noi facciamo la nostra, obbedendo ai suoi comandi e evitando di disobbedire.

Il peccato è disobbedienza alla legge e rifiuto della grazia

Dice il Papa: «il peccato è non custodire la gratuità». Il peccato viene presentato come un rifiuto della grazia, sulla supposizione senz’altro vera che Dio c’infonde continuamente la grazia così come l’aria affluisce continuamente ai nostri polmoni o la corrente elettrica affluisce continuamente alle lampadine. Se l’aria dovesse venir meno, sarebbe la morte. Se l’emissione della corrente elettrica dovesse essere sospesa, la lampada si spegnerebbe. Ebbene, il peccato, per Papa Francesco, è la sospensione o interruzione di questi flussi con le evidenti conseguenze negative che tali atti provocano. 

In questa visuale si suppone il soggetto in grazia che, col suo atto, perde la grazia. E se il soggetto non fosse in grazia? Rispondiamo che non c’è dubbio che il peccato è un rifiuto della grazia. Ma non ogni peccato è questo rifiuto. Si può peccare anche non essendo in grazia, ma avendola già persa o prima di  acquistarla o riacquistarla. 

Il peccato non è sostanzialmente un atto contro la grazia, ma contro la natura e precisamente contro le giuste esigenze, le leggi e i fini della natura. Non occorre sapere che cosa è la grazia, per opporvisi col peccato. Il peccatore che non è in grazia e al quale la grazia non interessa, pecca ugualmente fuori dell’orizzonte della grazia. D’altra parte la giustizia non si risolve nell’aprirsi e nella disponibilità alla grazia, nella fiducia nella grazia o nella fiducia di essere in grazia o nell’accoglienza della grazia. 

La giustizia, come il peccato ha relazione essenziale con i comandamenti divini, con la legge morale, coi fini della natura umana. Giustizia è sostanzialmente obbedienza alla legge e peccato disobbedienza alla legge. Che per essere giusti occorra confidare nella grazia e nel suo soccorso è fuor di dubbio. Tuttavia occorre tener presente che ottengo l’aiuto della grazia se c’è in me la buona volontà di praticare la legge; e per converso il peccatore perde la grazia sostanzialmente non perchè si oppone alla grazia, ma perché disobbedisce alla legge. È questo che anzitutto gl’interessa, anche se è vero che disobbedendo alla legge per conseguenza perde la grazia. 

Tuttavia, la sostanza del dovere morale e per converso la sostanza del peccato non è tanto accogliere o non accogliere la grazia, ma è obbedire o disobbedire alla legge. Io ho davanti a me un dovere. La questione che mi pongo è: obbedisco o disobbedisco? Non è: accolgo o non accolgo la grazia. La grazia non interessa in se stessa ma solo in relazione all’azione da compiere o da evitare. La grazia si aggiunge o non si aggiunge a  una data azione che voglio compiere o evitare. 

Il giusto vuol compiere una buona azione e confida nella grazia; non agisce bene per essere in grazia, ma confida nella grazia per agire bene. Quanto al peccatore, è chiaro che a lui interessa peccare e della grazia se ne infischia. L’etica luterana della sola gratia sembra una cosa sublime ed evangelica, ma in realtà è un anomismo, come denunciò il Concilio di Trento, che trasforma i comandamenti da obbligatori in facoltativi.

P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 23 dicembre 2019

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