Sostanza e relazione nella filosofia della persona - Terza Parte (3/3)

 Sostanza e relazione nella filosofia della persona

Terza Parte (3/3) 

Cartesio

Il cogito cartesiano è la fondazione del relazionismo idealista. Infatti già nel cogito scompare la distinzione fra anima e facoltà. Io non sono una persona dotata della facoltà di pensare: io sono un pensante per essenza (res cogitans), io non ho una ragione, ma sono una ragione sussistente, dunque una relazione intenzionale o conoscitiva sussistente.

Cartesio, peraltro, riprendendo l’antica sofistica greca, già confutata da Aristotele[1], inaugura il pensiero relazionista nella sua forma idealistica, destinata ad avere enorme successo nel pensiero moderno. Per Cartesio la certezza fondamentale di partenza non è quella del sapere che ci sono cose fuori di noi, ma è la certezza di dubitare se ci sono o non ci sono, sicchè per Cartesio, per esser certi che ci sono, bisogna dimostralo.

Per lui, però, sono certo di possedere idee innate. Allora, per dimostrare che esistono cose fuori del mio pensiero, posso e debbo partire dalle idee innate, tra le quali c’è l’idea di Dio. Ora, essendo Dio verace, Egli mi assicura che le idee delle cose che ho in me sono effetti di cose esterne nella mia mente e che quindi corrispondono a cose fuori di me.

È chiara l’assurdità di simile ragionamento, che è un circolo vizioso, perché, per parlare di cose fuori di me, io devo sapere che ci sono, se no, non mi verrebbe neppure in mente di ipotizzarne l’esistenza. Infatti, se l’oggetto del mio conoscere fossero semplicemente le mie idee, io mi accontenterei di esse e non mi porrei neppure la domanda se al di fuori della mia mente esistono cose alle quali le idee si riferiscono.

Se mi pongo questa domanda ed ho la preoccupazione di sapere se alla mia idea corrisponda un reale esterno, ciò suppone che io ne abbia già un’idea per aver contattato la cosa stessa al di fuori di me, dalla quale ho ricavato l’idea della cosa. Se io ho l’idea della cosa, vuol dire che la cosa esiste. Posso sì avere l’idea di una cosa che non esiste, ma per accertarmi, non ha senso partire dalla mia idea, ma devo guardare alla realtà e vedere che cosa essa mi dice.

Per questo Cartesio s’imbarca in una pseudodimostrazione, che quindi suppone già dato quello che deve dimostrare, ed è il suo famoso discorso, secondo cui io mi adeguo alla realtà esterna, perché sono io che in precedenza ho posto l’idea della realtà esterna. Da qui la doppiezza del pensare, perché il pensare per Cartesio non è costruito sulla certezza iniziale del saper empirico, ma sul dubbio universale voluto, il che comporta appunto l’affermazione e la negazione simultanea dell’esistenza della realtà esterna, quindi del mondo, degli altri e di Dio, nonché del mio stesso corpo in quanto esterno al mio pensiero.

Con Cartesio il pensiero perde la sua linearità che conduce la mente a Dio mediante l’idea dalle cose e dell’autocoscienza. Esso si biforca, si sdoppia[2]: per la sua inclinazione naturale va verso la realtà esterna, ma nel contempo, per una torsione della volontà, alla quale ripugna questo realismo e per una falsa esigenza critica, il pensiero, facendo suo oggetto l’ideale e non il reale, torna su se stesso in direzione dell’io e si ferma nell’io come se avesse raggiunto il suo scopo, che invece è quello della conoscenza di Dio. Succede allora che l’io divinizza se stesso come panteismo o mettendosi al posto di Dio, come nell’ateismo.  

 Il cogito cartesiano assume uno sviluppo panteistico in Spinoza, il quale ammette l’esistenza della sostanza come essenza singola sussistente, ma ne respinge la dipendenza nell’essere, per cui sostiene l’esistenza di una sola sostanza, quella divina, che esiste in forza del sua stessa essenza, per cui viene a negare lo statuto di sostanze alle sostanze create, le quali  vengono da una parte declassate a livello di enti accidentali relazionali, ma dall’altra vengono divinizzate appunto perché intese come accidenti o modi della sostanza divina. 

Kant

Un passo avanti nel relazionismo, anche se non nel panteismo, viene fatto da Kant, per il quale  il mio intelletto non è la potenza della mia anima come forma di una sostanza singola, perché io non posso dimostrare l’immortalità dell’anima come sostanza, dato che dall’esperienza non posso salire per induzione al sovrasensibile; ma ciò che io chiamo anima è solo il fenomeno del mio senso interno come apparire a me stesso dell’io penso, il quale è la ragione comune a tutti gli uomini non perchè ciascuno abbia la sua ragione, ma perché gli individui umani sono solo i fenomeni empirici della ragione universale come Io trascendentale.

La persona in Kant appare indubbiamente come soggetto spirituale, ma la sua dottrina dell’io trascendentale è principio della forma del fenomeno, e quindi principio che avoca a sé la funzione divina di far forma alla realtà. La persona umana singola, infatti, per Kant, non è una sostanza psicofisica come cosa in sé, ma è l’individuo empirico autocosciente; è soltanto il fenomeno empirico della persona intesa come ragione universale, della quale gli individui umani sono espressione interna fenomenica, ed alla quale sono relativi come il fenomeno è relativo alla cosa in sé.

 Tuttavia per Kant, come è noto, la persona, se non è sostanza,  è però fine ideale e non mezzo empirico; il che vuol dire che non come individuo empirico, ma come io trascendentale è depositaria della coscienza morale fondata sulla ragion pratica universalmente legislatrice del dovere morale.

In questo senso, pertanto, per Kant l’individuo fisico non è un tutto ontologico sussistente in se stesso, ma è solo funzionale al tutto sociale, che è l’umanità come universalità della ragione. Quando egli dice che bisogna trattare la persona come fine e non come mezzo, egli quindi non intende riconoscere la singola persona come sostanza singola fisica o cosa in sè, ma come manifestazione fenomenica ed empirica della persona come io penso cartesiano o ragione universale.

Fichte

Come sostiene Fichte, in linea con Kant ed oltre Kant, il mio io empirico non è una singola sostanza fisica, che si relaziona alla società come insieme di singole persone, esistente al di fuori di me ed indipendentemente da me, ma è il mio io fenomenico come posto dal  mio Io assoluto nello stesso Io in quanto Totalità, per cui io come io empirico sono totalmente relativo all’Io assoluto.

Volendo esprimere la relazione sociale secondo Fichte con le categorie dell’io e del tu, si potrebbe dire così: Io pongo te come non-io in me; tu come società poni me come io empirico in me come Io assoluto. Dunque io sono relativo a te come io empirico, ma tu sei relativo a me come Io assoluto.

Non si dà dunque un rapporto fra due sostanze, ma sulla base dialettica dell’io-non-io, l’io come sforzo infinito (Trieb) ed asintotico di adeguazione mai raggiunta all’Io assoluto, data l’infinita distanza fra l’io umano finito e l’Io assoluto infinito (Dio). Ma questa opposizione io-non-io è sempre all’interno dell’Io assoluto, sviluppo del cogito cartesiano e dell’io penso kantiano, io che sono sempre io ma nella modalità dell’assoluto.

Occorre inoltre notare che l’etica sociale di Fichte non comporta la relazione della singola persona con la comunità, come insieme di persone, ma tutto si realizza all’interno dell’Io assoluto, esplicitazione dell’io cartesiano, con l’introduzione della dialettica io-non-io, in modo tale che adesso la relazione non è più un accidente che si aggiunge come azione fra due persone che entrano in rapporto fra di loro; ma le due persone (io e non-io), sono i due poli del rapporto dialettico io-non-io, entro l’Io assoluto che li sintetizza.

Questa opposizione dialettica, per la quale i due poli s’incontrano e si respingono ad un tempo, significa che l’etica di Fichte non è basata sulla relazione dell’io all’altro, al diverso o al simile, ma ha una carattere conflittuale, perché al posto dell’altro c’è la negazione dell’io. Sembra allora riapparire l’antico assioma mors tua vita mea.

Nasce una specie di aut-aut: o esisto io e non esiste lui o esiste lui e non esisto io. L’altro, dunque, diventa costitutivamente un nemico. Da qui si capisce come Hegel, che assumerà questa concezione del rapporto sociale, intenderà la guerra come fattore essenziale del rapporto sociale e del progresso storico. Ad Hegel farà seguito Marx con la dottrina della lotta di classe. Nietzsche sarà su questa linea nella sua dottrina della volontà di potenza come dominio del forte sul debole, dalla quale il nazismo hitleriano, trarrà ispirazione per il suo progetto del dominio della Germania sul mondo.

Hegel

Per quanto riguarda Hegel, il mio io empirico non ha la sua sostanza in se stesso. Secondo lui io non ho uno spirito, ma sono lo Spirito, sicchè i molti io empirici non sono una molteplicità di sostanze, ma momenti empirici, storici e passeggeri, determinazioni finite dello Spirito assoluto. L’Assoluto è costituito dalla relazione Uno-molti. L’Uno è relativo ai molti e i molti sono relativi all’Uno. L’uno si divide nei molti e i molti si riuniscono tornando all’Uno, che dopo aver negato il molteplice posto da lui, lo riporta a sé.

La sostanza dell’individuo è lo Stato, sicchè lo Stato appare come

«sostanza etica consapevole di sé, la riunione del principio della famiglia e della società civile; la medesima unità, che è nella famiglia come sentimento dell’amore. È l’essenza dello Stato»[3].

«L’essenza dello Stato è l’universale in sé e per sè, la razionalità del volere. Ma, come tale che è consapevole di sé e si attua, essa è senz’altro soggettività; come realtà è un individuo. La sua opera in genere, considerata con l’estremo dell’individualità, come moltitudine di individui, consiste in un doppia opera: deve da una parte mantenerli come persone e promuovere il loro bene. Ma d’altra parte deve ricondurre l’intera disposizione d’animo e attività dell’individuo, come quello che aspira ad essere un centro per sé, nella vita della sostanza universale.»[4]

«Lo Stato è la realtà dell’Idea etica, lo Spirito etico, inteso come la volontà sostanziale, manifesta, evidente a se stessa, che pensa e sa sé e porta a compimento ciò che sa e in quanto lo sa. Nel costume lo Stato ha la sua esistenza immediata e nell’autocoscienza dell’individuo, nel sapere e nell’attività del medesimo la sua esistenza mediata, così come l’autocoscienza attraverso la disposizione d’animo ha nello Stato, come in sua essenza, il fine e prodotto della sua attività, la sua libertà sostanziale»[5].

«Lo Stato inteso come la realtà della volontà sostanziale, realtà che esso ha nell’autocoscienza particolare innalzata alla sua universalità, è il razionale in sé e per sé. Questa unità sostanziale è Assoluto immobile fine a se stesso, nel quale la libertà perviene al suo supremo diritto, così come questo fine ultimo ha il supremo diritto di fronte agli individui, il cui supremo dovere è essere membri dello Stato»[6].

«Nel governo, considerato come totalità organica è la soggettività come totalità infinita del concetto con se stesso nel suo svolgimento, la volontà dello Stato, che tutto sostiene e tutto decide, la più alta cima dello Stato e l’unità che compenetra tutto: il potere governante del principe»[7].

Dunque per Hegel lo Stato è la «Soggettività come totalità infinita del concetto con se stesso nel suo svolgimento, Spirito etico, inteso come la volontà sostanziale, manifesta, evidente a se stessa, che pensa e sa sé e porta a compimento ciò che sa e in quanto lo sa. È la realtà della volontà sostanziale, realtà che lo Stato ha nell’autocoscienza particolare innalzata alla sua universalità, è il Razionale in sé e per sé. Questa unità sostanziale è Assoluto immobile fine a se stesso». Il governo dello Stato è la volontà dello Stato, la «totalità organica,  la soggettività come totalità infinita del concetto con se stesso nel suo svolgimento».

Lo Stato è l’Idea etica, la messa in pratica dell’Idea, è lo Spirito etico, totalità infinita del concetto con se stesso nel suo svolgimento. Lo Stato è Spirito, ma non è  lo Spirito assoluto, che è Dio stesso, perché lo Spirito assoluto è

«l’identità che è altrettanto eternamente in sé, in quanto deve tornare ed è tornata in sé; è l’unica e universale sostanza come sostanza spirituale, la partizione (il giudizio) in sé è un sapere pel quale essa è come sostanza»[8] .

Marx

L’etica hegeliana riprende quella fichtiana dell’io che pone se stesso, quindi l’io come azione, come fare, come produrre. L’io come volontà, come dirà poi anche Schopenhauer. È uno sviluppo estremo del volontarismo iniziato con Ockham, che passa attraverso Lutero, e dà il via all’idealismo, sicchè il volontarismo prassistico diventerà una caratteristica dell’idealismo tedesco. Esso però continua con Marx, il quale capovolge certamente la gerarchia hegeliana dell’essere, «mettendo in testa ciò che Hegel aveva messo ai piedi», ossia, se Hegel aveva posto l’idea al di sopra del reale e lo spirito al di là della materia, Marx fa l’operazione inversa: il primato della realtà sull’idea e della materia sullo spirito; sicchè, se Marx recupera il realismo contro l’idealismo, tale recupero non è totale, perché per Marx la realtà si risolve nella materia. Lo spirito, per lui, è una sovrastruttura della materia. In linguaggio aristotelico si direbbe che è un accidente della sostanza.

Con tutto ciò Marx non abbandona del tutto il primato hegeliano dello spirito, perché il suo materialismo non è come quello volgarmente empirista e sensista dei materialisti alla Lamettrie, d’Holbac, Spencer, Büchner o Moleschott, ma, come è noto, è un materialismo «dialettico», per il quale l’uomo produce se stesso e ha potere sulla materia, sul sociale e sulla natura per una necessità logica basata sulla contraddizione.

Nel rovesciamento marxista della dialettica hegeliana, chi ci va di mezzo naturalmente è Dio, che non è più spirito che si fa natura, ma in Marx è la ragione e la scienza che consente all’uomo di togliere mediante la prassi sociale l’alienazione della natura umana (Gattungswesen) come principio del meccanismo dialettico, restituendo l’uomo a se stesso, mediante la lotta sociale e la rivoluzione, sicchè Marx non fa che mettere in luce l’ateismo implicito nel teismo hegeliano, per il quale l’uomo non è creatura di Dio, ma, come già in Fichte,  Schelling ed Hegel, l’uomo è l’io cartesiano, esplicitato come io sono assoluto.

Se dunque io basto a me stesso, se sono fondato su me stesso, se sono ragione a me stesso, se esisto da me stesso, che bisogno c’è di un Dio che abbia creato me, il mondo e gli altri uomini? Certamente per Marx il mio io empirico alla morte è destinato a dissolversi nel nulla. Ma come essere sociale, come persona-relazione, sopravvivo nella memoria storica dei posteri come combattente nella lotta di classe per la liberazione dell’uomo dall’oppressione dell’uomo sull’uomo.

Dunque Marx prepara l’ateismo nicciano dell’autoliberazione dell’uomo, con la differenza che mentre per Marx si tratta di liberare gli oppressi dagli oppressori e di stabilire l’uguaglianza, e mentre per Marx si tratta di liberare l’intera umanità, capitalisti compresi, Nietzsche non ha affatto questa visione universale della natura umana, ma con atteggiamento gnostico ed elitario, rivolge i suoi appelli solo a quella che egli chiama la razza di signori, l’élite del superuomo,  la cui morale è quella del dominio dei forti sui deboli e l’antagonismo non per la liberazione degli oppressi, ma per dominare sui deboli. Invece Marx ha una chiara, seppur errata, percezione dell’universalità della natura umana (Gattungswsen).

Nietzsche ha una concezione biologistica[9], non spirituale della vita e degli interessi dell’uomo: badare alla terra e non al cielo, all’al al di qua e non all’al  di là, al corpo e non allo spirito, ai piaceri fisici e non a quelli dello spirito, non il bene del prossimo ma il bene proprio.

Il superuomo si sforza di aumentare sempre più la sua potenza, che è potenza fisica e non spirituale, vive secondo la legge darwiniana della selezione naturale, espande sempre più nello spazio l’ambito della sua potenza. Il suo agire attua il ciclo dell’eterno ritorno: vita-morte senza fine. Trasvaluta tutti i valori: il vero diventa il falso e il falso diventa vero. Pratica l’amor Fati, gode della sofferenza propria ed altrui. Il relazionismo nicciano consiste nella relazione della volontà cin se stessa in vista della massima potenza, volendo la stessa morte come voluta dal Fato.

Husserl

Secondo Husserl l’intersoggettività è la relazione reciproca e la comunità dei soggetti empirici come manifestazioni dell’unica pura soggettività, che sono io come Io trascendentale e soggettività assoluta. Dice Husserl:

«Ogni essente è relativo alla soggettività trascendentale. Solo quest’ultima invece è «in sé e per sè»; e lo è in un ordine graduale corrispondente alla costituzione che conduce ai diversi gradi dell’intersoggettività trascendentale. Dunque, innanzitutto, come ego, io sono assolutamente esistente in me e per me. Io sono esistente per un altro solo nella misura in cui egli, l’altro, l’alter ego, è egli stesso soggettività trascendentale, che tuttavia viene ad essere posta necessariamente in me e per me. Io sono esistente per un altro solo nella misura in cui egli, l’altro, l’alter ego, è egli stesso soggettività trascendentale, che tuttavia viene ad essere posta necessariamente in me, in quanto io sono l’ego che già esiste anticipatamente per sé. In modo analogo anche l’intersoggettività trascendentale (la soggettività trascendentale in senso allargato), che è costituita in me e dunque è a me relativa, come pluralità di «ego» - ciascuno dei quali ha qui esistenza, con una validità provata, in quanto sia riferito intenzionalmente alla stessa intersoggettività cui io mi riferisco – è, quanto al suo senso, benché nella modificazione corrispondente, «in sé e per sè», nel genere d’essere dell’“assoluto”»[10].

La categoria fondamentale della filosofia di Husserl è quella di «Soggettività trascendentale», che egli desume dal «Soggetto» hegeliano o schellinghiano, esplicitazioni dell’io sono cartesiano con la mediazione di Kant e Fichte.

Così Husserl, come tutti gli idealisti, distingue un io empirico da un Io assoluto o trascendentale, ma si noti bene che questa distinzione non corrisponde alla distinzione fra essenza universale ed essenza individuale, tra me come persona, come Giovanni e me come uomo, in possesso della natura umana universale, ma si tratta di una distinzione fra due livelli o piani o stati o punti di vista del medesimo io. Spinoza, per esempio, parla dell’io visto sub specie temporis – il mio io materiale, visto da me così inteso, accidente della Sostanza divina – e il mio io visto sub specie aeternitatis, ossia dal punto di vista della Sostanza divina e allora sono io come unica Sostanza divina.

Si tratta di un’esplicitazione dell’io cartesiano, in quanto quell’«io sono» di Cartesio significa sia io Renato, che io come res cogitans, pensare o ragione sussistente, quell’io che gli idealisti chiamano «Io puro». È l’Io di Fichte e l’«io penso» di Kant.  Pertanto, per l’idealista, io empirico e Io trascendentale sono sempre io, solo che nel primo caso sono io in quanto individuo materiale nello spazio e nel tempo, mortale fra i mortali, generabile e corruttibile, soggetto a limiti, errori, difetti, sofferenze e colpe.

Invece nel secondo caso io sono l’Assoluto, l’Eterno, lo Spirito, l’Essere, il Pensiero, l’Azione, l’Infinito, la Totalità. Sono Dio stesso. Tutto è relativo al mio Io trascendentale ed io sono Relazione ad esso. Come io empirico sono totalmente relativo agli altri e a Me come Io assoluto. Come Io assoluto, sono gli altri ad essere relativi a me.

In tal modo la società umana, per Husserl, non è l’ordinamento di una molteplicità di persone intese come sostanze spirito-corporee, esistenti fuori di me, indipendentemente da me, sostanze che in forza della loro libera volontà hanno o non hanno relazioni con altre persone simili a loro. No. Per Husserl, se io sono la Soggettività trascendentale, anche le altre persone lo sono, sicchè io appaio a loro come loro appaiono a me, ossia come a me essi appaiono relativi a me, Io puro, così a loro, che sono pure altri Io puro, io appaio loro come relativo a loro.

Uno però si domanda: ma allora Husserl ammette una pluralità di Soggettività, tante quante sono gli individui o persone empirici? Certo. Ma come fa a risolvere il contrasto tra le molte Soggettività e la mia, che è l’unica esistente? A questo punto Husserl elabora la dottrina di quella che egli chiama «intersoggettività», come risulta dai passi che ho citato.

Esistono secondo lui nella mia coscienza molte Soggettività in relazione fra di loro, relative le une alle altre, ma anche relative a me come Soggettività, perché e in quanto io sono la Soggettività arechètipa, principale, originaria, fondamentale, fondante e presupposta ad esse, che esistono in quanto  sentite, intuìte, pensate e percepite da me (ricordiamoci di Berkeley).

Per esprimerci in termini teologici, praticamente Husserl è un politeista: esistono più Assoluti, più Soggettività trascendentali, più Io puri; solo che questi dèi si riuniscono tutti sotto la presidenza e al comando del Dio supremo, che è Giove. Husserl, quindi, identificava praticamente, anche se non dichiaratamente, il suo io empirico, Edmund, in quanto suo Io puro, con Giove, Signore e Padre degli dèi dell’Olimpo.

Questo era ciò che gli aveva fatto comprendere la fenomenologia, che supera e mette tra parentesi l’ingenuo «atteggiamento naturale» del realista e dell’uomo della strada, i quali credono che il loro io non sia una relazione di ragione fra il pensiero e l’essere, ma credono di essere stati creati da Dio dal nulla, per cui essi ritengono di essere delle persone non in relazione per essenza, ma che possono relazionarsi o non relazionarsi liberamente con Dio e con le altre persone.

Heidegger

Quanto all’etica di Heidegger, essa è basata sul concetto dell’agire come essere e per questo in Heidegger l’etica è al contempo antropologia e metafisica. E siccome l’agire dice relazione, ecco che anche in Heidegger troviamo il personalismo relazionista, con note proprie della sua filosofia. Così per lui l’agire è un autotrascendersi come l’essere-per-la-morte (sein zum Tode), così da essere libero per la morte (Freiheit zum Tode), nella quale si attua la «possibilità di essere un tutto»[11]; «l’essere per la morte autentico è la possibilità più propria»[12] per l’uomo, perché nella morte l’uomo è davanti all’essere, al culmine definitivo della propria libera decisione, essere che gli appare come nulla, ma che è quell’Esserci che egli stesso è. Anche in Heidegger non c’è spazio per la relazione come accidente della persona: l’essere stesso dell’individuo è un essere per la vita o per la morte.

Per Heidegger, io sono essenzialmente «colpevole»[13] e angosciato, ma proprio in questo riconoscermi colpevole e farlo mio proprio, proprio il decidere  di essere quello che sono, fa apparirmi il mio «originario esser-per il poter-essere del mio Esserci più proprio»[14]. Questa decisione consiste nel mio «autoprogettarmi angoscioso e tacito nel mio più proprio essere-colpevole»[15]. Ora, continua Heidegger, «l’esser-colpevole è proprio dell’essere dell’Esserci e significa essere il nullo fondamento di una nullità»[16].

Ma proprio in questa decisione di essere-per-la-morte, di lasciare che la morte «si faccia padrona dell’esistenza dell’Esserci»[17], che io «comprendo le possibilità effettive del mio Esserci»[18]. La comprensione di questa possibilità di ciò mi procura, secondo Heidegger, «una gioia imperturbabile»[19]. Sono qui evidenti le risonanze del simul justus et peccator luterano incastrato nella dialettica hegeliana del negativo (morte, nulla) come produttore del positivo (vita, essere).

Ma c’è da osservare anche che la negazione dell’essere da parte del nulla nella dinamica dell’agire introduce un fattore di conflitto nell’esistenza umana, che assume un aspetto sociale sulle orme della dialettica hegeliana, con la differenza che mentre in Hegel la polarità dialettica ha carattere logico, in Heidegger abbiamo una dialettica esistenziale, per la quale non abbiamo un conflitto di concetti come in Hegel, ma l’opposizione della vita e della morte, una circolarità dove non pare che la vita abbia la vittoria, perché il nulla per Heidegger entra nel destino stesso dell’uomo, anche se questo nulla sembra appartenere non all’ambito dell’ente di ragione, ma dell’orizzonte del sacro.

Heidegger, come è noto, pretende di ritrovare l’autentico originario filosofare nella dottrina parmenidea dell’essere, in quella del divenire di Eraclito e in quella dell’Infinito di Anassimandro, senza dimenticare il volontarismo egologico cartesiano.

Nell’etica sociale di Heidegger troviamo quindi un misto di elementi provenienti da Lutero con altri, del tutto opposti, provenienti da Nietzsche, il tutto nell’orizzonte di una concezione dell’essere, che congiunge come in Hegel, Parmenide con Eraclito, essere e tempo. Il risultato di questi accostamenti è la sua caratteristica concezione dell’uomo come il «ci» dell’essere, ossia come luogo e tempo dell’apparizione e presenza dell’essere a questo uomo qui, che sono io in situazione emotiva e m’interrogo sull’essere; essere inteso come trascendente l’ente. Io mi trovo gettato nel mondo in uno stato di deiezione, di colpa, di angoscia e di precarietà: il mio essere è essere-per-la morte.

Lo sfondo gnoseologico di Heidegger non è realista ma idealista. La verità del sapere per lui non sta nell’adeguazione del giudizio alla cosa esterna, ma nell’esperienza della verità dell’essere che si rivela a me come presenza del presente. Quindi io non sono in contatto mediante i sensi con una realtà fuori di me, ma solo con la mia autocoscienza, per la quale l’essere è l’essere pensato. Non ho una relazione reale con cose al di fuori di me, ma ho, anzi sono relazione sussistente ed esistenziale di me come ci dell’essere («casa dell’essere») ed essere come esserci («pastore dell’essere)

La relazione in Heidegger corrisponde alle categorie del «ci» dell’Esserci. Questo ci sono io, in quanto ente che nel tempo pone la domanda sull’essere. In tal modo io non sono solo il domandante, ma anche il domandato, cosicchè l’esser uomo viene per lui a coincidere con l’essere, non però col semplice essere, ma con l’esserci perché io che sono qui ed ora, nel tempo e nello spazio, entro l’orizzonte di quell’essere e quindi di quell’esserci circa il quale m’interrogo.

Come in Husserl, anche per Heidegger, nella linea di Cartesio, io sono relativo a me stesso in quanto sono cosciente di me stesso. Questo «sono», quindi, è l’essere del quale ho coscienza e che sono io stesso. La relazione, quindi, anche in Heidegger, come per tutti gli idealisti, è la relazione di coscienza dell’io con se stesso, dell’io empirico con l’Io assoluto e viceversa.

C’è così secondo Heidegger la relazione ascendente dell’io empirico, l’io esistenziale, all’Io assoluto, l’essere; e c’è la relazione discendente dell’essere col ci, ossia col mio io empirico, essere-per-la-morte, deietto e gettato, colpevole ed angosciato. Ma alla discesa corrisponde l’ascesa, e cioè la precomprensione (Vorverständnis), il pensare rammemorante (an-denken), l’esistere autentico, la cura, l’essere-nel-mondo, le cose-alla-mano (Dingen zu Handen), l’essere-con (mitsein), l’andare-avanti, la trascendenza, il progettarsi, l’estasi, il linguaggio, la libertà. La relazione discendente comprende invece il sacro, il nulla, l’evento (Ereignis), la rivelazione, la radura (Lichtung), l’apertura (Offenheit), la presenza del presente, il destino.

L’etica sociale di Heidegger si ispira a quella hegeliana incentrata sull’obbedienza allo Stato e sull’appartenenza allo Stato. Per cui il singolo individuo è completamente dipendente dallo Stato e relativo allo Stato, che, nel suo capo, il principe – per Heidegger il Führer del regime nazionalsocialista -, è la Sostanza assoluta della molteplicità degli individui.  

Heidegger chiarisce la volontà di potenza dello Stato valendosi del concetto nicciano di volontà di potenza, che per Nietzsche, come spiega Heidegger[20], non è altro che l’essere come volontà che vuole se stessa, secondo la definizione della volontà già data da Hegel. Dunque il relazionismo assoluto è un volontarismo assoluto che s’identifica, come già in Schelling ed in Fichte, nell’essere come azione (Fichte) e libertà (Schelling), per cui l’Assoluto esiste perché ha voluto esistere.

L’essere del quale parla Heidegger, è la volontà di potenza nicciana. Lo si vede dalle lodi che fa a tale concezione, che quindi per lui nulla ha a che vedere con l’esse come actus essendi di San Tommaso. Il paragone, quindi, che alcuni hanno fatto, tra la differenza fra ente ed essere in Tommaso da quella di Heidegger, non tiene assolutamente, perché mentre per Tommaso l’essere trascendente è somma perfezione e somma bontà, per Heidegger è il nulla rispetto all’ente e rappresenta solo la finitezza e temporalità dell’ente, che per Heidegger, è l’uomo che si pone la domanda sull’essere.

Per questo nell’etica di Heidegger il tema dell’amore e della bontà sono completante assenti e tutta la questione morale sta nella libertà ed autenticità dell’io esistenziale nella dimensione della temporalità e della finitezza, in relazione con l’esperienza precategoriale ed emotiva dell’essere come esserci.

È vero che nella filosofia di Heidegger, come ha fatto notare Umberto Regina[21], e addirittura, nella Lettera sull’Umanesimo del 1947, compare il «Dio divino», ma la polemica contro la concezione cristiana di Dio, da lui sprezzantemente chiamata «ontoteologia», quasi fosse una grossolana fantasia, ci fa capire che il suo «sacro» e il suo «divino» non sono altro che quello di Hölderlin, come egli stesso ci spiega nel libro a lui dedicato[22], il sacro della mitologia germanica che fu al centro della concezione nazionalsocialista, da lui appoggiata[23], dello Stato e del popolo tedesco.  

Gentile

Così similmente in Gentile, teorico dell’etica fascista[24], che si ispira ad Hegel nella concezione dello Stato, che sarà poi lo Stato Fascista, iI mio io empirico non ha uno spirito per conto proprio, non è un soggetto personale, ma la determinazione empirica dello Spirito assoluto; è la moltiplicazione empirica dell’unico Spirito assoluto, che sono io nella modalità trascendentale, la quale a livello della molteplicità siamo tutti noi Italiani, invece nel modo dell’unità è il Duce.

Gentile elabora il socialismo statalista fascista contemporaneamente ad Heidegger che in Germania elabora la dottrina del socialismo nazionale (nazionalsocialismo o nazismo). La base comune di Gentile e di Heidegger è la dottrina dello Stato di Hegel. I due arricchiscono poi le rispettive dottrine con gli apporti della propria tradizione nazionale, sicchè mentre in Gentile confluiscono elementi tratti da Machiavelli, dal Rinascimento, da Giordano Bruno e da Spaventa, in Heidegger troviamo temi provenienti da Lutero, dal romanticismo, da Hölderlin e da Nietzsche.

Accostare la figura di Gentile a quella di Nietzsche presenta un certo interesse per le convergenze e le divergenze. Sono entrambi gli effetti estremi e quindi più dannosi, dell’idealismo hegeliano, l’uno, quello di Gentile, che vi aggiunge elementi italiani, come l’antropocentrismo rinascimentale; l’altro, il volontarismo irrazionalista di Lutero.

Severino

Altro pensatore relazionista è Severino, per il quale la verità, l’unità e la totalità dell’essere si risolvono nella relazione fra l’essere e l’apparire a me, per cui lo scomparire tronca la relazione dell’apparente a me, è ancora la mia relazione all’essere dell’ente scomparso. Peraltro, il relativo non dipende dall’assoluto, perché non è realmente da esso distinto, ma è l’assoluto in quanto appare come relativo.

Come sostiene Severino, il singolo io empirico è apparizione temporanea all’io empirico dell’Io assoluto, terminata la quale l’apparente scompare nell’Io assoluto ossia nell’Essere. Io sono empiricamente ciò che sono come Io assoluto o come Essere.

Conclusione

L’idealismo si presenta come un’alta forma di spiritualità, una guida alla verità, una rivelazione della realtà che sostituisce la verità all’apparenza, una garanzia di assoluta certezza, il paradigma del filosofare, una filosofia inconfutabile, un ragionare critico che sostituisce l’ingenuità col sapere scientifico, un’apoteosi dell’ideale, un sapere sublime e geniale, una messa a nudo del proprio io profondo, di ciò che precede il conscio, un’elevazione dello spirito, una rivelazione del mistero, una visione immediata dell’essere e dell’assoluto, un sapere della totalità, dell’infinito e dell’eterno, un’esaltazione del potere del pensare, del volere e dell’agire, l’esaltazione suprema dell’autonomia e della libertà della coscienza, la vera concezione spirituale di Dio, il Dio immanente, Dio nel mondo, il Dio perdonante, il Dio sperimentabile, contro quella del Dio trascendente, burbero e giustiziere del realismo tomistico, dogmatico, concettuale, catechistico e scolastico.

Bisogna dire, tuttavia, che l’idealismo attrae sì gli spiriti assetati di spiritualità, ma infetti, forse inconsciamente, da una sottile superbia e raffinata ipocrisia. Perchè? In che senso? Perché essi, consci della loro intelligenza superiore alla media, se ne invaghiscono e dimenticando quell’umiltà che ci tiene sempre sottomessi a Dio, consapevoli della nostra fallibilità, questi spiriti, inebriati e ingannati dalla coscienza che hanno del rapporto che il pensiero ha con l’infinito e l’assoluto, si persuadono di essere essi stessi l’Infinito e l’Assoluto, con la pretesa quindi di sostituirsi a Dio nella conduzione della propria vita.

Ma essi, accecati dalla superbia, vengono a cadere dall’alto della loro finta spiritualità precipitando nelle miserie della carne, che essi scambiano per esperienza mistica, e così, da spiritualisti che volevano essere, si invischiano nelle passioni del materialismo, dell’empirismo e del positivismo, continuando ipocritamente a voler apparire gli uomini dello spirito e dell’assoluto.

Ora, come abbiamo visto, l’impulso di fondo dei sistemi di tutti questi filosofi che abbiamo passato in rassegna, è quello dell’idealismo nato da Cartesio. Essi si vantano di essere gli esponenti della «filosofia moderna» e hanno dato origine al modernismo, che esiste anche oggi.

È questo l’impulso che consiste nella falsificazione della categoria della relazione: il relativizzare la realtà all’idea anziché relativizzare l’idea alla realtà, il confondere la relazione reale con quella di ragione, la relazione contraria con quella contradditoria, la relazione inerente con quella sussistente, la relazione naturale con quella volontaria, la relazione lecita con quella proibita.  

L’impulso di fondo consiste nel negare la persona come sostanza e ridurla ad un accidente,  l’accidentale elevato a sostanziale, l’assoluto relativo al relativo, il relativo al posto dell’assoluto. Il relativo assolutizzato e privo di relazione all’assoluto, gira a vuoto su se stesso privo del fondamento.

Da qui il circolo della dialettica hegeliana in Gentile e Marx, e il circolo dell’eterno ritorno in Nietzsche. La svastica nazista è il simbolo, preso dall’induismo, di questa esasperante e dannata circolarità. Stalin, Hitler e Mussolini sono i tre personaggi-chiave, personaggi-simbolo di questo dramma della storia, che stiamo tuttora vivendo.

Da qui, in gnoseologia, il senso sostituito all’intelletto, l’identificazione del pensare con l’essere e con l’agire, la confusione del reale con l’ideale, dell’apparire con l’essere, del soggettivo con l’oggettivo, dell’intramentale con l’extramentale, l’immagine al posto del concetto, la mitologia al posto della logica, l’individuale al posto dell’universale, il concreto al posto dell’astratto, la scienza confusa con la coscienza,

In metafisica l’essere confuso col divenire, col nulla, con l’idea, con lo spirito, con la materia, con l’io, con l’autocoscienza, con Dio, col mondo, col pensare e con l’agire; l’esistenza al posto dell’essenza, la persona al posto della natura, l’ente confuso con l’essenza, il contingente col necessario, il materiale con lo spirituale, il possibile con l’attuale, il temporale con l’eterno.

In morale, la confusione dell’essere con l’agire, dell’agire umano con quello divino, la confusione della relazione con l’azione, la menzogna sostituita alla sincerità, l’astuzia sostituita alla sapienza, la doppiezza sostituita alla semplicità, la violenza sostituita alla persuasione, la passione sostituita alla volontà, la licenza sostituita alla libertà, la sopraffazione sostituita alla provvidenza, l’empietà sostituita alla religione, l’aggressività sostituita al coraggio, la crudeltà sostituita alla giustizia, la schiavitù sostituita al servizio, il servilismo sostituito all’obbedienza, l’abiezione sostituita alla dedizione, la complicità sostituita alla misericordia, il privilegio sostituito all’uguaglianza, la tirannide sostituita alla democrazia, il fanatismo sostituito all’eroismo, il male considerato come bene, l’odio sostituito all’amore, l’omicidio sostituito al sacrificio, la morte sostituita alla vita, la dannazione al posto del paradiso.

Le due guerre mondiali del secolo scorso, frutto delle suddette ideologie, e la terza che ci sta minacciando, dovrebbero essere un avvertimento che dobbiamo cambiare idee e cambiare strada, come ci è stato indicato dal Concilio Vaticano II. Eppure i medesimi personaggi continuano ancora a dettar legge e a mietere successo sul palcoscenico della storia, perché forse qualcuno crede ancora che stiamo vivendo una commedia. Tuttavia, alla fine del sec. XIX, quando Nietzsche elaborò la sua dottrina del superuomo, forse vagamente conscio dei suoi futuri effetti, ebbe a vaticinare una frase enigmatica e conturbante: incipit tragoedia.

Dobbiamo allora farla finita, una buona volta, con quell’idealismo tedesco che ha procurato all’umanità tanti guai. Bisogna, come ci esorta il Concilio Vaticano II, tornare al realismo di San Tommaso d’Aquino, vero riflesso della sapienza biblica.

E bisogna pertanto che i Tedeschi, ricchi di risorse di sentimento, di cuore, di spirito e di mente, il Gemüt, le sappiano impiegare veramente con sobrietà, equilibrio e moderazione al servizio di Dio e degli altri popoli; bisogna quindi che la smettano di illudere l’umanità con le megalomanìe dell’idealismo,  bisogna che rinuncino alla seduzione luterana, hegeliana e nicciana di voler essere il popolo faro e guida divina dell’umanità.

Se questo ruolo può averlo un popolo, questo semmai spetterà ad Israele. Il popolo tedesco occupa un posto eminente nel contesto dell’umanità. Ma deve dare ascolto a Dio e non ai suoi falsi profeti. Maritain ha sostenuto giustamente che i nazisti hanno voluto distruggere il popolo ebraico perché invidiosi della sua predilezione divina, come Caino ha voluto uccidere Abele. Solo a queste condizioni l’umanità, oggi angosciata per il trovarsi sull’orlo dell’abisso, potrà ritrovare nella Chiesa il faro della verità e l’ancora della salvezza.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 18 febbraio 2023




Bisogna, come ci esorta il Concilio Vaticano II, tornare al realismo di San Tommaso d’Aquino, vero riflesso della sapienza biblica.

 

È questo l’impulso che consiste nella falsificazione della categoria della relazione: il relativizzare la realtà all’idea anziché relativizzare l’idea alla realtà, il confondere la relazione reale con quella di ragione, la relazione contraria con quella contradditoria, la relazione inerente con quella sussistente, la relazione naturale con quella volontaria, la relazione lecita con quella proibita. 

L’impulso di fondo consiste nel negare la persona come sostanza e ridurla ad un accidente, l’accidentale elevato a sostanziale ...

Da qui, in gnoseologia, il senso sostituito all’intelletto, l’identificazione del pensare con l’essere e con l’agire, la confusione del reale con l’ideale, dell’apparire con l’essere …

In metafisica l’essere confuso col divenire, col nulla, con l’idea, con lo spirito, con la materia, con l’io, con l’autocoscienza, con Dio, col mondo, col pensare e con l’agire; l’esistenza al posto dell’essenza, la persona al posto della natura, l’ente confuso con l’essenza, il contingente col necessario, il materiale con lo spirituale, il possibile con l’attuale, il temporale con l’eterno.

In morale, la confusione dell’essere con l’agire, dell’agire umano con quello divino, la confusione della relazione con l’azione …



Immagini da Internet:
- Volto del Cristo, Michelangelo
- Volto, Matisse
- Il Trovatore, De Chirico



[1] Nel IV libro della Metafisica.

[2] Da qui la doppiezza in campo morale, allorchè il soggetto si mette a giocare su due registri, quello dell’idealismo e quello del realismo, a seconda di come gli conviene.

[3] Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Edizioni Laterza, Bari 1963, p.473.

[4] Ibid., p.474.

[5] Lineamenti di filosofia del diritto,  §257, Editori Laterza, Bari 1990, p.195.

[6] Ibid.

[7] Enciclopedia delle scienze filosofiche, op.cit., p.480.

[8] Ibid., p.503.

[9] È nota l’esaltazione nicciana del dominio della «bestia bionda» con evidente riferimento alla razza ariana tedesca. Anche se Nietzsche parla di «volontà» di è potenza, egli, come spiega chiaramente, per volontà non intende affatto forza o potenza intellettuale, morale o spirituale, ma forza fisica, durezza, passione, istinto animale, dunque apologia della violenza e della prepotenza.

[10] Logica formale e logica trascendentale, Edizioni Laterza, Bari 1966, p.337.

[11] Essere e tempo, Longanesi&C., Milano 1976, pp. 289, 369.

[12] Ibid., p. 373.

[13] Ibid., p.369.

[14] Ibid., p.370.

[15] Ibid., p.369.

[16] Ibid.

[17] Ibid., p.374.

[18] Ibid.

[19] Ibid.

[20] Nietzsche, Adelphi Edizioni, Milano 2013.

[21] Heidegger. Esistenza e Sacro, Morcelliana, Brescia 1974.

[22] Hölderlin, Adelphi Edizioni, Milano 1988.

[23] Cf Andrea Colombo, I maledetti. Dalla parte sbagliata della storia, Edizioni Lindau, Torino, 2017, pp.61-73.

[24] Cf Andrea Colombo, op,cit., pp.75-86.

2 commenti:

  1. Caro Padre Giovanni,
    nel ringraziarla per questa sua riflessione che ben evidenzia, il filo rosso comune, generatosi da un errore filosofico, il cogito cartesiano e l’idealismo susseguente, che ha attraversato più stagioni del pensiero, ho notato che, tra gli idealisti, non ha voluto soffermarsi particolarmente su Schelling.
    Desidero chiederle, cortesemente, se può spendere qualche parola in più su questo filosofo, sempre in rapporto al tema trattato del rapporto tra sostanza e relazione nella persona.
    Mi riferisco in particolare al cosiddetto “secondo Schelling”, quello delle opere “Filosofia della mitologia” e “Filosofia della rivelazione”, in cui egli si discosta, almeno parzialmente, dal precedente idealismo, rivalutando l’esperienza quale punto di partenza per una “filosofia positiva”, che non è pura conoscenza teoretica ma si traduce in attività pratica, in una sorta di religione filosofica: Dio si manifestò all’uomo con un atto di libertà assoluta e solo così l’uomo poté giungere alla conoscenza di Dio come persona vivente, che si incarna nel Figlio.

    Da “Filosofia della rivelazione”, libro III, cap. XXXIV:

    «La rivelazione deve essere determinata anzitutto come una propria e particolare forma di conoscenza […] la scienza conseguita mediante la rivelazione rientra sotto la categoria generale del sapere che ci è partecipato in virtù dell’esperienza. Ma c’è anche altro che noi possiamo sapere soltanto per mezzo dell’esperienza, ossia – come si suol dire – a posteriori. In qual modo la filosofia progredisca nella conoscenza che Dio “è”, o alla scoperta che in lui risiede la possibilità di produrre un essere diverso da sé (e di esserne il creatore), non occorre ripeterlo; ma come sempre la filosofia progredisca alla considerazione che Dio “ha voluto” essere creatore, noi non possiamo immaginarci mai di saperlo se non per il fatto appunto che egli ha creato realmente, mediante l’azione, mediante la reale presenza di un essere diverso da lui […]
    Non viene in mente a nessuno che soltanto sappia che cosa voglia dire parlare della rivelazione, di immaginarsi che questa possa venir compresa “a priori”. Al contrario, la filosofia della rivelazione si rende conto, in primo luogo, che tutto ciò che essa sa di poter dire della rivelazione, deve dirlo soltanto in conseguenza di ciò che è realmente accaduto. Essa pone il proprio compito nel mostrare che la rivelazione non è un avvenimento necessario, bensì la manifestazione della più libera, e più personale, volontà dell’essere divino».

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    1. Caro Bruno,
      secondo me Schelling è più un sincretista, che un filosofo originale. Lo conosco fin dal Liceo, cioè da più di sessant’anni, ma non ho mai sentito il desiderio di approfondirne il pensiero, perché sin dagli inizi mi è parso di poterlo ridurre ad una mescolanza della filosofia di Fichte con Hegel.
      Riconosco che aveva una certa simpatia per il realismo, però è evidente lo sfondo idealistico, per cui giustamente è presentato come uno dei tre grandi idealisti tedeschi, insieme che Fichte ed Hegel.
      Per quanto riguarda la dottrina sociale e politica di Schelling, per quanto ne so, egli non approfondisce l’argomento, per cui l’individuo si relaziona alla società secondo l’impostazione idealistica, che conduce in politica al totalitarismo.
      Per questo anche per lui l’io empirico non è una vera persona, che si ponga in relazione con la società, ma è la manifestazione empirica dell’io assoluto. Ma questa posizione la si trova già in Fichte e Hegel in una forma più sviluppata, per cui ho ritenuto che non fosse necessario, su questo tema del relazionismo, citare il pensiero di Schelling.

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