La questione del desiderio di vedere Dio e la potenza obbedienziale. Un testo di Tomas Tyn.


La questione del desiderio di vedere Dio
e la potenza obbedienziale
Un testo di Tomas Tyn

Mia introduzione

Si può dire che l’istanza di fondo della Sacra Scrittura è il desiderio di vedere il volto di Dio, di vederlo «faccia o faccia», «così com’è» (I Gv 3,2). «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così la mia anima anela a Te, o Dio» (Sal 42,2). «Inquietum cor nostrum – diceva S.Agostino – donec requiescat in Te».

Oggi invece gli spiriti sembrano per lo più divisi tra due opposti estremismi: tra il fideismo misericordista di coloro che, convinti di sperimentare Dio in modo ineffabile già da sempre nell’intimo della propria coscienza, non hanno altro interesse nei confronti di Dio che sperimentare la sua misericordia.

 Questi sono coloro che, come i rahneriani, concepiscono il rapporto soprannaturale dell’uomo con Dio come infrangibile, perché concepiscono l’uomo stesso come relazione e tensione permanente, attuale e attiva  («autotrascendenza») a Dio. Per cui un uomo che non si relazionasse con Dio, non sarebbe più un uomo.

Qui però Dio non è affatto oggetto di una scelta del libero arbitrio, ma non è altro che il vertice ed «orizzonte» sommo e necessario dell’essenza dell’uomo come «apertura infinita all’essere». Pertanto nessuno mai sceglie contro Dio. Dio è oggetto di un’«opzione fondamentale», che coincide con la stessa essenza dell’uomo. È come dire che il peccato non esiste.  E a chi obbietta che allora l’ateo non è un uomo, Rahner risponde rifacendosi alla sua fittizia distinzione fra teismo trascendentale e teismo categoriale, per cui uno resta teista in senso trascendentale, anche se è ateo a livello categoriale.

Capita altresì che vi siano alcuni, i quali ci assicurano di sperimentare misticamente questo essere di Dio in noi in maniera così profonda e sublime, che si vantano di possedere una sapienza esoterica, suprema ed apofatica – alcuni dicono una «gnosi» - coincidente con la stessa scienza divina, effetto di un’iniziazione anagogica[1]. Sono quelli che Papa Francesco ha bollato come «gnostici», e che Pio XII nell’enciclica Humani generis chiamò «idealisti», «immanentisti» e «panteisti».

Ma la Scrittura evidenzia non solo il desiderio di vedere Dio. L’uomo non ha solo un bisogno di conoscenza, ma anche un bisogno di amore. La conoscenza spinge all’amore, all’unione con l’amato, al possesso ed alla fruizione dell’amato. Dio non è desiderato solo sotto la categoria del Verum, ma anche sotto quella del Bonum. Come è un dovere riconoscere in Lui la prima Verità, così è dovere amarLo sopra tutte le cose.

E se è vero che la beatitudine consiste nella visione immediata dell’essenza divina, verità che Papa Benedetto XII nel 1334 definì addirittura come dogma di fede[2], a nessuno è proibito accentuare l’aspetto affettivo della beatitudine, come ha fatto di recente Papa Francesco, definendo l’incontro finale con Dio un «abbraccio», quasi ad allacciarsi alla parabola del ritorno del figliol prodigo, a lui molto cara.

E se questo incontro con Dio dev’esser caratterizzato dall’intimità, vale a rappresentarlo, più che l’intimità del figlio col padre, quella dell’uomo con la donna. Il che spiega la presenza nella Bibbia del Cantico dei Cantici, e il paragone paolino dell’amore sposo-sposa con quello tra Cristo e la Chiesa. Così la carne e lo spirito, apparentemente così lontani e addirittura contrastanti nello stato di natura decaduta, nel quadro della natura redenta incoativamente e in quello della natura risorta pienamente, rivelano la loro stretta parentela ed armonia al di là di ogni puritanesimo, ma anche di ogni epicureismo, perché entrambi creati dall’unico Dio Spirito, che non sa creare altro che valori tra loro convergenti e reciprocamente complementari.
 
Sul versante opposto troviamo gli atei e gli agnostici, ai quali Dio non interessa o non sanno se ci sia o non ci sia, perché o dubitano che esista o si dicono convinti che non esista e, per conseguenza, pensano di poter benissimo regolare la propria condotta  morale senza bisogno di ricevere ordini, magari per mezzo del Papa o di una cosiddetta «legge naturale», da un Dio che dal cielo dica loro che cosa devono fare. Se infatti così fosse, essi sentirebbero come conculcata la loro libertà.

E così per loro la natura umana non è un’entità predeterminata e fissa, creata da Dio, precedente la loro libertà, ma è il risultato della precedente evoluzione cosmica, liberamente da loro plasmabile, sì da poter essere indefinitamente mutata ed illimitatamente perfettibile dall’ingegno umano, così da poter raggiungere adesso o in futuro quella dignità, scienza e potenza, che la religione assegna alla divinità.

Per trattare convenientemente del nostro argomento, ossia il desiderio di vedere Dio, occorre distinguere i cinque stati della natura umana, che si succedono nella storia della salvezza: 1.lo stato edenico; 2.lo stato della pura natura con le sue proprie forze; 3. lo stato della natura corrotta; 4. lo stato di natura redenta;  e 5. lo stato di natura gloriosa o risorta.

Il primo stato, detto anche stato d’innocenza, era quello dei nostri progenitori nell’Eden prima del peccato. Alla pura natura si aggiungevano i doni preternaturali: pieno dominio della volontà sulle passioni, perfezione in tutte le virtù, escluse le teologali, che ancora non esistevano, la scienza naturale e teologica, la comunione fra uomo e donna, il dominio sulla natura, la bellezza, la perfetta funzionalità fisica, l’impassibilità, l’immortalità e l’amicizia col Dio Uno (il mistero trinitario era ancora ignoto).

Il secondo stato è quello della pura natura considerata in se stessa e lasciata a se stessa. In questo stato la natura è inclinata verso Dio, desidera conoscerlo e Lo ama al di sopra di tutte le cose, come causa e fine dell’universo. Di fatto, però, questo stato non è mai esistito, perché Dio volle che nell’Eden la natura fosse adorna dei suddetti doni, che l’uomo perse col peccato, oltre al fatto che la natura restò ferita e inclinata al peccato.

Il terzo stato è appunto questo della natura decaduta, castigata e quindi privata di quei doni, inclinata al peccato e a rifiutare Dio come Signore e Legislatore dell’uomo. Il suo destino con la morte sono gli inferi (sceòl). In queste condizioni la natura non ha alcun desiderio di vedere Dio, ma solo di fare la propria volontà. Amor sui, come dice S.Agostino, usque ad contemptum Dei.

Nel quarto stato, che è quello che viviamo adesso, la natura ferita e decaduta è, per chi l’accetta in età di ragione, illuminata dalla fede, guarita dalla grazia sanante ed elevata dalla grazia della figliolanza divina.  E chi invece non è in età di ragione, viene illuminato e salvato senza che occorra l’esercizio della ragione.

La ripugnanza a cercare Dio è vinta e corretta dall’influsso della grazia, che propone all’uomo in Cristo una più elevata ricerca di Dio: non più solo quel desiderio dell’unione naturale con Dio o del possesso di Dio come sommo Bene, la Cui esistenza è dimostrata dalla ragione, che applica il principio di causalità.

 In questo stato l’uomo, sperimentando le cose sensibili e se stesso, giunge naturalmente a riconoscere l’esistenza di Dio come loro causa e loro fine. Tuttavia, la sua inclinazione al peccato, la concupiscenza, le sue debolezze, le seduzioni della carne, del mondo e di Satana tendono a distoglierlo non solo dal desiderio di vedere Dio, ma anche dal fare attenzione alla stessa esistenza di Dio, che tuttavia  non può essergli ignota, perché un giorno a Lui dovrà render conto del suo operato.

L’ateismo, quindi, non è l’ignorare senza colpa che Dio esiste, come io posso non sapere quante sono le isole dell’arcipelago delle Filippine; non è dovuto ad un errore nel ragionamento, e neanche ad una mancanza di intelligenza. È dovuto al fatto che l’uomo volontariamente distoglie lo sguardo da Lui. È dovuto a una mancanza di umiltà.

L’ateo preferisce imporsi con l’azione, piuttosto che sottostare alla verità. Ci può essere però uno pseudoateismo, che consiste, come dice il n.16 della Lumen Gentium, nel fatto che la mente non è giunta ad un conoscenza esplicita dell’esistenza di Dio; oppure il soggetto ha, senza colpa, un concetto errato di Dio, come per esempio un Dio che soffre o che muta.

È vero che la Scrittura giudica come «stolto» chi nega l’esistenza di Dio. Quindi vuol dire che è uno che ragiona male, eventualmente perchè ingannato da false filosofie. Tuttavia, come afferma la stessa Scrittura (cf Mt 25, 31-46), tutti devono rispondere del loro operato davanti a Lui. Il che vuol dire che tutti sanno, esplicitamente o implicitamente, consciamente o inconsciamente, che Dio esiste.

Conscio razionalmente dell’esistenza di Dio, l’uomo, che, anche nello stato di natura decaduta, cerca il vero ed ama il bene, non può non desiderare di conoscerLo ed amarLo al di sopra di tutte le cose. Ma che cosa desidera l’uomo naturalmente? Che cosa lo renderebbe felice? Conoscere l’essenza di Dio. Ma come? Questa essenza è infinita, mentre la nostra ragione è finita.
 
D’altra parte, l’uomo riceve da Cristo la proposta e la possibilità concreta di conoscere per rivelazione e per grazia l’essenza divina del Dio in Tre Persone: la visione beatifica. A questo punto può nascere nell’uomo il desiderio della visione beatifica. Desiderio soprannaturale di un fine soprannaturale. La questione trattata da Padre Tomas gira attorno a questi punti.
   
Mi pare fosse opportuno evidenziare questo contesto nel quale si inserisce la questione trattata da Padre Tyn, al fine di poterla vedere sì nella sua importanza, ma anche nei suoi confini, trattando essa solo uno dei modi – quello intellettuale - con i quali lo spirito umano si rapporta con Dio, essendo l’altro la volontà.

Testo di Tomas Tyn[3]

Il desiderio naturale di vedere l’essenza di Dio
 e la potenza obbedienziale.[4]

            I limiti della distinzione (non di separazione estrinseca) tra natura e grazia possono essere cancellati indebitamente non solo negandoli, ma scompaiono anche quando si ordina la natura in un modo incondizionato, attivo ed efficace al fine soprannaturale. In tal modo, infatti, la consecuzione del fine soprannaturale con gli aiuti divini gratuiti che dispongono al raggiungimento di esso, risulta in qualche modo dovuta alla natura stessa.
         L’ordine ad un fine che non si raggiunge mai, supponendo che sia attivo ed incondizionato, è vano e così o si ammette che la natura contiene delle potenzialità vane, o si deve concludere che la consecuzione del fine è dovuta alla natura e in quest’ultima ipotesi, pur riservando a Dio il privilegio unico di conferire la grazia, lo si “costringe” in qualche modo a conferirla di fatto. Se infatti non la conferisse, frustrerebbe sul piano di grazia un desiderio che Lui stesso ha dato alla natura razionale nella creazione e a nessuno sfugge come quest’ultima conclusione deroga alla bontà e alla veracità di Dio.
         D’altra parte sarebbe contrario all’esperienza comune voler negare un desiderio dell’uomo di entrare in qualche modo in comunione con Dio, di avvicinarlo sempre di più, di conoscerlo e di amarlo. Questa tendenza non si ferma alla conoscenza di Dio dagli effetti creati, ma al contrario ha proprio lì la sua origine. Contemplando l’ordine del’universo, la contingenza delle cose create e la serie causale da cui dipendono, si arriva con la sola ragione naturale a dover ammettere l’esistenza di Dio (e anche in coloro che non ci arrivano esplicitamente esiste qualche nozione confusa di un Essere supremo, anche se poi viene identificato con altri beni concreti), ma vedendo la necessità dell’esistenza di una causa di cui si ignora l’essenza, subito sorge l’ammirazione e il desiderio di conoscere anche la natura precisa della causa in questione.
        Si può perciò dire con San Tommaso che l’uomo, ed ogni creatura razionale in genere, ha un “desiderio naturale” di conoscere l’essenza di Dio. Ed è proprio in questo che sta l’ultimo fine e l’ultima beatitudine dell’uomo. Essendo perfetta la felicità ultima, deve consistere nell’operazione più nobile dell’essere razionale circa il suo oggetto più nobile che è Dio e nel modo più perfetto e questo è appunto la conoscenza intellettiva di Dio immediatamente nella sua stessa essenza.
         D’altra parte, però, una tale conoscenza è strettamente soprannaturale, superando la capacità di ogni intelletto creato. La conclusione che si impone a questo punto sarebbe quella di dire che l’uomo desidera naturalmente un fine strettamente sopranaturale[5]. Ma allora ritorna con tutta la sua importanza capitale il problema della gratuità della grazia soprannaturale, sempre ammettendo che né Dio né la natura fanno qualcosa invano e che per conseguenza l’ordine al fine non può essere tale da escludere il raggiungimento del medesimo.
Il problema si risolve solo determinando bene in che modo il desiderio naturale riguarda il fine ultimo soprannaturale e in che modo l’uomo è in potenza a raggiungerlo. L’esperienza infatti insegna la tendenza della volontà al bene oltre ogni limite, così da poter “riposare” (quiescere) solo nel bene infinito e completamente perfetto, ma allo stesso tempo la fede esige una netta distinzione tra l’ordine naturale e quello soprannaturale per salvaguardare attentamente e conseguentemente la gratuità di quest’ultimo rispetto al primo.[6]    
Anche San Tommaso è esplicito nell’insistere sulla gratuità della grazia. Così, parlando della stessa giustificazione, ne sottolinea la totale gratuità spiegando in che modo si può trattare della più grande opera di Dio e di un’opera miracolosa.[7]  Per quanto riguarda la prima questione, distingue diversi modi di considerare la grandezza di un’opera. Da parte del modo di agire o da parte del termine ad quem. Sotto il primo aspetto la creazione è più grande perché è senza supposizione di un soggetto preesistente; sotto il secondo aspetto invece la glorificazione è la più grande opera di Dio perché la gloria è il bene ultimo e più perfetto della creatura razionale.
Ma lo stesso termine di un’opera si può considerare o assolutamente o secondo la proporzione al soggetto. Secondo il primo criterio la gloria supera la grazia in quanto la stessa grazia è in qualche modo in potenza rispetto alla gloria, ma  rispetto alla proporzione tra soggetto e il termine dell’azione in lui compiuta, la grazia supera la creazione, in quanto la creazione termina alla natura, mentre la giustificazione termina alla grazia e supera anche la glorificazione in quanto la grazia giustificante è meno dovuta al peccatore che la gloria all’uomo giusto che già possiede la grazia di Cristo.
La distinzione tra natura e grazia appare nettamente nel paragone tra giustificazione e creazione ex parte termini e secundum proportionem ad subiectum. Il termine della creazione è la natura che, supposta la creazione, è dovuta al soggetto; il termine della giustificazione è la grazia, che supera il bene naturale e non è dovuta al soggetto naturale.
Per quanto riguarda la seconda questione San Tommaso dice che il miracolo si può considerare sia dalla parte dell’agente sia dalla parte del soggetto, sia infine secondo il modo di agire. Così la giustificazione è sempre “miracolosa” secondo il primo modo, perché solo Dio ne è l’autore e così appare nettamente il suo carattere soprannaturale, gratuito, non dovuto; non è invece miracolosa secondo il secondo modo perché il soggetto umano è capace di Dio in quanto è fatto a sua immagine; secondo il terzo aspetto finalmente talvolta può essere miracolosa (come ad es. nella conversione istantanea di S. Paolo), ma generalmente non lo è. In qualche modo San Tommaso sembra voler dire che l’origine della giustificazione (principio attivo) è sempre soprannaturale e gratuito, invece la sua presenza nel soggetto recipiente (principio passivo) è in corrispondenza con la natura del soggetto stesso (natura razionale, creata ad immagine di Dio secondo una somiglianza formale e per conseguenza “capace di Dio”), cosicchè la perfezione aggiunta al soggetto lo modifica accidentalmente, ma non lo distrugge. Quest’ultima distinzione tra capacità passivo-attiva e puramente passiva, positiva e negativa, naturale e obbedienziale, sarà fondamentale anche per la soluzione del problema del “desiderio naturale”.[8]
            San Tommaso usa il termine dell’anima razionale “capace di Dio”. Ora la capacità indica un atteggiamento passivo e se viene intesa così le parole di San Tommaso non costituiscono una difficoltà. Sarebbe invece molto problematico voler fare di questa “capacità” una potenza in qualche modo attiva, ordinata ad un atto. Così si dovrebbe ridurre la grazia ad un’esigenza della natura. Ma San Tommaso è assai chiaro.
            L’esempio che porta non lascia dubbi. Cita infatti come esempio di un miracolo in rapporto al suo soggetto la risurrezione (non gloriosa) di un morto. In questo caso il soggetto (cadavere) non è ordinato potenzialmente all’atto della vita naturale, mentre nella giustificazione l’anima è potenzialmente ordinata a ricevere la grazia giustificante. Di quale potenza si tratta? La risposta sembra dover inclinare verso la potenza puramente passiva (di non-contradditorietà).
            Infatti la forma cadaverica è in contraddizione con la forma sostanziale dell’uomo vivente, che è l’anima e quindi, per risuscitare un morto alla vita naturale, bisogna prima cambiare la sostanza del soggetto (distruggendo la sua forma precedente) per imprimervi la nuova forma sostanziale.
            Nell’anima invece non è necessario mutare la sua sostanza per infondervi la grazia giustificante, in quanto quest’ultima è accidentale e lascia per conseguenza intatta la sostanza del suo soggetto. L’anima, secondo questo esempio, è suscettibile della giustizia soprannaturale, perché non è in contraddizione con essa, non perché è ordinata ad essa come una potenza naturale positiva sia passiva che attiva.
            In un altro luogo[9] San Tommaso usa l’esempio dell’infusione dell’anima razionale nel corpo. Il corpo è naturalmente ordinato a ricevere l’anima, ma questa non è tratta dalla sua potenza, bensì creata immediatamente da Dio ed infusa; così l’anima è (passivamente) ordinata a ricevere la giustizia soprannaturale, ma questa può venire solo immediatamente da Dio. Per questo la giustificazione non è miracolosa, come non lo è nemmeno l’infusione dell’anima nel corpo umano.
            Servendosi di questo esempio, San Tommaso sottolinea la capacità del corpo di ricevere l’anima paragonandola alla capacità dell’anima di ricevere la grazia giustificante, in quanto in entrambi i casi la forma non è tratta dalla potenza del soggetto, ma vi è anche una differenza: mentre l’anima è in qualche modo dovuta al corpo umano, la grazia non è dovuta all’anima.
            Il GAETANO[10] avverte il senso diverso in cui San Tommaso parla del “naturale” anche nell’opera della giustificazione e spiega come si deve evitare di pensare ad un “trarre la grazia dalla potenza dell’anima”. La grazia sarebbe naturale dalla parte del soggetto in quanto l’anima elicita naturalmente l’atto del libero arbitrio, che costituisce l’ultima disposizione alla grazia abituale, ma questo stesso atto è già mosso da Dio per mezzo della grazia attuale, la quale è strettamente soprannaturale e in nessun modo proviene dall’anima stessa.
            La potenza naturale dell’anima non è quella che riguarderebbe la grazia, ma quella intesa rispetto all’atto del libero arbitrio disponente alla grazia abituale e mosso dalla grazia attuale; la sua potenza rispetto alla grazia è invece puramente passiva e obbedienziale (il GAETANO la chiama anche semplicemente “potentia supernaturalis”).
            Se si vuole mantenere conseguentemente la distinzione della natura dalla grazia, bisogna postulare non solo un’ipotetica (e non reale) “natura pura”, ma anche, in quanto la natura è ordinata a Dio come al suo fine, un’altrettanto ipotetica finalità naturale, che riguarda Dio come autore della natura: una considerazione formalmente distinta da quella di Dio come autore della grazia.
            Il GAETANO[11] parla della distinzione di questa duplice finalità riferendosi alla soggezione (“subiectio”) dell’uomo rispetto a Dio, che può essere considerata o simpliciter o secundum quid. Se la natura umana non fosse elevata al fine ultimo soprannaturale (e questa ipotesi è del tutto legittima, data la gratuità di una tale elevazione), allora essere soggetto a Dio come autore della natura coinciderebbe con essergli soggetto semplicemente. Di fatto però l’uomo è stato ordinato al fine soprannaturale e perciò essere soggetti a Dio come autore della grazia è essergli soggetti simpliciter; invece essergli soggetti in quanto è autore della natura è una soggezione secundum quid. Nello stato di natura decaduta il duplice modo di essere soggetti a Dio coincide e quindi la soggezione per grazia si richiede anche in vista della soggezione per natura.
In uno stato di natura integra ante lapsum, ma non elevata al file ultimo soprannaturale, vi poteva essere una soggezione perfetta della natura senza la soggezione analoga nell’ordine soprannaturale della grazia e così quest’ultima è gratuita rispetto alla prima e si distingue da essa. Di fatto però coincidono nell’economia attuale di salvezza, distinguendosi solo come due formalità diverse: l’ordine della grazia supera quindi quello della natura, lo coinvolge, ma gli lascia una certa autonomia.
 Anche qui si può parlare di una subordinazione “analogica”, in quanto non c’è né assenza di ordine  (equivocazione) nè un ordine di riduzione assoluta di un principio all’altro (univocità). RAMIREZ[12] sostiene una dottrina simile insegnando che Dio è la beatitudine oggettiva dell’uomo e naturale e soprannaturale e le due “beatitudini” convengono così nel loro oggetto materiale (Dio uno), ma differiscono secondo il genere o secondo l’ordine, non solo come beatitudini formali, ma anche come beatitudini oggettive e cioè non solo per quanto riguarda i principi per mezzo dei quali si raggiunge la beatitudine, ma anche secondo una diversa considerazione dell’oggetto beatificante.
 Nel presente ordine della salvezza i due oggetti formali coincidono in quanto Dio è la beatitudine oggettiva  naturale dell’uomo in obliquo[13] (come causa prima e fine ultimo naturale) e soprannaturale in recto  (secondo la ragione formale della deità). Così si distingue anche la teodicea o teologia naturale dalla teologia rivelata intesa come sacra doctrina in sensu stricto.
            La distinzione tra natura e grazia è saldamente fondata nell’insegnamento di San Tommaso  stesso. A proposito della beatitudine egli distingue chiaramente tra la beatitudine naturale e quella soprannaturale. La beatitudine è infatti l’ultima perfezione della natura razionale ed è naturalmente desiderata perché ogni cosa desidera naturalmente la sua perfezione. Ma l’ultima perfezione della natura razionale è duplice: quella raggiungibile dalle forze naturali, conosciuta già da Aristotele e identificata con la contemplazione più perfetta possibile (nell’ordine della natura) di Dio.
            San Tommaso dice che la beatitudine naturale “quodammodo” si chiama felicità (il Gaetano parlava della beatitudine secundum quid e il Ramirez del fine ultimo in obliquo). Vi è poi un’altra beatitudine, superiore rispetto a quella naturale e differente da essa (“super hanc felicitatem est alia felicitas”), che è raggiungibile solo nell’altra vita e consiste nella visione di Dio secondo la sua eccellenza[14] .
            Combattendo la teoria dell’intelletto agente separato, che si unirebbe al conoscente nella conoscenza di tutti i conoscibili materiali ed immateriali costituendo così la sua beatitudine, San Tommaso fa notare che la beatitudine naturale dev’essere alla portata di tutti gli individui di una specie o almeno della maggior parte.
            E’ infatti impossibile conoscere tutti i conoscibili e così la beatitudine non sarebbe di alcuno, se non di pochi, ma questo è contrario all’autorità di Aristotele, il quale dice che la “felicità” è un “bene comune che può pervenire a tutti coloro che non sono impediti rispetto alla virtù” ed è contrario anche alla ragione dire che solo pochi individui arrivino alla fine della specie a cui appartengono. Secondo Aristotele la felicità (naturale) è un’operazione conforme alla virtù perfetta ed in ultima analisi consiste nella contemplazione sapienziale degli intellegibili più alti[15].
            La conoscenza avente per oggetto le sostanze separate non costituisce la beatitudine naturale dell’uomo, perché il fine (naturale) dell’uomo, che è la felicità, è considerato naturalmente e quindi dev’essere alla portata dell’uomo, altrimenti l’uomo esisterebbe invano e il suo desiderio naturale sarebbe inutile e ozioso. Porre il fine dell’uomo al di là delle capacità della sua natura porta ad una visione pessimistica dell’uomo come di un essere tragico e “assurdo” (il “dinamismo” dell’esistenzialismo è alla radice del suo “pessimismo”)[16].           
            San Tommaso distingue spesso la beatitudine imperfetta (del viatore) da quella perfetta (della patria). Quest’ultima può essere già iniziata durante il cammino verso la patria celeste per grazia, ma è consumata solo nella gloria del cielo. La beatitudine perfetta si distingue da quella iniziale (“inchoata”) non per una distinzione di grado, ma di essenza e lo stesso vale naturalmente anche per la differenza tra la beatitudine imperfetta e quella perfetta del cielo. Ora la beatitudine imperfetta si distingue da quella perfetta come la natura si distingue dalla grazia e per conseguenza anche la distinzione tra natura e grazia è una distinzione secondo l’essenza e non solo una diversità di grado[17].          
Il desiderio di conoscere è infinito e perciò può raggiungere il suo termine solo nella conoscenza di tutti gli intelligibili, ma questo non è possibile durante la vita e perciò la beatitudine sarà raggiunta solo nell’altra vita. In questa vita la sapienza (come virtù intellettuale) è solo un inizio della beatitudine, perché il suo atto è ancora imperfetto rispetto al suo soggetto che è Dio. San Tommaso non distingue ancora tra beatitudine naturale e soprannaturale, ma dice solo che la beatitudine sia nell’uno che nell’altro senso è raggiungibile pienamente solo nell’altra vita[18]. 
A proposito del fine ultimo San Tommaso conosce chiaramente un fine ultimo naturale e un altro soprannaturale e definisce il primo come “bene vivere totum” raggiungibile diversamente dalle diverse parti della prudenza secondo un preciso ordine, cominciando da un consiglio e proseguendo col giudizio per arrivare al precetto che è in relazione immediata al fine ultimo. La vita delle virtù naturali, sotto la guida della prudenza, presa nel suo insieme, può quindi essere considerata in qualche modo come un “fine ultimo”.  
L’inclinazione al fine ultimo soprannaturale non è naturale, se si intende un’inclinazione attiva. Infatti il fine ultimo soprannaturale supera la natura umana e quindi, per esservi attivamente inclinato, l’uomo ha bisogno dell’aggiunta di qualcosa per inclinarlo al fine che gli è connaturale. Il fine soprannaturale è qui chiamato connaturale, perché la natura dell’uomo vi è passivamente, obbediezialmente, ordinata.
Che non si tratti di un’inclinazione naturale nel senso di una potenza attiva o positivamente ordinata all’atto è sufficientemente chiaro dal fatto che San Tommaso esige un altro principio inclinante al fine ultimo soprannaturale, che sarebbe superfluo, se l’inclinazione data con il “desiderio naturale” fosse sufficiente. Tali principi aggiunti ed inclinanti connaturalmente al fine ultimo soprannaturale sono le virtù teologali, in quanto riguardano Dio come il loro oggetto, sono causate in noi da Dio, che solo opera in noi l’inclinazione al fine soprannaturale ed infine in quanto la conoscenza dell’inclinazione soprannaturale al fine ultimo soprannaturale può essere data solo per rivelazione divina; i filosofi infatti non ne potevano sapere niente. All’ordine naturale verso Dio per conoscenza e affetto corrisponde una partecipazione naturale a Dio (Dio come autore dell’essere  creato, della natura); ma per la partecipazione soprannaturale si richiedono le virtù teologali. Al fine ultimo naturale (felicità dei filosofi) l’uomo ha un’inclinazione naturale da se stesso e perciò non ha bisogno di altre virtù inclinanti al fine (che è Dio), ma solo di virtù dirigenti nelle opere ordinanti al fine. La volontà non ha bisogno di un abito particolare in vista del suo fine ultimo naturale, cioè proporzionato alla sua natura, perché l’inclinazione ad un tale fine scaturisce spontaneamente dalla sua stessa natura[19].
            San Tommaso parla del desiderio naturale in un duplice modo: “naturale” nel senso di obbedienziale e nel senso di naturale positivamente e in qualche modo attivamente (sia potenza attiva, sia potenza passiva ordinata all’atto). In quest’ultimo senso, il desiderio naturale però non riguarda il fine ultimo soprannaturale, ma il fine ultimo naturale, di cui ha qualche confusa conoscenza: “conoscere Deum esse in aliquo communi, sub quadam confusione, est nobis naturaliter insertum, inuantum scilicet Deus est hominis beatitudo: homo enim naturaliter desiderat beatitudinem, et quod naturaliter desideratur ab homine, naturaliter cognoscitur ab eodem.[20]
            Il desiderio naturale, inteso come desiderio ordinato all’atto o attivo, suppone la conoscenza naturale del fine ultimo naturale in un modo confuso e generico (“in aliquo communi”). La volontà ha un’inclinazione naturale al bene universale e cioè a Dio, ma solo se Dio è conosciuto in un modo soprannaturale, cioè per fede in via e per visione in patria. Allora si aggiunge alla volontà un’inclinazione (o una fruizione) nuova, che la attua come sua perfezione soprannaturale. Il desiderio naturale dell’ente immateriale ed infinito considerato assolutamente, è potenziale, negativo ed inefficace, perché non gli corrisponde nessun bene concreto e determinato, ma è naturale perché, una volta proposto un oggetto concreto per una conoscenza nuova ed aggiunta (dono gratuito della fede), la stessa volontà, la sua stessa natura, è attuata da un desiderio nuovo, dall’inclinazione soprannaturale.[21]
         Ci si può legittimamente chiedere se il “desiderio naturale” è dell’intelletto o della volontà, se è una tendenza immediata o un atto elicito e in che modo il desiderio naturale segue o non segue una conoscenza previa. Il desiderio infatti riguarda l’atto più alto dell’uomo, che è la conoscenza, ma essendo una tendenza finalizzata, è nella volontà come nel suo soggetto. Non è un “pondus naturae” nel senso di una tendenza naturale senza qualsiasi conoscenza precedente nel soggetto ed è per conseguenza un atto elicito della volontà. Riguarda però l’atto della volontà non in quanto volontà (scelta di mezzi in vista di un fine inteso nell’atto deliberato), bensì l’atto della volontà in quanto natura (nel suo atto di semplice volizione del fine che è un appetito naturale).
        Un tale atto di volontà non suppone la deliberazione circa i mezzi, ma suppone qualche conoscenza del fine.[22]San Tommaso infatti dichiara generalmente per ogni appetito che “appetitus semper sequitur cognitionem”.[23]  Perfino negli esseri inanimati vi è un “desiderio”, che segue la conoscenza, ma si tratta di una conoscenza separata, quella cioè del primo motore, che determina il fine ad ogni forma naturale.
         L’appetito naturale delle cose naturali è necessario rispetto al fine particolare, al quale sono destinate senza una previa conoscenza nel soggetto; invece l’appetito sensitivo degli animali è con necessità rispetto al fine particolare, ma solo dopo una certa conoscenza propria di un tale bene. Invece, l’appetito razionale o volontà è necessario rispetto al bene assolutamente considerato, ma non rispetto ad un tale bene particolare[24]. L’appetito naturale della volontà è un atto della volontà circa il fine ultimo considerato in un modo comune, generico, universale.
          Il desiderio naturale nel senso di un desiderio positivo suppone una conoscenza naturale di Dio e si limita ad essa. Una conoscenza comune e confusa di Dio ci è data per natura, in quanto Dio è la beatitudine dell’uomo e l’uomo desidera naturalmente la sua beatitudine. Ciò che desidera naturalmente dev’essere naturalmente conosciuto. E’ per questo che l’uomo non desidera naturalmente la conoscenza dei singoli né dei futuri contingenti, perché tali oggetti di conoscenza sono al di là del modo umano di conoscere. Il desiderio naturale della creatura razionale si estende solo alla conoscenza di ciò che appartiene alla perfezione dell’intelletto. Nondimeno l’oggetto della conoscenza che, è naturalmente desiderata, è Dio stesso conosciuto non solo secondo l’esistenza, ma in qualche modo anche secondo la sua essenza.
           Infatti dalla conoscenza dell’esistenza di una causa nasce il desiderio di conoscerne l’essenza, così come coloro che costatano che qualcosa esiste (quia est), desiderano sapere perché esiste (propter quid) e dato un oggetto finito di conoscenza, l’intelletto si estende al di là di esso e quindi non può fermarsi se non in un oggetto infinito. L’ammirazione che è alla base del desiderio naturale prova che si tratta di un atto appetitivo, che segue una certa conoscenza del fine e cioè la costatazione della sua esistenza, e ha per oggetto una conoscenza più perfetta di esso, cioè quella della sua essenza.
          San Tommaso non parla però di una visione beatifica strettamente soprannaturale, ma della visione dell’essenza della causa prima assolutamente, quocumque modo. E di una tale visione (in genere, astraendo dal suo carattere naturale o soprannaturale) è dichiarata la possibilità (non la realizzazione attuale, ma la realizzabilità).
            Questa possibilità risulta dalla finalità del desiderio naturale, che non può essere vano. Se il desiderio naturale si intende nel senso puramente passivo, obbedienziale, allora si applica anche alla grazia e alla gloria, dichiarando la loro possibilità e cioè non-contradditorietà rispetto al soggetto naturale dotato di ragione. Quest’ultimo, però, per essere ordinato positivamente al fine soprannaturale, deve ricevere, oltre al suo desiderio naturale inteso appunto come potenza obbedienziale, un’ulteriore inclinazione per mezzo delle virtù teologali infuse e i doni dello Spirito Santo.
       In questo senso anche nel peccatore rimane il desiderio del bene e perciò la possibilità (obbedienziale) di conseguire di nuovo la grazia delle virtù e dei doni, ma non con le sue forze naturali, bensì con l’aiuto della grazia attuale, che converte la sua volontà a Dio e la rivolge contro il peccato. Nella natura non vi è potenza passiva, che non possa essere attuata da un principio naturale attivo corrispondente e tanto meno vi è in essa una potenza obbedienziale che non possa essere liberamente attuata da Dio quando e come a Lui piace.

I PP.GARRIGOU-LAGRANGE e GARDEIL[25] negano perciò che vi sia nella natura un principio attivo corrispondente al desiderio naturale e dimostrano come l’ammissione di un tale principio porterebbe alla riduzione della grazia ad un’esigenza della stessa natura umana. San Tommaso infatti[26] afferma esplicitamente che “è vano ciò che non raggiunge il fine, al quale è (positivamente) ordinato” e allo stesso tempo dice che “la natura non fa nulla invano” e perciò “il desiderio naturale (positivo) non può essere di un’altra cosa se non di quella che si può avere naturalmente” e siccome “il desiderio naturale non può essere vano”, ne segue che “il desiderio naturale (positivo) dell’uomo non si estende ad un bene più grande di quello che può ricevere”. Il desiderio naturale corrispondente ad una potenza puramente passiva ed obbedienziale conclude alla sola possibilità (non contradditorietà) della visione beatifica.
Il FERRARESE, considerando il carattere ipotetico della conclusione, non considera i mezzi con i quali la visione beatifica è da raggiungere (il desiderio naturale infatti non riguarda direttamente i mezzi considerati invece dall’intenzione che segue al desiderio), mentre il GAETANO e il BAÑEZ considerando il fatto (e non solo la possibilità) della visione beatifica (“unde simpliciter concludendum est quod beati Dei essentiam videant”), parlano di un desiderio “condizionato”, cioè sollevano esplicitamente la questione in che modo il desiderio naturale del fine soprannaturale può essere attuato e allora il desiderio naturale è condizionato non rispetto alla possibilità puramente passiva del suo oggetto, bensì rispetto al suo possesso attuale e reale. Si desidera quindi naturalmente la visione beatifica nell’ipotesi che (a condizione che) Dio voglia di fatto liberamente e gratuitamente concederla.[27]  
O’CONNOR[28] fa notare che San Tommaso non parla mai della visione beatifica direttamente nel contesto del desiderio naturale, ma della possibilità della visione della causa prima. Infatti gli argomenti fondati sul desiderio naturale sono indiretti (reductio ad absurdum) e concludono perciò ad un fatto e non alla sua intelligibilità, fondandosi non già sull’analisi della causa prima, ma su quella della mente umana. FINILI conclude: “Direttamente e formalmente l’argomento conclude solo alla possibilità della visione di Dio, Causa prima. Allo stesso tempo sappiamo per fede che la visione beatifica consiste nella visione dell’essenza di Dio e perciò indirettamente e materialmente l’argomento conclude alla possibilità della visione beatifica”.
RANIERI[29] rileva quattro cause di possibili errori circa il desiderio naturale:
(1)           confondere l’oggetto di un tale desiderio che è l’essenza della Causa prima vista assolutamente (quocumque modo) con la visone beatifica formalmente soprannaturale;
(2)           sollevando la questione dell’efficacia del desiderio naturale, mentre una tale questione riguarda piuttosto l’intenzione che segue al desiderio (mezzi in vista del fine);
(3)           preoccupandosi troppo della gratuità della visione beatifica soprannaturale, se si ammette il desiderio naturale – una preoccupazione superflua perché priva di fondamento negli scritti di San Tommaso (a questo punto bisogna però aggiungere che la preoccupazione diventa indirettamente giustificata dinanzi a delle interpretazioni o chiaramente erronee o almeno ambigue del pensiero dell’Aquinate);
(4)           pensando di poter dimostrare almeno con probabilità la possibilità (positiva) del mistero strettamente soprannaturale della visione beatifica, diminuendone così il carattere misterioso. Da tutto ciò risulta l’importanza capitale della distinzione tra il fine ultimo soprannaturale e un (ipotetico) fine ultimo naturale, tra la visione beatifica sensu stricto e la visione di Dio Causa prima quocumque modo.
Una tale distinzione è invece conseguentemente negata ed energicamente rifiutata da HENRI DE LUBAC, le cui tesi si possono riassumere nel modo seguente[30] .
(1)           La gratuità dell’ordine soprannaturale non è tolta dal desiderio naturale che sarebbe dell’intelletto non in quanto è una potenza operativa, ma in quanto è natura. Il debito invece non riguarderebbe la tendenza della natura, ma l’atto d’essere e quindi la costituzione ontologica della stessa natura e l’atto della potenza operativa e quindi la costituzione “operativa” di una potenza in atto secondo.
            Ora, è alquanto dubbio se non addirittura chiaramente erroneo pensare che si tratti di una tendenza qualsiasi della natura o dell’intelletto preso come natura; si tratta invece dell’atto elicito, anche se naturale, dell’intelletto o meglio dell’appetito naturale della volontà; comunque sempre si tratta di un atto di volizione preceduto da una conoscenza e non già di un “pondus naturae” senza qualsiasi conoscenza previa. San Tommaso infatti dice chiaramente che il desiderio naturale di conoscere l’essenza di una causa nasce dalla conoscenza dell’esistenza della medesima e una tale conoscenza è indubbiamente un atto elicito dell’intelletto (anche se non necessariamente deliberativo). Inoltre il debito riguarda sì l’atto entitativo od operativo, ma sempre di una tale potenza ed una potenza positiva (e non puramente obbedienziale) è vana se non consegue il suo fine e la natura non fa nulla invano. Le premesse poste da De Lubac, nonostante le distinzioni aggiunte, non rispettano sufficientemente la gratuità dell’ordine soprannaturale.
(2)La terminologia di De Lubac è assai ambigua per quanto riguarda l’ordine della natura razionale rispetto alla grazia soprannaturale. Certe asserzioni sembrano insinuare quasi una possibilità di trarre la grazia dalla potenza dell’anima. In questo senso si serve dell’espressione “mistica” di TAULERO[31],  secondo cui l’anima spirituale sarebbe il luogo dove nasce l’essere soprannaturale e pur negando una presenza virtuale della grazia nell’anima (anima come “germen gratiae”), accetta senza riserve la dottrina di K. RAHNER[32], secondo la quale lo spirito possiede una “trascendenza illimitata”, che conferisce all’orizzonte umano una “nota dell’infinità”, la quale a sua volta definirebbe lo stesso uomo.
Ora San Tommaso considera la tendenza potenzialmente infinita dell’intelletto umano, ma non  parlerebbe sicuramente di una trascendenza illimitata come nota dell’infinità costitutiva della natura dell’uomo. La natura umana infatti è nella sua costituzione ontologica ben finita e la sua perfezione consiste proprio in questo limite preciso, in questa finitezza.
(3) Gli argomenti che De Lubac porta da San Tommaso non sempre rispettano il senso in cui San Tommaso stesso li propone. Così vuole dimostrare l’esistenza di un desiderio naturale positivamente ordinato alla visione soprannaturale fondandosi sul peccato dei demoni[33], mentre San Tommaso dichiara chiaramente che il demonio non poteva voler essere come Dio secondo uguaglianza, perché il desiderio naturale non si estende a un grado superiore di natura, in quanto in questo modo la natura inferiore sarebbe distrutta, mentre il suo desiderio naturale mira proprio alla sua conservazione, ma il demonio voleva il fine ultimo soprannaturale propostogli liberamente da Dio senza l’aiuto di Dio, cioè voleva essere come Dio appetendo la consecuzione della beatitudine finale con le proprie forze. Così l’uomo, desiderando il suo fine ultimo, lo può desiderare solo desiderando allo stesso tempo di rimanere uomo e quindi nell’ambito della sua natura creata, finita e ben delimitata e non già andando al di là di essa verso i misteri strettamente soprannaturali, a meno che non si supponga una rivelazione previa con l’infusione gratuita della grazia delle virtù e dei doni soprannaturali.
            In genere le tesi di De Lubac si ispirano molto a principi ben diversi da quelli di San Tommaso: a SCOTO e a PALAMAS, come anche all’ESISTENZIALISMO contemporaneo.[34] San Tommaso  invece riesce ad affermare la dinamicità della natura (principium operationis), ma supponendone la perfezione nel proprio ordine, la sua definizione e delimitazione precisa, che poi fonda anche la sua stessa operatività: se le mutazioni accidentali possono cambiare potenzialmente all’infinito è proprio perché il loro supposito, la natura individuale, non cambia, altrimenti non avrebbe nemmeno senso parlare di un “cambiamento”.

La “potenza obbedienziale”.[35]

            Si tratta di una potenza puramente passiva cioè negativa e non potenza passiva naturale o positiva con un principio naturale attivo corrispondente. A una tale potenza obbedienziale corrisponde l’onnipotenza divina come principio attivo. Per quanto riguarda i miracoli, essi suppongono la potenza obbedienziale e si limitano ad essa. Non accadono infatti al di fuori delle ragioni causali ideali e dei principi passivi delle creature secondo i quali Dio può fare in esse ciò che vuole, ma si svolgono al di fuori della potenza naturale positiva tanto attiva quanto passiva, corrispondente ad una potenza attiva connaturale.
            Nella stessa natura umana si distingue una duplice capacità. Una è secondo l’ordine della potenza naturale e costituisce in qualche modo un “debitum” in quanto Dio la adempie sempre dando ad ogni cosa ciò che spetta alla sua capacità naturale. L’altra capacità è invece secondo l’ordine della potenza divina, a cui ogni creatura obbedisce “ad nutum” e tale capacità non è sempre di fatto adempiuta, ma può esserlo, perché Dio può fare nella creatura più di quanto fa di fatto. Così si spiega anche come la natura umana, proprio a causa del peccato, è diventata ancora più “capace” nel senso obbedienziale della grazia dell’unione ipostatica.
       Ed è anche in questo senso di una potenza puramente passiva od obbedienziale che si deve intendere la “capacità” della natura umana fatta ad immagine di Dio, in vista della visione beatifica strettamente soprannaturale. Solo in questo senso la scienza beata creata corrisponde ad una “capacità” umana, non invece nel senso che l’uomo potrebbe per natura sua raggiungerla o che Dio sarebbe tenuto a concedergliela (questo sarebbe invece il caso se si trattasse di una potenza naturale positiva che, secondo San Tommaso, “a Deo semper impletur”).
            La scienza beata increata invece non trova nessuna “capacità”, nemmeno obbededienziale, da parte dell’uomo, perché una tale “deificazione” dell’uomo distruggerebbe la sua natura e sarebbe contradditoria. La grazia (e tutto l’ordine soprannaturale) corrisponde alla potenza obbedienziale come la potenza naturale attiva corrisponde alla potenza naturale passiva.
         Come l’intelletto agente attua l’intelletto possibile, così la luce divina attua la potenza obbedienziale dello stesso intelletto. Dio stesso è l’autore della potenza della materia, nella quale vi sono le “rationes oboedientiales” secondo le quali Dio può fare ciò che vuole nella sua creatura e le “rationes seminales”, che invece sono delle forze potenziali ed attive per mezzo delle quali le creature raggiungono degli effetti naturali.
        Quando si dice ad esempio che la natura umana è assumibile in unione di persona con la natura divina, siccome un tale effetto oltrepassa infinitamente le forze naturali, non si pensa ad una potenza attiva e nemmeno ad una potenza passiva naturale e positiva, perché nella natura ad ogni potenza passiva corrisponde una potenza attiva. Si intende invece la potenza obbedienziale, per mezzo della quale Dio può fare ciò che vuole nella creatura, ad esempio trasformando un pezzo di legno in un vitello.
       In forza della potenza divina assoluta ogni creatura è assumibile, in quanto la sua assunzione non implica contraddizione, ma per la potenza divina ordinata è conveniente alla sapienza divina di assumere solo la natura razionale a causa della sua somiglianza formale di immagine con il Creatore.        Ora, se ad ogni potenza naturale passiva corrisponde nella natura una potenza attiva, una potenza non attuabile sarebbe vana e “oziosa” e come alla potenza passiva naturale corrisponde una potenza attiva, così alla potenza obbedienziale corrisponde il principio attivo che è la stessa onnipotenza divina.
         San Tommaso insiste molto su questa corrispondenza tra potenza passiva e potenza attiva a due livelli ben distinti: a livello naturale e soprannaturale. Anche per dimostrare la potenza generativa in divinis il Santo Dottore si serve di questa corrispondenza: ad ogni azione deve corrispondere una potenza e se la fede ci insegna che vi è in Dio la generazione del Figlio dal Padre, vuol dire che vi è anche una potenza generativa, anche se non c’è propriamente né azione né passione e la stessa potenza divina è realmente identica con la sua essenza e per conseguenza solo “significata” a modo di una potenza attiva.
            La potenza naturale si divide in attiva e passiva rispetto all’effetto naturale; invece la potenza  obbedienziale della natura creata si dice tale rispetto ad un effetto soprannaturale, che Dio può produrre in essa. Se la potenza naturale non è attuata, la natura è imperfetta (l’atto le è “dovuto”); se invece la potenza obbedienziale, pur essendo attuabile potenzialmente, non è attuata di fatto, ciò non toglie nulla alla sua perfezione (l’atto non le è dovuto, ma rimane perfettamente gratuito). La potenza obbedienziale è delimitata dalla natura della specie. Infatti i principi essenziali sono dati in vista non solo dell’essere, ma dell’essere in una tale specie.
        Così è possibile che l’anima sussista separata dal corpo, ma la sua esistenza non sarà perfetta rispetto alla sua essenza delimitata dalla natura specifica. Così l’uomo giustificato e glorificato o, per usare un termine consueto nella teologia orientale, “deificato”, deve rimanere “uomo” secondo la sua essenza (e presupposta l’individuazione dell’essenza in un tale supposito anche secondo la sua natura individua). Perciò la sua grazia e la sua gloria sono degli enti creati; se infatti vi fosse qualcosa di increato nell’uomo, egli non sarebbe più uomo ma “dio” e questo implica contraddizione e per conseguenza non-fattibilità ed è escluso dall’onnipotenza divina in quanto esula dalla potenza obbedienziale di una qualsiasi creatura. 
                       
Il P.HORVATH riassume l’insegnamento di San Tommaso a proposito dell’inclinazione naturale in questo modo:
Inclinazione naturale:
î  virtù attiva:
-   determinata e positiva: alla beatitudine “in communi”
-   indeterminata e positiva: alla beatitudine imperfetta concreta
î  capacità passiva:
-   negativo-positiva: alla beatitudine perfetta “in spe”
-   puramente negativa: alla beatitudine “in re”
                         
La capacità passiva è obbedienziale ed è puramente negativa riguardo alla beatitudine reale attualmente posseduta, perché l’effetto trascende in ogni modo la natura; è invece negativo-positiva rispetto alla beatitudine sperata, in quanto la speranza della beatitudine trascende la natura tanto come virtù quanto come oggetto sperato (e così è negativa), ma allo stesso tempo l’inclinazione aggiunta della speranza infusa lascia la volontà nel suo ordine naturale perfezionandola in vista di un atto connaturale (cioè deliberato), ma elevato dalla stessa virtù soprannaturale ad un oggetto che eccede le forze naturali.
            Lo SCHMAUS[36] sembra invece ammettere qualche ordine positivo (attivo) della natura rispetto all’ordine soprannaturale, distinguendo però tra la capacità attiva e la potenza operativa che sarebbe in grado di entrare con le sue sole forze in possesso del fine ultimo soprannaturale. Ora San Tommaso afferma assai chiaramente che la potenza attiva, cioè ordinata all’atto, o raggiunge il suo atto almeno ut in pluribus, oppure, se non lo raggiunge, dev’essere considerata come “oziosa” e superflua: ipotesi assurda, se si ammette l’ordine sapientissimo della creazione.
            Ammettendo un ordine attivo e positivo della natura alla grazia, difficilmente si salva la gratuità di quest’ultima insieme con la perfezione, nel suo ordine, della prima e così o si sacrifica la natura alla grazia (pseudosupernaturalismo) o la grazia alla natura (naturalismo). Il DE LUBAC [37] afferma esplicitamente un ordine attivo della natura al fine ultimo soprannaturale, ma allo stesso tempo si preoccupa di affermare la reale incapacità dell’uomo di arrivare ad un tale fine con le sue sole forze naturali. Anche qui però la distinzione non salva la gratuità della grazia e la bontà e sapienza di Dio, il quale non dà alla natura delle potenze attive che poi di fatto potrebbero essere non attuate.
        San Tommaso non ammette in nessun modo la possibilità di vanificare “ut in pluribus” l’ordine attivo della natura ai suoi effetti corrispondenti; almeno moralmente Dio sarebbe “tenuto” a concedere ciò che per un’ordinazione attiva spetta alla natura di un qualsiasi ente creato. Solo la potenza obbedienziale non rende imperfetta la natura nel suo ordine, se non è attuata di fatto (deve però sempre essere attuabile in potenza). La scuola tomista è unanime a questo proposito né si può citare in favore  della tesi contraria il silenzio del CAPREOLO (nessun teologo è tenuto a fare tutte le distinzioni, ma solo quelle che corrispondono alla sua problematica), né certe affermazioni di SOTO (il quale parla della natura elevata al fine ultimo soprannaturale di fatto lasciando da parte, come è legittimo, la questione della gratuità di una tale elevazione e quindi anche l’ipotesi di una natura non elevata ad un tale fine).
      Inoltre è ingiusto accusare il GAETANO o il KOELLIN di ispirarsi ad una concezione  “cartesiana” della natura. Il tomismo sicuramente non accetta una concezione meccanicistica e dualistica della natura come res extensa e res cogitans, ma allo stesso tempo sa ricollegare con una concezione “dinamica”, operativa della natura anche un’esigenza di perfezione entitativa che, secondo la filosofia comunemente accettata nella scuola aristotelico-tomista, consiste nel raggiungere un termine e riposare in esso (basta pensare alla stessa etimologia del termine “entelècheia”).
       Da parte sua il “dinamismo” estremo trae le sue origini dal nominalismo (distruzione dell’essenza a favore, apparentemente, degli individui), dal vitalismo rinascimentale (Cusano, Telesio, Bruno), dal movimento dialettico di Hegel, dal dinamismo bergsoniano e dal personalismo esistenzialista (Heidegger[38]). Ora, si può sicuramente disputare su quale scuola aveva ragione, ma non è il caso di attribuire con troppa facilità a San Tommaso delle opinioni che sicuramente non condivideva.
            SAN TOMMASO[39] dice che è meglio essere capaci di un grande bene anche se poi abbiamo bisogno di un aiuto esterno per conseguirlo, che essere capaci di un bene minore ma raggiungibile con le proprie forze. Così la creatura razionale capace del fine ultimo soprannaturale è più perfetta delle creature irrazionali che con le loro forze raggiungono fini meno nobili. Inoltre ciò che possiamo con l’aiuto di un amico (e nella speranza consideriamo Dio proprio come un amico che liberamente ci aiuta), possiamo in qualche modo farlo da noi stessi.
        Queste affermazioni non solo non smentiscono, ma confermano la tesi della potenza obbedienziale. Infatti la “capacità” rispetto al fine ultimo soprannaturale non è attiva, ma puramente passiva e solo così si spiega l’esteriorità del suo principio attivo (mentre le potenze passive non obbedienziali ma positive hanno un principio attivo connaturale). In qualche modo il fine raggiunto con l’aiuto dell’amico è raggiunto da noi stessi, ma proprio questa bella immagine dell’amicizia tra uomo e Dio che aiuta, mette in risalto la libertà e la gratuità dell’aiuto divino (l’amicizia infatti non può essere coatta o costretta e pur inclinando la volontà, lascia libero ogni suo singolo atto).
            Dio di fatto ci ha elevati (ma gratuitamente) al fine ultimo soprannaturale, il cui raggiungimento è possibile all’uomo solo con l’aiuto di Dio. Questa possibilità non è una tendenza attiva e positiva della natura al fine ultimo soprannaturale, ma si dice naturale perché il desiderio naturale del fine ultimo naturale manifesta la non-contradditorietà della donazione gratuita da parte di Dio della visione beatifica, che è il fine ultimo soprannaturale della natura razionale.[40]
        Infatti, anche le creature irrazionali tendono in qualche modo a Dio, ma sono incapaci del fine ultimo soprannaturale, perché sono prive dell’intelletto e quindi in loro la visione beatifica implicherebbe contraddizione; il desiderio naturale dell’uomo invece manifesta la sua potenza obbedienziale rispetto alla beatitudine perfetta soprannaturale della visione dell’essenza di Dio.
         Il FERRARESE rende quindi esattamente l’idea di San Tommaso, quando dice che “la natura di per sè non ha inclinazione (positiva) se non entro i limiti della stessa natura”[41]. L’inclinazione soprannaturale delle virtù teologali suppone la tendenza naturale ad un fine ultimo trascendente, ma naturale ed eleva questa stessa tendenza al fine soprannaturale sensu stricto. Anche qui la grazia si distingue dalla natura, ma, perfezionandola in un ordine più alto, non la distrugge nel suo ordine proprio. 
            Vi è ancora un’espressione da precisare. Quando SUAREZ[42] parla della grazia come “educta de potentia oboedientiali animae”, l’analogia con l’attuazione di una potenza naturale è metaforica e il modo di parlare è piuttosto simbolico. L’agente divino infatti trascende la potenza in cui agisce e perciò si dice meglio che la grazia è infusa nell’anima e non che sia “educta de potentia animae”, se non si vuole usare un termine metaforico.
        Per quanto poi riguarda la riduzione della grazia alla natura, taluni[43]  cercano di attribuire una tesi simile a San Tommaso (tesi poi quanto mai vicina a quella di LUTERO), fondandosi sulla sua dottrina della legge naturale. Infatti i precetti del decalogo sono di legge naturale, ma allo stesso tempo contengono dei precetti di virtù teologali (ad es. la fede che rientra nei precetti “della prima tavola”) e così la grazia sarebbe oggetto di una legge naturale. Il GAETANO[44] si è già posto esplicitamente il problema ed ha dato una risposta fondata, la quale, anche se non si condivide, merita sicuramente ogni attenzione e, finché non è formalmente provata la sua falsità, si deve ammettere come l’opinione più attendibile soprattutto in quanto non ricorre ad una ipotetica “imprecisione di linguaggio” in San Tommaso, ipotesi questa che bisogna fare solo con la massima cautela e mai senza una ragione cogente.
            Il grande commentatore del Dottore Angelico fa vedere come i primi precetti si possono intendere degli atti di religione (virtù morale naturale), nella quale poi si innesta la fede come virtù soprannaturale, la quale diventa immediatamente nota nei suoi contenuti dal momento stesso della sua infusione, come i primi principi della ragione naturale sono immediatamente presenti nella natura stessa dell’intelletto e così la fede si aggiunge alla conoscenza naturale.
         Infatti il primo “credibile” è l’esistenza di Dio, che però è allo stesso tempo un dato di conoscenza naturale (ripreso poi dalla fede ad un altro livello, come un “rivelato per accidens”) e così anche qui i precetti di fede si innestano sui precetti di religione naturale (disponibilità a prestare fede alla parola della divinità, se questa vuole rivelarsi: una virtù che si incontra anche tra i pagani nella mantica: ad es. l’obbedienza socratica al “daimonion”), anche se non si può dire che i precetti di fede strettamente soprannaturale obblighino in virtù dei precetti di religione naturale. Essendo infatti la fede più alta della religione naturale, ha i suoi principi e i suoi precetti propri ed essendo per essenza sua infusa, non trova un fondamento naturale equivalente, ma, superandoli, li riassume e li ripropone al livello soprannaturale rispettandone però pienamente l’autonomia di finalità prossima e connaturale.

P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 7 giugno 2019


[1] Vedi per esempio le opere di Réné Guénon e in generale della massoneria esoterica. Esiste anche una gnosi teosofica (Blavatsky), ebraica (Kabbalà), islamica (sufi) e brahmanica (Vedanta).
[2] Denz.1000.
[3] Testo tratto dalla Bozza originale della Tesi di Dottorato "L'azione divina e la libertà umana nel processo della giustificazione secondo la dottrina di San Tommaso d'Aquino", testo rivisto con note da P. Giovanni Cavalcoli O.P.
(http://www.arpato.org/).
[4] 472) Cfr. Summa Theologiae I, q.62, a.1 c.a.; q.88, a.1 c.a.; I-II, q.3, a.5 c.a.; CG I 100, n.829 ; III 44, n. 2213 ; De Verit. q.18, a.1 c.a.; CG III 48 n. 2247; Summa Theologiae I-II, q.66, a.5 ad 2; II-II, q.51, a.2 ad 2; III Sent. d.23, q.1, a.4, q.la 3 sol.; ad 1, ad 2, ad 3; I Sent. d.1, q.1, a.1 ad 1; q.4, a.1. ad 1; De Ver. q.15, a. 3 c.a.; q. 25, a. 1 c.a. (cfr. IV Sent. d.50, q.2, a.1, q.lae 1 e 3, soll.); Summa Theologiae I, q.12, a.8 ad 4; II-II, q.95, a.1 ad 3; De Verit. q.2, a.6. c.a.; q.10, a.5, c.a.; CG III 50  nn. 2277-2279; 51, n. 2284; Comp. Theol. cap. 216, n. 439; CG III 156, nn. 3295-3296; Summa Theologiae I, q.2, a.1 ad 1 (cfr. q.12 a.1 c.a.; q.60, a.5, I-II, qq. 2-3; q.109, a.3; CG III 17-18, 38, 48.
[5] Sarebbe meglio dire: l’uomo desidera naturalmente conoscere l’essenza della causa prima mediante i suoi effetti. Nota mia.
[6]  Così CONCILIO ARAUSICANUM II, anno 529; cfr. DS 377 can.7, e 391 can 21; cfr. anche la condanna da parte di S. Pio V delle sentenze “pelagiane” di M. BAIO per quanto riguarda lo stato di innocenza originale: DS 1901-1907.
[7]  Cfr. Summa Theologiae I-II, q.113, aa. 9 e 10.
[8] San Tommaso distingue chiaramente i due ordini anche in diverse altre occasioni (la giustificazione è solo una tra le molte), così ad es. anche distinguendo le virtù acquisite da quelle infuse: cfr. Summa Theologiae I-II, q.63, a. 4 c. a. La loro differenza riguarda tanto l’origine (acquisizione-infusione) quanto l’oggetto. L’oggetto poi è diverso secondo una formalità diversa e secondo il suo ordine al fine ultimo. Il fine prossimo delle virtù naturali è ordinato ad una vita naturalmente buona nel suo insieme; invece il fine prossimo delle virtù infuse è ordinato alla comunione soprannaturale con Dio.
[9] Cfr. IV Sent. d.17, q.1, a.5, q.la 1 sol. 
[10] CAIETANUS, Card. Thomas de Vio, OP, op. cit., n. V, p.343 .
[11] Op. cit. , n. VI, p.302.
[12] Cfr. J.-M. RAMIREZ, OP, De hominis beatitudine, tom. II, Matriti 1943, pp.275-276, n.3: Summa Theologiae I, q. 2, aa. 2-3; q.44, aa. 3-4; nel commento In Evangelium. Joannis. prol. S.Tommaso stabilisce una corrispondenza tra la beatitudine soprannaturale e la grazia giustificante quae est via ad beatitudinem et semen gloriae (cfr. ibid. p. 281). Per sostenere la sua tesi, Ramirez cita numerosi testi del Magistero del Concilio Vaticano I (Denz. 1785 / DS 3004 /; 2145 / 3537- 3550 /; 1795-1796 / 3015-3016 /.
[13] In obliquo vuol dire in modo sfiorato o tangenziale. Nota mia.
[14] Cf Summa Theologiae, I, q.62, a.1.
[15] Cf Summa Theologiae, I-II, q.3, a.5.
[16] CG III, 44,n. 2213 e cf 35, n.2168.
[17] Summa Theologiae, I-II, q.3, a.5; In Eth., l.X, cc.10 -12, nn.2080 -2185; De Verit.,q. 18,a.1.
[18] CG III, 48, n.2247; Summa Theologiae, I-II, q.66, a.5 ad 2
[19] Summa Theologiae, II-II, q. 51, a.. 2 ad 2 ; In III Sent. d. 23, q.1, a. 4, qu.la 3, sol.; De Verit., q.27, a.2; q.14, aa.2-3; q.24, a.14.
[20] Summa Theologiae I, q.2, a.1 ad 1.
[21] Cfr. A.M. HORVATH, OP, De volumtate humana, Romae 1930, p.32 cit. da P. CARAMELLO, Adnotationes ad I-II Summae Theologiae, ed. Marietti 1952, I, p.580, q.3, a. 8, nota a .
[22] Cfr. Antonius FINILI, OP, Natural desire, in Dominican Studies II, 1949, p.3.    
[23] I Sent. d. 1, q.1, a.1 ad 1.
[24] E neppure rispetto a Dio, Egli pure oggetto di scelta da parte del libero arbitrio. È questa la vera «opzione fondamentale», dalla quale occorre far discendere tutte le altre, se vogliono essere orientate a Dio. Se il libero arbitrio è estinto, come fa l’uomo, secondo Lutero, a scegliere Dio? Nota mia.
[25] Henri de LUBAC, SJ, Il mistero del Soprannaturale, Bologna, Mulino, 1967, pp. 198-199, nn. 49 e 50 con riferimento a GARRIGOU-LAGRANGE, Le désir naturel du bonheur prouve-t-il l’existence de Dieu?, Angelicum,         (iun.1931 ), p.142 e A. GARDEIL, La structure de l’âme et l’expérience mystique, 19272, t. I, p.282.
[26]   Cfr. Summa Theologiae I, q.88, a.1 ad 4; II-II, q.158, a. 8 ad 2 (cfr. ARISTOTELE:, De coelo, l. I, c. 4); III Sent. d. 27, q.2, a.2 ad 4; Summa Theologiae I, q.75, a.6 c.a.; CG II, 55; Summa Theologiae I-II, q.2, a.8 arg.3 e ad 3; Indices, della edizione Leonina, Romae 1948, 445 b. 
[27]  486) Cfr. A. FINILI, OP, op. cit., p.4, n.109 con riferimento a A. FERNANDEZ, OP, Naturale desiderium videndi Divinam Essentiam, Divus Thomas, XXXIII, 1930, 504-520; S.VALLARO, OP, De naturali desiderio videndi Dei essentiam, Angelicum XI, 1934, 151; A.R. MOTTE, OP, Bulletin Thomiste, IV, 1934-6, 580.
[28] 487) Cfr. W.R. O’CONNOR, The Natural Desire for God in St. Thomas, The New Scholasticism, XIV, 1940, 244 e idem, The Eternal Quest, New York 1947, cit. da FINILI, p.7.
[29] 488) A. RANIERI, OP, De possibilitate videndi Deum per essentiam, Divus Thomas, XXXIX, 1936, 425,  Cit. da FINILI, p.14.  
[30] 489) Henri DE LUBAC, SI, Il Mistero del soprannaturale, Bologna, Mulino, 1967, p.44 con riferimento al n.35 a S. DOCKX, OP, Du désir naturel de voir l’essence divine d’après Saint Thomas, in Archives de philosophie, 1964, pp. 64, 93-96.
[31] DE LUBAC, op. cit., p.119.
[32] Op.cit., p.146, n. 36 – K. RAHNER, Ecrits théologiques, trad. dal tedesco, t.3, 1963, p. 33.  
[33] Op.cit., p. 200; cfr. De Malo q.16, a.3; CG III 109, 2847; Summa Theologiae I, a.63, a. 3.
[34] Op.cit., pp. 206, n.77: Johannes Duns SCOTUS, De ordinatione, prol. q.1, n.26: “In hoc magis dignificatur natura (scil. quod non possit consequi perfectionem propriam ei debitam ex naturalibus suis)”, p.222 (per la teologia di G. PALAMAS, cfr. Vladimir LOSSKY, La Théologie mystique de l’Eglise d’Orient, Aubier 1944 e la valutazione dell’opposizione tra Tomismo e Palamismo in A.ESZER, OP, Östliche und westliche Theologie, FZPhTh 9, 1962, p.279 ss.   
[35] Cfr. Summa Theologiae I, q.115, a.2 ad 4; III, q.1, a.3 ad 3; q.9, a. 2 c. a., ad 3; q. 11, a.1 c.a.; II Sent. d.18, q. 1, a.2  sol.; III Sent. a.2 , q.1, a.1 c.a.; CG II 22, n.985; De Verit. q.18, a.2; q.8, a.4 ad 13; De Pot. q. 2 a.1; De An. a.1, ad 16.
[36] Katholike Dogmatik, Bd II, München, Hueber, 19493,4, 193.
[37] Op. cit., 195. 
[38] Sein und Zeit, Halle 1927, 38, cit. da B. LAKEBRINK, Klassische Metaphysik, § 2, nota 39: “Höher als die Wirklichkeit steht die Möglichkeit”.
[39] Cfr. De Malo q.5, a.1 c.a.; Summa Theologiae I-II, q.5, a.5 ad 2.
[40] SCHMAUS, op. cit., 197-198 con riferimento a H. LAIS, Die Gnadenlehre des hl. Thomas in der Summa CG. und der Kommentar des Franziskus Sylvestris von Ferrara (pro manuscripto) e O’CONNOR, The Eternal Quest, 1947.
[41]  Cfr. Op. cit., 196.
[42] De Gratia, l.VIII, c. 2 , n. 13; Opera, t. IX, p.317 .   
[43] Cfr. Otto H. PESCH, op. cit., 418-424 soprattutto nn. 33-35, 39-40 con riferimento a U. KÜHN, Via Caritatis. Theologie des Gesetzes bei Thomas von Aquin, Berlin 1964 (Lizenzausgabe für die BRD-ttingen 1965).
43 Comm. in S.Th. (Leonina) I-II, q.100, a.4, t.VII, p.210; cfr. II-II, q.16, a.1; t.VIII, p.122: nulla sunt de praeceptis fidei in veteri lege data praecepta. De aliis autem specialibus credibilibus non inconvenit aliquod praeceptum inveniri. Quia status ille non erat explicandae fidei, sed hoc novae legi reservabatur”. 

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