Origene e la sessualità umana


Origene e la sessualità umana
Origene all’origine di un lunga storia
Origene di Alessandria (187-253 o 254)[1] è stato uno dei più grandi, fecondi, dotti ed influenti teologi e maestri spirituali dei primi secoli del cristianesimo, uomo certamente di virtù e di vita austera, ma non tale da meritare di esser canonizzato, come è avvenuto per altri teologi, che figurano tra i Padri della Chiesa, e tra i suoi stessi discepoli.
La sua ricca e profonda dottrina, largamente ispirata alla Sacra Scrittura e alla tradizione dei Padri del deserto e frutto di una vita ascetica, ci ha lasciato insegnamenti basilari per l’edificazione della teologia e dello stesso dogma cattolico. Ma nel contempo – caso rarissimo nella storia della teologia – Origene, certamente senza avvedersene, è caduto in errori antropologici e quindi morali così gravi, che egli, a partire da circa due secoli dopo la sua morte, fu condannato per eresia da Papa Vigilio nel  543 (Denz.403-411) e da due Concili Ecumenici: il Costantinopolitano II del 553 (Denz.433) e il Lateranense I del 649 (Denz.519).
Come mai queste condanne e perchè così tardive? Perché è stato molto difficile ed è stato frutto di un lungo e sofferto travaglio tra uomini dotti e santi scoprire i suoi errori, dotati del fascino di un’apparente spiritualità e nascosti in un  ampio contesto teologico di alta qualità, tale da far scuola e addirittura scuola di santi per secoli.
Le condanne hanno certamente messo in guardia molti; ma per lunghi secoli l’origenismo è stata una corrente sotterranea agente nel sottosuolo della storia della spiritualità cattolica e nella stessa pastorale ecclesiastica una specie di presupposto scontato, come fosse un dato di fede, fino al Concilio Vaticano II, il quale, avendo finalmente svelato la radice dell’errore, ci mostra la verità contraria, per cui ci mette in condizione di evitarlo e di correggere coloro, i quali, non avendo recepito o compreso o accettato l’insegnamento conciliare e postconciliare su questo tema, sono ancora vittime del vecchio errore.
Il dualismo di Origene
Ma di quale errore si tratta? Si può rispondere in due parole con ciò che tutti gli studiosi o conoscitori di Origene sanno: l’influsso del dualismo platonico, col suo caratteristico sguardo diffidente, sprezzante od ostile verso il corpo e la sua esagerata e presuntuosa stima ed esaltazione dello spirito. Una stima dello spirito che si volgerà però paradossalmente, dopo Origene, come cercherò di spiegare, in soggezione della carne allo spirito.
È questo il lato più oscuro ma non meno reale, il rovescio della medaglia del dualismo origeniano, celato ad Origene stesso, che ne sarebbe stato inorridito, ma che emergerà 13 secoli dopo col dualismo cartesiano, sorgente insospettata eppure logica del libertinismo settecentesco, antenato del moderno edonismo pannelliano e freudiano, fino a giungere al genderismo dei nostri giorni.
Così da Origene al moderno genderismo e gay pride, saltando 17 secoli, un sottile perverso filo logico – chi mai lo direbbe? – congiunge l’ultraspiritualismo origeniano con il più aberrante erotismo dei giorni nostri. Vediamo come sono andate le cose, come è potuto avvenire che il più rigoroso spiritualismo abbia finito col dar corda al più animalesco sensualismo,  e come possiamo uscire da questa trappola umiliante e vergognosa.
Del resto, l’Accademia platonica, col suo scetticismo sensuale, contro la quale combattè Agostino, non aveva forse trovato un appiglio proprio nello spiritualismo dualista di Platone? Bastava accantonare il mondo delle idee come chimeriche astrazioni ed assumere la doxa sensibile platonica come unico criterio morale e il gioco era fatto.
Ma che cosa è che accomuna origenismo e genderismo, così che si passi dall’uno all’altro mondo così apparentemente opposti? È la concezione del rapporto fra lo spirito e il sesso. Nell’uno e nell’altro caso il sesso non è una componente essenziale della persona umana, regolato da leggi proprie, ma un qualcosa di estrinseco e di indeterminato, a disposizione della persona, non essenziale al suo bene, sicchè la persona ha facoltà di rimpicciolire o aumentare a piacimento il valore del sesso. In tal modo si danno le due possibilità opposte del rigorismo origenista e dell’edonismo freudiano. Dal che vediamo come in questi due estremi non venga rispettata l’oggettiva dignità maschio-femmina voluta da Dio.
A questo punto comprendiamo anche come va che il dominio origeniano dello spirito sulla carne si possa rovesciare in dominio freudiano della carne sullo spirito. In Origene lo spirito distrugge la carne; in Freud la carne soffoca lo spirito. La carne, quando è maltrattata, si vendica. E se lo spirito le nega ciò che le è lecito, essa insorge e legalizza ciò che è illecito. Ma l’uomo è composto di spirito e corpo, è un animale ragionevole, quindi sessuato. Non è né un puro spirito né una bestia. Lo spirito, certo, è superiore al corpo, quindi al sesso. Ma ciò non lo autorizza a schiacciarlo. Il sesso, certo, è essenziale all’uomo. Ma ciò non autorizza il sesso a comandare sullo spirito.
Una soluzione sbagliata
Origene aveva viva la percezione della ribellione della carne allo spirito, conseguenza del peccato originale. Assetato di libertà spirituale, sentiva dolorosamente quanto, nella vita presente, la concupiscenza della carne intralci,  ostacoli, indebolisca ed illanguidisca il vigore dello spirito, lo distragga dai suoi sublimi interessi, per volgerlo ai desideri della carne, ottunda l’acutezza dell’intelletto per immergerlo nel senso; fa perdere all’uomo il gusto della sapienza e delle cose spirituali, lo illude con i piaceri della carne. Desideroso di elevarsi in alto, la passione sessuale spinge l’uomo verso il basso. Desideroso di contemplare l’ideale, l’attrattiva del sesso lo persuade che è inutile tentare di andare al di là del senso. L’«uomo animale», per dirla con S.Paolo, frena il cammino dell’«uomo spirituale».
Ma a questo punto Origene è tragicamente tratto in inganno da Platone. Invece di ascoltare la Bibbia che gli insegnava la sostanziale bontà del sesso creato da Dio e destinato alla resurrezione e che tutto il problema stava in una saggia sottomissione del sesso allo spirito, Origene si persuase che il problema stava nel liberarsi dal sesso come da un nemico o da una prigione o come da un impostore che non fa vedere la verità o un seduttore che spinge al peccato o da un despota che asservisce lo  spirito.
Dunque non liberare il sesso dal peccato, per consentire al sesso di attuarsi onestamente secondo la legge della sua natura creata da Dio, il che sarebbe la cosa giusta, ma l’idea platonica di uomo come puro spirito, che, intralciato nella sua navigazione da una zavorra che gli è estranea e di peso, la vuol gettare a mare. Errore fatale, che priva l’uomo e quindi il suo stesso spirito di quella modalità essenziale maschile-femminile, che sola dà all’uomo, come ha detto Papa Benedetto XVI, la pienezza dell’humanum. La vera e piena libertà spirituale l’uomo la raggiunge proprio valorizzando onestamente il sesso, sia pur nella dovuta disciplina resa necessaria dallo stato passeggero di natura decaduta.
L’idea origeniano-platonica di uno spirito perfettamente uno e identico nell’uomo e nella donna, al quale si aggiunge l’esser uomo e donna come un accidente o un ente contingente estrinseco non necessario, e l’inferiorità della donna rispetto all’uomo, non corrisponde per nulla alla verità del composto umano,  che invece si attua essenzialmente e concretamente nell’esser uomo  e donna, che sono due modalità di pari dignità personale e reciprocamente complementari nella natura.
Il rinnovamento conciliare
Origene ignora – e non c’è da stupirsi, dato il suo tempo -  quello che sarà, 17 secoli più tardi, l’insegnamento del Vaticano II, pur fondato sulla Scrittura (Gn 2,24), sulla comunione sessuale fra uomo e donna, quando il Concilio dice che
 «proprio perché atto eminentemente umano, essendo diretto da persona a persona con un sentimento che nasce dalla volontà, quell’amore abbraccia il bene di tutta la persona e perciò ha la possibilità di arricchire di particolare dignità i sentimenti dell’animo e le loro manifestazioni fisiche e di nobilitarli come elementi e segni speciali dell’amicizia coniugale»[2].
«Questo amore – continua il Concilio[3] - è espresso e reso perfetto in maniera tutta particolare dall’esercizio degli atti coi quali i coniugi si uniscono in casta intimità, sono onorevoli e degni e, compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano ed arricchiscono vicendevolmente in gioiosa gratitudine gli sposi stessi».
È da notare con quanta enfasi e ricchezza di motivazioni il Concilio parla dell’unione sessuale come espressione d’amore e incentivo dell’amore più intimo e totale che possa unire due persone umane, senza accennare alla procreazione, che ovviamente non è esclusa, ma vien messa in secondo piano.
Ancor più, poi, si esce dalla verità sull’uomo e sul sesso, se la prospettiva, come sembra fare Origene in linea con Platone, è quella di eliminare il sesso, anziché realizzare un libero spirito in libero sesso, il che è la prospettiva della resurrezione, negando la quale si cade nell’eresia. Infatti Dio vuole che alla resurrezione sia restaurata quell’armonia tra spirito e sesso e tra uomo e donna, che il peccato aveva distrutto e che corrisponde al piano originario del rapporto uomo-donna: essere «una sola carne» (Gn 2, 24).
Inoltre, una percezione che in Origene è totalmente assente e che sarà propria invece del Magistero della Chiesa postconciliare, è quella dell’influsso della differenza maschio-femmina al livello dell’anima[4], sì da causare una differenza tra l’anima dell’uomo e quella della donna e per converso il fatto che l’esser uomo o l’esser donna è determinato rispettivamente da un’anima maschile e da un’anima femminile[5], il tutto senza compromettere affatto la sostanziale identità ed uguaglianza di natura e pari dignità personale dell’uomo e della donna.
Ciò che ha sempre attratto in Origene, sia i Santi che i rigoristi, è il rigore della sua castità, che però sconfina in un radicalismo, con il quale ha interpretato e vissuto il farsi «eunuchi per il regno dei cieli» (Mt 19,12), in modo troppo materiale, che poi la Chiesa ha condannato, salvo, quando il significato letterale lo infastidisce, rifugiarsi nell’allegoria, che peraltro eleva veramente lo spirito. Sì, certo, Origene dimostra con la sua abbondantissima produzione teologica di alta qualità, che l’astinenza sessuale per il regno di Dio produce molto frutto. Tuttavia si vede anche che qualcosa non ha funzionato nell’essersi lasciato sedurre da Platone.
La castità prepara alla resurrezione
Il fatto è che Origene non ha capito che in fin dei conti la castità non prepara a diventare puri spiriti, ma prepara alla resurrezione della carne, è rinuncia al sesso tentatore per l’acquisto del sesso salvatore, come dice S.Agostino: «Caro te excacaverat? Caro te sanat»; rinuncia al sesso per Cristo in vista del suo recupero centuplicato (Mt 19,29). I religiosi per il Concilio sono prefigurazione della coppia risorta.
Le dottrine del Concilio sono guidate, criteriate ed illuminate da un paradigma escatologico, alla luce del quale possono essere comprese ed apprezzate nella loro novità. Il Concilio, allora, nel presentare il sesso in una prospettiva escatologica, non ha potuto non promuovere la dignità del sesso femminile, esso pure presente alla resurrezione, in quanto l’essere donna non è un difetto, ma un pregio, degno quindi di essere presente alla resurrezione, dove risplenderà ogni pregio e sarà assente qualunque difetto. 
Tale esaltazione della dignità della sessualità umana fatta dal Concilio, non poteva non volgersi a vantaggio della dignità della donna, come già aveva fatto  S.Giovanni XXIII nell’enciclica Pacem in terris del 1963, mentre sappiamo che il dualismo platonico tratta il sesso femminile ben peggio di quello maschile, riducendolo a un semplice strumento di piacere o al massimo a mezzo per la riproduzione della specie.
E difatti mai come in questi cinquant’anni del postconcilio la donna ha mostrato la ricchezza delle risorse e delle energie psicologiche, morali, intellettuali, culturali e spirituali, delle quali ella è capace per il bene non solo della famiglia, ma anche della società e della Chiesa.
Se poi accanto a questo progresso innegabile, provvidenziale e meraviglioso si è verificato anche un regresso morale preoccupante, questo non significa altro che la donna deve continuare a seguire la traccia indicatale dal Concilio, in particolare il Messaggio alle Donne. Traccia che è stata ampliata dal successivo e ricco insegnamento dei Santi Papi Paolo VI[6] e Giovanni Paolo II[7].
L’errore di fondo di Origene
Il grave difetto della teologia di Origene dipende dall’essersi troppo attaccato a Platone, al punto dal non vedere quello che la Bibbia insegna pur di non scostarsi dal suo amato Platone. A parte il dualismo antropologico ed etico, in Origene c’è da notare un monismo metafisico di fondo, col quale egli cerca di controbilanciare il dualismo, ma il risultato è un fallimento, perché aggiunge errore ad errore: non si rimedia alla separazione fra materia e spirito con la confusione fra mondo e Dio.
A ciò porta infatti la sua famosa teoria dell’apocatastasi, che testimonia di uno scriteriato bisogno di unità tra Dio e mondo, come se l’esistenza dell’inferno arrecasse qualche pregiudizio alla detta unità. Infatti la ricomposizione finale o ricapitolazione finale dell’universo in Dio procurata da Cristo non dev’essere intesa come la ricostituzione di un’unità originaria frantumata, ma come la vittoria finale di Dio sui suoi nemici, a lui sottomessi per sempre.
L’eterna soggezione a Dio dei suoi nemici entra nell’ordine finale dell’universo, che comporta la sottomissione del male al bene, e la soggezione di tutte le creature a Dio o per amore o per forza, o per misericordia o per giustizia. Dio poteva disporre diversamente; ma se ha disposto così, il teologo deve accettare fiduciosamente il piano divino,  anche se non può scandagliare il perchè della scelta divina.
Altra pietra d’inciampo per Origene, sempre troppo attaccato a Platone, è il tema dell’antropologia, con particolare riferimento all’argomento qui prescelto, l’etica sessuale. L’insegnamento del c.2 del Genesi relativo alla creazione dell’anima nel soggetto atto a riceverla (v.7), la creazione dell’uomo e della donna nella parità di natura e reciproca complementarità (v.23), la comunione d’amore fra i due (v.24) gli restano completamente estranei e preferisce seguire Platone con la sua teoria della preesistenza dell’anima e del sesso come castigo del peccato.
Il peccato originale, poi, lo interpreta non come ribellione a Dio (3,6), ma, sempre seguendo Platone, come caduta dell’anima nel corpo maschio e femmina. Naturalmente riconosce il matrimonio come ordinato alla procreazione, ma siccome essa vale solo per la vita presente, prevede nella resurrezione la scomparsa della distinzione fra uomo e donna. Egli infatti immagina che il corpo risorto sarà asessuato e di forma «sferica», come gli sarà contestato al Sinodo di Costantinopoli del 543 (Denz.407). Del resto, per lui, come per Platone, l’esser donna è un difetto, che quindi non può esser presente alla resurrezione.
L’insufficienza del paradigma antropologico platonico, del quale Origene fa uso, appare in tutta la sua gravità se lo giudichiamo alla luce del dogma della resurrezione, in particolare della resurrezione della coppia umana, un tema sul quale S.Giovanni Paolo II, precorso da S.Tommaso, ci ha lasciato preziosi insegnamenti in quella che egli chiamò «teologia del corpo» nelle udienze generali del mercoledì dal 1979 al 1983[8].


Il mistero dell’escatologia
Quando entriamo nel campo dell’escatologia, ci troviamo davanti a molte cose per noi quaggiù misteriose, circa le quali pochissimi sono i dati del Magistero e non restano altro che delle ipotesi teologiche. Molte sono le domande e poche le risposte. Per esempio: vi sarà il mondo vegetale ed animale? Che cosa faremo? Come ci muoveremo? Esisterà un progresso? Come sarà il tempo e lo spazio? E le nostre relazioni umane? Come sarà il corpo maschile e femminile? E le amicizie tra uomini e donne? Se l’unione sessuale è espressione dell’amore, e lassù ci sarà l’amore fra uomo e donna, vi sarà l’unione sessuale?
Il Concilio presenta la vita religiosa come un precorrimento della resurrezione. Esso dice che la vita religiosa «meglio  preannunzia la futura risurrezione e la gloria del regno celeste»[9] e che la castità consacrata «costituisce un segno particolare dei beni celesti»[10].
La domanda che ci possiamo porre è se la castità consacrata è funzionale solo alla vita presente, come vittoria dello spirito sulla carne o se abbia ancora uno scopo e un senso  nella resurrezione, che prevede la perfetta conciliazione del sesso con lo spirito. Forse è solo lassù che potremo comprendere in pienezza ciò che di recente ha detto Papa Francesco, e cioè che il sesso è un dono di Dio. Qui siamo molto lontani da Origene.
Oggi appare più che mai evidente che la relazione fra uomo e donna è capace di una tale intimità e vicendevole reciprocità, che si presenta come il paradigma originario ed insuperabile di ogni altra relazione umana interpersonale o sociale, la quale in confronto a questa appare inferiore, meno unitiva, meno arricchente, meno robusta, meno feconda, meno spontanea, meno soddisfacente, parziale ed incompleta. Ma per realizzare questo stupendo ideale, è necessario il rispetto dell’etica sessuale. così come oggi viene predicata dalla Chiesa, e così come ho indicato in questo articolo.
In una situazione storica come la nostra, che in nome dell’amore, della libertà, del piacere e della «diversità» si vorrebbero giustificare tutti i peccati e le aberrazioni sessuali e si nutre disprezzo per la famiglia, per la castità consacrata e per il celibato sacerdotale, una sana valutazione della sessualità nella luce della resurrezione, così come la ho esposta qui, libera da ogni forma di origenismo e rigorismo, sembra essere, senza cadere nel lassismo, la via giusta per riportare serenità, giudizio, senso di responsabilità e gioia nel compimento della volontà di Dio.
P.Giovanni Cavalcoli
Varazze, 20 febbraio 2019

Pubblicato il 23.02.2019:




[1] Cf H.Crouzel, Origene, Edizioni Borla, Roma 1986.
[2] Gaudium et spes, 49.
[3] Ibid.. Gaudium et spes, 49. 
[4] Ho studiato questo tema in L'influsso della sessualita' sui piani psicologico e spirituale della persona,  P. Giovanni Cavalcoli, O.P., tesi di licenza n. 172 presso lo Studio Teologico S. Tommaso d'Aquino, Bologna, 1977, pp. 5-63, (documento PDF - 9.56 MB); http://www.arpato.org/testi/studi/Cavalcoli_tesi_1976-77.pdf 
[5] Cf il mio saggio SULLA DIFFERENZA TRA L’ANIMA DELL’UOMO E QUELLA DELLA DONNA, in Atti del congresso della SITA, Ed.Massimo, Milano, 1987, pp.227-234.
[6] Cf la raccolta degli insegnamenti di S.Paolo VI La donna nel Magistero di Paolo VI, con Prefazione del Card.M.L.Ciappi, Tipografia Poliglotta Vaticana 1980.
[7] Oltre alle udienze generali del mercoledì sulla teologia del corpo, vedi la Lettera Apostolica Mulieris Dignitatem del15 agosto 1988.
[8] LA RESURREZIONE DELLA SESSUALITA’ SECONDO S.TOMMASO, in Atti dell’VII Congresso Tomistico Internazionale a cura della Pontificia Accademia di San Tommaso, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1982, pp. 207-219; LA TEOLOGIA DEL CORPO NEL PENSIERO DI GIOVANNI PAOLO II, Sacra Doctrina, 6, 1983pp.604-626; LA RESURREZIONE DEL CORPO, Sacra Doctrina, 1, 1985, pp.81-103
[9] Lumen Gentiunm, 44.
[10] Perfectae caritatis, 12.

19 commenti:

  1. Caro Padre Cavalcoli,
    le sue chiare argomentazioni sui nuovi insegnamenti del Concilio Vaticano II circa il significato del matrimonio, i fini del matrimonio, il significato del sesso, il rapporto dell'anima con il corpo, la risurrezione della carne e quindi del sesso, e le conclusioni teologiche sulla diversità dell'anima dell'uomo e della donna, mi hanno fatto pensare a tutto il magistero che chi si ostina a rimanere contro questi insegnamenti conciliari e postconciliari lascia da parte.
    Penso a tutti gli attuali passattisti, come li chiami.
    Pero particularmente pienso en los lefebvrianos, quienes parecen estar obstinadamente contrario a todo lo que signifique "novedad" en el Concilio, y atados y leales a las afirmaciones de Lefebvre, a las que se sujetan ad litteram, me parece.
    Ma penso in particolare ai lefebvriani, che sembrano ostinatamente contrari a tutto ciò che significa "novità" nel Concilio, e legati e fedeli alle affermazioni di Lefebvre, alle quali si attengono ad litteram, mi sembra.
    A questo proposito ho riscontrato che i lefebvriani, nelle loro pubblicazioni ufficiali, parlano del "nuovo matrimonio", secondo il Concilio, e lo rifiutano, così come rifiutano tutta la "teologia del corpo" elaborata da san Giovanni Paolo II II (semplice teologia, o infallibile insegnamento pontificio?).
    E in questo non fanno altro che seguire il loro Fondatore. Ho infatti trovato un intervento di Lefebvre, quando al Concilio si discuteva di Gaudium et spes. Lefebvre disse in quell'occasione: "Il capitolo sul matrimonio presenta l'amore coniugale come l'elemento primario del matrimonio, da cui deriva l'elemento secondario, la procreazione; in tutto il capitolo, l'amore coniugale e il matrimonio sono stati identificati come una cosa sola. Questo va contro la dottrina tradizionale della Chiesa e, se questa affermazione fosse accolta, comporterebbe le peggiori conseguenze, perché allora si potrebbe veramente dire: 'se non c'è amore coniugale, non c'è matrimonio!' Ma quanti matrimoni ci sono senza amore coniugale! E questo non impedisce loro di essere veri matrimoni".
    Mi chiedo se questo soffermarsi sulla corrente platonico-originista-dualista, diffidente nei confronti del corpo e del sesso, non lasci i pasattisti in una situazione di "eresia" o "vicino all'eresia", rifiutando questa nuova dottrina del Concilio, che è evidentemente uno stadio progressivo della Tradizione.
    Per il resto, la Tradizione va considerata dall'alto in cui l'ha portata il Concilio (senza che ciò significhi una rottura), e non il contrario, non il Concilio interpretato alla luce della Tradizione (come purtroppo giorni fa ha detto cardinale Sarah).
    Penso che questo campo dell'ontologia, dogmatica e morale, del sesso, possa identificare un'altra "eresia" del passattismo attuale, o almeno della maggioranza.

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    1. Caro Silvano,
      mons. Lefebvre probabilmente si rifaceva alla dottrina di Pio XII, il quale si opponeva ad una teoria del suo tempo che diceva che il fine primario del matrimonio è l’amore. Egli correggeva questo errore dicendo che invece il fine primario è la procreazione dei figli.
      La novità del Concilio non sta nel negare che il fine primario del matrimonio sia la procreazione, ma sta nell’insegnare che l’essenza del matrimonio è l’amore, cioè l’amicizia tra i coniugi, per cui se non c’è l’amore il matrimonio è invalido.
      San Giovanni Paolo II sviluppa questo insegnamento, che troviamo già in San Tommaso, il quale, parlando del matrimonio tra San Giuseppe e la Madonna, dice che il matrimonio può essere valido anche senza il rapporto sessuale, come fu effettivamente l’amore tra Giuseppe e Maria (Somma Teologica III parte, questione 29, articolo 2).
      D’altra parte anche San Tommaso ammette che comunque anche nel matrimonio di Maria e Giuseppe, padre putativo, la prole c’è stata, perché è stata Nostro Signore Gesù Cristo.
      Per quanto riguarda l’autorità dell’insegnamento di San Giovanni Paolo II, dato che si tratta di magistero pontificio in materia di fede, non può essere errato.
      Quanto a mons. Lefebvre devo dire purtroppo che sembra essere prossimo all’eresia per essersi opposto alla dottrina conciliare sul matrimonio e per conseguenza all’insegnamento di San Giovanni Paolo II.

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    2. Caro Silvano:
      Confermati i timori di mons. Marcel Lefebvre. Nell'intervento conciliare da lei citato, Lefebvre ha detto: «Il capitolo sul matrimonio presenta l'amore coniugale come elemento primario del matrimonio […] se questa affermazione fosse ammessa, comporterebbe le peggiori conseguenze, perché allora si potrebbe dire con verità: 'se non c'è amore coniugale, non c'è matrimonio!' [...]".
      E padre Cavalcoli ha appena rilevato che: «La novità del Concilio […] sta nell’insegnare che l’essenza del matrimonio è l’amore, cioè l’amicizia tra i coniugi, per cui se non c’è l’amore il matrimonio è invalido".
      I peggiori timori di mons. Marcel Lefebvre si sono avverati.

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    3. Caro Anonimo,
      il Concilio conferma che il fine del matrimonio è la generazione e l’educazione della prole. (Gaudium et Spes n.50 https://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19651207_gaudium-et-spes_it.html)
      La questione dell’amore tocca l’essenza del matrimonio. Infatti, in che cosa consiste questo amore? Esso consiste nella volontà costante dei due coniugi di volere il bene l’uno dell’altro in base al patto coniugale col quale essi si impegnano in questo senso per tutta la vita (GS n. 49). Per questo se manca questo amore il matrimonio è invalido. Questo amore lo si può chiamare anche amicizia coniugale.
      Se invece per amore intendiamo un sentimento soggettivo, legato alla bellezza e all’attrattiva sessuale, allora si può dire che in questo senso il matrimonio non è necessariamente legato all’amore.
      Dobbiamo dire pertanto che mons. Lefebvre ha frainteso l’insegnamento del Concilio, giacchè è chiarissimo che quando il Concilio parla di “amore coniugale” non intende un amore semplicemente sensuale con la labilità caratteristica di questo amore, ma intende il vero amore nel senso che ho definito sopra.

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  2. Grazie per i suoi chiarimenti.
    Riguardo alla sua ultima frase, sulle dottrine di Lefebvre e sulla sua considerazione che meritano la qualifica di "prossimo all’eresia", vorrei chiederle ulteriori chiarimenti.
    Comprendo che la qualifica di "eresia" per una certa sentenza, è solo di competenza del Magistero della Chiesa (il Papa), e che, quindi, al teologo corrisponde, tutt'al più, solo affermare e argomentare su una dottrina come "prossimo all’eresia" se finora non è stato dichiarata "eretica" dal Magistero.
    Ho ragione?

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    1. Caro Silvano,
      il magistero della Chiesa tradizionalmente distingue una proposizione eretica da una proposizione prossima all’eresia (haeresim sapiens). La proposizione eretica colpisce una verità di fede definita o un dogma definito. La proposizione prossima all’eresia è una proposizione che non appare immediatamente eretica, ma è riconducibile all’eresia attraverso un particolare rapporto ad una proposizione formalmente eretica.
      Nel caso di mons. Lefebvre si può parlare di idee prossime all’eresia non perché egli si sia opposto chiaramente ed esplicitamente a qualche proposizione di fede definita, ma in quanto con la sua disobbedienza ai decreti del Concilio e all’autorità dei Papi del Concilio e del post-Concilio, si è posto formalmente sul piano dello scisma, e tuttavia con la suddetta disobbedienza ha finito per rifiutare le dottrine nuove del Concilio e il Magistero pontificio seguente.
      Ora, in queste dottrine e in questo Magistero abbiamo contenuti che toccano la fede e la morale, dove la Chiesa non può sbagliare. Per questo si può dire che mons. Lefebvre, se non è formalmente eretico, lo è in un modo indiretto o è prossimo all’eresia opponendosi al Magistero ordinario della Chiesa.
      L’espressione prossima all’eresia significa anche negare una verità filosofica connessa con una dottrina di fede. Per esempio, se uno nega l’immortalità dell’anima, che è una verità filosofica, di conseguenza viene a negare anche una verità di fede, perché l’immortalità dell’anima è verità di fede.
      Per quanto riguarda il notare di eresia, questo è già facoltà del teologo, che peraltro in questo giudizio non è infallibile. La nota di eresia, fatta dal teologo, si distingue dalla sentenza di eresia, che è una sentenza giudiziaria di competenza del Dicastero per la Dottrina della Fede (ex CDF), il quale peraltro normalmente si serve di segnalazioni provenienti dai teologi, riservandosi di valutarne il contenuto.

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    2. Grazie padre Cavalcoli, la sua spiegazione è stata molto chiara.

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  3. Marcel Lefebvre, forse senza accorgersene consapevolmente, avendo posto il loro io come criterio assoluto di verità (sulla linea di Lutero, Cartesio e Hegel) e pur volendo continuare a credere nella Chiesa e nel suo Magistero, ha modificato il concetto di Tradizione, di concepire una Tradizione, non come il supremo magistero nella Chiesa insieme alla Scrittura, la quale, essendo sempre la stessa immutabile verità dalla morte dell'ultimo degli Apostoli, si è sviluppata meglio, più esplicita e profonda, e così continuerà approfondire nella Chiesa dagli Apostoli all'ultimo Papa, «sotto la guida dello Spirito fino alla verità piena» (Gv 16,12-15), una Tradizione da obbedire, servire e onorare, ma una Tradizione rigidamente chiusa nella passato, come garante e dispensatrice della propria idea di Chiesa e della sua personale ideologia legata a rigide forme storiche superate.

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    1. Caro Serafino,
      effettivamente l’atteggiamento dei lefevriani assomiglia in qualche modo a quello di Lutero, anche se bisogna rispettare le proporzioni, giacchè sappiamo quanti guasti Lutero ha procurato alla dottrina cattolica, mentre i lefevriani, almeno nelle loro intenzioni dichiarate e tutto sommato nei fatti, zelano con fervore l’integrità della dottrina e resta comunque il fatto che da sessant’anni respingono con ostinazione, fraintendendole, le nuove dottrine del Concilio, con la conseguenza, come dici giustamente tu, di alterare la natura della Tradizione, giacchè spetta al Magistero e non al semplice fedele, fosse anche un vescovo, interpretare il significato della Tradizione.

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  4. Caro padre Cavalcoli:
    Riflettendo un po' di più sull'argomento che ho commentato nel mio precedente commento, e un po' più fiducioso con le mie opinioni alla luce della sua risposta e del suo consenso, riconoscendo in Lefebvre una "svolta antropologica", se si puo dire, sulla linea di Lutero-Descartes-Hegel, e in breve, una deriva verso l'idealismo e l'ideologia (pur rispettando le distanze, come dici lei molto bene, e rispettando i punti positivi di Lefebvre e dei suoi seguaci), mi sono reso conto che accogliendo "cattolicamente" la Rivelazione divina, come scaturisce dalla Scrittura e Tradizione, entrambe fonti mediate dal Magistero della Chiesa, è una rassicurazione del REALISMO contro l'IDEALISMO.
    In altre parole, la rivelazione cristiana (compresa la "metafisica di Gesù", come spieghi in un suo libro) è un aiuto in più che noi cristiani fedeli abbiamo per mantenerci in un sano realismo, contro ogni trappola idealistica. Abbiamo solo bisogno dell'umile obbedienza al Magistero, così come nell'gnoseologia realista abbiamo bisogno dell'umile sottomissione dell'intelligenza alla realtà.

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    1. Caro Serafino,
      concordo nell’insieme delle sue osservazioni.
      La cosa che mi lascia perplesso è che lei a proposito di Lefebvre parli di “svolta antropologica”, di ascendenza da Lutero, Cartesio e Hegel, e di deriva idealista.
      Ora, confesso che io non conosco il pensiero teologico di Lefebvre. So di lui soltanto i punti che lo hanno fatto cadere nello scisma e cioè il rifiuto del Novus Ordo, delle nuove dottrine del Concilio e della autorità del Concilio e del post Concilio.
      Per questo io le chiederei di motivarmi con una certa precisione i gravi appunti che lai fa al pensiero filosofico e teologico di Lefebvre.

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  5. Caro padre Cavalcoli,
    temo molto che la mia espressione "svolta antropologica" non fosse corretta. Non è quella "svolta antropologica" di cui parla padre Fabro di Rahner, anche se capisco che c'è un rapporto con lui, perché lo vedo sulla parabola della nascita dell'idealismo dal cogito cartesiano. Né la filosofia né la teologia sono la mia specialità, quindi le "motivazioni" che posso darli, temo, non andranno oltre le semplici metafore o connessioni che un laico vede in mezzo alla nebbia. Spiego per quanto posso:
    Né conosco il pensiero filosofico e teologico di mons. Lefebvre, pur a giudicare da tutti i riferimenti biografici che ho potuto conoscere sui suoi studi, sospetto (e il mio non è altro che sospetto) che i suoi studi abbiano sofferto di una scolastica manualistica, decadente, che forse non appariva così male agli occhi al cogito cartesiano. Non pochi, infatti, nella Chiesa si sono sentiti attratti dalla rivoluzione gnoseologica cartesiana.
    Naturalmente, la mia menzione di Hegel nei miei commenti precedenti sembra una menzione fuori luogo nel caso di Lefebvre. Naturalmente, a prima vista, Lefebvre non è un idealista, formalmente parlando. Ma forse anche l'arcivescovo francese può rientrare, in quell'idealismo vago e inconscio di cui parla padre Daniel Ols, suo co-fratello, quando afferma che da almeno due o tre secoli il mondo moderno (compresa il mondo cattolico) è stato in più o meno consapevolmente preda dell'idealismo. La realtà, le cose non sono più oggettivamente come sono ma sono diventate ciò che pensi e vuoi che siano. L'intelletto piega le cose al proprio pensiero e alla propria volontà, con vanità e amor proprio.

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  6. La mia conoscenza della "parabola" dell'idealismo dal cogito cartesiano è balbettante, ma, alla luce dei semplici insegnamenti che papa Francesco ci ha dato sull'idealismo e sullo gnosticismo nei suoi documenti magisteriali, posso arrivare a capire (mi dirai se ciò che ritengo corretto o no) che così come gli idealisti dopo Decartes, "credendo che l’invenzione di Cartesio fosse una via di non ritorno, verità definitiva, la «filosofia moderna», che superava per sempre la «vecchia metafisica», avendo però capito che l’impresa di riagganciare la realtà esterna sulla base del cogito è impossibile e non volendo rinunciare al cogito, finirono col negare semplicemente una realtà esterna all’idea – la «cosa in sé» – e un essere esterno presupposto al pensiero; tutto deve essere nell’io e nulla al di fuori; solo l’io esiste, che finisce per essere identificato con Dio" (cito lei, padre Cavalcoli, in un suo articolo) allo stesso modo, Lefebvre e i suoi seguaci, influenzati da un'epistemologia forse inconsciamente un po' immanentista, avevano debolmente ipotizzato l'esistenza della "cosa in sé" (rivelazione divina), senza veri e saldi preamboli metafisici realistici (prolegomeni della fede), e in tale mancanza o debolezza metafisica, postulavano la "cosa in sé" = Tradizione, così come Lutero aveva postulato la sua "cosa in sé" = Scrittura; e in entrambi i casi, sia in Lutero che in Lefebvre, finiva semplicemente per negare una realtà esterna all'idea (la vera "cosa in sé": il magistero infallibile della Chiesa, istituito da Cristo Signore, nominando Pietro), perciò, come gli idealisti finirono per negare un essere esterno presupposto nel pensare (tutto deve essere nell’io e nulla al di fuori; solo l’io esiste), allo stesso modo Lutero ha pensato che tutto è nella Bibbia, senza bisogno del Magistero del Papa, e Lefebvre ha pensato che tutto è nella Tradizione, senza bisogno del Magistero conciliare e postconciliare. Certo, come Lutero si è fatto un idolo della Scrittura (espurgandone ciò che non gli conveniva), anche Lefebvre lo ha fatto con la Tradizione, comprendendola a modo suo, ancorato a un passato che ideologicamente ha postulato , ed eliminò dalla Tradizione tutto ciò che non gli conveniva.
    Non mi offenderei se qualcuno criticasse questi miei pensieri, dicendo che costituiscono un nuovo "gnosticismo" da me inventato, uno gnosticismo anti-Lutero e anti-Lefebvre. Ma continuo a pensare che la parentela con l'idealismo (o con quell'idealismo vago e nebuloso di cui parla Ols) esista.

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    1. Caro Serafino,
      la descrizione che lei fa dell’idealismo è molto buona.
      Il problema che lei pone è un confronto tra il pensiero di Lefebvre e l’idealismo. Al riguardo avrei piacere di sapere perché fa questo confronto tra il pensiero di Lefebvre e l’idealismo e lo gnosticismo.
      Da parte mia, al di fuori di quei pochi punti, ai quali le ho accennato, io non conosco il pensiero di Lefebvre, quindi non sono in grado di dirle se effettivamente ha subito qualche influsso dall’idealismo.
      Per quanto riguarda il concetto lefevriano di Tradizione, sarei propenso anch’io a vedervi una punta di gnosticismo, per il fatto che Lefebvre pone la Tradizione al di sopra del Magistero dei Pontefici, successivi a Pio XII.

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    2. Caro Serafino,
      la descrizione che lei fa dell’idealismo è molto buona.
      Il problema che lei pone è un confronto tra il pensiero di Lefebvre e l’idealismo. Al riguardo avrei piacere di sapere perché fa questo confronto tra il pensiero di Lefebvre e l’idealismo e lo gnosticismo.
      Da parte mia, al di fuori di quei pochi punti, ai quali le ho accennato, io non conosco il pensiero di Lefebvre, quindi non sono in grado di dirle se effettivamente ha subito qualche influsso dall’idealismo.
      Per quanto riguarda il concetto lefevriano di Tradizione, sarei propenso anch’io a vedervi una punta di gnosticismo, per il fatto che Lefebvre pone la Tradizione al di sopra del Magistero dei Pontefici, successivi a Pio XII.

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  7. Caro Padre Cavalcoli,
    mi chiedi perché faccio un paragone tra il pensiero di Lefebvre, da un lato, e l'idealismo e lo gnosticismo, dall'altro.
    Ebbene, e scusandomi ancora in anticipo per la mia semplicità e forse per il mio eccessivo riduzionismo delle cose, mi baso su un pugno di idee, che d'altronde li ho già segnalati:
    1) Vedo un parallelo tra, da un lato, il realismo gnoseologico dell'umile adaequatio intellectus ad rem e, dall'altro, la fede cristiana come umile obbedienza alla rivelazione divina (Scrittura e Tradizione) mediata dalla Chiesa e dai suoi magistero.
    2) Vedo solo due atteggiamenti nei confronti della realtà (naturale e soprannaturale): l'umiltà del realismo e l'superbia dell'idealismo (il materialismo è riconvertibile in idealismo e lo gnosticismo è idealismo).
    3) Sia nel modernismo che nel passatismo (compreso il lefebvriano) non vedo, in fondo, altro che l'superbia, radice di ogni peccato, che implica quella "svolta antropologica", il primato dell'io che si sostituisce al primato di Dio.

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    1. Caro Serafino,
      lei mi ha chiarito molto bene il suo pensiero e sono perfettamente d’accordo.

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  8. Riflettendo un po' di più, aggiungo un quarto punto:
    4) In sostanza, l'attuale scontro che si sente oggi all'interno della Chiesa tra modernisti e passatisti (di cui padre Cavalcoli sei espresso con tanta luminosità, applicandolo anche, fuori della Chiesa, all'attuale scontro tra Oriente e Occidente, si è manifestato drammaticamente in l'attuale guerra in Ucraina), questo scontro tra modernisti e passatisti, dico, è solo superficiale. Il vero scontro radicale è lo scontro tra realismo e idealismo. Nell'idealismo sono integrati tutti gli idealismi, dall'idealismo iniziale del cogito di Decartes, al soggettivismo di Lutero, all'idealismo trascendentale tedesco, e anche gli idealismi che sono il modernismo e il passatismo attuali.

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    1. Caro Serafino,
      la riduzione del dibattito teologico attuale, almeno in Occidente, ad uno scontro tra realisti ed idealisti, almeno secondo un significato ampio di questi termini, che mi fanno pensare al linguaggio di Papa Francesco, mi sembra abbastanza buona, soprattutto se noi consideriamo la condotta morale dei contendenti, nel senso che sono d’accordo nel ricondurre il realismo all’umiltà e l’idealismo alla superbia.
      Ho invece qualche difficoltà a ricondurre all’idealismo i luterani e, secondo quanto mi sembra che lei voglia sostenere, anche i lefevriani. Come le ho già detto, non conosco a fondo la loro teologia. Da quanto mi risulta hanno anche dei tomisti, benchè ribelli alle nuove dottrine del Concilio.
      Per quanto riguarda Lutero, la sua teologia, come riconosce egli stesso, ha fondamenti occamistici, vale a dire empiristici, congiunti con un esagerato interesse per il proprio io, che è una deformazione dell’io agostiniano. A questo punto si potrebbe fare un aggancio con l’idealismo e in particolare con quello di Fichte, l’apologeta dell’Io assoluto, che sarebbe il fondamento dell’io empirico.

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