Padre Bruno Esposito e la questione dei castighi divini

 Padre Bruno Esposito e la questione dei castighi divini


Il castigo che ci dà salvezza
si è abbattuto su di lui (Is 53, 5)

L’illustre canonista domenicano mio amico, il Padre Bruno Esposito, ha recentemente pubblicato sul suo blog un articolo dal titolo Dio Padre castiga? dove espone alcune considerazioni importanti, degne di molta attenzione. Io mi sto interessando di questo delicato argomento almeno dal 2016, allorchè ne trattai in una catechesi a Radio Maria, alla quale fece seguito un ampio dibattito, che ancora non si è esaurito.

Avendo da allora molto approfondito la materia, mi sento in grado di misurarmi con questo dotto mio Confratello, al quale faccio alcune obiezioni, conservando ugualmente per lui tutta la mia stima e la mia calda amicizia. Ma è appunto con questa fraterna franchezza che noi Domenicani ci manifestiamo il comune impegno che ci vincola alla testimonianza della verità nella fedeltà alla sana dottrina e al magistero della Chiesa.

Ecco dunque il testo di Padre Esposito, al quale faranno seguito le mie osservazioni. (https://www.padrebruno.com/)

 

Premessa

La presente riflessione non ha nessuna pretesa di affrontare la tematica religiosa, così complessa e sensibile, com’è da sempre quella che generalmente è indicata sotto le cosiddette teorie sulla “retribuzione da parte di Dio”. Ben più semplicemente e modestamente mi propongo qui di verificare o meno l’opportunità, se non addirittura la non correttezza, di continuare ad usare una delle formule – o almeno di verificare l’equivocità o meno di qualche sua parte – previste per l’Atto di dolore dall’edizione tipica per la lingua italiana del Rito della Penitenza (1974 = RP). Quindi si dà per dato acquisito la corrente versione della I formula senza affrontare l’iter della sua redazione, che nelle finalità e nell’economia di questo scritto non interessa.

Inoltre, conviene tenere presente, per comprendere maggiormente le ragioni delle seguenti considerazioni, l’influsso e l’importanza della mentalità corrente. Le categorie di responsabilità, di colpa e di pena sono comuni a più scienze, come la teologia, il diritto, la psichiatria, la sociologia, pur assumendo all’interno di ciascuna una propria e specifica valenza e significato. In modo tutto speciale nell’attuale cultura, le categorie di responsabilità, di colpa e di pena sono di fatto

neutralizzate. Si pensi ad esempio alle neuroscienze ed al loro tentativo di decostruire la pertinenza della categoria di responsabilità. Radicalizzazione del “vietato vietare” di sessantottina memoria e dell’attuale cultura dove tutti possono, anzi, devono fare tutto, ma nessuno è responsabile, con il risultato che è sotto gli occhi di tutti, di molti giovani che sembrano degli “zombie”[1].

La 1a formula dell’Atto di dolore secondo l’edizione tipica del RP in lingua italiana[2]

Salta agli occhi e stride agli orecchi soprattutto l’affermazione riguardante il meritare con il peccato i castighi di Dio. Deve e può punire un genitore? Sicuramente sì se questo serve a correggere i propri figli, quindi a farli crescere facendo prendere loro coscienza che sempre ogni azione ha delle conseguenze, soprattutto a responsabilizzarsi facendo assumere loro le conseguenze dei loro comportamenti (che non possono pretendere che vengano assunte dagli altri!). Diversamente servirebbe a poco o a nulla se si presentasse o venisse percepito il castigo come una forma di dispotica e prepotente repressione o addirittura come bieca vendetta da parte di chi dovrebbe volere solo il bene del frutto della propria carne. Il risultato sarebbe di avere dei frustrati e repressi per mera paura che, alla fine, quando arriverà il momento opportuno, si comporteranno ancora peggio e con sentimenti di risentimento e rivalsa, magari camuffati di una falsa affermazione di libertà con la quale pensano e vogliono autogiustificarsi.

Rimane tuttavia la questione se il Dio Uno e Trino, che si è rilevato in Gesù Cristo, che è comunione e amore per natura e ci chiama ad amare i fratelli comeLui ci ama, (cf 1 Gv 3,18-23; 4,1-19), possa direttamente castigare noi suoi figli, mandandoci una malattia, un lutto o qualunque cosa che abbia un nesso di causalità con un nostro atto cattivo. In linea di principio, ovviamente, può farlo in quanto ci ama e vuole il nostro vero bene come ogni vero ‘genitore’. Non a caso già nell’A.T. anche se Dio si presenta come Colui che ama l’umanità in modo ‘viscerale’ (Rekem, Rakum: utero, cf Es 34,6) questo amore non esenta dalle conseguenti pene (cf Os 10,2), ma rimane altrettanto chiaro però che: “Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Èfraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira” (Os 11,8-9).

Prospettive evidenziate dal recente Magistero

Di fronte a eventi luttuosi, catastrofi, malattie e cose simili, la tentazione ricorrente, per i credenti, è quella di scaricare la responsabilità sulle vittime o, addirittura, su Dio stesso. Papa Francesco ha affrontato questo problema, molte volte male impostato, qualche anno fa sottolineando come Gesù abbia sempre rifiutato chiaramente questa visione, “perché Dio non permette le tragedie per punire le colpe”[3], anche se bisogna essere coscienti e non degli ingenui in quanto rimane un dato di comune esperienza che: “Dio perdona sempre, noi uomini perdoniamo a volte, la natura non perdona mai”[4].

Anche Benedetto XVI ha toccato l’argomento in una catechesi sulla preghiera di Abramo per Sodoma del 18 maggio 2011, già tracciando e indicando la corretta soluzione, partendo dal monito rivolto dal profeta Geremia al popolo ribelle: “La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio” (Ger 2,19) evidenziando che: “… essere salvati non significa semplicemente sfuggire alla punizione, ma essere liberati dal male che ci abita. Non è il castigo che deve essere eliminato, ma il peccato, quel rifiuto di Dio e dell’amore che porta in sé il castigo” Il Signore vuole salvare l’uomo liberandolo dal peccato, ma lo lascia libero: ed è quindi già il “rifiuto di Dio e dell’amore che porta già in sé il castigo”[5], la pena. Molti anni prima (1986) l’allora card. Ratzinger nel libro Guardare a Cristo faceva delle profonde considerazioni riguardanti le relazioni tra amore e perdono e notava giustamente che l’autentico amore non significa affatto accettare tutto: “…un amore reale, al contrario del breve incanto di un momento, ha a che fare con la verità e si rivolge in tal modo alla verità di questa persona, che può essere anche non sviluppata o nascosta o deformata. Certamente l’amore include una disponibilità inesauribile al perdono, ma il perdono presuppone il riconoscimento del peccato quale peccato. Il perdono è guarigione, mentre l’approvazione del male sarebbe distruzione, sarebbe accettazione della malattia e proprio in tal modo non bontà per l’altro. […] Il vero amore è pronto a comprendere, ma non ad approvare, dichiarando buono ciò che non si può approvare e non è buono. Il perdono ha la sua strada interiore: perdono è guarigione, cioè esige il ritorno alla verità. Quando non lo fa, il perdono diventa un’approvazione dell’autodistruzione, si mette in contraddizione con la verità e in tal modo con l’amore […] Un Gesù che approva tutto, è un Gesù senza la croce, perché allora non c’è bisogno del dolore della croce per guarire l’uomo” (pp. 75-76).

Però, a mio sommesso avviso, è il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), che aiuta a fugare ogni perplessità sull’opportunità – senza mettere in discussione la correttezza a livello teologico e antropologico, ma sicuramente per l’equivocità dato il presente contesto sociologico e culturale – di togliere il riferimento ai castighi nell’Atto di dolore. Citando sant’Agostino, esso ricorda una semplice e profonda verità, spesso e volentieri trascurata, e cioè che Dio:”… essendo supremamente buono, non permetterebbe mai che un qualsiasi male esistesse nelle sue opere, se non fosse sufficientemente potente e buono da trarre dal male stesso il bene” (n. 311) “per vie che conosceremo pienamente soltanto nella vita eterna” (n. 324). D’altra parte, Gesù non è venuto per giudicare, ma per salvare, e quindi sempre il CCC afferma: “È per il rifiuto della grazia nella vita presente che ognuno si giudica da se stesso, riceve secondo le sue opere e può anche condannarsi per l’eternità” (n. 679). Ancora più chiaro è il seguente passo in cui si affronta direttamente il significato delle pene del peccato. “Per comprendere questa dottrina e questa pratica della Chiesa bisogna tener presente che il peccato ha una duplice conseguenza. Il peccato grave ci priva della comunione con Dio e perciò ci rende incapaci di conseguire la vita eterna, la cui privazione è chiamata la ‘pena eterna’ del peccato. D’altra parte, ogni peccato, anche veniale, provoca un attaccamento malsano alle creature, che ha bisogno di purificazione, sia quaggiù, sia dopo la morte, nello stato chiamato purgatorio. Tale purificazione libera dalla cosiddetta ‘pena temporale’ del peccato. Queste due pene non devono essere concepite come una specie di vendetta, che Dio infligge dall’esterno, bensì come derivanti dalla natura stessa del peccato [naturali conseguenze]. Una conversione, che procede da una fervente carità, può arrivare alla totale purificazione del peccatore, coì che non sussista più alcuna pena” (n. 1472). Certezza riguardo all’esistenza/esigenza della giusta pena non solo per quanto tocca la vita eterna, ma anche la presente nella quale siamo pellegrini. Infatti, subito dopo il CCC afferma: “Rimangono, tuttavia, le pene temporali del peccato. Il cristiano deve sforzarsi, sopportando pazientemente le sofferenze e le prove di ogni genere e, venuto il giorno, affrontando serenamente la morte, di accettare come una grazia queste pene temporali del peccato; deve impegnarsi, attraverso le opere di misericordia e di carità, come pure mediante la preghiera e le varie pratiche di penitenza, a spogliarsi completamente dell’’uomo vecchio’ e a rivestire ‘l’uomo nuovo’ (cf Ef 4,24)”.

Conclusione

I testi che mi sono limitato a riportare spero possano costituire da stimolo per una personale e comunitaria riflessione che deve andare al di là della formula dell’Atto di dolore presa in esame, proponendosi piuttosto come occasione di maturazione della propria fede cristiana (cf Ef 4,13). Sì, perché in gioco, alla fine, è l’idea che ci siamo fatta,

o che altri hanno contribuita a formare, del Dio vivo e vero che Cristo ci ha rivelato come Padre premuroso e misericordioso (cf Mt 6,26;32; Lc 6,36). Di fatto gran parte della vita pubblica di Gesù è stata una predicazione del vero volto Dio in opposizione alla caricatura fatta di lui da parte del potere religioso del suo tempo, che da sempre si è lasciato vincere dalla tentazione di trasmettere al popolo un Dio più da temere che da amare, un giustiziere implacabile al quale non sfugge mai nulla e che alla fine fa pagare tutto a tutti. Contro questa falsa immagine di Dio si sono scagliati i profeti dell’A. T., Giovanni il Battista con l’indicare Gesù come l’agnello di Dio in un mondo infestato da belve, e Gesù stesso che ha combattuto il mondo vecchio fatto di vuoti riti e vani sacrifici che cercavano invano di ‘tappare’ la coscienza che reagiva alle mancanze di fronte ai bisogni del prossimo, credendo così di mettersi in regola con Dio.

Paradossalmente, come abbiamo meditato domenica scorsa ascoltando la parabola del Samaritano (cf Lc 10,30-37) chi si fa prossimo del fratello sta amando come ama Dio[6] e allora anche i concetti di pena e castigo assumono una specifica valenza, e devono comprendersi piuttosto come conseguenze delle proprie scelte più che imposizioni di una giustizia cieca ed esterna se non addirittura sentita come estranea e invadente della propria libertà.

 Amore, paternità di Dio, libertà delle persone, la responsabilità che Dio ci riconosce come segno della nostra dignità considerandoci delle persone mature, castigo, pene, sono ingredienti che devono essere ben intesi e miscelati, al fine di evitarne una formulazione esplosiva che incenerisca quel che resta della fede in tantissime persone oggi. Al di là delle possibili spiegazioni a livello teologico, mi ritorna in mente in particolare una scena del film “Preferisco il Paradiso” dove a un P. Filippo Neri scoraggiato e depresso per non aver capito e aiutato Camillo, risponde uno dei suoi ragazzi più scavezzacollo, Mezzapagnotta: “Nessun padre può tenere tutte le cattiverie del mondo, il male e le sue conseguenze lontani dai suoi figli, specialmente se quel Padre ha scelto di dare ai suoi figli il dono più grande: la libertà!”. Un tale Padre non potrà che avere a cuore, in modo viscerale, il bene dei suoi figli, ma questo, proprio per la dignità che riconosce loro, non significa che possa evitare loro le intrinseche conseguenze di quel dono così grande che è proprio la libertà. Allora, per gli argomenti portati, non sarebbe opportuno rivedere la redazione di questa I formula dell’Atto di dolore in lingua italiana, quale fattivo contributo a restituire la vera immagine del Dio di Gesù Cristo al suo popolo?

Basilica Cateriniana san Domenico, Siena 11 luglio 2022

Festa liturgica di san Benedetto

P. Bruno, O.P.

https://www.padrebruno.com/dio-padre-castiga/

 

NOTE

[1]https://www.corriere.it/cronache/22_luglio_10/milano-notte-taxi-cazzullo-b7487ab0-ffbe-11ec-a15c-229c03190307.shtml.

[2] “Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi, e molto più perché ho offeso te, infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa. Propongo col tuo santo aiuto di non offenderti mai più e di fuggire le occasioni prossime di peccato. Signore, misericordia, perdonami” (RP, n. 45, p. 48).

In teoria dovrebbe essere la traduzione della seguente formula prevista dall’edizione tipica latina, però, come si può oggettivamente verificare, non solo non si tratta di una mera traduzione letterale– a cura di chi scrive qual è quella che segue alla versione latina– ma addirittura salta agli occhi l’aggiunta dei castighi da parte di Dio per aver commesso i peccati:

“Deus meus, ex toto corde me pǽnitet ac dóleo de ómnibus quæ male egi et de bono quod omísi, quia peccándo offendi Te, summe bonum ac dignum qui super ómnia diligáris. Fírmiter propóno, adiuvánte grátia tua, me pæniténtiam ágere, de cétero non peccatúrum peccantíque occasiónes fugitúrum. Per mérita passiónis Salvatóris nostri Iesu Christi, Dómine, misérere” (Sacra Congregatio pro Cultu Divino, Rituale romanum ex Decreto Sacrosancti Oecumenici Concilii Vaticani II instauratum auctoritate Pauli PP. VI promulgatum. Ordo Paenitentiae. Editio typica, E Civitate Vaticana 1974, p. 27).

“Mio Dio mi pento e mi dolgo con tutto il cuore del male che ho fatto e del bene che ho omesso perché peccando ho offeso Te, infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa. Propongo fermamente, con l’aiuto della tua grazia, di fare penitenza, e per il futuro di non peccare e di fuggire le occasioni peccaminose. Per i meriti della passione del Salvatore nostro Gesù Cristo, Signore, abbi pietà di me”.

Di fatto l’attuale I formula dell’Atto di dolore in italiano è piuttosto la traduzione del seguente testo latino, ma a questo punto non è chiaro qual è il testo originale: se l’italiano o il latino!

“Deus meus, ex toto corde pǽnitet me ómnium meórum peccatórum, éaque detéstor, quia peccándo, non solum pœnas a te iuste statútas proméritus sum, sed præsértim quia offéndi te, summum bonum, ac dignum qui super ómnia diligáris.

Ideo fírmiter propóno, adiuvánte grátia tua, de cétero me non peccatúrum peccandíque occasiónes próximas fugitúrum”.

Nelle traduzioni nelle altre lingue: in inglese abbiamo due versioni, una con il riferimento ai castighi e una senza, in spagnolo c’è il riferimento alle pene meritate stabilite giustamente da Dio, mentre non si dà nessun riferimento ai castighi nelle traduzioni in lingua francese, portoghese e ungherese.

[3]Cfhttps://www.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2016/documents/papa-francesco_angelus_20160228.html

[4]https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/february/documents/papa-francesco_20190214_fao.html#DISCORSO_DEL_SANTO_PADRE__AI_PARTECIPANTI_ALLA_IV_RIUNIONE_DEL_FORUM_DEI_POPOLI_INDIGENI

[5]https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_2011

[4]https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/february/documents/papa-francesco_20190214_fao.html#DISCORSO_DEL_SANTO_PADRE__AI_PARTECIPANTI_ALLA_IV_RIUNIONE_DEL_FORUM_DEI_POPOLI_INDIGENI

[5]https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110518.html.

[6] Il peccato originale è consistito essenzialmente nel cedere alla tentazione – il lasciarsi sedurre da ciò che sistematicamente non paga e non risponde alle aspettative – di essere come Dio, se non addirittura di farsi come lui: “Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male».” (Gen 3,5). Cristo ci rivela come possiamo essere simili a Dio: amando i fratelli “… non a parole, ma coi fatti e nella verità” (1 Gv 3,18), “… perché Dio è amore” (1 Gv 4,8; cf anche vv. 9-16).

 

Le mie osservazioni

1.«Si pone la questione se il Dio Uno e Trino, che si è rivelato in Gesù Cristo, che è comunione e amore per natura e ci chiama ad amare i fratelli come Lui ci ama, (cf 1 Gv 3,18-23; 4,1-19), possa direttamente castigare noi suoi figli, mandandoci una malattia, un lutto o qualunque cosa che abbia un nesso di causalità con un nostro atto cattivo».

Rispondo che l’evento penoso che può seguire a un nostro peccato non necessariamente è causato da quel peccato. Ma nulla ci impedisce di vedere in questo evento un castigo divino, anche se il peccato commesso è rimasto impunito o di per sé non ha causato in noi alcuna pena esterna o, almeno apparentemente, alcun danno.  Questa interpretazione dell’evento, tuttavia,  ci fa trovare la pace del sentirci riconciliati con Dio e perdonati.

Quello che possiamo provare in questi casi semmai è il rimprovero della coscienza, che si può considerare un castigo, se per castigo intendiamo la pena inflitta a un reo da un giudice per una cattiva azione. Infatti la coscienza è un giudice interiore delle nostre azioni. Anche in questo caso l’accettazione del rimprovero è sorgente di pace e riconciliazione con Dio. «Hai fatto bene, Signore, ad umiliarmi, perché io impari ad obbedirti» (Sal 119, 75).

L’anima pia, consapevole e addolorata per la colpa commessa, non ha difficoltà a vedere in eventuali pene, dolori o sventure successivi al peccato commesso, la mano di Dio che lo chiama all’espiazione, alla riparazione o a dar soddisfazione alla sua dignità offesa. E se nessun guaio le capita, pensa lei stessa a far penitenza con opere riparatrici o penitenziali.

2. «Di fronte a eventi luttuosi, catastrofi, malattie e cose simili, la tentazione ricorrente, per i credenti, è quella di scaricare la responsabilità sulle vittime o, addirittura, su Dio stesso».

Osservo che certi eventi luttuosi, malattie o cose simili a volte ce li tiriamo addosso noi o con la nostra imprevidenza o con la nostra incuria o con la nostra imprudenza o per i nostri vizi o per sbadataggine o avventatezza o perché non rispettiamo i comandi del Signore o le leggi civili o le norme per mantenerci in salute.

Allorchè sopraggiungono eventi luttuosi, malattie e cose simili non si tratta di individuare ogni volta delle responsabilità o delle colpe. Può non essere colpa di nessuno. Quanto a pensare a Dio, è evidente che sarebbe empio dargli delle colpe. Ma non si tratta di questo.

Quando capitano fatti del genere, dobbiamo vedere in essi un richiamo di Dio a convertirci e a fare penitenza dei nostri peccati. Se queste cose dolorose capitano ad innocenti, essi sono chiamati ad unirsi alla sofferenza dell’Innocente per eccellenza, l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo. Inoltre sarà bene ricordare che la causa prima di tutte le disgrazie e sofferenze di questa vita è il peccato originale.

3. «Dio non permette le tragedie per punire le colpe».

Effettivamente capita spesso che tante tragedie Dio le permette senza che coloro che ne sono le vittime abbiano compiuto peccati così gravi da meritare simili tragedie. Tuttavia esistono altri casi molto noti, circa i quali quanto è lecito porsi la domanda. Chiediamoci infatti: la tragedia della disfatta della Germania nazista non sarà stata permessa da Dio per punire le colpe dei nazisti? La tragedia della fine del fascismo non sarà stata permessa da Dio per punire la sciagurata alleanza con la Germania nazista? La tragedia delle guerre di religione del sec.XVI non sarà stata permessa da Dio per punire i luterani? La tragedia della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki non sarà stata la punizione divina per l’alleanza del Giappone con Hitler? La tragedia dell’Olocausto non sarà stata la punizione divina per il bimillenario rifiuto ebraico del Messia? La tragedia del covid che sta tormentando il mondo da quasi tre anni non sarà un richiamo di Dio a convertirci dai nostri peccati? Inoltre Dio permette le tragedie affinchè da esse ricaviamo occasione per convertirci e fare penitenza.

4. Preciso che Dio è disposto a perdonare sempre. Ma di fatto non perdona sempre, perché alcuni non si pentono. E per questo manda le sventure, perché traggano da esse occasione per pentirsi.

5. Osservo che certamente il castigo ce lo tiriamo noi addosso col nostro peccato. Tuttavia la Scrittura presenta Dio come un Giudice. Per questo nella Scrittura il castigo ha l’aspetto della sentenza di un giudice che irroga una pena e nel Credo proclamiamo et iterum venturus est cum gloria iudicare vivos et mortuos.

 6. Osservo che la natura non perdona perché non è una persona. Ma d’altra parte teniamo presente che l’agire della natura è mosso da Dio. E per questo i castighi che la natura c’infligge sono in ultima analisi castighi divini. D’altra parte essa manda sventure anche indipendentemente dal fatto che l’abbiamo offesa. Che vuol dire questo? Che qui ci troviamo davanti alle conseguenze penali del peccato originale. Pertanto anche in questo caso possiamo parlare di castigo divino.

7. Riconosco che è vero che Gesù non è venuto a condannare, ma a salvare. Tuttavia, subito dopo queste parole, Egli precisa che «chi non crede è già stato condannato» (Gv 3,18). E dunque? Gesù intende dire che tutti possono salvarsi, ma non tutti si salvano.

8. Osservo che le parole «ho meritato i tuoi castighi» rispondono a verità, perché così effettivamente avviene. Beato colui che nelle sventure che gli capitano vede i castighi divini per i suoi peccati, perché in tal modo Egli li sconta, li ripara e li espia, si purifica, ottiene il perdono e recupera l’innocenza. E se le sventure vengono dalla natura, chi è che muove la natura ad agire? Si può dire che la natura ci castiga per le offese che le arrechiamo. Ma offendere la natura vuol dire offendere Dio che ne è l’autore. Allora, in ultima analisi, da dove viene il castigo, se non da Dio? La natura non agisce per conto proprio, indipendentemente da Dio, perché è sua creatura.

9. Osservo che, certo, Dio non è «un giustiziere implacabile al quale non sfugge mai nulla e che alla fine fa pagare tutto a tutti». Dio è liberale, comprensivo, tollerante verso chi ha buona volontà e non ce la fa, ma non permette che ci si prenda gioco di Lui, che si voglia approfittare della sua bontà o si voglia svicolare o farla franca. Costoro sono avvertiti: «non uscirai di prigione finché tu non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo» (Mt 5,26)

10. “Deus meus, ex toto corde me pǽnitet ac dóleo de ómnibus quæ male egi et de bono quod omísi, quia peccándo offendi Te, summe bonum ac dignum qui super ómnia diligáris”.

Osservo che offendere Dio equivale a dire meritare il suo castigo, giacchè per che cosa meritiamo il castigo se non perchè l’abbiamo offeso? Forse si dirà: ma Dio perdona l’offesa. Sì, ma al prezzo del sangue di Cristo – vedi Santa Caterina - , che per noi ha soddisfatto (satisfecit pro nobis) al Padre prendendo su di sé il «castigo che ci salva» (Is 53,5). Sconta a noi quello che non ha scontato a Lui.

Mi permetto di segnalarti il mio libro Perché peccando ho meritato i tuoi castighi. Un teologo davanti al coronavirus, Edizioni Chorabooks, Hong Kong 2020.

P. Giovanni Cavalcoli 

Fontanellato, 14 luglio 2022


 

Certi eventi luttuosi, malattie o cose simili a volte ce li tiriamo addosso noi o con la nostra imprevidenza o con la nostra incuria o con la nostra imprudenza o per i nostri vizi o per sbadataggine o avventatezza o perché non rispettiamo i comandi del Signore o le leggi civili o le norme per mantenerci in salute.

 

Immagine da Internet: La fuga di Lot

4 commenti:

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  2. Gentile Padre,
    Ho letto come sempre con interesse il suo contributo. Al di là delle considerazioni teologiche, a me viene in mente anche un altro tipo di obiezione, certamente meno importante ma che comunque mi dà da pensare. Il concetto di castigo divino, presentissimo nella spiritualità cristiana (non solo cattolica) finché il buonismo non ha cominciato a spadroneggiare in decenni tutto sommato recenti, ha trovato espressione anche in eventi quali le apparizioni della B. V. Maria a Fatima ("[...] Dio sta per castigare il mondo per i suoi crimini, per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre [...]"). Ora, benché le apparizioni mariane, com'è noto, non costituiscano in alcun modo una fonte di rivelazione o di magistero, mi pare che il "constat de supernaturalitate" che la Chiesa vi ha apposto come sigillo implichi che esse per lo meno non contengono nulla che ripugni alla sana dottrina. Ergo, o la Madonna si è sbagliata ad usare delle espressioni imprudenti e, a dire di alcuni, persino blasfeme, e inoltre si è sbagliata la Chiesa nell'approvare queste apparizioni, oppure si sbaglia chi si scaglia contro questa precisa maniera di esprimersi, che trova la sua origine più evidente nella Sacra Pagina e che si sviluppa senza discontinuità lungo i secoli nell'insengamento dei santi e sulle labbra dei Sommi Pontefici. A tal proposito, poiché nel blog da lei commentato si cita una catechesi del Santo Padre Francesco, mi piacerebbe capire perché una catechesi recente dovrebbe obliterare un discorso tenuto da Benedetto XV ai predicatori quaresimali nel 1917, in cui il Sommo Pontefice allora regnante si esprimeva come segue: "Tutto ciò che accade nel mondo dev’essere spiegato alla luce della fede. Questo ammirabile lume, per non accennare che ad una parte dei suoi insegnamenti, ci fa comprendere che le private sventure sono meritati castighi, o almeno esercizio di virtù per gli individui, e che i pubblici flagelli sono espiazione delle colpe onde le pubbliche autorità e le nazioni si sono allontanate da Dio" (cf. qui: https://www.vatican.va/content/benedict-xv/it/speeches/documents/hf_ben-xv_spe_19170219_lenten-priests.html). Forse che quel che viene detto nel 2022 ha ex sese più valore di quel che veniva detto nel 1917? Ammetto di essere molto disorientato di fronte a questo modo di argomentare. Né mi pare che l'appello alla "mentalità corrente" risolva il problema: qui non si tratta di forme, ma di contenuti: Nostro Signore castiga positivamente e/o permissivamente, sì o no? Mi sembra che invocare la mentalità di un'epoca sia solo un modo per evitare di rispondere, e che non tenga laddove si tratta di un concetto ben preciso, e non della sua eventuale formulazione. Mi illumini, caro Padre.

    In Cristo,

    Pietro

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  3. Aggiungo, caro Padre, che nel 1958 il Santo Pontefice Giovanni XXIII, da tutti, e a ragione, chiamato il "papa buono", si esprimeva alla popolazione di Messina nei termini seguenti (a proposito del terremoto del 1908): "Ed Egli [scil. Dio] vi dice di fuggire il peccato, causa principale dei grandi castighi". Ciò fa eco ai toni della Datis nuperrime, scritta appena due anni prima dal ven. Pio XII, che parlando della repressione sovientica in Ungheria dice espressamente che "[...] il sangue del popolo ungherese grida al Signore, il quale, come giusto giudice, se punisce spesso i peccati dei privati soltanto dopo la morte, tuttavia colpisce talora i governanti e le nazioni stesse anche in questa vita, per le loro ingiustizie, come la storia ci insegna".

    Pietro

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I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.