Considerazioni sulla questione della sofferenza - Prima Parte (1/3)

 

Considerazioni sulla questione della sofferenza

Prima Parte (1/3)

Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi

                                                                                                                                     I Pt 2,4

Natura della sofferenza

Il discorso sulla sofferenza è sempre attuale e assorbente. Essa è la compagna di tutti i nostri giorni. Moltissime sono le sue forme e i suoi gradi. Spesso e inaspettatamente la incontriamo senza volerla o desiderarla e a volte ce la procuriamo noi stessi o per la nostra stoltezza o per la nostra distrazione o perché riteniamo che ci sia utile. Di per sé non è mai gradita; il gradirla di per sé è cosa patologica; tuttavia possiamo renderla gradita e possiamo anche amarla: è il paradosso cristiano, che vedremo di spiegare in questo articolo. Spesso riusciamo a sopportarla, a volte riusciamo e toglierla o a diminuirla; a volte non ce la facciamo.

Essa ripugna alla nostra natura. Eppure ci troviamo sempre a combattere contro di essa. Il cristianesimo ci dice che è possibile allontanarla, ma proprio passando attraverso di lei. Vediamo in questo articolo come si risolve questo paradosso. Cominciamo col definire che cosa è la sofferenza. Essa è lo stato emotivo di turbamento di un soggetto senziente, conseguente alla percezione di ciò che per il soggetto è nocivo o male, ossia la mancanza di un bene dovuto.

La sofferenza è uno stato di passività o una passione dell’animale – uomo o bestia - causati da un atto contrario al suo benessere, alla sua salute o vita normale. Soggettivamente è la percezione di una mancanza non voluta di un bene sensibile o spirituale dovuto o ritenuto come dovuto.

La sofferenza è anche il patimento causato dalla percezione di una imperfezione: finché il soggetto non è giunto a perfezione non può essere felice e contento. Sofferenza è quindi anche la percezione di un bisogno insoddisfatto, materiale o spirituale. È la dolorosa coscienza del persistere delle nostre miserie, è la percezione di non essere ancora arrivati alla meta, mentre ciò che ci consola è la speranza di arrivarci ed è la constatazione dei progressi che facciamo sulla via del bene.

Certo è normale essere imperfetti finché siamo nella vita presente, lo sono anche i Santi.  Altrimenti, saremmo già in paradiso. La perfezione di quaggiù, come dice San Paolo, è tendere con tutte le forze alla perfezione:

 «Non che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch'io sono stato conquistato da Cristo» (Fil 3, 12).

Certo, lo sforzo comporta sofferenza, ma si tratta di una felice sofferenza, perché sappiamo che ne vale la pena perché soffriamo per la nostra salvezza. Infelici quelli che si sforzano, faticano, fanno rinunce e soffrono per obbiettivi e mete ingannevoli, illusorie o che lasciano in mano il vuoto o un pugno di mosche o peggio ancora! 

Infelici, quelli che, disperando di arrivare alla perfezione, si crogiolano o se ne stanno comodamente nelle loro imperfezioni, con un malsano fatalismo o tentando di giustificarle o facendone oggetto di un morboso compiacimento, segno di accidia e mancanza di confidenza nell’aiuto divino!

«Cor nostrum - come dice Sant’Agostino - inquietum, donec requiescat in te». Qui abbiamo invece quella «sana inquietudine», della quale ha più volte parlato il Papa, per la quale noi ci sentiamo male lontani da Dio. Infelici coloro che non sentono questa inquietudine benefica e salvifica, che ci conduce a liberarci da ogni sofferenza per una perfetta ed eterna felicità!

Una sofferenza inutile e psichicamente dannosa può nascere da uno sforzo fuori luogo od eccessivo, come è quello che è motivato da un atteggiamento troppo severo e dispotico nei confronti delle proprie passioni o stati emotivi, per esempio di tipo sessuale o di tipo aggressivo. Questa eccessiva durezza con se stessi può nascere da una concezione dualistica del rapporto fra spirito e corpo, per la quale, come già notava Aristotele, si trascura il fatto che l’istinto non è un semplice peso o un oggetto fisico da muovere al cenno della volontà, ma ha una sua autonomia vitale, che chiede di essere governata con rispetto e semmai moderata, ma non ignorata.

Esistono sofferenze psichiche che il soggetto causa a se stesso per un morboso gusto di soffrire o di far soffrire, come l’autolesionismo, il masochismo, l’autorepressione, l’autofrustrazione, il sadismo e il sadomasochismo.

Esempio estremo di un intervento ascetico distruttivo è l’autoevirazione di Origene, evidentemente motivata da una concezione spregiativa della sessualità, di marca platonica, contraria alla visione cristiana, soprattutto se ne consideriamo la prospettiva escatologica. L’apocatastasi origeniana, anche ammessane e non concessa l’ortodossia, è un ritorno ad un corpo asessuato, che nega la resurrezione del corpo femminile e maschile[1].

Inoltre, la sofferenza suppone dal punto di vista ontologico l’ente creato composto di essenza ed essere, potenza ed atto, sostanza e proprietà, per cui una sostanza creata materiale o spirituale può essere privata di un certo suo atto o qualità o bene che le spetta di diritto, per cui nei viventi conoscenti, dall’animale fino all’angelo, la conoscenza di questa privazione è la sofferenza.

Il vivente animale o uomo, come sappiamo bene, può patire persino la privazione della vita: la sua essenza viene privata dell’esistenza e rimane un puro possibile. Indubbiamente il morire non è un soffrire, anche se solitamente è preceduto dalla sofferenza, in quanto processo corruttivo che conduce alla morte. Ma è chiaro, come vedremo meglio più avanti, che Dio, Atto puro di essere senza soggetto potenziale, esente da qualunque passività o recettività, non può essere privato di nulla, e quindi non può soffrire.

La sofferenza dell’animale non è una cosa ingiusta, come potrebbe apparire, ma è una cosa naturale, perché in questo mondo la morte dell’uno dà all’altro la possibilità di vivere. La sofferenza degli animali esisteva quindi già nell’Eden. Essa è certo degna di pietà per l’uomo, il quale quindi ha il preciso dovere di rispettare il mondo animale e di prendersene cura, sia pure per il soddisfacimento dei suoi bisogni alimentari. Questi doveri dell’uomo verso il mondo animale giustificano sia l’esistenza della veterinaria per la cura della loro salute, che dell’arte dell’allevamento per ovviare ai suoi bisogni alimentari[2].

Tornando a parlare del soggetto umano, dobbiamo dire che, tuttavia, per un errore di valutazione o mancanza di saggezza, esso può avvertire come male una pena, fino alla morte stessa, che in casi speciali, non è un vero male, ma anzi qualcosa di nobile, come condizione necessaria per l’acquisto di un bene superiore, per esempio il travaglio del parto, lo sforzo ascetico, la rinuncia a un piacere dannoso, rischiare la vita in guerra per il bene della patria. 

La sofferenza è data dalla percezione di qualcosa di ripugnante alla volontà, che può sorgere dall’interno del soggetto, come la malattia, o può essere imposto da altri, uomo, l’angelo o Dio. È chiaro che se ciò che è imposto è un bene o un dovere, la volontà che lo trova ripugnante è perversa e ribelle. Se invece si tratta di un atto cattivo, che può essere imposto per esempio da un cattivo superiore, allora la ripugnanza è moralmente giustificata e la sofferenza che ne consegue può essere meritoria.

La sofferenza è un moto della passione turbata dalla tristezza per la percezione di uno stato di miseria o di un’offesa o di una sventura subìta o imminente, un peccato o un errore compiuto, o dall’angoscia per la percezione di un male al quale non si riesce a trovare rimedio.

La sofferenza è uno stato psichico contrario alle esigenze della natura e che pertanto suscita il dovere di adottare in chi può tutti quei rimedi che possono consolare e confortare il sofferente. Qui abbiamo il vasto campo delle opere della misericordia corporale e spirituale. Dobbiamo pertanto fare molta attenzione a non essere per gli altri causa di sofferenza, ma al contrario adoperarci con  ogni mezzo lecito per la loro felicità.

Tuttavia l’educatore, la guida spirituale, il maestro, il sacerdote, il superiore possono chiedere ai rispettivi sottoposti sacrificio, obbedienza, sforzo, fatica, rinunce, disciplina, tutte cose legate ad una giustificata sofferenza.

La sofferenza è di per sé odiosa e ripugnante, ma in soggetti psichicamente anormali o vittime di una cattiva formazione morale può essere voluta per se stessa ed essere oggetto di un gusto morboso, eventualmente a causa di idee errate concernenti il sacrificio e la penitenza.

Che cosa succede nella sofferenza spirituale? Esiste una sofferenza della volontà? È l’esperienza del non volere ciò che non possiamo evitare e che è contrario a ciò che vogliamo. Il pentimento, la contrizione, il rimorso di coscienza, l’insulto ricevuto, la fatica di vincere una passione, lo sforzo nel compimento del bene, la volontà insoddisfatta, la tristezza, l’insuccesso, l’orgoglio ferito, la rabbia, l’odio, l’invidia, la disperazione, lo sconforto, l’angoscia, lo spavento, l’orrore, l’esercizio della cattiva volontà, il sentirci in colpa, sono tutte cose che fanno soffrire la nostra volontà. È un fatto innegabile.

La sofferenza spirituale consiste nel fatto che l’intelletto percepisce l’ostilità di una volontà contraria, la quale ferisce con la parola o la condotta. Nel pentimento la volontà, in quanto buona va contro se stessa in quanto cattiva. Nella pena spirituale la volontà è afflitta da una volontà opposta: o umana o angelica o divina. L’afflizione che viene da Dio può essere la prova di fede in questa vita o nell’altra può essere la pena dell’inferno o del purgatorio. Dio, gli uomini buoni e gli angeli affliggono il malvagio. Dio, gli uomini malvagi e i demòni affliggono il giusto.

Una sofferenza tormentosa è il disagio della coscienza che dubita se ha peccato o non ha peccato, teme l’insincerità e il sottile orgoglio nascosto che non vuol riconoscere la colpa (cf Sal 19, 14).  La soluzione inventata da Lutero di tacitare la coscienza quando ci rimprovera, nella fede che comunque Cristo ci salverà, è una soluzione errata, condannata dal Concilio di Trento. Essa non dà vera pace alla coscienza, pace che sorge solo da una riflessione sincera, spesso rimessa in dubbio specialmente negli scrupolosi, ma che è sempre possibile rifare mettendosi nelle mani della misericordia di Dio, ma decisi a far penitenza quando emerge la certezza d’aver peccato.

La violenza è causa di sofferenza per la persona violentata. Violento è, come dice San Tommaso[3], «cuius principium est extra, nihil conferens vim passo», è ciò il cui principio è estraneo al violentato e non gli dà alcuna forza, nessuna voglia di agire. Al contrario, il persuasivo o convincente muove la volontà dandole forza, perchè il soggetto è contento della bontà di ciò che deve fare, anche se gli può costare fatica, rinuncia o sacrificio.

Nel caso della violenza subìta, se l’agente libero agisce, certo lo fa volontariamente, perché la volontà è libera per sua natura e non può essere coatta, e tuttavia  lo fa di malavoglia e con sofferenza, subendo un attentato alla sua libera volontà, senza essere convinto della bontà di ciò che gli le viene imposto e ciò è sorgente di sofferenza per il soggetto, costretto com’è a fare quello che non vorrebbe e non farebbe se fosse libero di fare la sua volontà. Si noti che anche l’atto di obbedienza può far soffrire; ma in tal caso il soggetto obbedisce volentieri, anche se gli costa, perché sa che il comando è buono, data la fiducia che ha nel superiore.

La sofferenza può essere connessa o con uno stato morboso o con un disordine psichico o con la confusione e il rimorso della coscienza colpevole o può essere causata da quel falso e contorto pentimento, che è lo scrupolo, che è quella tormentosa sensazione volontaria o involontaria che nasce dalla percezione di un supposto peccato o peccato apparente e non reale. Lo scrupolo nasce dalla percezione di un male immaginario, che però è comunque causa di sofferenza.

La sofferenza può essere conseguenza dell’amore. Essa può essere la compassione per il misero, il sofferente, il maltrattato, l’emarginato, l’umiliato, il perseguitato, l’incompreso, il disprezzato. Oppure può essere causata dalla gelosia, ossia da quel sentimento di sdegno nel constatare che la persona amata è sedotta da un impostore. Oppure può essere causata dall’amore che proviamo per una persona che si comporta male o che è afflitta da qualche male. Anche l’odio fa soffrire. Ma mentre soffrire per amore è meritorio, è gioia ed è benedizione, soffrire perché si odia, è sciagura, arrovellamento di coscienza, maledizione e dannazione.

La sofferenza è a più titoli connessa con l’odio. La persona che fa soffrire è odiosa e la persona odiosa fa soffrire. L’odiatore è causa di sofferenza alla persona odiata. Come osserva San Tommaso[4], Dio, che infligge le pene e proibisce il peccato, suscita sofferenza e odio nel peccatore attaccato al peccato. Invece la persona timorata di Dio, se s’imbatte nella sventura, certo soffre, ma si guarda bene dall’odiare Dio, perché sa che Dio gliela manda per il suo bene.

Causa di sofferenza spirituale sono gli insulti che ci vengono dal prossimo e dal demonio.  Chi vuol seguire Cristo deve aspettarsi di soffrire quello stesso che egli ha sofferto da parte degli invidiosi, dei mondani, degli increduli, degli stolti. Il demonio ci fa soffrire con le sue malignità, con le sue false accuse, con l’insinuarci falsi sensi di colpa, col mettere in dubbio le nostre certezze, con lo spaventarci provocando in noi il terrore della morte, col farci disperare della salvezza, col convincerci di essere persone spregevoli, col cercare di persuaderci che è stoltezza seguire Cristo, con l’intimidirci davanti agli avversari, col farci credere che gli altri ci disprezzano e con tanti altri insulti che ci feriscono e ci turbano.

L’origine prima della sofferenza, secondo il cristianesimo, è il peccato dell’angelo alle origini della creazione del mondo. Questi nel paradiso terrestre ha istigato a peccare i nostri progenitori, i quali sono stati da Dio puniti in loro stessi e in tutta l’umanità che da essi avrebbe tratto origine con la cacciata dal paradiso terrestre, la perdita dei doni preternaturali della familiarità con Dio, dell’immortalità, del dominio sull’universo fisico, nonché della scienza di tutto il creato ed inoltre con la perdita dell’innocenza e della giustizia, della perfezione fisica e spirituale, della piena funzionalità dell’intelletto e della volontà, della comunione uomo-donna e della piena comunione sociale, del pieno dominio sulle passioni e del rapporto sereno e costruttivo con la natura.

In tal modo la natura è diventata sorgente di sofferenza per l’uomo, in quanto contrasta con i suoi bisogni di benessere fisico e le condizioni della sua stessa esistenza fisica. Questa ostilità della natura nei confronti dell’uomo, secondo la fede cristiana, si configura come sanzione divina per la colpa del peccato originale ed è incrementata dalle violenze perpetrate dall’uomo sulla natura o dall’uso umano sconsiderato dei beni naturali.

Sorgente di sofferenza sono le disfunzioni o carenze della vita umana fisica, con la compromissione o perdita parziale o totale della salute fisica a causa o di traumi o di malattie. La sofferenza è il segnale che nell’organismo è in atto una disfunzione, un disordine, una carenza o un processo degenerativo.

L’organismo umano, benché animato da un’anima immortale, è soggetto alla sofferenza e alla morte per il fatto di essere composto da elementi chimici di per sé fatti per un’esistenza autonoma, indipendente dal servizio da essi prestato all’organismo in forza dell’energia vitale ricevuta dall’anima.

Questa privazione può affettare la volontà o la sensibilità. Se affetta la volontà in quanto si tratta di una volontà malvagia, che si trova in uno stato di peccato, abbiamo il male di colpa. Se affetta la volontà in quanto contrariata da qualche male proprio od altrui, del quale il soggetto ha notizia, abbiamo la sofferenza spirituale, la pena dello spirito. Se affetta la sensibilità, abbiamo la sofferenza fisica o psichica, che è male di pena. Solo il vivente senziente o intelligente può soffrire perché il soffrire suppone la coscienza di essere colpiti dal male o di aver fatto il male.

Le forme della sofferenza

La sofferenza è un fenomeno vitale dalla portata vastissima, che coinvolge il piano della vita animale, umana ed angelica, per il fatto che la sofferenza è essenzialmente legata al fenomeno della conoscenza e dell’appetitività, che sono potenze del vivente conoscente, perché la sofferenza è tale in quanto percepita dal conoscente. Non si può dire propriamente, se non in senso traslato, che soffrano gli enti inferiori non conoscenti, dalle piante ai minerali. Così per esempio i medici parlano di «sofferenza cerebrale» o di sofferenza delle piante colpite da agenti distruttivi.

Ma mentre il rimedio a queste cosiddette sofferenze, che sarebbe meglio chiamare disfunzioni consiste semplicemente nella somministrazione di opportuni agenti chimici o fattori ambientali, la sofferenza vera e propria si toglie attivando le forze conoscitivo-appetitive del soggetto aiutate certo anch’esse da stimolazioni provenienti da sostegni o fattori esterni capaci di ritrovare, confortare, rigenerare, recuperare, ricostituire, ristabilire, restaurare, guarire, correggere, riformare le forze indebolite, decadute, distrutte, deviate, corrotte, ammalate, traumatizzate.

La sofferenza è fisica, quando soffre il corpo; è psichica quando soffre l’emotività; è spirituale quando a soffrire è lo spirito contrariato da un fatto o fisico o spirituale che gli arreca dispiacere.

La sofferenza fisica o della sensibilità è comunemente chiamata «dolore» e fa riferimento ad una carenza o disordine o una disfunzione o una deformazione che riguarda l’organismo vivente. La cura della sofferenza fisica è data dall’arte medica. La sofferenza psichica è il disagio o malessere o turbamento dello stato passionale o emotivo dell’anima, basato sulla percezione di questo turbamento. La cura della sofferenza psichica, che è studiata dalla psicopatologia, è ufficio della psichiatria. Oggetto della psichiatria è il patologico.

La salute mentale e la demenza sono espressioni che, facendo riferimento alla mens, alla mente, si adatterebbero di per sé più alla vita spirituale. Ma ormai per convenzione linguistica consolidata si riferiscono alla salute e alla malattia psichiche. I termini pazzia e follìa si riferiscono immediatamente alla psiche, ma possono essere riferiti anche allo spirito. Chiamiamo «matto» non solo chi è malato psichicamente, ma anche la persona balorda, strana, bizzarra, irragionevole e che dice cose assurde o senza senso. È chiaro che i dementi, gli psicopatici, i dementi o malati di mente, i pazzi e i matti soffrono ed hanno bisogno di cura.

Un soggetto psicologicamente normale non è con ciò stesso un soggetto moralmente sano o virtuoso. È possibile infatti la virtù e la santità anche in soggetti con difetti psichici, ovviamente non troppo gravi, così da impedire l’esercizio delle facoltà spirituali.

Secondo la fede cristiana, il soggetto moralmente malsano è colui che commette il peccato, il quale è atto consapevole e responsabile della cattiva volontà disobbediente alla legge divina, atto che ha per effetto come castigo la morte, ossia la perdita dolorosa umanamente irreparabile della grazia divina e del vivere normale del soggetto, vivere normale secondo la legge di Dio, cosa che viceversa è fonte della vita, del piacere e della gioia del soggetto.

Causa della sofferenza può essere la giusta pena del peccato causato da cattiva volontà o da un disordine psichico presente nel soggetto. Tutti noi soffriamo nei modi e nei gradi più diversi per le conseguenze del peccato originale, dei nostri peccati, uomini giusti e ingiusti, innocenti o colpevoli.

E in questa vita, sempre come conseguenza del disordine introdotto dal peccato originale, non è giusta la distribuzione delle pene e dei premi, perchè c’è chi soffre ed è innocente e c’è il malfattore che è impunito. Alla giustizia divina va il compito di rimediare ai difetti della giustizia umana: far giustizia per chi non l’ha avuta e punire chi era rimasto impunito.

Tuttavia Dio stimola tutti alla penitenza, e garantisce a tutti in Cristo la possibilità di salvarsi perché a tutti vuol fare misericordia. Solo coloro che nella loro superbia non vogliono pentirsi, sono oggetto non della misericordia, ma della giustizia.

La sofferenza in quanto processo degenerativo di corruzione di per sé non tende ad un fine, ma si allontana dal fine del vivente che viceversa è il godere di buona salute. Infatti, il fine del vivente è lo star bene, mentre la sofferenza è uno star male. Tuttavia una cattiva volontà può procurarla agli altri o a se stessi per un fine perverso. È questa la crudeltà.

Il soffrire ripugna naturalmente alla volontà. La sofferenza è naturalmente odiosa, per cui è nostro dovere respingerla, alleviarla e toglierla in noi e negli altri  per quanto ci è possibile e solo con mezzi onesti. Quella virtù che sopporta la sofferenza inguaribile è la pazienza. L’arte medica è al servizio della misericordia nel soccorrere i malati e i sofferenti. 

Le opere della misericordia spirituale curano e guariscono i malati nello spirito, sollevano i sofferenti nello spirito e liberando le anime dal peso della colpa assicurano la pace e la gioia dello spirito. Questi misericordiosi, mentre hanno comprensione per i fragili e i deboli, incoraggiano i pusillanimi ad affrontare coraggiosamente e generosamente la sofferenza e ad offrirsi in sacrificio espiatorio sull’esempio di Cristo per far trionfare lo spirito sulla carne, anzi per pregustare fin da adesso le primizie dello Spirito e la riconciliazione dello spirito con la carne della futura resurrezione, per sostituire l’uomo nuovo all’uomo vecchio, imitando Cristo nel dono di se stessi al Padre per la salvezza propria e dei fratelli e la gloria di Dio

In quanto conseguenza dell’esercizio ascetico o dell’assoggettarsi consensuale a una giusta pena, scopo della sofferenza può essere la purificazione del soggetto o l’espiazione della colpa o l’acquisto della virtù.

La sofferenza può essere un peso psichico opprimente o una ferita psichica, che deprime o al contrario genera un’euforia delirante, una forza psicoemotiva, che dissesta il tono e il funzionamento normale della vita psichica, così da indebolirne l’azione e l’energia o al contrario, di esaltarne la forza in modo incontrollato.

Esiste peraltro sofferenza propria di disturbi psichici legati alla stanchezza, alla noia, alla nausea, al fastidio, all’affaticamento, agli stati depressivi o di abbattimento, all’anoressia, all’abulìa, all’esaurimento nervoso, all’isteria, alla paranoia, alla nevrosi e alla schizofrenia.

La sofferenza infernale che la Scrittura presenta con l’immagine del  «fuoco eterno» non esclude la perversa soddisfazione del dannato che ha ottenuto ciò che ha voluto, ossia la lontananza da Dio nel fare la propria volontà. Certamente al dannato naturalmente ripugna il patire la pena infernale, ma ciononostante gode del piacere perverso di aver ottenuto ciò che ha voluto. E per questo Nietzsche parlava di un «danzare all’inferno»[5].

Fine Prima Parte (1/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 12 aprile 2023

«Cor nostrum - come dice Sant’Agostino - inquietum, donec requiescat in te». Qui abbiamo quella «sana inquietudine», della quale ha più volte parlato il Papa, per la quale noi ci sentiamo male lontani da Dio. Infelici coloro che non sentono questa inquietudine benefica e salvifica, che ci conduce a liberarci da ogni sofferenza per una perfetta ed eterna felicità!

Una sofferenza inutile e psichicamente dannosa può nascere da uno sforzo fuori luogo od eccessivo, come è quello che è motivato da un atteggiamento troppo severo e dispotico nei confronti delle proprie passioni o stati emotivi, per esempio di tipo sessuale o di tipo aggressivo. Questa eccessiva durezza con se stessi può nascere da una concezione dualistica del rapporto fra spirito e corpo, per la quale, come già notava Aristotele, si trascura il fatto che l’istinto non è un semplice peso o un oggetto fisico da muovere al cenno della volontà, ma ha una sua autonomia vitale, che chiede di essere governata con rispetto e semmai moderata, ma non ignorata.

La sofferenza suppone dal punto di vista ontologico l’ente creato composto di essenza ed essere, potenza ed atto, sostanza e proprietà, per cui una sostanza creata materiale o spirituale può essere privata di un certo suo atto o qualità o bene che le spetta di diritto, per cui nei viventi conoscenti, dall’animale fino all’angelo, la conoscenza di questa privazione è la sofferenza.

L’origine prima della sofferenza, secondo il cristianesimo, è il peccato dell’angelo alle origini della creazione del mondo. Questi nel paradiso terrestre ha istigato a peccare i nostri progenitori, i quali sono stati da Dio puniti in loro stessi e in tutta l’umanità che da essi avrebbe tratto origine con la cacciata dal paradiso terrestre, la perdita dei doni preternaturali della familiarità con Dio, dell’immortalità, del dominio sull’universo fisico, nonché della scienza di tutto il creato ed inoltre con la perdita dell’innocenza e della giustizia, della perfezione fisica e spirituale, della piena funzionalità dell’intelletto e della volontà, della comunione uomo-donna e della piena comunione sociale, del pieno dominio sulle passioni e del rapporto sereno e costruttivo con la natura.

Immagini da Internet: Adamo ed Eva rimproverati da Dio:
- Francesco Furini
- Tintoretto
- Rubens

[1] Cf i miei studi LA CONDIZIONE DELLA SESSUALITA’ UMANA NELLA RESURREZIONE SECONDO San TOMMASO, Sacra Doctrina, 92, 1980, pp.21-146; LA RESURREZIONE DELLA SESSUALITA’ SECONDO San TOMMASO, in Atti dell’VII Congresso Tomistico Internazionale a cura della Pontificia Accademia di San Tommaso, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1982, pp. 207-219.

[2] Sulla sofferenza degli animali, vedi Charles Journet, Il male, Edizioni Borla, Torino 1963, pp.157-164.

[3] Commento alla Fisica di Aristotele, libro V, c.6, n.740, Marietti, Torino 1954, p.365.

[4] Sum. Theol., II-II, q.34, a.1.

[5] Is 66,24; Gd 7; Mt 3,12; 25,41; Mc 9,48; Ap 20,10.

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