Il Male - Parte Quarta (4/5)

Il Male

Parte Quarta (4/5) 
 
 La grazia come rimedio sufficiente ed efficace contro il peccato.

La grazia sufficiente in genere.

Abbiamo potuto constatare che secondo San Tommaso vi è una volontà salvifica universale in Dio, secondo la quale Dio vorrebbe che tutti si salvino, ma questa volontà non si realizza sempre di fatto perché, siccome astrae dalle circostanze concrete dell’azione particolare di una causa seconda libera deficiente, è una velleità[1] più che una vera e propria volontà. D’altra parte però la volontà salvifica universale suppone che Dio non esclude nessuno dalla salvezza e cioè che offre a tutti almeno la possibilità reale di salvarsi, così che se di fatto non si salvano la causa di questo fatto deve essere ricercata non nella volontà e nell’azione divina, bensì nel disordine della volontà e dell’azione della creatura defettibile ed attualmente deficiente.

L’esistenza della volontà salvifica universale implica perciò un aiuto sufficiente che Dio offre a tutti per salvarsi, un aiuto chiamato dai teologi “grazia sufficiente”, per distinguerlo da quell’aiuto che di fatto porta infallibilmente all’effetto salvifico e che pertanto viene designato col nome di “grazia efficace”. La dottrina contenuta in questa distinzione è secundum rem insegnata dallo stesso San Tommaso, il quale a sua volta si fonda sull’insegnamento della Chiesa, la quale sosterrà anche in seguito questa distinzione tanto importante per evitare gli eccessi e del predestinazionismo e del naturalismo di estrazione pelagiana.

Il sinodo di Quierzy (maggio dell’853) insegna contro la duplice predestinazione sostenuta da Godescalco di Orbais un’esplicita distinzione tra la volontà di Dio riguardante indistintamente tutti gli uomini in vista della loro salvezza e la sua volontà nei riguardi di coloro che si salvano di fatto: Deus onnipotens ‘omnes homines’ sine exceptione ‘vult salvos fieri’ (I Tim 2, 4), licet non omnes salventur. Quod autem quidam salvantur, salvantis est donum; quod autem quidam pereunt, pereuntium est meritum”[2].

Il Concilio di Trento[3] insegna molto esplicitamente che Dio ha inviato il suo Figlio affinché tutti ricevessero l’adozione a figli (Gal 4,5), ma «anche se Cristo è morto per tutti (II Cor 5,15), non tutti ricevono il beneficio della sua morte, ma soltanto quelli, ai quali viene comunicato il merito della sua passione»[4]. La Chiesa nel suo magistero afferma senza dubbi che Dio offre la sua grazia a tutti, così che tutti hanno la possibilità di salvarsi, ma di fatto la sua grazia è ricevuta soltanto nei predestinati, ai quali è realmente comunicata. La grazia sufficiente garantisce la possibilità, la grazia efficace realizza l’attualità della salvezza.

          Il predestinazionismo radicale riduce la grazia sufficiente a quella efficace: ogni grazia come tale è efficace e per conseguenza coloro che si salvano hanno la possibilità e la realtà della salvezza, mentre coloro che non si salvano, oltre a non salvarsi, non ne hanno avuto nemmeno la possibilitàsi. In questa prospettiva viene negata l’universalità della volontà salvifica di Dio e si sostiene la predestinazione alla riprovazione, la quale nel calvinismo diventa perfino una predestinazione alla stessa colpa.

          Il semipelagianesimo invece tende a ridurre la grazia efficace a quella sufficiente: tutti hanno la possibilità di salvarsi e coloro che di fatto si salvano conseguono la vita eterna non perché hanno avuto la grazia, ma perché hanno saputo, per mezzo delle opere meritevoli, rendere questa grazia efficiente. In questa prospettiva la grazia trae la sua efficacia non già dalla disposizione e dall’azione assolutamente sovrana di Dio, bensì dalla decisione dell’uomo di accettare la grazia che gli è offerta come possibilità di salvezza.

          San Tommaso invece, distinguendo chiaramente tra la grazia sufficiente comune a tutti e la grazia efficace dei soli predestinati, evita l’eccesso del predestinazionismo in quanto afferma l’esistenza di una vera e propria grazia sufficiente con la quale Dio offre la sua salvezza a tutti gli uomini ed evita allo stesso modo anche gli eccessi del semipelagianesimo, in quanto insegna che la grazia efficace aggiunge qualcosa a quella solamente sufficiente e mentre è vero che la grazia sufficiente non si attua a causa della colpa dell’uomo, è altrettanto vero che la grazia efficace si attua non grazie alle opere umane, ma unicamente grazie alla decisione sovrana di Dio.

           Il merito di Cristo infatti è uguale per tutti quanto alla sua sufficienza, ma non lo è quanto alla sua efficacia e ciò avviene e a causa del libero arbitrio e a causa dell’elezione divina, che nella sua misericordia conferisce l’effetto dei meriti di Cristo e nella sua giustizia sottrae lo stesso merito ai peccatori[5]. Mentre il conferimento dei meriti di Cristo è incondizionato, la sottrazione della grazia è condizionata dalla colpa precedente, alla quale segue come pena. Nel primo caso l’atto del libero arbitrio è effetto della preedestinazione, nel secondo caso l’atto del libero arbitrio si sottrae alla volontà diretta di Dio, ma è preconosciuto e anche voluto in un modo permissivo e più direttamente secondo l’ordine di giustizia tra pena e colpa.

          La grazia sufficiente dà la possibilità di salvarsi, ma non si attua senza la grazia efficace. Evidentemente, l’obiezione più ovvia è quella che una grazia sufficiente che di fatto non consegue mai il suo effetto è non solo alquanto “insufficiente” ma addirittura dannosa. Così la sottrazione della grazia efficace da parte di Dio potrebbe, nonostante la grazia sufficiente, portare alla colpa e alla dannazione e così la responsabilità ricadrebbe di nuovo su Dio che sottrae l’aiuto efficace. Il problema diventa molto chiaro nel caso della cosiddetta “obduratio cordis”, di cui parla talvolta la Sacra Scrittura. Sembra che Dio stesso ne sia la causa.

          Come si salva allora l’universalità della sua volontà salvifica e la “sufficienza” della grazia sufficiente? La Sacra Scrittura dice infatti che Dio indurisce il cuore dell’uomo in un modo tale da non poter ricevere la grazia ed essere liberato dal peccato per mezzo della giustificazione. È proprio quel che osserva S. Paolo (Rm 9, 17-18): “Dice infatti la Scrittura al faraone: ‘Ti ho fatto sorgere per manifestare in te la mia potenza e perché il mio nome sia proclamato in tutta la terra’. Dio quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole”.

          Ora, soprattutto bisogna collocare bene il testo nel suo insieme: non si tratta di accertare quale sia la posizione personale del faraone davanti a Dio, cioè in che modo ha personalmente peccato, se ha perseverato nel peccato fino alla morte e se si è dannato, ma si tratta piuttosto di vedere il male della persecuzione del popolo di Dio in Egitto, di cui il faraone era uno strumento nell’insieme della provvidenza divina, che ordina i mali particolari ad un bene universale[6]. Evidentemente l’ostinazione del faraone suppone un peccato personale e per conseguenza la speculazione teologica può chiedersi in che modo la volontà di Dio che indurisce il cuore riguarda il peccato connesso con questa ostinazione nel male.

Ora, dalle parole della Sacra Scrittura non risulta che Dio sia causa dell’ostinazione nel male attivamente e direttamente. L’uomo indurito nel male non riceve da Dio qualche mozione “cattiva”, che lo istiga al male, né si può dire che Dio rendendo ostinato nel male il cuore di un uomo, lo esclude totalmente dalla sua misericordia, ma le parole di S. Paolo possono essere senz’altro interpretate nel senso di una sottrazione puramente passiva non della possibilità di convertirsi, bensì dell’aiuto efficace che attualmente ed infallibilmente opererebbe la conversione[7]. Perciò, indurire il cuore non vuol necessariamente dire che Dio conferisca positivamente la durezza, la quale appunto non è qualcosa di positivo, bensì un difetto e non vuole dir nemmeno che Dio sottragga la stessa possibilità di salvarsi, anche se sottrae per un tempo prolungato l’aiuto efficace e cioè con esso anche la stessa conversione e giustificazione attuale[8].

Questa poi è anche la soluzione di San Tommaso, una soluzione che, pur non essendo esplicitamente dichiarata nel testo della S. Scrittura, rimane sempre possibile nell’ambito del dato scritturistico. Il Santo Dottore infatti avverte nell’indurimento del cuore due cose: la colpa dell’uomo e sotto questo aspetto Dio non è causa in nessun modo, e la sottrazione di un aiuto speciale non dovuto, cioè della grazia attuale ed efficace, e in questo modo Dio ne è la causa, non in quanto pone qualcosa nell’uomo indurito, ma in quanto, seguendo il proprio giudizio dell’uomo, non manda la luce della sua grazia in coloro nei quali trova l’ostacolo[9].

Vi è per conseguenza una duplice causa dell’indurimento del cuore o dell’accecamento della mente: l’ostacolo posto da parte della causa libera deficiente e la sottrazione della grazia secondo la giusta disposizione del giudizio divino. Il peccatore che persevera nel peccato ha perciò la possibilità di convertirsi, ma Dio, a causa della colpa precedente, gli sottrae l’aiuto efficace per realizzare la conversione[10].

          Ciò che San Tommaso afferma a proposito dell’indurimento del cuore, che si oppone ad una conversione temporanea, lo insegna anche a proposito della riprovazione, che si oppone alla salvezza intesa come effetto globale della predestinazione. Come abbiamo già visto, la predestinazione è soltanto al bene, mentre la volontà di permettere la perseveranza nella colpa e di infliggere la pena della dannazione è condizionata dalla colpa stessa.

          La predestinazione è causa del merito; invece il demerito della colpa è causa della riprovazione. A causa della colpa Dio sottrae il suo aiuto efficace al peccatore, il quale non potrà in questo modo raggiungere la salvezza. Ma Dio abbandona il peccatore non perché questo lo abbandoni a sua volta, ma il peccatore che ha abbandonato Dio è stato a sua volta abbandonato da Lui passando di propria volontà dal bene al male[11].

           La colpa precede l’abbandono da parte di Dio e perciò l’assenza della grazia è causata dal peccato e non viceversa il peccato dall’assenza della grazia. La riprovazione secondo San Tommaso non è la causa della colpa, anche se è la causa dell’abbandono da parte di Dio. Ora, ci si può chiedere se la colpa non potrebbe essere in qualche modo causata da Dio attraverso la sottrazione della grazia. Infatti, l’uomo abbandonato da Dio, cioè privo della grazia efficace, infallibilmente incorre in qualche colpa grave, anche se, in virtù della grazia sufficiente, potrebbe evitarla.

          Il Santo Dottore osserva a questo proposito che, anche se l’uomo privo di grazia non può evitare tutti i peccati insieme, li può però evitare uno dopo l’altro presi singolarmente e perciò l’abbandono da parte di Dio secondo un progetto divino globale non impone allo stesso uomo la necessità di peccare nelle situazioni particolari[12]. L’uomo può evitare il singolo peccato e se non lo evita la colpa è interamente sua; questa colpa a sua volta prevista dall’eternità da Dio è la causa della sottrazione globale della grazia[13], la quale sottrazione, pur non causando il peccato particolare, fa sì che l’uomo nel corso della sua vita potrà commettere e di fatto infallibilmente commetterà delle colpe gravi[14].

Bañez espone giustamente il pensiero di San Tommaso quando afferma che si deve distinguere l’assenza della conversione a Dio come pura negazione di un’entità non dovuta e come privazione di qualcosa che è dovuto sul piano pratico hic et nunc[15]. Se l’assenza della conversione si intende come pura negazione, allora Dio ne è la causa per mezzo della sottrazione della grazia, come è causa della conversione per l’infusione della grazia efficace.

La non conversione segue infatti con necessità di conseguenza (quindi necessità condizionata) alla sottrazione globale della grazia. Qui bisogna però aggiungere che anche sotto questo aspetto Dio non causa allo stesso modo il merito e il demerito. Il bene infatti è causato positivamente per conferimento di una mozione o qualità positiva (grazia efficace), mentre il male è causato indirettamente, a modo di privazione, per mera sottrazione di un’entità non dovuta. Se poi la non conversione viene considerata sotto l’aspetto di un’omissione morale concreta, allora il libero arbitrio creato da solo ne è l’unica causa prima deficiente e Dio giustamente punisce colui che non vuole convertirsi col suo libero arbitrio.

La causa prima del difetto della grazia è infatti il libero arbitrio, anche se la causa prima del conferimento della grazia è Dio e per conseguenza opporsi al conferimento della grazia è colpa eslusivamente della causa seconda libera deficiente[16]. Dio condanna alla pena solo a causa dell’opposizione che vi è tra la salvezza[17] del reprobo e il bene dell’universo e sotto questo aspetto si può dire che la riprovazione corrisponde alla predestinazione per quanto riguarda la sua gratuità, ma lo stesso fatto che la salvezza di un uomo si opponga al bene dell’universo[18] è causato a sua volta dal peccato particolare di quest’ultimo e per conseguenza la riprovazione globale[19] suppone già il peccato particolare[20].

La riprovazione globale è la causa di qualche peccato infallibilmente futuro in genere come la predestinazione è la causa globale di tutti i meriti seguenti. Però mentre la predestinazione generale trova conferma a livello pratico e particolare ed è per conseguenza incondizionata anche a questo livello, la riprovazione in qualche modo “gratuita”[21] sul piano universale, è condizionata dal peccato previsto come futuro in concreto sul piano pratico e particolare.

La riprovazione non è causa del peccato particolare, ma è viceversa in qualche modo causata, condizionata da esso. Perciò non aggiunge nulla alla prescienza né sottrae qualcosa alle capacità naturali del reprobo e perfino alla sua possibilità di salvarsi (grazia sufficiente). Racchiude però in sé la volontà di permettere la colpa, di sottrarre la grazia efficace e di ordinare la pena alla colpa secondo l’ordine della giustizia[22].

La riprovazione considerata universalmente corrisponde alla predestinazione, perché, come questa racchiude la volontà di conferire la grazia e la gloria, così quella racchiude la volontà di permettere il peccato e di infliggere la pena. La differenza sta nel fatto che la volontà della predestinazione è diretta, positiva e incondizionata, mentre la volontà della riprovazione, è indiretta, permissiva e condizionata dalla prescienza del peccato nell’azione particolare. Il condizionamento nella riprovazione però non deve essere inteso da parte della stessa volontà divina, la quale è sempre assoluta, bensì da parte dell’oggetto voluto[23].

La sottrazione della grazia e la dannazione sono volute solo dopo la previsione del peccato. Si potrebbe dire che nella predestinazione il progetto universale raggiunge tutti i particolari e quindi è assoluto anche a livello concreto e pratico, mentre nella riprovazione il progetto universale è assoluto, ma è condizionato a livello pratico da parte dell’oggetto in quanto nei particolari il male di colpa si sottrae alla volontà divina.

La sottrazione della grazia nel progetto della riprovazione porta infallibilmente a qualche peccato in genere, ma in particolare il peccato potrebbe essere evitato in quanto l’uomo è sempre sufficientemente assistito per evitarlo e perciò, in concreto, il peccato nella sua formalità di disordine morale è causato esclusivamente dalla volontà umana deficiente.   

          Già nella letteratura patristica non è raro incontrare un ricorso già quasi esplicito alla distinzione tra grazia efficace e grazia sufficiente, proprio per evitare la conclusione che Dio sia in concreto responsabile del peccato dell’uomo. Il Salvatore dei fedeli che acquistano la salvezza perché hanno voluto conoscere il Signore è allo stesso tempo il Signore degli infedeli, i quali dovranno ammettere di aver ricevuto da Dio i benefici sufficienti universali e comuni a tutti e anche i particolari[24].

          Il Salvatore salva tutti i predestinati, ma domina anche i peccatori che vorrebbero sottrarsi alla sua volontà. La salvezza si acquista per mezzo dei meriti che sono veri atti umani, soprattutto per mezzo della fede intesa come conoscenza. La dannazione suppone il peccato, di cui l’uomo è il solo responsabile perché era assistito da Dio con grazia comune e particolare sufficiente per evitarlo. La causa del peccato concreto, particolare, non può quindi essere ricercata in Dio, ma nell’uomo stesso, il quale, pur essendo privo di un aiuto infallibile di Dio, non era del tutto destituito di aiuti sufficienti per salvarsi. Dio preconosce, ma non predetermina alla malizia morale del peccato, né fa violenza alcuna al libero arbitrio per costringerlo alla virtù, ma allo stesso tempo è la causa di ogni bene e al fuori della sua cooperazione e del suo concorso è impossibile volere od operare qualcosa di buono da parte nostra[25].

      Si sente già chiaramente l’esigenza di conciliare la causalità universale di Dio su tutto ciò che c’è di buono nell’atto umano, ma di escludere allo stesso tempo un influsso violento sul libero arbitrio ed anche un influsso predeterminante sulla malizia della colpa. Quest’ultima è soltanto conosciuta, non voluta direttamente. Il bene invece è tutto un risultato della predestinazione e dell’azione diretta da parte di Dio. L’atto umano è visto già nella sua relativa autonomia tanto nel bene, quanto nel male e si fa già nettamente la distinzione tra la premozione al bene e la permissione del male. Lo stesso atto umano si situa diversamente nei confronti della causalità divina a seconda della sua qualità morale. Dio non ci aiuta a peccare, ma senza il suo aiuto non possiamo raggiungere la pienezza della giustizia.     

Come la luce è causa della vista che vede attualmente un oggetto, ma non è causa della chiusura degli occhi e della conseguente privazione della visione attuale, così anche Dio ci aiuta a fare il bene, ma se facciamo il male, la colpa è unicamente nostra. L’allontanamento da Dio seguente alla conversione disordinata verso beni particolari è causata unicamente dal consenso della nostra volontà libera ad azioni illecite. Dio aiuta coloro che si convertono a lui, mentre abbandona coloro che si allontanano da lui. Ma il fatto stesso che l’uomo si converta a Dio è un effetto dell’azione divina in lui[26] .

Fine Quarta Parte (4/5)

A cura di P. Giovanni Cavalcoli, OP

Fontanellato, 2 Gennaio 2023

      Si sente l’esigenza di conciliare la causalità universale di Dio su tutto ciò che c’è di buono nell’atto umano, ma di escludere allo stesso tempo un influsso violento sul libero arbitrio ed anche un influsso predeterminante sulla malizia della colpa. Quest’ultima è soltanto conosciuta, non voluta direttamente. Il bene invece è tutto un risultato della predestinazione e dell’azione diretta da parte di Dio.

L’atto umano è visto già nella sua relativa autonomia tanto nel bene, quanto nel male e si fa già nettamente la distinzione tra la premozione al bene e la permissione del male. Lo stesso atto umano si situa diversamente nei confronti della causalità divina a seconda della sua qualità morale. Dio non ci aiuta a peccare, ma senza il suo aiuto non possiamo raggiungere la pienezza della giustizia. 

 

Come la luce è causa della vista che vede attualmente un oggetto, ma non è causa della chiusura degli occhi e della conseguente privazione della visione attuale, così anche Dio ci aiuta a fare il bene, ma se facciamo il male, la colpa è unicamente nostra. L’allontanamento da Dio seguente alla conversione disordinata verso beni particolari è causata unicamente dal consenso della nostra volontà libera ad azioni illecite. Dio aiuta coloro che si convertono a lui, mentre abbandona coloro che si allontanano da lui. Ma il fatto stesso che l’uomo si converta a Dio è un effetto dell’azione divina in lui .



Immagini da Internet:
- Volti (Giuditta, Caravaggio)
- Volti (L'urlo, Caravaggio) 



[1] Naturalmente si tratta di un antropomorfismo, perché la velleità in senso proprio è un atto psicologico che dà segno di un volere debole, imperfetto, condizionato o incerto,che evidentemente non si addice a Dio. Che cosa significa, allora? Si tratta semplicemente della volontà divina espressa nel comando, ossia concretamente nei dieci comandamenti. In tal modo si evta il riischo di vedere un Dio la succcessione di due atti distinti di volontà, il che non ha senso perché l’essenza divina consiste tra l’altro in un unico atto di volontà. Quindi la distinzione non è teale, ma semplicemente concettuale+.

[2] Concilium Carisiacum DS 623.

[3] Cfr. Conc. Tridentinum, DS 1522-1523, cfr. il contributo alla discussione sinodale di Gaspar a REGIBUS,  OP, in: Concilium Tridentinum, ed Goerres., t.V, p.595, 39-52: “oportebat ut ea (scil. iustitia), quae omnibus sufficiens erat, nobis fieret efficax quando nobis applicatur et communicatur”.

[4] Denz.1523*.

[5] Verit. q.29, a.7 ad 4: “Meritum Christi quantum ad sufficientiam aequaliter se habet ad omnes, non autem quantum ad efficaciam: quod accidit partim ex libero arbitrio, partim ex divina electione, per quam quibusdam misericorditer effectus meritorum Christi confertur, quibusdam vero iusto iudicio subtrahitur”.  

[6] Cfr. TOB, p.75 ss., 9 (18 a).

[7] Cfr. M.-J. Lagrange, OP, St. Paul. Epître aux Romains, Paris, Gabalda, 1916, p.235 ss.

[8] Si può forse anche dire che Dio indurì il cuore del Faraoene nel senso che predendo atto del suo peccato, Dio non gli concede, in quel momento la grazia efficace, ma prerndndo atto del suo peccato, prende atto del suo cuore indurito+.

[9]  Cfr. Summa Theologiae I-II, q.79, a.3 c.a.: “Deus autem proprio iudicio lumen gratiae non immittit illis in quibus obstaculum invenit”. Cfr. In Rom. IX, lect.3, n.781: “ad bona inclinat /Deus/ hominum voluntates directe et per se, tamquam actor bonorum; ad malum autem dicitur inclinare vel suscitare homines occasionaliter, in quantum scilicet Deus homini aliquid proponit vel interius, vel exterius, quod, quantum est de se, est inductivum ad bonum; sed homo propter suam malitiam perverse utitur ad malum”.

[10] Non è che Dio sottragga la grazia affinchè l’uomo non si converta, ma Dio sottrae la grazia per il fatto che l’uomo non vuol convertirsi+.

[11] Cfr. Maurus Rabanus, Epistola V ad Notingum (cum libro de praedestinatione Dei), MPL 112, 1532 B: “Non enim relicti sunt a Deo ut relinquerent Deum, sed relinquerunt eum et relicti sunt, et ex bono in malum propria voluntate mutati sunt”.

[12] Cfr. Summa Theologiae I, q.23, a.3 ad 2 e ad 3: “licet aliquis non possit gratiam adipisci qui reprobatur a Deo, tamen quod in hoc peccatum vel illud labatur, ex eius libero arbitrio contingit”.

[13] Supponendo il peccato già commesso+.

[14] L’uomo peccando perde la grazia. E Dio a questo punto che cosa fa? Lascia che il peccatore continui a peccare+.

[15] L’assenza della conversione a Dio come pura negazione di un’entità non dovuta, è lostato di peccarto conseguente al peccato; invece la privazione di qualcosa che è dovuto sul piano pratico hic et nunc è la perdita della all’atto del peccato+. 

[16] Dominicus BAÑEZ, OP, Scholastica commentaria in Primam Partem Summae Theologicae S.Thomae Aquinatis, Madrid-Valencia. F.E.V.A., 1934, p.502a, ad I, q.23, a.3, c.a.: “Concedunt Theologi Deum esse causam actus peccati; ergo non est mirum, quod Deus asseratur causa non conversionis, quatenus non conversio est pura negatio entis, non autem quatenus non conversio est omissio mortalis; hoc enim pacto solum liberum arbitrium creatum est causa non conversionis”.

[17] Il reprobo non può salvarsi+

[18] In quanto l’uomo ha peccato+

[19] L’essere riprovato in quanto previsto da Dio+

[20]1F. Marin-Sola, OP, El sistema tomista sobre la moción divina, Madrid (Rev.de archivos) 1925, p.34 con riferimento a I Sent. d.46, a.1 ad 5: “Conditiones quibus homo efficitur deordinatus a consequutione finis, sub quibus existentem Deus eum salvum facere non vult, sunt ex ipso homine: et ideo totum quod sequitur, sibi imputet ad culpam”.

[21] Uso improprio della parola. Probabilmente Padre Tomas intende riferirsi alla possibilità universale di perdersi, possibilità che l’Autore chiama gratutita appunto n  perché Dìo la dà a tutti in forza del fatto che tutti posseggono i llibero arbitrio.

[22] Cfr. Norbertus DEL PRADO, OP, Praelectiones in Summam Theologicam, Roma, Marietti, p.616: “reprobatio Dei non subtrahit aliquid de potentia reprobati; nec addit aliquid supra praescientiam; quia nihil causatur in ipso per quod malus fiat; addit tamen aliquid ex parte Dei reprobantis, scilicet voluntatem ordinis poenae ad culpam”.

[23] Questa istanza è stata giustamente rilevata da SCOTO: cfr. Opera omnia, ed. Balić, Civitas Vaticana, Polygl., 1963, t.VI; ordinatio I, lib.I, dist. 41, q.un.; p. 332 n. 40: “Potest dici aliter quod praedestinationis nulla est ratio, ex parte etiam praedestinati, aliquo modo prior ipsa praedestinatione; reprobatione tamen est aliqua prior, non quidem propter quam Deus effective reprobat in quantum est a Deo actio …, sed propter quam ista actio sic terminatur ad istud obiectum et non ad illud”.  

[24]  CLEMENS ALEXANDRINUS, Stromata. VII, 2; MPG 9, 412 A-B

[25] Cfr. S. IOANNES DAMASCENUS, De fide orthodoxa, II, 30; MPG 94, 972 A.

[26] S. AURELIUS AUGUSTINUS, De peccatorum meritis et remissione, II, 5; MPL 44, 153: “Ad peccandum namque non adiuvamur a Deo; iusta autem agere vel iustitiae praeceptum omni ex parte implere non possumus, nisi adiuvemur a Deo. Sicut enim corporis oculus non adiuvatur a luce, ut ab eadem luce clausus aversusve discedat; ut autem videat adiuvatur ab ea, neque hoc omnino nisi illa adiuverit, potest. Ita Deus, qui lux est hominis interioris, adiuvat nostrae mentis obtutum, ut non secundum nostram, sed secundum eius iustitiam boni aliquid operemur. Si autem ab illo avertimur, nostrum est; et hinc secundum carnem sapimus, tunc concupiscentiae carnis ad illicita consentimus. Conversos ergo Deus adiuvat, aversos deserit. Sed etiam ut convertamur, ipse adiuvat; quod certe oculis corporis lux ista non praestat”.


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