Il gusto del labirinto - Non il desiderio di arrivare a una meta, ma il gusto di girare su se stessi - Prima Parte (1/2)

 Il gusto del labirinto

Non il desiderio di arrivare a una meta,

ma il gusto di girare su se stessi

Prima Parte (1/2)

Un curioso accostamento

 A pochi chilometri da Fontanellato, dove io risiedo come membro della Comunità domenicana che gestisce il Santuario della Madonna del Rosario, esiste lo stupendo Labirinto della Masone, una grandiosa struttura costruita con 300.000 piante di bambù, estesa su di una superficie di sette ettari ospitante il più grande labirinto del mondo inaugurato nel 2015.

Corre voce che ormai tantissimi vanno a Fontanellato non più per visitare lo splendido Santuario seicentesco,  ricco di opere d’arte, e contemplare la bellissima immagine della Vergine Regina del Rosario, per invocare come pellegrini la Madonna, ristorare la propria coscienza nel sacramento della Penitenza, ascoltare una parola di sapienza dai Religiosi domenicani, acquistare ricordini, ricevere una benedizione o un esorcismo, consegnare un ex-voto per grazia ricevuta, ma per vedere il bellissimo labirinto, dove si organizzano eventi di vario genere, come mostre d’arte ed incontri culturali, con la presenza di un ottimo ristorante.

È dunque interessantissimo come Fontanellato, cittadina del parmense di appena 7000 abitanti, possa essere interpretata improvvisamente come simbolo di un aut-aut esistenziale, ossia della competizione fra due indirizzi di fondo della vita, la proposta  di due scelte o meglio alternative fondamentali della condotta umana, due opposte concezioni della morale alle quali nessuno può sottrarsi, circa le quali nessuno può essere neutrale, che interessano e coinvolgono per tutto il corso della storia l’intera umanità.

Perchè il labirinto proprio nei pressi di Fontanellato? Che cosa si è voluto fare? Sembrerebbe una sfida al Santuario, alla Madonna, quasi a voler contrapporre a una vita assetata di Dio, una vita regolata dalla volontà di Dio,  un agire umano che vuol riconciliarsi con Dio, bisognoso di conversione, conscio delle proprie miserie ed impotenze, addolorato per i propri peccati e desideroso di riscatto, conscio che solo con l’aiuto di Dio può raggiungere Dio,  una vita pericolante che va verso una meta celeste umanamente irraggiungibile implorando la forza necessaria per raggiungerla, contrapporre – dicevo - una vita centrata su se stessa, gonfia di se stessa, aspirante a se stessa, paga di se stessa che ritiene spavaldamente di risolvere con le proprie forze tutte le difficoltà, di saper uscire da sola, senza il filo di Arianna, dal labirinto della vita o che fa del labirinto l’orizzonte della propria esistenza senza alcun desiderio di uscirne, ma col preciso proposito di restarvi per sempre.

Il labirinto sembra il simbolo di una scelta di vita fondata sulle forze dell’io, contrapposta ad una vita fondata su Dio; sembra una vita dove l’uomo se la cava da solo nelle situazioni più complicate ed apparentemente irresolubili. Il labirinto è un bel simbolo del procedere contorto, che avanza per tentativi, senza sapere che cosa succederà, un procedere che gira su se stesso, che avanza e retrocede, senza una chiara direzione, in contrapposizione al procedere limpido, ordinato, metodico, coerente e lineare, del pensiero e dell’azione, che punta con convinzione, decisione, senza sbandamenti o ripensamenti, anche se con correzioni, alla meta ultima e suprema conosciuta in anticipo per sapere dove deve andare, quale direzione mantenere per non fallire l’obbiettivo.

Una caratteristica della mentalità greca è la passione per il logos, la ragione, gusto di discutere senza fine e di sottilizzare capziosamente sulle funzioni della ragione. Certamente c’è un interesse per la verità, ma soprattutto la voglia di trionfare sull’avversario in nome – a suo dire – della ragione e della verità.  Troviamo così in Grecia due attitudini mentali opposte: quella di Protagora e quella di Aristotele. Protagora ha il gusto del labirinto; Aristotele invece è un sincero amante della verità e dell’onestà nel ragionare.

L’ideale del labirinto rappresenta il gusto dello spaccone o dello spavaldo, che si getta deliberatamente nel groviglio, certo di venirne fuori con la sua sagacia. C’è invece che rimane impegolato nel labirinto, senza averne alcuna voglia, per cui cade nella disperazione, tutto gli appare senza senso, il bene e il male non si distinguono, vivere o non vivere è la stessa cosa e va a finire nel nichilismo o nel suicidio, come Nietzsche, Hölderlin, Michelstaedter, Leopardi e Sartre.

Ci sono coloro ai quali il labirinto piace come pretesto per rifiutare qualunque punto fisso, qualunque certezza oggettiva e qualunque fine ultimo, per avere la libertà di pensare e fare quello che a loro salta in mente e truffare il prossimo a loro vantaggio, come meglio loro aggrada. Tanto non c’è nessun Dio al quale si debba rispondere e se c’è, per lui va tutto bene quello che facciamo.

Come è noto. l’immagine e il gioco del labirinto ha origine dal famoso mito di Arianna, la quale dette a Teseo, addentrantesi nel labirinto, un filo stringendo il quale Teseo avrebbe potuto uscire dal labirinto. Invece nel labirinto rimase imprigionato il Minotauro, più tardi ucciso da Teseo. Il labirinto rappresenta quindi una prova di valore per le persone avvedute, le quali con opportuni espedienti, possono uscirne, tanto da diventare alla fine come un gioco divertente, ma anche un castigo per le persone malvagie.

Quello che non appare nel mito greco, benché non estraneo allo scetticismo greco e al bisogno greco di indipendenza, è il gusto del labirinto, il piacere morboso di intrattenersi ed aggirarsi in esso senza mai arrivare a niente nel dedalo inestricabile dei suoi percorsi, per poter aver sempre il motivo di ricominciare daccapo e di agire di propria testa, indipendentemente da qualunque meta prefissata e da qualunque guida, che ad essa conduca.

Passare tutta la vita nel labirinto della vita è il gusto di coloro ai quali piace l’incertezza, per i quali nulla è da prendere sul serio, ai quali interessano solo il proprio io e le loro scelte contingenti e non vogliono essere guidati o sorvegliati da nessuno, perché vogliono decidere loro di momento in momento che cosa fare e quale scelta compiere, senza doveri assoluti che vengano loro imposti, senza impegni e programmi definitivi, senza progetti assoluti, senza finalità irrinunciabili o immutabili, senza promesse da mantenere, senza legami indissolubili, senza tradizioni da conservare, senza rinunce da fare.

Questa impostazione di vita è rappresentata benissimo dal mito del labirinto e del Minotauro, che ha ispirato nei secoli moltissime composizioni e rielaborazioni poetiche e letterarie. Questo ci dice quanto il mito del labirinto è il simbolo indovinato per rappresentare una condizione di spirito e uno stile di vita che a tutti noi non può non destare la nostra attenzione, vuoi per vedere nel labirinto un pasticcio deliberatamente voluto, vuoi per vedervi un destino ineluttabile, vuoi per vedervi una sfida e l’occasione per mostrare la nostra destrezza nel liberarci dalle difficoltà.

 

«Secondo il mito, il Minotauro era un mostro mezzo uomo e mezzo toro, ominide ferocissimo che incuteva paura a chiunque lo vedesse, e pertanto Minosse, re di Creta, lo fece rinchiudere nel labirinto di Cnosso, fatto costruire da Dedalo, talmente intricato con i suoi corridoi, porte, finti ingressi, che una volta entrato, nessuno poteva uscirne. Il feroce Minotauro si nutriva solo di carne umana.

Stanco di questa atroce prepotenza, il giovane ed impavido Teseo, figlio di Egeo, re di Atene, decise di recarsi egli stesso al palazzo di Cnosso per uccidere il Minotauro. La sua flotta partì alla volta di Creta issando bandiere nere, in sintonia con la gravità dell’azione che il giovane si apprestava a compiere, ma promise al vecchio padre che al ritorno, se vincitore, avrebbe issato le vele bianche, in segno di trionfo.

Alla corte di Minosse, dove Teseo fu ricevuto, conobbe la giovane Arianna, figlia del re di Creta Minosse e di Parsifae. La bella fanciulla si innamorò di Teseo al primo sguardo, tanto che, per amore, tradì il fratellastro Minotauro, consegnò a Teseo un gomitolo di lana che lui, all’ingresso del labirinto, cominciò a dipanare finché, attraverso cunicoli, sale, corridoi, non incontrò il feroce Minotauro.

Dopo una dura lotta, riuscì ad ucciderlo spezzandogli il collo. A questo punto, riavvolgendo man mano il filo che gli aveva regalato Arianna, riuscì a trovare facilmente l’uscita del labirinto. I due giovani ripartirono verso Atene con le loro navi»[1].

La cosa interessante in questo mito è che il labirinto non è un valore in se stesso, ma anzi è un castigo nel quale viene cacciato il Minotauro. Bella è la figura di Teseo, che nel labirinto uccide il Minotauro. Ed infine è da notare l’attestato di stima per la donna, cosa insolita nel mondo antico, la quale dà all’uomo un aiuto determinante nella lotta contro il male. Si potrebbe dire che la Madonna di Fontanellato è l’Arianna che ci aiuta, nel labirinto della vita, a vincere il demonio che vi incontriamo.

Monarchia e democrazia

La nostra meditazione sul confronto fra il labirinto e il Santuario di Fontanellato ci porta fermarci sul rapporto del Santuario con la storia di Fontanellato e quindi sul suo passato di feudo e poi contea medioevali. Da qui sostiamo brevemente sulla questione del miglior governo per vedere i rapporti di Fontanellato con l’antica famiglia aristocratica dei Sanvitale protettori del Santuario.

«Beato il popolo, il cui governante è Dio» (Sal 143, 15). Sul dollaro americano è scritto: «in God we trust». Anche la massoneria, anche Robespierre sanno che Dio è l’Architetto dell’Universo. Nulla vieta a una Costituzione repubblicana di nominare Dio, come fa quella degli Stati Uniti.

Un difetto invece della nostra, che pur è un’ottima Costituzione, è l’assenza di questo Nome. De Gasperi dovette fare i conti con Togliatti, dato che i comunisti ci avevano aiutati a liberarci dai fascisti. Ma anche i comunisti si mostrarono leali nel dare spazio alla libertà religiosa. È stato Rousseau a inventare la sciagurata nozione di «sovranità popolare», per cui  il popolo obbedisce a se stesso» e fonda così lo Stato ateo, fonte di infinite sciagure ed ingiustizie.

Certamente il popolo ha diritto all’autogoverno, come si addice al soggetto adulto, capace di decidere delle proprie azioni. Questo lo sapeva già San Tommaso, per il quale il principe è vicem gerens multitudinis. Tuttavia l’autorità nell’organizzazione dello Stato non viene dal popolo, ma da Dio, se per autorità s’intende il diritto-dovere di ordinare ciò che in linea di principio si deve fare.

È chiaro che poi le determinazioni del diritto positivo e della legge naturale spettano ai governanti. Il popolo, quindi ha il diritto di designare, mediante elezioni, i detentori dell’autorità, non di conferir loro l’autorità, perché essi l’hanno da Dio, non dal popolo. 

Essi rappresentano il popolo nel suo diritto all’autogoverno, sono quindi al servizio del popolo e dei suoi interessi, lo rappresentano come governanti, possono essere esautorati se non fanno gl’interessi del popolo, ma quando comandano ciò che può collegarsi alla volontà di Dio, devono essere obbediti, per cui disobbedire a loro vuol dire disobbedire a Dio.

«Uno solo – dice giustamente Aristotele – deve comandare nella moltitudine». È l’uno che produce l’unità del molteplice. Il principio monarchico è necessario a qualunque forma di governo, anche democratico ed anche non dinastico. Infatti l’unità del molteplice viene solo dall’unità del principio, per cui in campo sociale l’unione, l’armonia, la concordia e la pace attorno ai comuni valori non negoziabili sono impossibili se tutti non obbediscono al capo.

In certe questioni certamente si può lasciare la decisione alla maggioranza, salvo però quando entrano in gioco doveri assoluti di giustizia e di umanità, dove il capo, anche a costo di risultare impopolare,  è tenuto a comandare il giusto, quale che sia il parere della maggioranza, che può essere corrotta da falsi princìpi.

Ma anche quando giocano valori sacri come la vita umana, come nel caso dell’aborto, il governante, benché personalmente contrario all’aborto, può accettare la decisione della maggioranza favorevole all’aborto, per evitare una sollevazione popolare che possa rendere ingovernabile il Paese.

L’aristocrazia, come sappiamo, è il terzo aspetto del buon governo secondo Aristotele, insieme con la democrazia, che egli chiama politìa e la monarchia. È giusto che il governo sia in mano dei migliori, dei più benemeriti, dei più capaci, dei più virtuosi, dei più ricchi non certo per dominare, per sfruttare, per opprimere, ma per servire e prendersi cura dei più deboli e bisognosi.

Gli aristocratici benefattori, difensori del popolo contro i nemici, promotori di giustizia, di benessere, di concordia, di libertà sono sempre stati amati dal loro popolo, che si stringe e si raccoglie affettuosamente attorno alla rocca del loro Signore o del Conte, come il gregge si raccoglie attorno al suo pastore. Al riguardo è cosa suggestiva e quasi commovente vedere come le case del popolo di Fontanellato tuttora circondano la maestosa rocca che si erge al centro della cittadina.

La dinastia è utile alla monarchia, ma non è necessaria. Gli Stati Uniti mantengono da 250 anni un governo stabile ed unitario senza bisogno di una classe nobiliare. La Francia è repubblica anch’essa da 250 anni e tutto sommato essa pure mantiene una unità e continuità di governo.

L’essenziale è che il popolo abbia la sufficiente maturità per sapersi autogovernare. La democrazia fatica invece a stabilizzarsi in America Latina, Africa e Paesi islamici a causa della mancanza di una tradizione democratico-aristocratica.

La Russia fatica a liberarsi dal suo atavico dispotismo per un’esagerata accentuazione del fattore monarchico e per l’assenza di une fattore aristocratico costruttivo. La Cina continua a preoccupare per il permanere del regime comunista, nonostante le aperture liberali. L’Italia ha una lunga storia di esperienza dell’aristocrazia e una più recente, a partire dall’unità d’Italia, di democrazia. Debole è il fattore monarchico.

Il sistema dinastico può assicurare la continuità del governo anche per lungo tempo, come dimostra la storia. I membri della famiglia si trasmettono l’un l’altro mediante l’educazione e l’esempio del padre l’arte del governo. Tuttavia, come dimostra la storia, non è sempre detto che il figlio sia all’altezza del padre. Il suo semplice esser figlio non pare possa dargli un diritto di regnare, se si dimostra incapace.

Esiste, certo l’istituto dell’abdicazione, ma pare così umiliante, che raramente nella storia lo si trova applicato, benché molti regnanti non siano stati all’altezza del loro ufficio. Quanto a destituire il Re, non se ne parla nemmeno, mentre è cosa prevista nel sistema repubblicano deporre il presidente. È questo l’inconveniente del sistema dinastico, inconveniente che è evitato da quello repubblicano, per il quale il popolo di volta in volta elegge il soggetto che pare più capace, anche se non è figlio del presidente precedente.

La famiglia Sanvitale

Quello che oggi stentiamo a comprendere è come siano state possibili famiglie aristocratiche o regnanti durate secoli, sin dal Medioevo. Oggi infatti l’istituto familiare, come è noto, sta patendo una grave crisi. Si è diffusa l’idea che l’educazione dei figli non spetta ai genitori, ma allo Stato o alla comunità, perdendo di vista il rapporto privilegiato che il genitore ha verso il figlio rispetto a quello dell’educatore o di un diverso familiare.

Ovviamente, se manca il genitore o questi è indegno, il figlio ha diritto a ricevere da altri l’educazione. Ma non è questo l’ideale, bensì solo un ripiego. Invece purtroppo, con la dissoluzione della comunità familiare, questa situazione fluida, precaria e di incertezza per molti fanciulli è assi frequente. Questa cosa nuoce alla formazione della loro personalità e crea soggetti incerti, volubili e incapaci di prendere serie decisioni.

I giovani sono diventati scettici circa la possibilità di un’unione indissolubile, anche se in alcuni l’eterno amore resterebbe sempre un sogno. Ma quasi dovunque non c’è il ricordo degli antenati, non esistono tradizioni di famiglia, per cui i figli non ricevono dai genitori un patrimonio morale di famiglia, per cui non ricevono una solida educazione dalla famiglia, quando non ricevono, con l’istituto del divorzio, neanche un buon esempio di virtù.

Ora abbiamo qui un processo a catena; si capisce che figli che non hanno avuto buoni genitori siano incapaci a loro volta di fare i genitori. Da qui in molti giovani il rifiuto del matrimonio e la scelta della convivenza.  Ma è evidente che la capacità educativa della convivenza non può raggiungere la qualità di quella che è garantita dal matrimonio. Il sorgere delle coppie omosessuali abbassa ulteriormente la capacità dei genitori di trasmettere valori e di formare bene i figli.

Questa situazione si riflette negativamente nell’ambito della vita religiosa e sacerdotale. Un tempo nel quale le famiglie erano generalmente sane e cattoliche, potevano sorgere vocazioni già nei fanciulli, tanta era la formazione che essi ricevano sin dall’infanzia. Oggi un giovane che aspira alla vita religiosa o sacerdotale, prima di essere ammesso alla formazione alla vita religiosa o sacerdotale, necessita spesso di ricevere previamente quel supplemento di formazione umana che non ha ricevuto dai genitori, affinchè la scelta religiosa o sacerdotale sia supportata da una sufficiente base umana.

Con tutto ciò purtroppo anche nella Chiesa stessa la formazione al sacerdozio e alla vita religiosa si mostra non di rado carente, col risultato di religiosi e sacerdoti i quali, anche perché vittime di concezioni sbagliate della vita religiosa e sacerdotale, non sono all’altezza del loro impegno o non riescono ad essere fedeli alla vocazione.

Come poi ormai è noto,  la crisi della famiglia negli ultimi decenni si è aggravata perché non si è limitata al piano morale o culturale, ma ha intaccato le stesse basi biologiche della sessualità, cosicchè oggi ci sono quelli che considerano la differenza uomo e donna non come valore naturale e voluta da Dio, ma liberamente manipolabile ad opera dell’uomo, cosicchè l’unione sessuale non è più solo fra maschio e femmina, ma vien considerata lecita anche quella omosessuale, per non parlare della diffusione del concubinaggio, dei divorziati risposati, delle cosiddette «famiglie allargate», della pratica dell’aborto, della fecondazione artificiale.

È chiaro come tutti questi fenomeni rendono impensabile la prospettiva di una famiglia che possa conservarsi nei secoli, anche se dobbiamo ammettere che tale conservazione non è soltanto frutto della buona volontà e delle virtù dei suoi membri, ma anche della buona sorte, che non sempre soccorre, ma può anche troncare il lignaggio di illustri famiglie nobili, come avvenne per Luigi XVI nella Rivoluzione Francese e per la famiglia Romanov nella Rivoluzione russa.

La famiglia Sanvitale ebbe le sue origini nel sec. XII e il ramo di Fontanellato si estinse nel 1951. La sua durata è certamente ammirevole, ma non diversa da altre illustri famiglie aristocratiche italiane. Quello che colpisce nelle famiglie aristocratiche di antico lignaggio è come i suoi membri di secolo in secolo riescono a mantenere, a volte aumentare, l’appartenenza al ceto dirigente dello Stato e della Chiesa, con l’espletamento di cariche pubbliche di vario genere e la produzione di opere a favore dello Stato e della Chiesa.

Oggi che abbiamo casi frequenti di figli di cattolici che si fanno comunisti o testimoni di Geova o buddisti, pare quasi incredibile che siano esistite o esistano ancora famiglie che nei secoli perseverano non solo nel rendersi benemerite del bene pubblico, ma anche a mantenersi in comunione con la Chiesa, appoggiandola e difendendola e promovendo opere di misericordia e di carità.

La famiglia Sanvitale è una di queste. Essa, nel corso della sua lunga esistenza fu sempre fedele alla Chiesa cattolica. Un suo esponente morì eroicamente nella battaglia di Lepanto. Anche quando con Lutero certi influssi luterani si infiltrarono nelle corti italiane, si mantenne sempre fedele alla Chiesa e al Papa. Naturalmente anche in questa famiglia non mancarono le pecche e i rampolli indegni, ma colpisce comunque nel complesso come nei secoli abbia potuto continuare nella fedeltà alla Chiesa rendendosi meritevole di tante buone iniziative.

Fine Prima Parte (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 20 agosto 2023

 

Come è noto. l’immagine e il gioco del labirinto ha origine dal famoso mito di Arianna, la quale dette a Teseo, addentrantesi nel labirinto, un filo stringendo il quale Teseo avrebbe potuto uscire dal labirinto.

Quello che non appare nel mito greco, benché non estraneo allo scetticismo greco e al bisogno greco di indipendenza, è il gusto del labirinto.

Passare tutta la vita nel labirinto della vita è il gusto di coloro ai quali piace l’incertezza, per i quali nulla è da prendere sul serio … Questa impostazione di vita è rappresentata benissimo dal mito del labirinto e del Minotauro, che ha ispirato nei secoli moltissime composizioni e rielaborazioni poetiche e letterarie. Questo ci dice quanto il mito del labirinto è il simbolo indovinato per rappresentare una condizione di spirito e uno stile di vita che a tutti noi non può non destare la nostra attenzione, vuoi per vedere nel labirinto un pasticcio deliberatamente voluto, vuoi per vedervi un destino ineluttabile, vuoi per vedervi una sfida e l’occasione per mostrare la nostra destrezza nel liberarci dalle difficoltà.

Immagini da Internet:
- Teseo e Arianna, Bernardino Malpizzi
- Rocca Sanvitale, Fontanelalto


[1] Notizia di Wikipedia, alla voce MINOTAURO.

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