Guerra e dignità umana - La questione della liceità del servizio militare - Prima Parte (1/2)

 

Guerra e dignità umana

La questione della liceità del servizio militare

 

Prima Parte (1/2)

 

In che senso la guerra è la negazione della dignità umana?

 

Come sappiamo, nei primissimi secoli prima di Costantino molti cristiani furono martirizzati perché convertendosi al cristianesimo, abbandonavano il servizio militare. Trovavano incompatibile con l’amore del prossimo e l’onore di Dio stare al servizio di un Imperatore considerato un dio, che perseguitava i cristiani.

 

Oggi in Italia e in molti Stati del mondo democratici abbiamo la figura del cappellano militare per l’assistenza religiosa delle truppe, le quali non vedono alcuna contraddizione tra la professione del militare e la pratica della vita cristiana.  È giustificata questa convinzione?

La Dichiarazione Dignitas infinita affronta la questione della liceità della guerra e se essa comporti un’offesa alla dignità umana. Far guerra è violazione del comandamento Non uccidere?

Il documento riconosce il «diritto inalienabile alla legittima difesa, nonché la responsabilità di proteggere coloro la cui esistenza è minacciata». Tuttavia è tutto una requisitoria senza alcuna eccezione contro la pratica della guerra, che non sarebbe mai giusta e non potrebbe essere motivata dalla religione, ossia dal dovere di compiere la volontà di Dio che vuole appunto la difesa e la liberazione degli oppressi.

La guerra, ogni guerra viene definita nei termini più negativi, come un crimine collettivo, uno sfogo di odio reciproco, un atto di crudeltà, di insensata violenza e rabbiosa distruzione, un immane disastro, una fabbrica di morte, la negazione della dignità umana, quanto di peggio si possa immaginare contro l’amore del prossimo e l’onore di Dio. Così la Dichiarazione definisce la guerra:

«38. tragedia che nega la dignità umana. Con la sua scia di distruzione e dolore, la guerra attacca la dignità umana a breve e a lungo termine»; la guerra è sempre una “sconfitta dell’umanità”. Nessuna guerra vale le lacrime di una madre che ha visto suo figlio mutilato o morto; nessuna guerra vale la perdita della vita, fosse anche di una sola persona umana, essere sacro, creato a immagine e somiglianza del creatore; nessuna guerra vale l’avvelenamento della nostra Casa Comune; e nessuna guerra vale la disperazione di quanti sono costretti a lasciare la loro patria e vengono privati, da un momento all’altro, della loro casa e di tutti i legami familiari, amicali, sociali e culturali che sono stati costruiti, a volte attraverso generazioni». Tutte le guerre, per il solo fatto di contraddire la dignità umana, sono «conflitti che non risolveranno i problemi, ma li aumenteranno.

39. Di conseguenza, anche oggi la Chiesa non può che fare sue le parole dei Pontefici, ripetendo con san Paolo VI: «jamais plus la guerre, jamais plus la guerre!», e chiedendo, insieme a san Giovanni Paolo II, «a tutti nel nome di Dio e nel nome dell’uomo: Non uccidete! Non preparate agli uomini distruzioni e sterminio! Pensate ai vostri fratelli che soffrono fame e miseria! Rispettate la dignità e la libertà di ciascuno!».] Proprio nel nostro tempo questo è il grido della Chiesa e di tutta l’umanità. Papa Francesco sottolinea, infine, che «non possiamo più pensare alla guerra come soluzione. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”. Mai più la guerra!». Poiché l’umanità ricade spesso negli stessi errori del passato, «per costruire la pace è necessario uscire dalla logica della legittimità della guerra». L’intima relazione che esiste tra fede e dignità umana rende contradittorio che la guerra sia fondata su convinzioni religiose: «coloro che invocano il nome di Dio per giustificare il terrorismo, la violenza e la guerra non seguono la via di Dio: la guerra in nome della religione è una guerra contro la religione stessa».

Che cosa intendiamo col termine «guerra»?

Ora qui si pone innanzitutto un problema di significato delle parole. Poi vedremo di chiarire il concetto di guerra e la sua eventuale liceità morale. Occorre dunque ricordare, come può fare un dizionario, che cosa s’intende correntemente col termine «guerra». Infatti, esiste una definizione nominale corrente che effettivamente non è tale da presentare la guerra in modo attraente: «conflitto armato tra due Stati».

Potrà mai apparire una cosa giusta il fatto che due raggruppamenti umani si ammazzino vicendevolmente? Da qui la concezione della guerra come fatto odioso e insensato, o una specie di crudeltà o di pazzia, salvo per chi abbia il gusto crudele del conflitto e del litigare o del contendere fini a se stessi.

Un’altra definizione, più illuminante, è quella concettuale, che mostra la guerra come atto umano, quindi soggetto ad essere giusto o ingiusto, virtuoso o peccaminoso: «guerra è l’azione militare di uno Stato nei confronti di un altro per difendersi dall’aggressione di questo o per ottenere con la forza militare la riparazione dei propri diritti lesi.

Come non chiamare guerra l’uso della forza militare da parte di uno Stato contro un altro? Se dunque questo non può mai essere giusto, ma esprime sempre odio, violenza, sopraffazione, distruzione, omicidio, come si potrà parlare di «diritto inalienabile degli Stati alla legittima difesa, nonché della responsabilità di proteggere coloro la cui esistenza è minacciata»?

Osserviamo pertanto che il vedere la guerra solo come tragedia, un male dove non c’è nulla buono, puro frutto della malvagità umana oppure un’immane sciagura che si abbatte sugli uomini come fosse un cataclisma o una calamità naturale, è una visuale che certo ha del vero, ma insufficiente al far cessare le guerre e a sedare i conflitti che sorgono.

Una visione della guerra come fenomeno di irrazionalità collettiva scoraggia dal compito di esaminare ed analizzarne criticamente gli aspetti, le origini, le cause, le idee, i motivi, le linee di tendenza, le istanze che animano, le prospettive, i valori in gioco, gli attori principali, tutte cose che bisogna conoscere se si vuol fare seriamente opera di pacificazione e conciliazione con equità e imparzialità.

La Dichiarazione afferma: «per costruire la pace è necessario uscire dalla logica della legittimità della guerra». Questa affermazione non esclude la possibilità di una guerra giusta, ma colpisce l’hegelismo, il quale considera la guerra o la conflittualità come tale come processo logico-dialettico, per il quale si realizza il divenire della storia come divenire dell’Assoluto.

Il fenomeno della guerra moderna è di estrema complessità. Dobbiamo stare attenti a non ridurre il rapporto della nazione invasa con lo Stato invasore all’incidente del passante che viene rapinato del suo portafoglio da un ladro, sicchè tutto si risolve nel fatto che un carabiniere che ha assistito alla scena costringe il ladro a restituire il portafoglio.

Un simile semplicismo rende impossibile il discernimento delle ragioni e dei torti di ambo le parti e per conseguenza diventa impossibile rintracciare i valori comuni ai due nemici, valori che costituiscono la ragione per por fine al conflitto secondo criteri di giustizia. Se vince chi ha ragione, il vincitore tratterà la pace secondo la clemenza e senza esigere dal vinto umilianti condizioni. Se dovesse vincere chi ha torto, il perdente porterà pazienza nella speranza e nell’attesa di poter far valere i propri diritti. 

È chiaro peraltro che se uno Stato è aggredito da un altro o se cittadini di uno Stato vedono loro connazionali nel territorio di un altro Stato, il quale li opprime e li maltratta, che può e deve fare? Persuadere lo Stato invasore a ritirare le sue truppe o lo Stato occupante a concedere libertà ai propri connazionali o a restituire i territori occupati? Ma da sempre la storia constata che ciò si può ottenere solo con l’uso, ovviamente moderato, delle forze armate. E come non chiamare guerra quest’uso dell’esercito? E come qui non si potrebbe parlare di una guerra giusta?

Un’ultima considerazione circa la questione della guerra giusta è il valore del presupposto teoretico-pratico più generale riguardante la liceità da parte dell’autorità giudiziaria di amministrare la giustizi facendo uso della forza o della coercizione. Non si viene a mancare di rispetto alla dignità del reo o dell’avversario? Non si viene a violentare una persona? Non si viene a credere che una possa agire meccanicamente come fosse una macchina o sollecitata emotivamente come se fosse un animale? Non si presuppone la negazione della natura del libero arbitrio? Può la volontà essere costretta?

L’errore di Hegel nel giudicare il valore morale dei fatti storici

Per questo, per dare un retto giudizio morale su di una guerra in corso e trovare e indicare agli avversari la via della conciliazione, dell’accordo e della pace, occorre vagliare nei due avversari quali ragioni hanno per combattere e chi dei due ha ragione e chi ha torto, facendo attenzione ad evitare il concetto hegeliano della vittoria militare, per il quale la ragione va al più forte che trionfa militarmente.  

Qui il fatto stesso costituisce diritto. Ciò che avviene negli atti umani non dev’essere regolato da una ragione ad essi trascendente, ma per Hegel la razionalità di questi atti o fatti coincide col fatto stesso che si siano attuati o siano avvenuti. Se non si sono verificati, vuol dire che colui che voleva attuarli aveva torto. Per Hegel tutto quello che succede è giusto e razionale. Se in quella data guerra ha vinto quel dato paese, non c’è da chiedersi se ha fatto bene o se aveva ragione. Il semplice fatto d’aver vinto dimostra che aveva ragione lui.

In tal modo per Hegel i vincitori hanno sempre ragione per il semplice fatto che vincono. Hegel si richiama sì al valore del razionale e dell’ideale come regola dell’agire, ma siccome identifica il pensiero con l’essere, l’essere con l’agire, l’intendere col volere, la metafisica con la morale e l’antropologia con la teologia, succede che l’ideale e il razionale si identificano col reale, per cui gli viene meno il criterio di giudizio morale su di una data azione umana e quindi su di una data guerra. 

Per lui non ha senso chiedersi se il vincitore aveva ragione o aveva torto. Per lui il vincitore aveva ragione per il semplice fatto di avere vinto. Ragionando come ragiona Hegel dovremmo dire che gli Americani sconfiggendo Hitler, hanno dimostrato di aver ragione a sostenere la democrazia. Ma se la guerra l’avesse vinta Hitler, era lui a dimostrare che il nazismo è giusto. Il vincitore dimostra di aver ragione non con un sillogismo, ma col fatto stesso di vincere l’avversario in battaglia. La causa del vincitore era certamente quella giusta per il semplice fatto di essere vincitore. È evidente che qui non siamo davanti al criterio della giusta guerra, ma all’apologia della violenza e della barbarie.

Qui evidentemente non siamo davanti alla forza spirituale della ragione, che basandosi sulla giustizia produce giustizia, ma alla ragione della forza, alla forza bruta dell’irrazionale, alla barbarie mascherata da ragione, che è violenza, odio e sopraffazione.

Il guerreggiare non viola necessariamente il V Comandamento

La Dichiarazione cita le seguenti parole del Papa:

«Papa Francesco sottolinea, infine, che “non possiamo più pensare alla guerra come soluzione. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”».

Il criterio della guerra giusta è che

1. vi sia una giusta causa, come per esempio la liberazione della patria dallo stranero o di un altro popolo che chiede aiuto contro un invasore;

2. vi sia la speranza di ottenere ciò che si prefigge, ossia si abbiano i mezzi sufficienti o adatti per raggiungere il fine, che è la vittoria sull’avversario;

3. si siano già impiegati e rivelatisi inutili tutti i mezzi disponibili di persuasione;

4. Trattandosi di un affare di interesse pubblico, la guerra dev’essere dichiarata dallo Stato contro lo Stato aggressore o autore dell’ingiustizia che con la guerra si suppone di poter togliere.

La posizione del Papa la si comprende se facciamo riferimento al secondo punto, quello dei mezzi adatti al fine. Il Papa vuol dirci che oggi il secondo punto è irrealizzabile, per cui vengono meno i «criteri razionali per parlare di una possibile “guerra giusta”».  Perché è irrealizzabile? La cosa è nota a tutti e fu segnalata già dal Concilio Vaticano II[1].

Perché oggi esistono armi così potenti e distruttive, gli armamenti nucleari, che in caso di guerra, supponendo il possesso di queste armi da parte di entrambi i contendenti,  la vittoria sull’avversario è divenuta impossibile, perché entrambi i contendenti non dispongono di mezzi sufficienti per la propria difesa ed inoltre queste armi sono talmente distruttive, che non si limitano a colpire obbiettivi militari, ma anche le stesse popolazioni di entrambi i contendenti, per cui distruggono ciò stesso che dovrebbe essere conquistato dalla vittoria militare.

Siamo quindi, come dice giustamente il Papa, davanti a una vera stoltezza, una vera pazzia: che senso ha distruggere i preziosissimi beni umani di quel paese nemico che vogliamo sottomettere, facendo uso di armi che distruggono quegli stessi beni sui quali vorremmo dominare o dei quali vorremmo entrare in possesso? Che vittoria è quella che provoca nell’avversario una reazione talmente potente da distruggere noi stessi?

Naturalmente l’argomentazione del Papa vale in riferimento alle armi atomiche, non a quelle tradizionali. L’uso di queste armi mantiene valido il secondo punto della dottrina della guerra giusta. Quando il Papa dice che la guerra non è una soluzione della controversia, si riferisce alla guerra atomica, perché in realtà nel passato fino ad oggi molti conflitti locali sono stati risolti con interventi militari.

Ciò che ci spinge a una condanna morale incondizionata della guerra è l’impressione che abbiamo che essa violi il Comandamento Non uccidere, e che quindi la guerra sia un omicidio. Senonchè dobbiamo veder bene che cosa significhi esattamente la proibizione mosaica dell’omicidio, quando sappiamo bene che allora Israele non aveva problemi a condannare a morte i criminali e a guerreggiare in nome di Dio.

Bisogna tener presente che se vogliamo ragionare, dobbiamo comprendere che la promozione e difesa della vita, s’intende la vita buona, conforme alla volontà del Dio della vita, non può che opporsi a quella vita malvagia che la vuol negare. Il peccato di omicidio, dunque, sta nello spegnere la vita buona, la vita innocente, che promuove la vita e non nel sopprimere una vita malvagia, ossia un’azione che procura la morte. 

L’affermazione del bene implica necessariamente la negazione del male che si è oppone al bene. Occorre pertanto distinguere una vita buona, secondo Dio e una vita malvagia, conforme alla volontà di colui, come dice Nostro Signore, che omicida sin da principio. Una azione impiegata per uccidere non merita di essere favorita. Questa è la giustificazione morale dell’uccisione del nemico in guerra. Non uccidere chi uccide è il vero omicidio, la vera violazione del V Comandamento, perché altrimenti, permettendo, potendolo impedire, che l’assassino uccida, è come se tu uccidessi la sua vittima innocente.

La dignità ontologica dell’omicida non riceve nessun danno dal fatto che la sua vita fisica venga soppressa per giustizia, perchè essa è conservata da Dio, anche se l’omicida fosse nell’inferno. Quanto alla dignità morale, ossia al valore della condotta, sta a lui conservarla e può perderla col peccato mortale. Col pentimento può riacquistarla. Essa consiste nella vita di grazia della figliolanza divina. Il peccato è certamente un attentato alla dignità morale del prossimo; ma egli non la perde se non per sua volontà peccando a sua volta.

Una condanna assoluta della guerra richiederebbe coerentemente lo scioglimento delle forze armate che apparirebbe come un’associazione a delinquere, e mentre il militare sarebbe posto alla stregua del criminale. Comporterebbe l’abolizione della distinzione fra il concetto di guerra e quello di crimine di guerra, perchè guerra è calcolata come un crimine, un omicidio collettivo. La distinzione vuol dire invece che il soldato possa essere sì un vigliacco e uno serial-killer o, ma anche un eroe o un martire.

Ma quale Stato, per quanto pacifista, si sentirebbe di fare una cosa del genere? Il Santo Padre, che, sin dall’inizio della guerra russo-ucraina ha ripetuto più volte la condanna assoluta della guerra, come follia, sciagura ed orrore, ha poi dovuto lasciar dire al Card. Parolin che l’Ucraina ha in fin dei conti il diritto a difendersi, se non voleva fare la figura di stare per Putin.

È fuor di dubbio, d’altra parte, che nella vita presente, segnata dalle conseguenze del peccato originale, ogni uso della forza militare, ogni guerra, per quanto motivata da nobili motivi, condotta in regola, e per quanto possa ottenere il suo scopo, è sempre, di fatto, un fenomeno doloroso, luttuoso, angosciante, con toni tragici e sconfortanti.

D’altra parte, è altrettanto chiaro che in un’umanità matura, progredita, padrona delle proprie passioni, soggetta a Dio, animata dall’amore del prossimo, le controversie e i contrasti potrebbero essere risolti senza il ricorso alle armi. Ma in un’umanità come la presente, nella quale soffriamo ancora della tendenza al peccato, alla discordia, all’odio verso il prossimo, alla sopraffazione degli altri e alla ribellione a Dio, esistono forze collettive ostinate e irriducibili nemiche della giustizia e della pace, forze incapaci di ragionare, le quali possono essere tenute a freno solo con un potere deterrente o con l’uso della forza. Rinunciare all’intervento armato in queste condizioni significa solo lasciar campo libero alle forze dell’ingiustizia, della sopraffazione e della distruzione.

Per questo già i profeti biblici, benchè presentino le guerre di Israele come volute da Dio, fino a parlare di guerra santa prevedono per l’era messianica la cessazione di ogni guerra. La guerra non piace a nessuno, salvo che a coloro ai quali piace tormentarsi e tormentare gli altri, ma meno che mai piace al buon soldato, che si adatta all’uso della forza al solo scopo di difendere la patria a costo della propria vita.

È chiaro peraltro che lo scopo della guerra giusta è quello di ottenere la pace e concordia col nemico vinto imponendogli ragionevoli condizioni di pace nella giustizia e nel rispetto della sua dignità e dei suoi diritti. Si vis pacem, dicevano i Romani, para bellum. Viceversa, laddove abbiamo una concezione conflittuale della vita e dell’esistenza, come per esempio in Hegel, la guerra diventa fine a se stessa, la molla del progresso storico e il senso della vita.  

Dio certamente non vuol la morte di nessuno, ma vuole la difesa del povero, del debole, dell’indigente, vuole la liberazione dell’oppresso e il rispetto della dignità umana in noi e negli altri. Se dunque in nome di questo rispetto dobbiamo ripudiare un’ingiusta guerra, in nome della difesa di questa stessa dignità, siamo chiamati da Dio, custode dell’umana dignità, a far uso delle armi, quando e se è necessario.  Chi ci impedisce qui di usare il termine guerra nel significato neutrale che ho spiegato?

Bisogna distinguere la guerra terrena da quella escatologica. La prima avviene nella situazione confusa della vita presente, dove gli schieramenti contrapposti tra giusti e ingiusti non appaiono con chiarezza, ma mentre le forze del bene sono infette dal male, quelle del male non sono prive di bene. Quaggiù lavora già Cristo nei buoni e Satana nei malvagi. Esistono i figli di Dio e i figli del diavolo. Ma vi sono spostamenti di campo, incostanze, incoerenze, tradimenti, conversioni. La situazione è sempre equivocabile, fluida, instabile, mutevole. Viceversa, all’avvicinarsi della fine del mondo e del Ritorno del Signore, secondo quanto prevede l’Apocalisse, apparirà sempre più chiaro chi è vero cristiano e chi per l’anticristo, fino a che, chiaritisi i due schieramenti, vi sarà lo scontro finale con la vittoria di Cristo.

Fine Prima Parte (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 13 aprile 2024

 

La Dichiarazione Dignitas infinita affronta la questione della liceità della guerra e se essa comporti un’offesa alla dignità umana. Far guerra è violazione del comandamento Non uccidere?

Il fenomeno della guerra moderna è di estrema complessità.

Per Hegel i vincitori hanno sempre ragione per il semplice fatto che vincono. È evidente che qui non siamo davanti al criterio della giusta guerra, ma all’apologia della violenza e della barbarie. Qui evidentemente non siamo davanti alla forza spirituale della ragione, che basandosi sulla giustizia produce giustizia, ma alla ragione della forza, alla forza bruta dell’irrazionale, alla barbarie mascherata da ragione, che è violenza, odio e sopraffazione.

Dio certamente non vuol la morte di nessuno, ma vuole la difesa del povero, del debole, dell’indigente, vuole la liberazione dell’oppresso e il rispetto della dignità umana in noi e negli altri. Se dunque in nome di questo rispetto dobbiamo ripudiare un’ingiusta guerra, in nome della difesa di questa stessa dignità, siamo chiamati da Dio, custode dell’umana dignità, a far uso delle armi, quando e se è necessario. Chi ci impedisce qui di usare il termine guerra nel significato neutrale che ho spiegato?

Immagine da Internet: San Martino di Tours

[1] Gaudium et spes, n.80.

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