La vera essenza della filosofia moderna - Quarta Parte (4/4)

 La vera essenza della filosofia moderna

Quarta Parte (4/4) 

I tre livelli dell’io

Un importante applicazione del trascendentale idealista è la dottrina dell’io trascendentale, ricavato per ampliamento dall’io cartesiano, che è l’io dello stesso Cartesio. Egli infatti, avendo presa coscienza del suo esistere come spirito costituente la fondamentale certezza, si chiede se possiede un corpo e se per caso non è il solo ad esistere nel mondo, dal momento che non ha ancora dimostrato che esistono cose attorno a lui.  

Ora, per risolvere questo arduo problema, Cartesio universalizza il proprio io, allarga l’ampiezza del suo io individuale e ne fa un principio valido per tutti gli io. Così egli ottiene l’io trascendentale o io puro, che abbraccia anche gli altri io diversi da lui. In tal modo egli si assicura dell’esistenza degli altri io.

Ma siccome nell’io trascendentale risiede l’idea di Dio verità assoluta, ecco che dall’io trascendentale Cartesio deduce l’io assoluto o divino, che gli garantisce l’esistenza e la conoscibilità del mondo esterno, mentre il sum rende possibile, come noterà Fichte, l’accostamento dell’io empirico all’Egò èimi di Gesù Cristo aprendo la porta al panteismo.

Davanti al famoso sum cartesiano, gli idealisti si sono ingannati. Non si sono accorti che io, come uomo, posso dire io esisto, non io sono. Solo Dio può dire di se stesso Io sono (Es 3,14). Il sum cartesiano è ambiguo, perché può essere interpretato nei due sensi. Ora, mentre nel caso dell’io umano, l’io esisto non ha predicati nominali, l’io sono è seguito da un predicato nominale («io sono un uomo»). Nel caso di Dio, Egli e solo Lui può dire non solo Io esisto, ma anche Io Sono senza predicati. E questo perché? Perché dire io sono senza predicati vuol dire io sono infinitamente ed assolutamente, cosa che conviene solo a Dio, mentre nel caso del mio io, il cui essere è limitato, devo precisare e dire, per esempio, io sono un uomo, in quanto il mio essere è limitato all’esser uomo ed esclude l’esser donna.

La conoscenza apriori in Kant

Come sappiamo, Kant ammette bensì una conoscenza apriori, quindi scientifica, universale e necessaria, ma di che cosa? Non delle cose in sé, ma dei «fenomeni». Dice infatti:

 «La conoscenza a priori della nostra ragione giunge solo fino ai fenomeni, mentre lascia che la cosa in sé sia bensì per se stessa reale, ma sconosciuta a noi. Giacchè quel che ci spinge a uscire necessariamente dai limiti dell’esperienza e di tutti i fenomeni è l’incondizionato, che la ragione necessariamente e a buon diritto esige nelle cose in se stesse, per tutto ciò che è condizionato, al fine di chiudere con esso la serie delle condizioni. Ora, se ammettendo che la nostra conoscenza sperimentale si regoli sugli oggetti come cose in sé, si trova che l’incondizionato non si trova senza contraddizione; mentre, al contrario, se si ammette che la nostra rappresentazione delle cose, quali ci sono date, non si regoli su di esse, come sono in se stesse, ma piuttosto che questi oggetti, come fenomeni, si regolino sul nostro modo di rappresentarceli, si trova che la contraddizione scompare, e che perciò l’incondizionato non deve trovarsi nelle cose in quanto noi le conosciamo  (esse ci sono date), ma nelle cose in quanto noi non le conosciamo come cose in sé, ciò che noi abbiamo ammesso prima, soltanto n via di tentativo, si vede che è ben fondato»[1].

Il fenomeno, quindi, per Kant, è ad un tempo la cosa così come appare al soggetto, e qui abbiamo un residuo di realismo, ma è anche, quanto alla forma del fenomeno, ed ecco l’idealismo, una modificazione del soggetto, perché Kant confonde il modo del conoscere col suo contenuto, sicchè il contenuto, almeno quanto alla forma, non è un rispecchiamento o rappresentazione della cosa così com’è, la quale resta sconosciuta, ma è un concetto prodotto dal soggetto.

Ma se la scienza è solo scienza dei fenomeni, ossia scienza sperimentale, come fa Kant a proporci un sapere che ha per oggetto la ragione, l’intelletto, lo spirito, l’autocoscienza, la conoscenza, le quali non sono evidentemente dei fenomeni, ma realtà sovrasensibili? Come fa a proporci una fondazione della metafisica se la metafisica per sua essenza va al di là del sapere sperimentale ed è conoscenza dello spirituale?

Eppure Kant va tranquillo e nel corso di un libro di 750 pagine, la sua famosa Critica della pura ragione, ci parla di realtà sovrasensibili come la ragione, il trascendentale, l’apriori, la forma, lo spirito, la verità, il concetto, il pensiero, il giudizio, l’idea, il sapere, la coscienza, l’anima, l’intelletto, la logica, l’incondizionato, il necessario, l’universale, Dio, la morale e via discorrendo.

Ecco il vizio tipico dell’idealismo, questo suo rifiuto del reale esterno per ripiegarsi su se stesso, su di un’autocoscienza che, per non aver attinto in precedenza al reale, resta vuota o piena di vane e dotte elucubrazioni staccate dalla realtà, finendo con lo scambiare la realtà con l’idea della realtà.

Siccome il modo del conoscere appartiene al soggetto e il contenuto del conoscere è per Kant parzialmente determinato dal soggetto (la «forma), l’oggetto perde la sua indipendenza dal soggetto e diventa, sia pur parzialmente, dipendente dal soggetto. Ecco il soggettivismo idealista.

L’incondizionato kantiano

È molto interessante l’accenno che Kant fa all’«incondizionato», senza fermarsi a spiegarci che cosa intende. Un accenno si trova molto più avanti nella Critica della ragion pura[2], laddove affronta il problema dell’esistenza di Dio, che Kant definisce come l’«assolutamente necessario», anche se non arriva a parlare di «Assoluto», che sarà invece ricorrente nel linguaggio di Schelling e di Hegel. Qui occorre notare che comunque Kant sostiene che l’affermazione dell’incondizionato è possibile solo sulla base della sua «rivoluzione copernicana», ossia della sostituzione del soggetto (idea) all’oggetto (realtà) come regola della verità, il principio dell’idealismo, nulla, pertanto, di rivoluzionario, perché era già stato fissato da Cartesio. E già Cartesio aveva sostenuto che il cogito fonda l’idea di Dio. Così, penso, comprendiamo come l’idea dell’incondizionato è resa possibile proprio dalla rivoluzione copernicana, prosecuzione della rivoluzione cartesiana.

A questo punto non sta male uno scostamento dell’idealismo con l’ontologismo. Certamente questo ammette la distinzione dell’essere dal pensiero, come il realismo. Ma l’ontologismo, come Cartesio, non parte dai sensi, ma dall’idea dell’essere, confusa peraltro con l’essere divino. L’esperienza delle cose avviene all’interno del pensiero dell’essere.

Kant sembra ammettere che l’incondizionato lo troviamo nelle cose a patto che non pretendiamo di conoscerle come cose in sé, ma solo come fenomeni. Che cosa è questo incondizionato? Kant parla dell’«incondizionatamente necessario» in relazione a Dio, che però per lui non è una cosa in sé, non è un reale esterno al soggetto, ma è l’ideale supremo della ragione.

Perché l’apertura all’incondizionato è possibile solo ammettendo le cose non come cose in sé indipendenti dal soggetto, ma come fenomeni costruiti dalle forme a priori dell’intelletto? Perché l’incondizionato, che è Dio, non è una cosa in sé, ma un’idea che possiamo intuire solo trascendendo i fenomeni.

Per questo, quando Kant dice che l’intelletto non può elevarsi al soprasensibile partendo dall’esperienza dei fenomeni, non intende assolutamente affermare che il mondo dello spirito (soggetto, intelletto, ragione, coscienza, morale) sia inconoscibile. Al contrario, la sua esistenza è per lui certissima; solo che per lui non si tratta della una cosa in sé, ma dell’esplicitazione dell’io penso di matrice cartesiana. Oggetto della metafisica, per Kant non è la cosa in sé, non è il reale esterno. Questo è l’oggetto della scienza dei fenomeni.

L’apriori per gli idealisti

Una domanda che potremmo porci è la seguente: che cosa è l’apriori per gli idealisti? Chi ha messo in circolo questa espressione? È stato Kant e da allora ogni idealista che si rispetti è tenuto ad usare frequentemente questa parola. L’espressione in se stessa è di tutto rispetto: a priori vuol dire da-ciò-che-è-prima.

Ma ecco subito il rischio dell’equivoco, sul quale gli idealisti giocano continuamente: prima in che senso? Assiologico o temporale? È ciò che è più importante o semplicemente ciò che sta all’inizio del discorrere del pensiero? Conoscenza apriori che cosa vuol dire? Conoscenza di ciò che più conta cioè dello spirito, conoscenza fondamentale, certa, scientifica, universale necessaria o pretesa conoscenza per la quale iniziamo a conoscere lo spirito e da lì passiamo a conoscere le cose dell’esperienza, dette «aposteriori»? Non chiariscono mai, per cui il lettore è obbligato ogni volta a tentare un’interpretazione per chiarire di quale apriori si tratta. Ma il fatto è che spesso l’idealista li confonde.

È chiaro altresì che lo spirito è più importante della materia, e qui noi realisti concordiamo con gli idealisti; ma quando noi diciamo che la conoscenza umana è aposteriori e da qui saliamo all’apriori, non intendiamo affatto con ciò smentire il primato dello spirituale e far derivare come i materialisti lo spirito dalla materia. Un conto è l’ordine gnoseologico e un conto è l’ordine ontologico; un conto è l’ordine del pensiero e un conto l’ordine dell’essere. Un conto è il divenire del pensiero e un conto è il divenire della realtà È qui che gli idealisti fanno una gran confusione applicando il loro assioma fondamentale dell’identità del pensiero con l’essere, dell’ideale o razionale col reale. 

Con Fichte, che abolisce la cosa in sé, l’oggetto, materia e forma, diverrà totalmente produzione del soggetto. Certo, resta ancora in Fichte la tensione morale infinita, caratteristica della Sehnsucht romantica, del soggetto verso l’oggetto, ma ormai è evidente la risoluzione totale dell’essere nel pensiero.

Questo messaggio sarà raccolto da Hegel con la sua identificazione del reale col razionale e della metafisica con la logica, nonché da Schelling con l’identificazione dell’ideale col reale e del soggetto con l’oggetto. E tuttavia, anche costoro non riescono a chiudere totalmente il cerchio della autocoscienza assoluta, perché si ostinano a voler mischiare il finito con l’infinito, obbligati quindi a porre la dialettica, il conflitto e la contraddizione anche nell’assoluto.

Animi inquieti che non trovano pace da nessuna parte perché non sanno o non vogliono lasciare a Dio la pacificazione del loro cor inquietum, sempre pronti ad accusare vanamente i realisti di «dualismo», quando essi stessi sono immersi nel peggiore dei dualismi, nel più tragico dei conflitti: quello fra l’io e Dio; animi divisi fra il sì e il no, tra due padroni: Dio e mammona;  tra due servizi: al mondo e alla verità; tra due volontà: la propria e quella di Dio; chiamati da Dio alla santità e sedotti da Satana verso la perdizione[3].

Idealismo e ontologismo

L’idealismo assomiglia all’ontologismo, ma questo resta un realismo, benché non sufficientemente fondato su di un’adeguata gnoseologia. L’ontologista accetta l’oggettività dell’essere e del reale, esterno al pensiero. Dio è trascendente. Tuttavia l’ontologista intende l’intelletto non come attività razionale, che, partendo dai dati del senso, si eleva, applicando il principio di causalità, alla conoscenza di Dio. L’ontologista, come Cartesio, parte dall’idea di Dio e, in base a questa idea, crede di sapere che Dio esiste, non però come semplice Idea, alla maniera di Kant e di Hegel, ma proprio come realtà extramentale, alla maniera dei realisti.

Gli ontologisti riportarono in auge, al seguito di Hegel, l’interesse primario per l’essere come oggetto dell’intelletto, che invece a Kant non interessava assolutamente, tutto occupato nel confronto fra il fenomeno e la cosa in sè. Tuttavia, l’essere degli ontologisti non è l’esse tomistico, atto dell’ente, ma l’essere alla maniera hegeliana, coincidente con Dio. Essi però contro Hegel e qui con i realisti, sostennero la distinzione del pensiero dall’essere.

Restavano però con Cartesio in quanto facevano partire l’attività intellettuale non dal contatto sensibile con le cose esterne, come i realisti, ma dall’autocoscienza, sicchè potevano ammettere un’intuizione immediata dell’essere, similmente a come Cartesio ammetteva un’intuizione immediata delle idee innate.

A questo punto però c’è da chiedersi come potevano ammettere la trascendenza dell’essere divino, se l’essere divino non era che l’esplicitazione dell’essere (Rosmini) o dell’idea dell’essere (Gioberti) contenuta nell’autocoscienza? Per questo il realismo dell’essere e dell’esistenza di Dio è piuttosto affermata che non dimostrata.

Pretendevano di stare contemporaneamente con Tommaso nell’ammettere la trascendenza di Dio e con Cartesio nel partire dall’autocoscienza che li portava all’intuizione dell’essere immanente alla coscienza e trascendente non alla coscienza, ma nella coscienza[4]. Il caso Rosmini provocò molte discussioni su questo punto. Il Sant’Uffizio nel Decreto del 1887 condannò la sua impostazione cartesiana. Ma le successive ricerche che portarono alla sua Beatificazione appurarono che l’intenzione profonda del Roveretano era quella di riconoscere la trascendenza ontologica e non solo coscienziale del Dio cristiano, del quale del resto dette convincente testimonianza con la sua santa vita.

L’ontologismo comporta delle gravi conseguenze in teologia per il fatto che il suo intuizionismo dell’essere lo conduce prima a vedere Dio ipsum Esse come piena esplicitazione del contenuto del concetto dell’essere e fin qui va bene. Questo lo diceva già San Bonaventura[5].

Senonchè poi succede che, ingannati dall’argomento ontologico di Sant’Anselmo, gli ontologisti danno come fine ultimo dell’intelletto naturale non la conoscenza di Dio per ea quae facta sunt (Rm 1,20), essendo per loro la nozione dell’essere  apriori e non posteriori, ma la visione immediata dell’essenza divina[6], cosa che in realtà non è possibile in forza della semplice ragione, ma solo della fede; non della filosofia ma della rivelazione cristiana, trattandosi di un fine soprannaturale superiore al fine naturale dell’intelletto umano[7], un fine infinitamente superiore alla comprensione dell’umana ragione. La loro impostazione, invece, favorisce l’idealismo hegeliano per il quale basta la ragione per conoscere l’essenza di Dio, perché kantianamente Dio è non è altro che un’idea della ragione. E per questo Hegel diceva cha la mente umana, come in ogni suo pensiero pensa l’essere, così sempre pensa Dio.

L’idealismo è un soggettivismo.

Gli idealisti si credono i veri spiritualisti; alcuni addirittura sostengono che non il realismo tomista, ma il kantismo o l’hegelismo o l’heideggerismo sono le filosofie che oggi sono le più adatte ad esprimere il messaggio cristiano. Essi credono che il realismo tomista sia una forma di gnoseologia materialista o quanto meno un pensare ingenuo, che non conosce il sapere critico, ossia quello kantiano, , del barbiere o del pizzicagnolo.

I teologi della liberazione, dal canto loro, credono che sia bene allacciarsi al realismo marxista. Il realismo tomista non è il realismo socialista. Il realismo marxiano è un criptoidealismo hegeliano-fichtiano della produzione del reale nella prassi. La dipendenza della coscienza dalla realtà materiale per Marx non è l’adaequatio intenzionale tomista dell’intellectus alla res materialis sive spiritualis, ma è dipendenza ontologica dello spirito dalla materia.

Il realismo riconosce con l’idealismo l’identità intenzionale in atto del pensiero in atto col pensato in atto, quindi indubbiamente identità intenzionale del pensiero con l’essere nell’atto del pensare, restando però ontologicamente distinto il pensare in potenza dall’ente pensabile non pensato.

Certamente anche per il realista la cosa pensata in quanto pensata è la cosa stessa, come dice Hegel, nell’elemento del pensiero. Altrimenti, addio verità del conoscere, perché, se non ci fosse coincidenza o identità fra il conoscere e il conosciuto, non conoscerei più quella cosa, ma un’altra, scambiando questa per quella, in modo tale che l’errore non sarebbe più accidentale, ma istituzionale.

Oppure ciò che conosco non sarebbe più la cosa, ma solo la mia idea della cosa. In tal senso anche l’idealismo rifiuta questo soggettivismo, rendendosi conto della sua effettiva inammissibilità, che lo stesso Cartesio cercò di superare mediante il ricorso alla veracità divina.

L’idealismo successivo, a partire da Kant, sostituì la veracità divina con quella dell’io penso, che a Cartesio pareva sufficiente. Ma, accortosi Kant delle risorse gnoseologiche dell’io penso in possesso delle idee apriori, ritenne che, tornando contro Cartesio ad ammettere l’esistenza indubitabile delle cose esterne, l’intelletto già da sé potesse raggiungere una conoscenza apriori sia come esplicitazione dei dati immediati della coscienza, sia mediante l’uso delle forme apriori delle cose, che costituiscono i fenomeni.

Ma il soggettivismo è rimasto per il fatto che Kant, con la famosa svolta copernicana, ha portato avanti ol principio del cogito, sicchè ha fondato l’oggettività della conoscenza sull’oggettivazione operata dal soggetto, e non sulla rappresentazione dell’oggetto da parte del soggetto Per questo non è riuscito ad evitare del tutto il soggettivismo così come vi riesce il realismo, per il quale l’oggetto non è l’effetto di una sintesi fra il dato empirico proveniente dalla cosa esterna e la forma apriori dell’intelletto, ma il soggetto accoglie e riproduce nel concetto l’oggetto nella sua integralità, senza che il soggetto abbia alcuna parte nella costituzione dell’oggetto. Questa è la totale assenza di soggettivismo, caratteristica del realismo e della vera oggettività della scienza, ossia del sapere universale e necessario, che non vari a seconda della diversità dei soggetti.

L’idealismo, nonostante la sua volontà di essere scienza, non riesce a liberarsi dal tarlo del soggettivismo, perché esso è già presente nel cogito cartesiano, nel momento in cui Cartesio decide di non farsi guidare dall’esperienza sensibile, ma di fondare la certezza del sapere su di un atto della volontà, consistente nel fatto di costringere il dubitare e divenir certezza.

Infatti non dimentichiamo che quel cogito significa dubito. Ora il dubitare non è un vero pensare. Per questo Cartesio non ha il diritto di dire: io penso. E per questo il ricavare il suo essere dal suo falso pensare è illegittimo. Legittimo sarebbe se, come nel caso di Aristotele, Agostino[8] e Tommaso, si trattasse di un vero pensare col suo oggetto. Ma l‘oggetto dovrebbe essere il pensare alla realtà esterna, cosa che Cartesio si rifiuta di fare, perché dubita della realtà esterna.  Ed è qui una forzatura della volontà per trasformare quel dubito in so. Certamente io so che io sono e se penso, so di essere.

Ma la certezza dell’io sono in Cartesio non è data dal io so, come io, ma dall’io dubito, senza che il dubbio venga risolto, ma è tolto violentemente , non è risolto, Invece sospeso o accantonato dalla volontà, che non ne ha alcun diritto, perché non sta a lei ma all’intelletto togliere i dubbi speculativi. Per questo nel cogito, l’intelletto non è necessitato dall’oggetto, ma la certezza è l’effetto di una forzatura della volontà sull’oggetto, che obbliga l’oggetto ad obbedirle.    

Per Hegel la ragione conosce effettivamente ed esaurientemente la cosa, il reale ontologico, contrariamente a quanto pensava Kant. Solo che non si tratta più della kantiana cosa in sé, ultimo resto di un realismo già messo in crisi da Cartesio.

Gli idealisti manifestano in Hegel l’indirizzo gnostico dell’idealismo. Di recente il Papa – cosa sinora mai avvenuta in tutta la storia del Magistero della Chiesa -  ha vigorosamente condannato lo gnosticismo[9] inteso come soggettivismo assoluto della mente chiusa presuntuosamente nelle proprie idee astratte con la pretesa di una comprensione razionale della totalità della realtà secondo una scienza suprema ed assoluta che scimmiotta il sapere divino.

Come sanno bene gli storici della filosofia e della teologia lo gnosticismo è stato nei primi secoli del cristianesimo un fenomeno spirituale collettivo di vasta portata, che ha cercato di utilizzare la dottrina cristiana come espressione di un’egolatria gnoseologica assoluta.

Lo gnostico ritiene di conoscere Dio meglio di Gesù Cristo. Lo gnostico è attratto dal desiderio di un sapere assoluto dell’Assoluto, che in fin dei conti non è altro che il proprio io. È chiaro che per lo gnostico l’essere si risolve nell’essere-pensato-da-lui. È un perfetto idealista. La sua aspirazione è quella di mostrare di possedere un sapere supremo, tale da attirargli venerazione o addirittura adorazione.

Dio per lo gnostico è ad un tempo il ghnostòn, il Conosciuto da lui, e l’àghnoston per gli altri. Egli si presenta come un mistagogo che giuda alla presa di coscienza del proprio io originario, che da àghnoston diventa ghnostòn. Si tratta di qualcosa di simile alla disciplina yoga.  

Il Sommo Pontefice oppone allo gnosticismo come suo rimedio l’umile riconoscimento delle cose come sono, create da Dio per il nostro bene, il realismo gnoseologico biblico del «primato della realtà sull’idea», il che va detto senza in nulla sminuire la dignità e la potenza del pensiero speculativo, che, però, a detta del Papa, dev’essere animato dall’amore ed orientato al bene del prossimo, senza di che, senza questo aggancio concreto, senza «toccare la carne del fratello», come dice il Pontefice, la speculazione evade dalla realtà per vuote astrazioni, che servono solo ad alimentare la superbia. Lo spirituale decade nel carnale e la carne allontana dallo spirito. Offrire agli altri la verità che salva il corpo e lo spirito è il servizio più prezioso che possiamo offrire al prossimo.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 6 settembre 2022

Davanti al famoso sum cartesiano, gli idealisti si sono ingannati. Non si sono accorti che io, come uomo, posso dire io esisto, non io sono. Solo Dio può dire di Se stesso Io sono (Es 3,14). 

Il sum cartesiano è ambiguo, perché può essere interpretato nei due sensi. 

Ora, mentre nel caso dell’io umano, l’io esisto non ha predicati nominali, l’io sono è seguito da un predicato nominale («io sono un uomo»). Nel caso di Dio, Egli e solo Lui può dire non solo Io esisto, ma anche Io Sono senza predicati. E questo perché? Perché dire io sono senza predicati vuol dire io sono infinitamente ed assolutamente, cosa che conviene solo a Dio, mentre nel caso del mio io, il cui essere è limitato, devo precisare e dire, per esempio, io sono un uomo, in quanto il mio essere è limitato all’esser uomo ed esclude l’esser donna.


Il Sommo Pontefice oppone allo gnosticismo come suo rimedio l’umile riconoscimento delle cose come sono, create da Dio per il nostro bene, il realismo gnoseologico biblico del «primato della realtà sull’idea».

 

 

 

Immagini da Internet:
- Edward Hopper, I nottambuli
- Boscarati Felice, Donna con cesto di fiori e un uomo che l'abbraccia

[1] Critica della ragion pura, op.cit. pp.22-23.

[2] Op.cit., pp.477, 478, 493.

[3] In fondo, tutto il destino dell’uomo si risolve nella scelta di ascoltare o Dio o il demonio. Aut-aut. La prima scelta è effetto del realismo; la seconda, dell’idealismo. Ho trattato di questo argomento nel mio libretto Il progetto del demonio. La prospettiva di Satana e quella di Gesù Cristo, Edizioni Chorabooks, Hong Kong 2021. Nella scelta del cammino da intraprendere l’uomo deve certo compiere un’indagine personale sul senso della propria vita. Da qui nascono le grandi filosofie morali dell’umanità. Ma nella sua coscienza e guardandosi attorno ha anche e soprattutto la possibilità di avvertire due proposte contrarie, due alternative radicali, tra le quali non può restare neutrale né può trovare un accordo: quella di Cristo a quella di Satana. A lui la scelta.

[4] Quella che Teodorico Moretti-Costanzi chiamava la «trascendenza intima».

[5] Itinerario e Riduzione, a cura di Silvana Martignoni, Edizioni Patron, Bologna 1969, pp.105-111.

[6] Quando San Tommaso dice che l’intelletto desidera naturalmente vedere Dio per essere perfettamente felice, è chiaro che si riferisce a un desiderio condizionale, ossia nella supposizione di possedere la fede, perché Tommaso sa benissimo che la visione di Dio è un fatto soprannaturale, effetto della fede e non della semplice ragione. Se no faremmo di Tommaso un hegeliano, il che non dispiace affatto ai cosiddetti «tomisti trascendentali».

[7] Vedi la discussione di questa questione in Henri de Lubac, Le mystère du surnatural, Aubier, Paris 1965.

[8] Il Si fallor, sum di Agostino non è il se dubito, sono di Cartesio, non suppone affatto l’esercizio di un dubbio universale, perché chi sa di sbagliare, pensa, e sa di sbagliare, ma il dubitare non è un vero pensare, è una semplice oscillazione della mente. Per questo, mentre Agostino non ha bisogno di forzare la certezza con un atto di volontà, perché l’intelletto è necessitato dal vero, nel caso di Cartesio, il volere interviene a forzare l’intelletto ad assentire alla proposizione io sono senza che essa sia necessitata da un vero io penso. Se io dubito, non concludo niente. Solo un vero pensare conduce alla autocoscienza. Molti cartesiani hanno inteso il cogito come vero atto del pensare. Ma anche così il cogito non è all’altezza delle sue pretese fondatrici.

[9] Esortazione Apostolica Gaudete et exsultate del 19 marzo 2018.

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