Luigino riprende quota

 Luigino riprende quota

Luigino riparte da Dio

In questi mesi, dal marzo scorso, come sanno bene i miei lettori, ho seguito Luigino Bruni in una serie di suoi articoli su Avvenire, nel corso dei quali ogni volta, cominciando dal suo rapporto con Dio, Luigino demoliva qualche valore cristiano col tono di uno che, per non essere stato fedele al suo «primo patto della fanciullezza» - sono parole sue -, prima sente rammarico e nostalgia, ma poi, invece di formare un serio proposito di rifare davanti a Dio quel patto,  prima tenta di correggere o «convertire» Dio per rabbonirlo intimandogli di smettere con quella severità con la quale lo ha castigato, ma poi si rende conto che Dio è fedele, mentre l’infedele è lui. Allora a questo punto Luigino, invece di tornare sinceramente a Dio, comincia a tirare fuori una serie di pretesti per stare lontano da Dio e poter fare a meno di Lui.

A tal fine demolisce sistematicamente, uno per uno, ad ogni nuovo articolo, tutti i valori e i mezzi del piano divino della salvezza, cominciando col negare il valore espiativo del sacrificio di Cristo, interpretato come espediente escogitato dai capitalisti per tenere a bada le rivendicazioni degli operai: «soffrite adesso con Cristo, perché vi attende il paradiso nell’al di là».

Il rimorso per il peccato? È solo un fastidio o un disturbo dell’emotività da curare con la psicanalisi. La ricerca della perfezione? Siamo per natura imperfetti. Dunque l’ideale non è quello della perfezione, ma dell’imperfezione. Ma siccome la perfezione è legata alla santità e alla sapienza, Luigino per conseguenza le accantona entrambe, per sostituirvi la «profezia», con la quale accomoda i Salmi alla sua nuova linea di condotta.

 Occorre allora, secondo Luigino, valorizzare l’utopia, ossia l’avvicinarsi indefinitamente ad un’idea mai del tutto realizzabile. Abbiamo una sete di Dio che aspira ad essere saziata? Ma la condizione dell’assetato è tipica della natura umana. Ne fa la sua grandezza. Non si è mai sazi di bere. La sete torna sempre ogni volta che si è bevuto. È normale. Dunque si deve fare l’elogio della sete e non della sazietà. Luigino è quindi sempre più scettico circa la prospettiva di una vita eterna dopo la morte.

Dio scompare dal suo orizzonte e Luigino giunge quindi alla conclusione che tutta la felicità che possiamo raggiungere è su questa terra, è nell’oggi, è nel lavoro quotidiano, nella vita di un giorno, come la farfalla. Tuttavia a partire dalla terz’ultima puntata si nota una ripresa. Luigino ha probabilmente riflettuto, come il figliol prodigo. Ha capito che non gli bastano le carrube dei porci. Si ricorda del primo patto. Ritorna sui suoi passi e si muove verso il Padre.

 Ricomincia a parlare del nostro dovere di essere grati a Dio per i doni che ci ha dato, ma, alla maniera di Lutero, non riconosce la necessità del merito per ottenere la salvezza, trascurando il fatto che il dono più grande della misericordia divina è proprio la possibilità di farci dei meriti in Cristo per raggiungere il paradiso. Nella penultima puntata, commentando il Salmo 109 Luigino, contro l’imperante buonismo, riconosce che Dio, implorato dal Salmista, vendica le offese subìte dagli uomini e torna a parlare della divina misericordia.

Ma il passo molto importante è quello che fa Luigino in quest’ultimo articolo «Non ad immagine d’idolo» del 13 settembre scorso, anche se il sovratitolo che nega che l’essere umano sia «simulacro» di Dio non è felice, ma comunque nel corso dell’articolo Luigino si spiega chiaramente ricordando la dottrina biblica dell’uomo creato ad immagine di Dio. «Simulacro» ha un senso evidentemente negativo e si riferisce, come spiega l’Autore, ad immagini sbagliate ed idolatriche, meschinamente antropomorfiche, della divinità.  

La questione dell’immagine di Dio

Luigino affronta anzitutto la famosa proibizione biblica di farsi immagini di Dio (Es 20,4). Essa si accompagna alla proibizione di costruire idoli. Il che vuol dire che col termine «immagine» (eb.tzelem) l’Autore sacro non intende come spesso noi oggi intendiamo, «rappresentazione mentale», ma «oggetto plasmato, scolpito, manufatto», come per esempio una statua (eb.temunà).

Noto io a questo punto che per mezzo delle immagini sensibili e delle cose materiali e partendo da esse noi però scopriamo il mondo immateriale dello spirito: il mondo del pensiero, i valori morali, la nostra anima, la nostra coscienza, il valore spirituale della persona. Tutto ciò trascende il mondo delle immagini sensibili.

Ma come facciamo a concepire il mondo dello spirito? Non possiamo astrarre l’essenza universale dal concreto individuale, perché questo mondo è già di per sé astratto, ab-solutum, sciolto, libero e indipendente dalla materia e dallo spazio-tempo. È il mondo dell’eterno, dell’assoluto, dell’immortale, dell’incorruttibile, dell’immutabile. Sono i «cieli» dove abita Dio, dove abitano gli angeli e le anime del paradiso.

Dobbiamo allora servirci dei concetti più ampli, elevati e comprensivi dei quali siamo capaci, che sono le nozioni metafisiche e trascendentali, che vanno oltre quelle categoriali, che riguardano l’ambito del finito, dei generi e delle specie e coprono tutta l’estensione o l’orizzonte dell’essere, tutti piani dell’essere, dal minimo al massimo, una nozione dell’essere, quindi, che non dev’essere univoca, ma analogica (cf Sap 13,5), ossia di modalità e significati diversi, in modo che la ragione possa spostarsi (anà-logos) dal finito all’infinito restando sempre proporzionalmente una nell’ambito dell’essere e del reale.

Diversamente, se la nozione dell’essere resta univoca, limitata a significare i generi e le specie della fisica e della matematica o il mondo dell’immaginazione, la nostra mente si ferma al creato e non riesce a cogliere l’essere divino come reale e come creatore del mondo. Non potrà più essere l’Essere supremo, smisurato, l’Altissimo, ma resterà appiattito, commisurato e alla pari dell’essere del mondo. Dio non può essere immaginato, ma solo pensato. Kant lo aveva capito[1] insieme con S.Tommaso.

Se invece la nozione dell’essere fosse equivoca, verrebbe meno la comunicazione fra l’uomo e Dio, Dio apparirebbe contrario alla ragione, verrebbe a giustificare il contradditorio, ad approvare la doppiezza, sarebbe un Dio inaffidabile, infedele, ingannatore, bugiardo, violento e disonesto.

Ecco allora che la Bibbia ci esorta invece ad ampliare i confini della nostra ragione, perché Dio vuole essere ospitato in essa come in un tempio: «Sollevate, porte, i vostri frontali ed entri il re della gloria» (Sal 24,7). La nostra ragione è infatti come un tempio nel quale Dio desidera abitare. Salomone resta stupito che Dio Si degni di abitare in un tempio costruito dall’uomo, ovvero di esser accolto da concetti costruiti dall’uomo (I Re 8,27). Corriamo sempre il rischio di ingabbiarLo nei nostri concetti e quindi di farne un idolo. È ciò di cui ci avverte Luigino.

Luigino ricorda poi opportunamente come Israele durante l’esilio fu privato del suo tempio e ciò fu per lui una purificazione, in quanto, dice Luigino ricordando un principio di Papa Francesco, «il tempo è superiore allo spazio»: pensare Dio nel tempo vuol dire comprendere il mistero dell’Incarnazione avvenuto nel tempo.

Resta sempre, comunque, che per accogliere Dio nella nostra mente e nel nostro cuore il meno indegnamente possibile, occorre che potenziamo al massimo la forza della nostra ragione, come diceva anche Papa Benedetto, purificandola da ogni errore ed impurità, ed occorre che allarghiamo al massimo lo spazio del nostro cuore. E resta sempre un mistero come il Dio infinito ed immenso possa venire ad abitare nello spazio finito della nostra ragione. Tuttavia, come già osserva Sant’Agostino, la nostra è una mens capax Dei.

Non possiamo certo diventare infiniti come Dio, come sognano gli idealisti, ma possiamo pensare e amare l’Infinito e quindi intenzionalmente o rappresentativamente, se non ontologicamente, possiamo in qualche modo, soprattutto se illuminati dalla fede e sorretti dalla grazia, diventare Dio. L’errore degli idealisti, come per esempio Hegel e Rahner, che confondono l’essere col conoscere, sta nel credere che questa identificazione intenzionale sia un’identificazione reale, per cui si convincono, poveri illusi, di essere Dio.

Se invece per immagine intendiamo una rappresentazione mentale dell’immaginazione, non è proibito usare l’immaginazione per pensare o conoscere Dio. L’immaginazione, per la verità, è una facoltà conoscitiva sensibile che abbiamo in comune con gli animali e nel nostro pensare non possiamo mai farne a meno, per quanto ampliamo il nostro pensiero alle verità più spirituali ed astratte, quali sono, per esempio, certe verità di fede, teologiche e dogmatiche. Dall’immagine di una cosa materiale noi ricaviamo il concetto di quella cosa, astraendo dal caso particolare o dall’individuo concreto. Dal contatto concreto con Fido e Pluto, noi ricaviamo il concetto del cane, che non è solo Fido o Pluto, ma qualsiasi cane.

Ma, come sappiamo e come Luigino riconosce, l’uomo non è il simulacro di un idolo da lui costruito, non è e non dev’essere la brutta copia di un Dio antropomorfico, mescolanza di difetti attribuiti a Dio e di qualità divine attribuite all’uomo, ma è creato ad immagine (tzelem) e somiglianza (eb.kidmunetu) di Dio. Qui, l’«immagine» di Dio è legittima e permessa, anzi dogmatizzata come verità di fede. L’immagine di Dio nell’uomo è nel suo spirito, giacché Dio è Spirito. E ciò comporta la possibilità di un dialogo fra Dio e l’uomo.

Immagine e somiglianza si illuminano a vicenda: l’immagine è la somiglianza dello spirito umano allo Spirito divino. E la somiglianza è la somiglianza dell’immagine creaturale al modello divino. L’uomo assomiglia a Dio perché è creato a sua immagine, così come l’immagine assomiglia e imita il modello. Lo aveva già intuìto Platone.

Ne consegue che il fatto che l’uomo sia ad immagine e somiglianza di Dio, significa che l’uomo e Dio sono due persone, atte ad interloquire, a parlarsi e quindi ad amarsi. È senz’altro bella l’immagine di Luigino dell’anima come «scintilla del mistero divino». A tal riguardo la Bibbia mette in gioco cinque valori, cinque parole-chiave comuni all’uomo e a Dio in quanto persone; lo spirito (rùach), la parola (dabar), il nome (sem), la vita (hayyim). La vita è l’esistere proprio dello spirito, che parla ed opera mediante la parola come atto dello spirito, che conosce la verità (emet) circa il nome, ossia l’essenza della realtà, per generare la vita.

Come passiamo dall’immaginabile al pensabile?

Ma com’è che noi scopriamo il mondo dello spirito? Applicando il principio di causalità col passare dall’effetto alla causa proporzionata e sufficiente e andando per analogia con le cose sensibili che conosciamo, perché sempre di realtà si tratta, solo che qui, partendo dalle cose visibili, scopriamo quelle invisibili, da quelle terrene saliamo a quelle celesti, da quelle sensibili, mobili e mutevoli passiamo a quelle immaginabili e da queste saliamo a quelle puramente intellegibili, morali e spirituali; dal piano della storia, senza abbandonare la storia,  passiamo al piano dell’immutabile, da ciò che passa a ciò che non passa: il puro essere, l’infinito, l’assoluto, l’eterno, l’immortale, il perenne, la verità, la bontà, la vita, la bellezza, la virtù, la santità, Dio.

Tutto ciò implica che nel mondo dell’esperienza scopriamo fenomeni fisici, che non si possono spiegare sufficientemente con una causa fisica: scopriamo il linguaggio, i segni sensibili delle passioni e delle emozioni, percepiamo uno sguardo o un gesto d’amore o d’affetto. È da questi fenomeni che ci accorgiamo di avere una coscienza e un’anima spirituale e che gli altri come noi sono animati da un’anima spirituale.

L’immaginazione, che è già un’attività immateriale, è tuttavia legata alle funzioni degli organi di senso e del cervello. Eppure anch’essa in noi non si spiega sufficientemente se non come strumento del concetto e manifestazione del pensiero e dello spirito. A questo punto abbiamo posto le premesse per scoprire e concepire l’esistenza e l’essenza di Dio, che è purissimo Spirito.

La Bibbia insomma condanna l’uso pagano e politeista di costruire statue rappresentative degli dèi, alla stregua della rappresentazione plastica o scultorea (eb. temunà) della persona umana. Quest’uso infatti è concepibile solo nel politeismo, per il quale ogni divinità doveva rappresentare una potenza dello spirito o della natura, che veniva divinizzata o personalizzata e diventava oggetto di culto. Invece la concezione ebraica monoteista richiedeva una concezione della divinità, per la quale un unico principio, per essere veramente divino, deve da solo spiegare ogni cosa.

Non può essere vero Dio quello che ha bisogno della compagnia e dell’aiuto di altri dèi per governare il mondo. Il vero Dio – questo ha capito Israele – non può che essere una causa universale, un ente assolutamente perfetto e onnipotente, che provvede a tutto e al governo del quale nulla può sfuggire ed essere affidato ad altri.

L’Assoluto non può mancare di qualcosa che è posseduto da altri; se no, non è più assoluto. Un Dio non può essere diverso per qualche cosa da un altro Dio, se non ha e non è tutto, cosa necessaria perchè un Dio sia Dio. Da qui il monoteismo biblico, segnale di un concetto assolutamente rigoroso, logico e perfetto della divinità.

La questione del Nome di Dio

Luigino affronta poi la questione del «nome» (eb.sem) di Dio. Per l’uomo della Bibbia il nome di una cosa non è una semplice designazione verbale convenzionale come per noi oggi: un comodo segno del linguaggio per indicare una cosa. No. Per la Bibbia il nome di una cosa è qualcosa di molto più profondo. Designa l’essenza della cosa, ma non in modo convenzionale, ma naturale: il nome della cosa è l’essenza della cosa. Per questo l’imporre il suo nome a una cosa vuol dire dominarla. Così Adamo nell’eden impone alle creature il loro nome. In base a queste premesse si comprende allora quanto delicato fosse per il pio israelita nominare Dio, pronunciare il suo nome.

Il nome di Dio per la Bibbia è l’essenza temibile, incomprensibile ed ineffabile di Dio. Al limite, il Nome è Dio stesso. Ma è anche l’energia di Dio; parlare a suo nome, agire a suo nome, vuol dire agire e parlare con la sua potenza. Santificare il Nome di Dio non vuol dire santificare un vocabolo del dizionario, ma chiedere a Dio che manifesti la sua santità ed operare per questo fine. La gloria del Nome di Dio è lo splendore della sua essenza. Nominare il Nome di Dio non vuol dire pronunciare una parola, per quanto adorabile, ma significa parlare di Dio con sapienza.

Una persona, nel designarsi col suo nome, dice chi è. La lingua ebraica non ha il vocabolo «essenza»; al suo posto ha il «nome» (sem). Non ha neppure nessun vocabolo che corrisponda al nostro «realtà», da res, così importante per la metafisica. Esiste tuttavia il termine emet, che significa «verità» nel senso di verità ontologica. La verità è la realtà. Per questo per la Bibbia la verità della conoscenza è aderenza della mente e della parola alla verità ontologica, al reale.  Il concetto del reale inoltre si ricava dalla terza persona del presente del verbo essere (havàh): «egli è» (Jahvè), che è appunto il Nome divino. Il reale è ciò che esiste. Ed esiste perché è creato da Dio.

Quindi Dio per la Bibbia è il Reale per eccellenza, l’Ens realissimum, come lo chiamerà lo stesso Kant. Se Dio è l’Esistente per eccellenza – o On, come i Settanta traducono Es 3,14 -, vuol dire che è il creatore di ogni ente, di ogni cosa, anche se la Bibbia non ha i vocaboli ente e cosa, ma solo quello di barè, da barà, creare, ktisis, che è la creatura, la «cosa-fatta». Questo ci dice peraltro quanto nella Bibbia l’esser-creato entra nel concetto stesso dell’ente. La Bibbia vede nell’ente esistente l’esser creato.

Il concetto astratto universalissimo dell’ente, indifferente al creato e all’increato, che i metafisici cristiani troveranno in Aristotele, non c’è nella Bibbia, ma si può benissimo ricavare da essa ed è molto utile per comprendere il rapporto fra l’essere creato e l’essere increato, ossia il dogma della creazione.

Viceversa l’on e on aristotelico, l’ens ut ens, non porta assolutamente in sé l’attributo dell’esser creato, anche se poi la metafisica cristiana distinguerà un ens creatum da un Ens increatum. I metafisici cristiani e pure quelli i musulmani, come Avicenna, hanno compreso che per la Bibbia il reale dunque è «ciò che esiste», e che può essere Dio come può essere il mondo, il «cielo e la terra».

Da qui il sommo realismo proprio della Bibbia, negazione radicale dell’idealismo, perfettamente compreso dai metafisici cristiani e soprattutto da San Tommaso, elaboratore del suo realismo gnoseologico, molto più realista di quello di Aristotele, che non arriva a chiedersi la causa dell’essere e della realtà.

E questo realismo è fondato sul fatto che il Dio biblico è Colui che È, il reale per eccellenza. La realtà, per la Bibbia è dunque l’esistente, che però non è un semplice esistente senza essenza, alla maniera esistenzialista, ma ha un’essenza intellegibile, ha un nome, termine linguistico che mette in gioco la mente che lo nomina e il reale nominato.

Il termine dabar è molto vicino: significa parola e fatto ad un tempo. È parola-pensiero, parola-linguaggio, parola-che-produce. Ecco il Logos di San Giovanni. Ecco la parola nel sacramento, che produce ciò che significa. Assomiglia al greco pragma, che significa «cosa» e «fatto» ad un tempo.

È così che Papa Benedetto XII nel 1336, nel definire la visione beatifica, disse che il suo oggetto è l’essenza di Dio. Usando il linguaggio biblico, avrebbe potuto dire: il Nome o il Volto o la Gloria di Dio. Naturalmente anche la lingua ebraica distingue il nome come vocabolo dal nome come essenza. E qui cade a proposito quanto Luigino dice circa la questione del nome di Dio in Es 3,14. Il problema che si pone è quello di chiarire sotto quale nome grammaticale Dio designa Se stesso davanti a Mosè.

Come chiarisce la nota della Bibbia di Gerusalemme ad Es 3,14, il termine usato da Dio nel rivelare il suo Nome a Mosè è una voce del verbo essere: «Io sono Colui Che È», Ehieh escer ehieh.  È vero quel che riferisce Luigino circa il fatto che con la cessazione del culto divino nel 70 d.C. si perse la conoscenza della pronuncia del Nome fatta dal sommo Sacerdote una volta all’anno nel tempio.

Tuttavia Luigino non ci dice successivamente che la pronuncia «Jahvè» si è venuta a conoscere grazie alla tradizione samaritana e da quanto ci riferiscono antichi scrittori cristiani, come Teodoreto, Clemente Alessandrino e Origene[2]. Per questo motivo la Bibbia di Gerusalemme usa il termine «Jahvè», che significa «Egli è» (Jahvè). Non concordo quindi con Luigino nella grafia di questo nome con l’uso delle consonanti YHWH, benché prima della riscoperta della pronuncia del nome sia stata esatta[3], perché una serie di consonanti è impronunciabile e allora tanto vale non scriverla neppure.

Sappiamo come nella tradizione kabbalistica esiste la tecnica magica della costruzione del golem, una specie di automa, simulacro artificiale dell’uomo, che si pretende vivificare e comandare con l’imprimergli sulla fronte il sacro Nome Jahvè. Esiste così nella tradizione ebraica spuria la prospettiva magica che l’uomo possa operare su Dio per ottenere non ciò che Dio vuole, ma ciò che vuole lui.

Sappiamo d’altra parte come San Tommaso si basa su questa rivelazione mosaica per elaborare il suo concetto di Dio come ipsum Esse per se subsistens. Da questo concetto poi l’Aquinate ricava gli attributi divini ontologici della semplicità, dell’immutabilità, della spiritualità, della sapienza, della perfezione, della bontà, dell’infinità, dell’eternità, dell’onnipotenza, e quelli operativi della creazione, della provvidenza, della giustizia e della misericordia.

I metodi della teologia

Tommaso elabora anche otto metodi per parlare di Dio ed assegnarGli gli attributi convenienti:

1) Il metodo dell’analogia. Per analogia a come diciamo che una creatura è sapiente o buona, così proporzionalmente o similmente diciamo che Dio è ancor più sapiente e buono. Qui occorre usare nozioni trascendentali, che coprono tutta l’estensione dell’essere, pur tra le più abissali diversità, quindi perfezioni pure, indipendenti dalla materia, come il vero, l’uno, il qualcosa, il buono e il bello, che possono essere finite come infinite. 

2) Il metodo della partecipazione. Dio è per essenza ciò che la creatura è per partecipazione. Egli è essere, sapere, coscienza, intelletto, ragione, pensiero, idea, parola, verità, azione, grazia, amore, comunione, relazione, vita, bontà, gioia, beatitudine e bellezza per essenza. Le creature partecipano in vari gradi e modi di queste perfezioni. L’essenza divina è formalmente impartecipabile per la sua semplicità; la grazia divina è partecipazione analogica soprannaturale della natura divina (II Pt 1,4).

3) Il metodo della causalità. È il metodo che serve a dimostrare l’esistenza di Dio. Si parla di Dio come causa prima, principio, fine ultimo, ente necessario, motore immobile, primo e sommo ente, sommo bene, Assoluto.

4) Il metodo dell’eminenza. Occorre usare attributi suscettibili di infinità, come le perfezioni trascendentali e quelle spirituali. Dio è infinitamente di più ciò che nell’esperienza troviamo di perfettibile all’infinito (eb.en-sof). È l’attributo della trascendenza. È id quo nihil maius cogitari potest. Eb.El-elion, l’Altissimo.

6) Il metodo della negazione. Si nega la finitezza di un valore: l’infinito, l’invisibile, l’illimitato, l’incomprensibile, l’insondabile, l’ineffabile, l’inviolabile, l’immenso, l’incommensurabile, l’imparagonabile, l’impassibile. È il Mistero, non è nulla di tutto quanto per noi è essere secondo la nostra limitata comprensione.

7) Il metodo della metafora e del simbolo. Si prende una cosa materiale o un qualcosa di umano che abbia una qualità o svolga un’azione o rechi un beneficio o abbia un aspetto che possono essere paragonati a qualche attributo divino: la roccia, il vento, il cielo, l’acqua, il sole, la stella, il fuoco, il leone, l’agnello, la colomba, le passioni umane. Le tenebre hanno un significato ambivalente: possono significare l’oscurità del mistero oppure le tenebre del peccato.

8) Il metodo della comunicazione dei predicati (communicatio idiomatum). Si applica soprattutto nel mistero dell’Incarnazione, dove abbiamo un’unica persona in due nature: restando il medesimo soggetto, si può trasferire il predicato di una natura all’altra natura. Per esempio in Cristo Dio diviene, soffre e muore.

Perché il monoteismo e non il politeismo

Luigino riprende la polemica del Salmo 115 contro l’idolatria. Il suo commento sembra oggi più che mai opportuno dopo il triste e scandaloso episodio dell’anno scorso del culto a Pachamama. L’idolatria di per sé non dice ancora politeismo, ma vi è strettamente congiunta, perché l’idolo è già di per sé un valore limitato che richiama altri idoli. L’idolatria è quindi riconducibile al politeismo.

 Osserviamo allora che il politeismo riduce la divinità in una molteplicità di individui, come se il divino fosse una specie che ha al di sotto di sé degli individui, così come la specie «cane» ha sotto di sé molti cani.

Eppure si resta meravigliati di come una grande mente come quella del politeista Tacito, nell’apprendere la concezione ebraica della divinità, restasse stupito e quasi non sapesse capacitarsene: «Iudeaei mente sola unumque Numen intelligunt» (Hist.,V,5). È bellissimo quel «mente sola»: col solo intelletto, senza valersi di immagini, raffigurazioni e forme sensibili come fanno i politeisti. Il Dio biblico è un Dio per comprendere il valore del quale occorre saperLo vedere libero e sciolto (ab-solutum) da tutto, affinchè possa essere Tutto ed essere creatore, governatore e Signore di tutto. Non deve avere nessuna qualità particolare perché le domina tutte.

Invece, come insegna il Salmista ripreso da Luigino, il falso dio è un dio «fatto dalle mani dell’uomo» (Sal 115,4), quindi non un Dio creatore dell’uomo, ma al contrario un dio creato dall’uomo. Questo è l’idolo. È interessante l’etimologia di idolo: eidolon, che a sua volta si connette con eidos: idea. Quindi il dio prodotto dall’uomo non sono solo gli idoli di legno o di bronzo, ma sono anche idee prodotte dall’uomo, inadeguate a rappresentare Dio.

Luigino colpisce in pieno la menzogna di molti filosofi e teologi moderni, che falsificano il concetto di Dio, perchè confondono Dio col proprio io gonfiato al massimo, come Cartesio, Kant, Fichte, Schelling, Hegel, Husserl e Rahner, i quali confondono la realtà di Dio con la loro idea di Dio, e ne fanno un idolo della loro mente e una regola della loro condotta.

È questo quel gravissimo e dannosissimo vizio intellettuale, che oggi viene comunemente chiamato «ideologia», contro il quale spesso si scaglia Papa Francesco, quando condanna l’idealismo e lo gnosticismo. Dice bene Luigino: «il nome delle idolatrie intellettuali è ideologia». È quel vizio che è originato dalla superbia, per il quale al soggetto non interessa la realtà esterna, perché lo condurrebbe ad ammettere quel Dio trascendente che egli rifiuta, in quanto per lui la realtà massima, e quindi Dio, non è altro che la sua idea di Dio, che si è costruito per coonestare la sua cattiva condotta. 

Prosegue Luigino: «Tra le ideologie sono quelle religiose, perché dimenticano spesso il divieto di “farsi immagine di Dio”. Mentre il bravo scienziato o il bravo economista sanno che il modello che usano per descrivere il mondo non è il mondo (per esempio la concorrenza perfetta non è il mercato), il teologo (tranne i grandissimi, e tra questi san Tommaso) è tentato di credere che i modelli che ha costruito per descrivere Dio siano l’immagine di Dio. E così, una volta costruito un modello pensato come immagine, catturano Dio dentro quell’immagine».

Attualità di San Tommaso

Luigino colpisce molto bene i teologi modernisti, ma giustamente lascia fuori i discepoli di San Tommaso a cominciare dal loro maestro. Quanto agli scienziati ed agli economisti, non vedo perché anche loro non dovrebbero andar soggetti a quella presunzione e a quell’egocentrismo che giustamente Luigino denuncia nei modernisti. Ma le sue parole seguenti hanno bisogno di una forte correzione. Sono queste: «abbiamo ucciso migliaia di persone, bruciato eretici perché troppo sicuri che l’idea che ci eravamo fatti di Dio fosse la sua immagine».

Qui Luigino, dopo aver fatto le lodi di San Tommaso, fa un autogol, non s’accorge di recargli offesa, sebbene occorre in parte dargli ragione. Mi spiego. Luigino non tiene conto del fatto che quell’organo della Santa Sede, che aiuta il Papa nel suo ufficio di custode della sana dottrina, chiamato in passato Sant’Offizio ed oggi Congregazione per la Dottrina della Fede, non può non far riferimento, come a criterio di valutazione e di giudizio per la formulazione delle sue sentenze, alla dottrina San Tommaso, da sempre considerato dalla Chiesa come il principe dei teologi.

San Tommaso, infatti, tra tutti i teologi, per espressa dichiarazione della Chiesa, è quello che meglio c’insegna come concepire Dio e come parlare di Lui. L’Aquinate, infatti, è la più alta espressione del carisma domenicano, consistente appunto nel saper parlare di Dio con verità, carità, sapienza e persuasività. Si tratta di un’applicazione eccelsa del carisma dello stesso Fondatore San Domenico, del quale si dice che o parlava di Dio o parlava con Dio.

Ora, per dare una adeguata risposta alle parole di Luigino, bisogna ricordare che la Chiesa ha avuto da Cristo due mandati nei riguardi del mondo: un compito d’insegnamento della verità su Dio e un compito pastorale riguardante il governo dei fedeli e coloro che respingono un giusto concetto di Dio.

In altre parole, la Chiesa ha da Cristo la possibilità e il dovere di provvedere disciplinarmente nei confronti degli eretici, degli increduli, degli agnostici, dei panteisti, degli idolatri e degli atei. Riguardo al primo compito la Chiesa ha, grazie all’assistenza dello Spirito Santo, sempre un giusto concetto di Dio. Invece riguardo al secondo mandato, essa può peccare o per eccessiva severità o per eccessiva indulgenza. In passato ha mancato nel primo senso. Oggi difetta nel secondo.

Il problema che Luigino pone implicitamente è il seguente: come formarci un concetto di Dio così da esser certi che questo concetto corrisponda alla realtà? Anche lui evidentemente aspira ad una conoscenza verace di Dio. Ma non ci dà la risposta. La risposta ci viene da San Tommaso, indicato dallo stesso Luigino.

San Tommaso, infatti, oltre a darci le indicazioni metodologiche di cui sopra, ci fa presente un’importante distinzione, che egli desume da San Paolo, fra il conoscere la natura di Dio (ghighnosko, I Cor 1,21; Gal 4,9; II Ts 1,8)) e il comprendere l’essenza di Dio (katalambano I Cor 2,14; Ef 3,18). Conoscere l’essenza di Dio vuol dire sapere che Dio esiste e conoscere gli attributi che gli sono assegnati dalla ragione e dalla fede nella vita presente. Conoscere vuol dire cogliere l’essenza, mediante le creature, limitatamente a come conviene alla nostra finitezza creaturale.

Per «comprendere», invece, San Tommaso con San Paolo intendono due cose:  o il semplice  cogliere l’essenza nella sua infinitezza, così come ci è rivelata da Cristo e nella visione beatifica, benché sempre per noi in modo finito. Oppure intende il comprendere esaustivamente. E allora Tommaso con San Paolo sostiene che l’essenza divina è incomprensibile (anexeràunetos, Rm 11,33), in quanto solo Dio infinito può abbracciare totalmente il suo essere infinito.

 Inoltre, per quanto riguarda la differenza fra il conoscere Dio con la ragione e il conoscerLo con la fede, Tommaso ci fa presente che mentre con la ragione possiamo conoscerLo indirettamente come Causa e Fine del mondo mediante nozioni analogiche (Sap 13,5); è questo il cognoscere essentiam; con la fede noi possiamo conoscere Dio così come Egli conosce Sé stesso, e questo è il cognoscere per essentiam. E per questo e in tal senso possiamo dire con San Paolo che noi «abbiamo il pensiero di Cristo» (I Cor 2,16).

Inoltre S.Tommaso, sulla scorta dei Padri Greci, preferisce la teologia negativa o apofatica, che dice ciò che Dio non è, a quella affermativa o catafatica, che dice ciò che Dio è, senza per questo cadere nell’apofatismo assoluto, che, col pretesto del «Mistero», nega che di Dio si possa dire qualunque cosa, sicché essa cade in contraddizione con se stessa, perché per poter dire che di qualcosa non si può dir nulla, bisognerebbe dire di che cosa non si può dir nulla, e quindi occorrerebbe definire questo qualcosa, il che è proibito dall’ipotesi.

Dire che non si può dir nulla di una cosa della quale non si dice che cosa sia equivale a fare un discorso vuoto, privo di senso e quindi è meglio tacere. Paolo parla bensì di un’indicibilità (II Cor 12,4) e di un’ineffabilità (II Cor 9,15) divine. Ma evidentemente non vanno prese in senso assoluto; altrimenti dove sarebbe finita la predicazione di San Paolo?

Inoltre il mistero di Dio non è un buio assoluto, come se la mente rimanesse in uno stato comatoso, ma è una luce fulgidissima, benché forse solo balenante e circoscritta, al di là della quale c’è il buio non perchè non ci sia più nulla da vedere, ma perché siamo noi che non arriviamo a vedere perché supera infinitamente la nostra limitata area visiva.

 Infine, Tommaso ci spiega chiaramente che un conto è concepire Dio e un conto è vedere Dio. Nella vita presente non possiamo cogliere Dio se non in concetti, siano essi di ragione o di fede. Ma solo in cielo, come dice San Paolo, potremo vederLo «faccia a faccia» (I Cor 13,12). Dunque quaggiù non esistono «esperienze di Dio», espressione impropria, che si riferisce ad un intenso e sublime rapporto affettivo con Dio, che può essere anche l’esperienza mistica. Ma anche questa dev’essere basata sul concetto di fede, sennò è un inganno dell’emotività o della fantasia o del demonio.

Se Gesù, al quale piacevano i paragoni vivesse oggi, direbbe che la Chiesa assomiglia o si può paragonare a una maestra di scuola media che dà agli scolari un tema da svolgere in classe. Ai migliori dà il 10, ma a chi ha commesso troppi e gravi errori non dà neppure la sufficienza.  Similmente la Chiesa vaglia le opere dei teologi, loda i bravi e boccia, ossia condanna quelli che scendono al di sotto della soglia minima perché la loro opera sia passabile. Sono queste le condanne per eresia.

Così la Chiesa, nel valutare il concetto di Dio presso i vari teologi e le varie religioni, per esempio presso quella islamica, le capita di rintracciare alcuni attributi del vero Dio, ma notifica che altri mancano, come i dogmi dell’Incarnazione e della Santissima Trinità.

Tuttavia la Chiesa è sempre il più possibile benevola e tollerante, e per questo possiamo dire che nel giudizio che il Concilio dà del Dio islamico[4], il Dio islamico «ha  preso la sufficienza». Occorre infatti tener presente che d’altra parte, quando la Chiesa parla di un Dio «vero» o di un Dio «falso», non intende fare un riferimento al Dio reale, così come si confronta una banconota vera con una falsa. La Chiesa fa riferimento solo alla conoscenza di Dio, che può essere vera o falsa. Così, nel parlare del Dio islamico, la Chiesa non ha problemi nel riconoscere che si tratta del vero ed unico Dio, in Se stesso unico Dio per noi e per loro; solo che nutre forti riserve sul concetto islamico di Dio, il quale manca dei dati della rivelazione cristiana.

Ma certe altre concezioni di Dio, che negano il minimo di attributi, al di sotto dei quali l’essenza di Dio scompare, la Chiesa le condanna senza mezzi termini, come per esempio le concezioni «ideologiche», direbbe Luigino, concezioni panteistiche, gnostiche, pelagiane o idealiste, che riducono Dio all’idea di Dio, o quelle evoluzionistiche, o quelle basate sulla dialettica della contraddizione, come quella di Hegel. Per non parlare delle divinizzazioni della natura, che sono dei veri e propri idoli, come Pachamama, vanamente invocati dai teologi modernisti come mezzo di inculturazione.

I concetti teologici hanno un significato che supera la nostra comprensione

Occorre che ci rendiamo conto che i concetti teologici non sono concetti che abitano solo sulla terra, ma  sono concetti alati, che una volta formati, spiccano il volo verso il cielo come i palloncini dei bambini, quando essi lasciano la presa del filo che li trattiene, oppure sono concetti dinamici, i quali, pur mantenendo  immutato il loro significato, questo possiede un’energia semantica che al di là di un certo termine non riusciamo più a padroneggiare, ma essa si amplia e ci trascende verso Dio Verità assoluta. Essi ci vanno innanzi, ci precedono in paradiso e quando vi saremo giunti comprenderemo tutto il potenziale semantico che essi hanno liberato durante il loro viaggio verso il cielo.

Pur fissando immutabilmente una verità divina immutabile, si mettono in movimento verso Dio Verità in modo simile ai cilindri girevoli dei fedeli buddisti, che vengono fatti girare dai fedeli con un moto della mano, per rappresentare una tensione orante della mente verso Dio.

I nostri concetti teologici non sono come quelli profani, che delimitano con precisione in modo univoco il loro oggetto e tutto finisce lì. No, sono concetti analogici, il che vuol dire che sprigionano un’energia intenzionale, per la quale, una volta che li abbiamo formulati, partono verso Dio, si staccano da noi e non riusciamo più a seguirli nel volo verso il cielo. Sono come amici che ci lasciano per una meta a noi sconosciuta e ci dicono: ci vedremo quando saremo arrivati! Ma questi concetti quaggiù ci devono bastare. Quando invece saremo lassù constateremo che essi non saranno più necessari, perché quando incontriamo faccia a faccia un amico diventano superflue le lettere che ci siamo scritti.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 17 settembre 2020

 

 Luigino Bruni. Professore ordinario.

Immagine da internet.


[1] Gott ist kein Apprehensibler, sondern nur ein denkbarer Gegenstand, Op. Post. AK XXI, p.151, cit. da Italo Mancini, Kant e la teologia, Cittadella Editrice, Assisi 1975.

[2] Cf Dictionnaire de la Bible, alla voce JEHOVAH, vol.III, Paris 1926; Dizionario Biblico a cura di H. Haag, alla voce JAHVE, vol.VI, Ed. SEI, 1963; Enciclopedia della Bibbia, alla voce YAHWEH, Ed. LDC, Torino 1971.

[3] Certamente artificiosa e infelice fu l’idea dei masoreti medioevali di vocalizzare YHWH con Adonai, da cui venne Geova, che ha perso completamente il riferimento all’essere.

[4] Nostra aetate, 3 e Lumen Gentium, 16.

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