La pace come effetto della vittoria sul nemico - Seconda Parte (2/3)

 La pace come effetto della vittoria sul nemico

Seconda Parte (2/3) 

La pace è la messa in pratica

della verità morale conosciuta dall’intelletto

Passando poi dal teorico al pratico, vorrei far presente che, trattando della pace, l’antinomia non può essere punto di riferimento e quindi principio di pace per il suo essere incompatibile con la vera pace. La pace non nasce dall’antinomia ed esclude l’antinomia per definizione, ma nasce semmai dalla sua soluzione. Ciò peraltro nulla ha a che vedere col principio romano si vis pacem para bellum, che esamineremo più avanti.

La pace è coerenza ed effetto della concordia, della convergenza, della coerenza, della somiglianza, della mutua comprensione, della proporzione, della comunione, sia pur nelle diversità, non delle antitesi, dei dissidi, dei dissensi, dei litigi, dei conflitti e delle antinomie, che ne sono l’esatto contrario. La vera sintesi è sintesi del compatibile, del corrispondente, del differente, del diverso e del compossibile, non dell’inconciliabile e del contradditorio.

Lasciamo ad Hegel queste assurdità e queste menzogne. Guardini è encomiabile per voler differenziarsi da Hegel, ma non ci riesce del tutto, perché gli manca il pensiero analogico, che è quello che tiene al riparo da qualunque compromesso con la doppiezza tipica della dialettica hegeliana.

Chi non impara a ragionare per analogia, come ci insegnano San Tommaso e la Bibbia, col suo tipico metodo realistico di fermezza e duttilità, schiettezza e sincerità, ma si arresta sul nebuloso, sul pedante, sull’univoco e sull’equivoco, confonde il pensare con l’essere, il diverso col nemico, esclude quello che va incluso ed include quello che va escluso, collega quello che va disgiunto e disgiunge ciò che va collegato, mette assieme la doppiezza con la sincerità, il sì col no, non riesce a conciliare l’uno col molteplice, e per conseguenza non imparerà mai ad essere un vero costruttore di pace, ma rischierà sempre di favorire ipocriti compromessi, celate violenze e falsi misericordismi.

Chi non afferra l’importanza del pensiero analogico o analettico, come lo chiama Tomas Tyn, confonde il sintetico col confusionario, e il distinto con l’opposto, il contrario col contradditorio. I contrari, come per esempio essere e divenire, atto e potenza, sostanza e accidente, uno e molteplice, caldo e freddo, piccolo e grande, il riso e il pianto, il dolce e l’amaro, possono stare assieme in un medesimo soggetto. Invece i contradditori, come essere e non essere, essere ed apparire, vero e falso, bene e male, ideale e reale, pace e guerra, ordine e disordine, non si possono sintetizzare perché si annullano a vicenda.

Ora dobbiamo ricordare che i rapporti umani, fattori propri dell’edificazione della pace, sono effetto della libera volontà di soggetti spirituali aventi per oggetto del loro sapere il bene intellegibile appreso dall’intelletto sovraordinato a un bene sensibile concepito dal senso o dall’immaginazione, bene che fa da guida al bene inferiore della passione disciplinandolo in ordine al conseguimento del bene totale della persona, bene che sta nel suo libero arbitrio scegliere o rifiutare,  attuarne o non attuarne le condizioni e le esigenze, con la conseguente pratica rispettivamente della virtù o del vizio.

Per questo le tensioni sociali non hanno niente a che vedere con i fenomeni dell’elettromagnetismo, ma sono un triste fenomeno conseguente al peccato originale, fenomeno che può essere tollerato, quando i governi non riescono a sanarlo, ma che comunque occorre lavorare con ogni mezzo ad eliminare o quanto meno a frenare o a diminuire, se una società vuol sapere che cosa sia la pace e i suoi componenti vogliono vivere in armoniosa unità nella pluralità e nella diversità delle scelte, secondo una dialettica che non pretenda di sostituirsi alla certezza universale dei valori morali, ma che lascia alla scienza, alla filosofia e alla teologia determinare le vie per il conseguimento della vera pace sociale, il superamento delle tensioni, delle difficoltà e dei contrasti, fino a che giungeremo a quella società perfettamente ed eternamente pacifica, senza ombra di tensioni e conflitti ed opposizioni, che ci è promessa dalla rivelazione cristiana.

Le tensioni nella società indubbiamente rinascono sempre a causa della fragilità della nostra natura, ma sempre di nuovo possono e devono essere dissolte con opportuni interventi distensivi, anche espedienti o ritrovati psicologici, per dar luogo a una distensione che procura pace, calma e tranquillità.

Invece lo stato psichico di tensione denota un nervosismo che facilita atti contrari alla giustizia e alla carità, fino a provocare nei casi più gravi gli sfoghi passionali, i crimini, le violenze e le guerre. Per cui tale stato, se non moderato per tempo, porta come conseguenza l’uso della violenza nell’organizzazione della società e la soppressione della libertà.

E se è vero che la volontà muove l’intelletto alla consecuzione del suo fine che è il sapere, è altrettanto vero che la volontà non ha alcun compito, come crede Blondel[1], di completare l’opera propria dell’intelletto nel rappresentare la realtà e nel conseguire la verità. Né il volere può muoversi da sé e prendere l’iniziativa nel muovere l’intelletto, perché il moto del volere è quel moto dello spirito che lo spirito appunto causa come conseguenza dell’atto dell’intelletto. 

Non sta alla volontà ma all’intelletto assicurare la certezza e il fondamento del sapere, risolvere i problemi teorici e speculativi, sciogliere i dubbi, chiarire le questioni teoriche e pratiche. Davanti ad un conflitto, un contrasto, una controversia, bisogna far riferimento a un punto chiaro, fermo, stabile ed unificante, tale da costituire un punto di incontro tra i due contendenti.

I nodi gordiani del pensiero non devono essere spezzati con la spada della volontà di Alessandro Magno, ma pazientemente sciolti con la prudenza dell’intelletto, che solo sa districarsi tra i vari fili e rispettarli nel loro intreccio.

Le soluzioni affrettate e violente imposte dalla volontà possono dare un’effimera soddisfazione alla nostra volontà di potenza, ma la realtà non tarda a riapparire in tutta la sua crudezza a punire la nostra boria di voler far da padroni laddove esser servi è a tutto nostro vantaggio. Servire Domino regnare est. Quando San Tommaso ha definito la verità come adaequatio intellectus et rei, stoltamente derisa da Blondel, sapeva invece quello che diceva.

Occorre un pensiero sintetico e non antinomico,

perché la pace nasca dalla sintesi e non dall’antitesi

Non è pertanto vera sintesi quella che sosta nell’oscillazione fra i due opposti, o che si gingilla della loro opposizione o che si rassegna ad essa senza riuscire o volere risolverla. Ma questa è una falsa sintesi, è un servire a due padroni, che denota doppiezza e scarico di responsabilità col pretesto dell’opposizione dialettica o dell’opposizione polare.

Per questo è del tutto inaccettabile il metodo filosofico proposto da Erich Przywara, per il quale:

 

«Ciò di cui abbiamo bisogno è una filosofia della polarità ben diversa sia dall’inquieto rovesciamento sia da una statica medietà: la filosofia della polarità dinamica: non conciliazione statica compiuta una volta per tutte. No: la filosofia di un movimento fluttuante avanti e indietro fra entrambi i poli, la filosofia di una tensione mai risolta tra i due poli, la filosofia della dinamica unità dei contrari»[2].

Il vero progresso e la sana evoluzione della società nella giustizia e nella pace sono impossibili senza il fondamento stabile comunemente accettato dato dal punto medio, dalla medietas, principio di imparzialità e negazione della faziosità, che evita gli eccessi contrari e unisce i convergenti. È questo punto medio la sintesi del buono presente negli opposti, che li libera dal loro estremismo ed impedisce a loro di entrare in conflitto distruggendo l’unità del corpo sociale.

Il metodo veramente saggio di pensare, costruttore di pace, non è quello per antitesi o per opposizione contradditoria, che caratterizza l’hegelismo, fonte di irresolubili conflitti e causa della guerra nel vivere sociale, ma è quello per analogia, che caratterizza la sapienza aristotelica, metodo, che, se da una parte rispetta il principio di non-contraddizione, dall’altra, in base a questo principio fornisce la base sicura per la conciliazione del conciliabile, ossia del diverso (et-et), e per la separazione di ciò che dev’essere separato, ossia il vero dal falso e il bene dal male (aut-aut). Ed è per la consonanza dell’aristotelismo col pensare biblico, che San Tommaso ha utilizzato Aristotele per interpretare la Scrittura, purificandolo dagli errori, per cui egli ha meritato di essere raccomandato dalla Chiesa come guida nella teologia[3].

È vero che l’amore aiuta l’opera dell’intelletto. Interessarsi di una cosa con amore facilita la comprensione di quella cosa. Ma siamo daccapo: occorre che si tratti di un vero amore, che non sia semplice emozione, ma atto del volere illuminato dal bene intellegibile. È quella che San Tommaso chiama «conoscenza per connaturalità»[4].

È anche vero che la volontà, nella virtù della prudenza, rende operativo il giudizio pratico ultimo dell’intelletto che comanda l’azione concreta, per cui la decisione della volontà è libera e non determinata dall’intelletto, come credeva Leibnitz. Si tratta di un giudizio libero e voluto, non del giudizio speculativo, che è necessitato dall’oggetto. In ciò Blondel ha ragione. Sbaglia nel credere che la volontà giochi questa parte anche nella teoresi morale e speculativa, per cui succede che Blondel dà alla volontà il compito che spetta all’intelletto, il quale, nello stabilire il vero speculativo, sia esso morale (la legge morale), sia esso teoretico (l’essenza delle cose), agisce perfettamente da solo senz’alcun contributo della volontà, mentre d’altra parte vorrebbe assegnare all’intelletto o alla ragione quella concretezza e quel movimento che appartengono alla volontà[5].

Il pensiero, infatti, per la sua azione immanente[6], che è qualità più che essere azione, è immanente allo spirito e vive nell’astratto immutabile perché extratemporale ed extraspaziale. Viceversa è la volontà imperatrice dell’appetito sensitivo e delle passioni, che vive nel concreto e nel movimento, il quale peraltro, non è azione immanente, ma azione transitiva, che emana dal soggetto ed opera sulla realtà esterna.

L’intelletto, dal canto suo, è per sua natura tale da compiere la sua opera con un atto specificamente e insostituibilmente proprio, come è normale, senz’alcun bisogno di integrazioni da parte della volontà, causa del tutto estranea al modo di funzionare dell’intelletto, che, nel suo procedere, è esclusivamente mosso dalla causa formale della realtà oggetto del suo sapere, mentre la volontà, nel dinamismo dell’atto conoscitivo, ha per conto proprio il suo ufficio di causa efficiente, motrice e finale, che concorre con l’attività intellettuale a determinare la condotta umana in quanto umana.

Inoltre, mentre la volontà è una potenza attiva, che influisce sulla realtà esterna, capace quindi di un’azione transitiva in collaborazione con le forze psicofisiche, l’intelletto è una potenza passiva o recettiva. Esso introietta ed immanentizza, facendo uso dei sensi interni, la realtà esterna oggetto del suo atto. Il conoscere, quindi più che un agire – è qui che Blondel sbaglia – è l’acquisto di una sua qualità, consistente nell’essere informato dalla cosa e di formare interiormente nel concetto la rappresentazione della cosa. Il sapere, quindi, di per sé, comporta una staticità; è il volere che comporta movimento e dinamismo – e qui Blondel sbaglia ancora -. Rifiutare, come fa Blondel, l’elemento statico dell’intelligere, vuol dire non sapere che cosa è l’intelligere e scambiarlo con l’evolversi dell’immaginazione emotiva. La staticità è il pregio del sapere, che ha relazione con l’immutabile, l’assoluto e l’eterno.

Ma un errore ancora più grave del Blondel è dato dal fatto che egli pretende affermare, alla maniera di Hegel e del Cusano, un sapere, una logica, che egli chiama dell’«integrazione»[7], logica del «concreto», posta in essere dall’azione, che dovrebbe includere o integrare il negativo nel positivo, superando la logica della non-contraddizione, che sarebbe la «logica formale», la «logica dell’esclusione» e dell’astrazione, la quale esclude, senza nulla ritenerne, ciò che essa contraddice»[8]. Solo questa logica assicurerebbe un vero e certo contatto con la realtà nella sua unità, totalità e concretezza.

Appare evidente come Blondel confonde la negazione con l’alterità, per cui l’aut-aut si dissolve nell’et-et. Il diverso è il negativo e il negativo è il diverso. Ma allora per «integrare» il vero occorre sintetizzarlo col falso, per integrare il bene occorre sintetizzarlo col male; l’amico si confonde col nemico; il contrario diventa il contradditorio. E così per salvare l’altro, per salvare il diverso, occorrerà barcamenarsi fra l’essere e il non-essere, fra il sì e il no e servire due padroni. Esattamente come fa Hegel. Il cattolico Blondel sembra dunque voler mettere assieme il cattolicesimo con la dialettica hegeliana attuando così la logica dell’integrazione.

E neppure – come vuole il Maréchal[9] - l’intelletto tende al suo fine allo stesso modo di come vi tende l’appetito, perché ciò sarebbe ancora confonderlo con la volontà. L’intelletto non appetisce, non si muove esistenzialmente verso il suo fine, ossia verso il vero, come fa la volontà, anche se è vero che il vero è il bene dell’intelletto. Oggi c’è la manìa di vedere tutto in movimento. Ebbene bisogna dire a chiare lettere che l’intendere non comporta nessun movimento. L’intelletto è come una lampada che si accende e si spegne. La luce che esso emana è puramente immateriale. È grazie a questa luce immobile e immutabile, spirituale, che noi vediamo il moto e il mutare dei corpi.

L’intendere, quindi, non è un tendere, ma un qualificarsi intenzionale dell’intelletto, formato dalla specie dell’oggetto. L’intenzione dell’intelletto è diversa dall’intenzione della volontà: questa è dinamica; quella è statica. L’intelletto si determina nel contatto col termine e fine della sua attività, che è la cosa conosciuta, l’essenza universale astratta. La cosa concreta, invece, muove la volontà come appetibile, ma attua l’intelletto facendolo passare dalla potenza all’atto con anche se formarlo della sua stessa forma.

Pretendere che sia la volontà a decidere della verità e non l’intelletto conduce la volontà a lasciar aperto su di una questione controversa il sì assieme al no, per cui il pensiero non si determina, ma diventa incoerente, doppio ed oscillante, diventa dialettico, cosa che se può essere tollerabile se ristretta ad una legittima dialettica delle opinioni, diventa disastrosa se estende la dialettica alle basi stesse della convivenza sociale, che invece hanno bisogno di essere evidenti, solide, stabili, sicure, universali, non negoziabili, accertate e comunemente accettate. In necessariis unitas, come dice Agostino. Altrimenti la pace ce la sogniamo.

La pace proviene dalla scienza, non dalla dialettica

La dialettica non riguarda la determinazione dei valori fondamentali del sapere e della morale, della ragione e della fede, dell’umanità e della realtà, della metafisica e della religione, dove invece si danno certezze assolute, oggettive, universali, immutabili, evidenti, incontrovertibili, indubitabili, indiscutibili, la cui negazione implica contraddizione. Questi sono i valori, che Benedetto chiamava «non negoziabili», in base i quali si può costruire la pace nei cuori e nella società.

La dialettica è un confronto di idee o di tesi circa le quali nessuno dei due dialoganti è certo di essere nella verità, ma entrambi esprimono una semplice opinione, che può essere falsa e della quale quindi non sono certi e non possono dare una dimostrazione scientifica. Si confrontano queste tesi che possono essere contraddittoriamente opposte, ma non per il gusto di contrastare l’altro, bensì nell’intento comune di cercare la verità e di ottenere la scienza, proprio mediante un prudente e leale dibattito.

Non sempre la verità si riesce a raggiungere. Ma non importa. Nel campo dell’agire morale, salva la comune condivisione dei valori di fondo (in necessariis unitas), è data libertà di seguire la propria opinione, seppur contraria alla scelta dell’altro (in dubiis libertas). È questo il valore del dibattito politico proprio della democrazia.

È questo anche il diritto civile della libertà religiosa, che non suppone affatto la riduzione del dogma ad opinione privata, ma si tratta semplicemente della facoltà data dallo Stato ai cittadini di manifestare il loro credo e la loro pratica religiosa liberamente, salve naturalmente le esigenze del bene comune temporale, del buon costume e dell’ordine pubblico. È chiaro invece che questo diritto non avrebbe senso nel diritto canonico, dove invece lo scismatico o l’eretico o l’apostata è soggetto alle pene o censure ecclesiastiche. Ed è chiaro che il cattolico che presentasse i dogmi come semplici opinioni farebbe peccato mortale.

Il grave errore di Kant in questo campo è il parlare che fa di «dialettica trascendentale», e di «antinomie della ragion pura», come se in metafisica, in filosofia naturale, in antropologia, in morale, e in teologia naturale la ragione si trovasse in uno stato insuperabile di impotenza o di perplessità o dubbio senza poter sapere quale è la verità tra le due tesi contradditorie sulla medesima questione di fondo, che mette in gioco il senso della vita e il destino dell’uomo.

Questa è una cosa intollerabile. È vero che poi Kant, per dar certezza morale interviene con un colpo di mano della volontà, la cosiddetta «ragion pratica», che è poi una ragione indipendente dalla Ragione divina. Ma la persona che ama la verità in questioni così fondamentali non può affatto sentirsi soddisfatta di questo volontarismo senza fondamento cognitivo, che sa molto di imposizione dittatoriale, tanto più che la verità non è così inaccessibile come crede Kant, ma la si apprende solo che ci si accosti al realismo biblico e tomista.

Arriverà poi Hegel ad aggravare ulteriormente il funzionamento della ragione con l’elevare la dialettica a scienza, anzi a «sapere assoluto», mentre Kant aveva mantenuto la distinzione aristotelica fra dialettica e scienza: la dialettica riguarda solo il probabile, l’indecidibile, il rivedibile o l’ipotetico, riguarda l’apparenza; la scienza riguarda il certo, il definitivo, il dimostrato, il reale. Per questo, per Kant, se la ragione arriva al sapere, il moto dialettico cessa, perché all’apparenza si sostituisce la verità e al probabile, il certo e dimostrato. La ragione afferma il sì e nega il no. Afferma la tesi e nega l‘antitesi.

Invece con Hegel l’opposizione dialettica di sì e di no, di tesi e antitesi non è più qualcosa di provvisorio nell’attesa di sapere se vale il sì o il no, ma assurge a modello del sapere, diventa la «sintesi» di sì e di no, che «supera» e sostituisce il puro sì, giudicato da Hegel «astratto», «isolato», «unilaterale» e parziale, mentre la «totalità», l’«intero», il vero, il sapere sarebbero dati solo dalla sintesi di sì e di no, per cui l’aut-aut, presente ancora in Kant come in Aristotele, in nome del principio di non-contraddizione, è sostituito dall’et-et. Il falso non è più l’opposto del vero, ma il suo «altro», che dà al vero il suo essere vero. Il falso dev’essere accolto e integrato come fattore essenziale del vero.[10]

Ne viene allora che per Hegel il contraddirsi non è un difetto, ma segno di sapienza; il principio del linguaggio non è l’univoco o l’analogo, ma l’equivoco; il principio della morale non è la sincerità e l’onestà, ma la doppiezza e la finzione.

La forzata e intenzionale indecisione che sta al fondo del metodo hegeliano del sapere a me sembra trovarsi in qualche modo anche nella teoria guardiniana delle opposizioni polari che, nonostante la dichiarata volontà di Guardini di prendere le distanze da Hegel, sembra riflettere invece un proposito di evitare di prender posizione, mosso da un malinteso spirito liberale, un atteggiamento sofistico che si riflette nello stesso linguaggio, che rischia di diventare doppio e ambiguo, lasciando irrisolta la tensione psicoemotiva, che lo sorregge, la quale, ben lungi da avvicinare procurare i contendenti alla pace, finisce per attizzarli l’uno contro l’altro, e quindi in pericolo costante di aggravare il loro conflitto. È chiaro allora che una pace sociale su simile presupposto, ben lungi dall’essere una vera pace, è un continuo focolaio di rancore, di odio, di violenza e di guerra.

L’agire certamente aumenta e migliora l’essere[11] e perfeziona l’agente. Come dice San Paolo, la carità è il vincolo della perfezione. L’inerzia e la pigrizia non sono certo virtù. Il dire e non fare è un’ipocrisia. Confondere l’agire reale con l’agire pensato è il vizio degli idealisti. Non c’è nessun dubbio.

Tuttavia i blondeliani, i quali portano alle stelle l’importanza dell’azione come espressione della «vita», contro l’astrattezza e la rigidità delle formule dell’intelletto, di quale vita parlano? Quando dicono che l’azione non è l’applicazione dei concetti morali della Scolastica o di idee astratte, ma è effetto dell’«esperienza vitale», di quale vita parlano? Sanno distinguere l’uomo carnale dall’uomo spirituale?

Anche l’esperienza sessuale è un’esperienza vitale, dove i concetti e le idee astratte non c’entrano. E allora? Di quale vita si tratta? Della vita che traduce nei fatti l’atto dell’intelletto che intuisce il bene universale intellegibile o della dolce vita che esprime la dolcezza delle emozioni o l’impeto furente delle passioni alla David Hume o alla Giordano Bruno? L’agitazione confusionaria o l’azione intelligente? La tensione nervosa o la pace dello spirito? Il fervore dell’aggressione o dell’ira o la calma della conciliazione e della comunione?

Riguardo al significato ontologico del nostro agire, che non va confuso con quello divino fine a se stesso perché identico al suo essere, dobbiamo ricordare due cose: prima, che in noi creature l’agire resta pur sempre un accidente della nostra sostanza, sicchè il nostro essere non si risolve nell’agire o nel relazionarci con gli altri.

Seconda, che la nostra azione, appunto in quanto accidente e non sostanza, ontologicamente vale di meno del nostro essere sostanziale. L’accidente non è l’ente, ma qualcosa che appartiene all’ente (ens entis). È vero che per essere moralmente buoni non basta che noi conosciamo il vero bene, ma lo dobbiamo mettere in pratica. Eppure la nostra beatitudine finale non consisterà nell’azione, ma nel vedere.

Questo è il segno che l’intelletto è una potenza superiore alla volontà, per il fatto che il volere, in fin dei conti è ordinato al vedere, che però non è un vedere qualunque, ma la visione del sommo bene, che quindi è sommante amato e fine ultimo di tutto l’agire.

Questo lo aveva già capito Aristotele ed è confermato dalla Bibbia. Da qui si capisce il primato della vita contemplativa su quella attiva. Ciò non significa che amare non sia meglio che sapere. Tuttavia, se è vero che la visione beatifica dev’essere oggetto della nostra volontà, resta che la beatitudine consiste nel vedere Dio. Qui l’amore e la gioia sono solo una conseguenza della beatitudine, ma non ne sono l’essenza, come spiega bene San Tommaso.

Dare il primato alla volontà è quindi cosa rischiosa, anche se sembra avere il vantaggio di escludere l’intellettualismo inerte, e il rischio consiste nel togliere alla volontà il terreno sotto ai piedi, togliendole il suo fondamento intellettuale e confondendola con l’appetito sensitivo. Ciò, invece di costruire l’uomo spirituale, costruirebbe l’uomo carnale di paolina memoria (I Cor 1,14-15).

Fine Seconda Parte (2/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 17 maggio 2023

La dialettica non riguarda la determinazione dei valori fondamentali del sapere e della morale, della ragione e della fede, dell’umanità e della realtà, della metafisica e della religione, dove invece si danno certezze assolute, oggettive, universali. Questi sono i valori, che Benedetto chiamava «non negoziabili», in base i quali si può costruire la pace nei cuori e nella società.

La dialettica è un confronto di idee o di tesi circa le quali nessuno dei due dialoganti è certo di essere nella verità, ma entrambi esprimono una semplice opinione…  nell’intento comune di cercare la verità e di ottenere la scienza, proprio mediante un prudente e leale dibattito.


Il grave errore di Kant in questo campo è il parlare che fa di «dialettica trascendentale», e di «antinomie della ragion pura», come se in metafisica, in filosofia naturale, in antropologia, in morale, e in teologia naturale la ragione si trovasse in uno stato insuperabile di impotenza o di perplessità o dubbio senza poter sapere quale è la verità tra le due tesi contradditorie sulla medesima questione di fondo, che mette in gioco il senso della vita e il destino dell’uomo.

Questa è una cosa intollerabile. È vero che poi Kant, per dar certezza morale interviene con un colpo di mano della volontà, la cosiddetta «ragion pratica», che è poi una ragione indipendente dalla Ragione divina. Ma la persona che ama la verità in questioni così fondamentali non può affatto sentirsi soddisfatta di questo volontarismo senza fondamento cognitivo, che sa molto di imposizione dittatoriale, tanto più che la verità non è così inaccessibile come crede Kant, ma la si apprende solo che ci si accosti al realismo biblico e tomista.

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[1] Su Blondel cf R.Garrigou-Lagrange, Dieu. Son existence et sa nature, Beauchesne, Paris 1950, pp.43-52; J.Maritain, L’intelligenza e la filosofia di Maurice Blondel in Riflessioni sull’intelligenza, Editrice Massimo, Milano 1987, pp.87-141; Benedetto Schwalm, Les illusions de l’idéalisme. Leurs dangers pour la foi, in Revue Thomiste 1896, pp.414-422.

[2] Borghesi, op.cit., p. 92.

[3] Vedi per esempio l’enciclica Studiorum Ducem di Pio XI del 1923.

[4] Marco D’Avenia, La conoscenza per connaturalità in San Tommaso d’Aquino, Edizioni ESD, Bologna 1992.

[5] Garrigou-Lagrange, op.cit., p.44.

[6] Schwalm, op. cit., pp. 420-422.

[7] Cf voce AZIONE, filosofia dell’, a cura di Michele Federico Sciacca nell’Enciclopedia cattolica.

[8] Ibid.

[9] J. Maréchal, Le point de départ de la metaphysique, Editions Museum Lessianum, Louvain –Alcan, Paris 1926.

[10] Qui noi vediamo come un certo ingannevole ecumenismo che si ispira al metodo hegeliano è un’esasperante e inconcludente tergiversazione e finzione, nella quale, in nome di una falsa carità e complementarità reciproca, non si sa mai qual è la verità, perchè essa non trionfa mai dell’errore e sta sempre hegelianamente alla pari e in coppia con l’errore come due opposizioni polari, per esprimerci nel linguaggio di Guardini.

[11] J. De Finance, Être et agir dans la philosophie de Saint Thomas, Librairie éditrice de l’Université Grégorienne, Rome 1960.

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