Il volo di Icaro
Chi troppo vuole nulla stringe
La falsa ascetica del platonismo e
le sue conseguenze materialiste
Mentre Platone, per la sua diffidenza nei confronti del senso, era portato a cercar rifugio nel mondo delle idee, Aristotele non problematizza come Platone in maniera così esagerata la questione della certezza sensibile, ma dopo aver puntato l’attenzione sulla verità di questo sapere iniziale, applica il principio di causalità efficiente e giunge a scoprire l’attività del Motore immobile, mentre d’altra pare, riflettendo su come avviene la conoscenza sensibile, sorretto da precedenti considerazioni di Platone, scopre l’esistenza dell’anima spirituale e quindi si affaccia nel mondo dello spirito, al vertice del quale scopre la Nòesis Noèseos, il Pensiero del Pensiero, la divina Autocoscienza.
Platone distingue il sensibile (aisthetòn) dall’intellegibile (noetòn) e Aristotele riprende questa distinzione: il sensibile è il dato materiale; l’intellegibile è il dato spirituale. Ma mentre per Platone il sensibile non può essere intellegibile, bensì solo opinabile, per Aristotele anche il sensibile può essere intellegibile, in quanto atto di ciò che è in potenza, ossia atto del diveniente in atto. Ma la forma è atto dell’ente. In questo caso è atto del mutevole in atto. Ora, oggetto del sapere è la forma. Dunque, è possibile avere scienza del divenire, non certo in quanto potenza che si attua, ma atto della potenza che si sta attuando.
Quanto a Platone, egli non sapeva risolvere il dato materiale se non nello spirituale. Il suo contrapporre così esclusivista lo spirito alla materia come l’essere al non-essere, finiva per avere un prezzo, che capovolgeva paradossalmente ma logicamente le sorti della stessa materia e con ciò dello stesso spirito. Quasi una vendetta della materia sullo spirito. Lo spiritualismo platonico, se uno non ne estrae il succo respingendone il veleno, nasconde una sottile ipocrisia farisaica di quei farisei i quali, come dice il Vangelo, al di là della loro finta religiosità, quello che a loro interessava erano i soldi.
Se infatti la materia non è che lo spazio, un «vuoto», cora, un non-essere (un «essere-che-non-è», come diceva Platone), e se pur la materia deve esistere e se l’essere non è che spirito, allora la materia esiste come spirito. La materia non è che un’idea, un pensato e siamo già a Berkeley. Ma allora ecco il risultato sorprendente: allora vuol dire che lo spirito è materia o diventa materia o si risolve nella materia o si manifesta come materia. E allora per converso la materia si innalzerà a divenire spirito, ed ecco abbiamo già Comte, Marx, Darwin, Spencer, Herbart, Freud e Teilhard de Chardin.
Risultato stupefacente ma logico, proprio nel momento in cui Platone vuol negare alla materia un suo essere proprio, reale e distinto dallo spirito, cosa che invece fa Aristotele col concepirla come dynamis, potentia, poter-essere. D’altra parte, per Platone, la corporeità, come oggetto del sapere spirituale, si risolve, in quanto mancante di una consistenza ontologica propria, nell’essere pensata.
Ma allora Platone che cosa viene a dire senza accorgersene? Che l’intelligere coincide col sentire, il volere con l’emozione e quindi lo spirituale col materiale! Il vero spiritualista invece è Aristotele proprio nel momento in cui riconosce alla materia un suo status ontologico distinguendo la materia dalla forma, come la potenza dall’atto, per Platone, che non conosce altra distinzione tra corpo e spirito al di fuori della partecipazione del sensibile all’intellegibile, succede che, se il partecipante (la materia) ha la natura del partecipato (lo spirito), il partecipante, che è materiale, farà sì che anche il partecipato (lo spirito) sarà materiale. E così dallo spirito si passa alla carne, dalla benevolenza si passa alla concupiscenza, dalla libertà alla libidine.
E il sublime spiritualismo sfocia nella sensualità. Così si spiega come i sottili esteti rinascimentali come un lezioso Baldassar Castiglione potevano rifarsi a Platone. Se dallo spirito alla materia c’è solo una differenza di gradi della stessa realtà, dove va a finire la distinzione fra la materia e lo spirito?
Platone non considerava affatto la materia come un bene creato da Dio, necessario alla nostra felicità, inferiore a quello dello spirito ma ordinato ad esso, bensì come una forza tenebrosa ed ostile allo spirito, esistente ab aeterno, forza seducente, tentatrice, ingannevole, prepotente e schiavizzante, dalla quale il sapiente doveva liberarsi se voleva godere in cielo per sempre dei veri diletti, quelli dello spirito, della bellezza ineffabile delle idee eterne.
È interessante come per Platone la materia non è una sostanza, ma una parvenza o un’apparenza. Sembra realtà, ma non lo è. Conoscere la materia non è scienza, ma semplice opinione. La materia, per Platone è un mutare oscuro, fuggente, inafferrabile ed inintellegibile. I sensi non ci danno la verità, ma solo apparenze soggettive. Per trovare la verità, bisogna abbandonare i sensi ed entrare in se stessi e scoprire il mondo delle idee.
Arriva il moschettiere
Dopo che la Chiesa medioevale, utilizzando per i dogmi antropologici le nozioni aristoteliche di natura, sostanza, anima, corpo, materia e forma sapientemente affinate da San Tommaso alla luce della Scrittura, aveva con tanta cura nei Concili dal Lateranense IV del 1215 al Lateranense V del 1513 precisato il rapporto spirito-corpo nell’uomo, ecco nel XVII secolo, come se tutto fosse da rifare, arrivare baldanzoso Cartesio, il quale con una ostentata sicumera e col tono del maestro che corregge lo scolaretto, sulla base di ragionamenti sofistici, si permette di infirmare quelle verità antropologiche già da secoli stabilite dalla Chiesa nella elaborazione della concezione cristiana dell’uomo, per riprendere in modo maldestro e disastroso il vecchio dualismo platonico già superato e corretto da Aristotele.
Cartesio, riprendendo Platone, convinto di esaltare lo spirito al di sopra del corpo, e di fondare una spiritualità superiore a quella tomista, a causa di una falsa concezione di entrambi, li confonde tra di loro e concepisce uno spirito che finisce nella carne e una carne che si eleva a spirito.
Cartesio dimentica che l’anima è una forma sostanziale; lo spirito è una pura forma. L’anima è la forma di una sostanza, ossia della persona umana. Lo spirito è una sostanza completa in se stessa. L’anima ha bisogno del corpo, dei sensi e delle emozioni per esercitare la conoscenza e la volontà in questo mondo. Lo spirito, ossia l’angelo possiede le sue conoscenze senza bisogno di ricavarle dai sensi, perché non li possiede, non avendo corpo, ma per pura intuizione o in quanto ricevute per illuminazione da un altro angelo o infuse da Dio originariamente o in successione.
L’influsso dell’etica cartesiana nella Francia del ‘600 si mostra subito dissestante e disintegrante, spezzando l’armonia di sensi e intelletto, volontà e passioni, spirito e carne e facendo rinascere conflitti interiori che il tomismo aveva risolto, promovendo una falsa ascetica autolesionista, un rigore morale inesorabile e spietato ed incentivando una spiritualità presuntuosa ed ipocrita, che suscitò per reazione un movimento sensista e libertino, che favorì una falsa libertà che si traduce in licenza e confondendo la dolcezza e l’affettuosità col lassismo e la lussuria.
Sorprende come mai i moralisti tomisti non siano stati capaci di reggere all’urto, di frenare l’infatuazione per Cartesio, di confutare efficacemente i suoi errori e di ristabilire l’ordine perduto portando pace e serenità nelle coscienze e quindi, di conseguenza, concordia e tranquillità nei rapporti sociali ed ecclesiali. Si vede invece il sorgere e l’accanirsi tra loro di fazioni estremiste, entrambe con la pretesa di richiamarsi al cattolicesimo, ma in realtà animate da reciproca intolleranza e spirito di rivalsa e di vendetta.
Così, ecco subito dopo le uscite di Cartesio, una reazione scomposta di violente contrapposizioni fra spirito e corpo, fra emozione e volontà, fra sentire e pensare non solo in Francia, ma anche in Inghilterra e in Germania, di personaggi unilaterali come lui o empiristi come Hobbes, Gassendi e Locke o spiritualisti come Malebranche, Mersenne, Pascal, Giansenio, Arnauld, Berkeley o Leibnitz.
Ma lo sviluppo più inquietante, originato dal cogito, dove l’essere è pensiero e il pensiero è essere, non tarderà a comparire con la dottrina spinoziana della unica sostanza esistente da sé, quindi divina, ma congiuntamente umana, perché la sostanza che è esplicitazione del cogito, pensiero che è essere, sapere che è volere, racchiude nella sua essenza il pensiero e l’estensione, la coscienza e la natura, la libertà e la necessità, lo spirito e il corpo, spirito che si fa corpo e corpo che si fa spirito perché sono un’unica sostanza, Dio che è natura, natura che è Dio.
Platone confonde l’ente col bene, perché egli, nonostante il suo interesse per le idee, che denota certamente rispetto per l’intelletto, è sostanzialmente un volontarista. Per questo la sua etica non è etica del bene onesto, ma del piacevole. Cioè non si tratta di un bene che discende dal vero, ma che è semplicemente voluto dalla volontà. La vera speculazione e la vera contemplazione ci è data dalla gnoseologia di Aristotele, non quella di Platone, che non sa distinguere dal rapporto con l’affetto e con l’eros.
La vera conoscenza per affinità o per connaturalità ha un fondamento aristotelico, non platonico. Per fondare l’etica non è sufficiente il principio del piacere, si tratti pure del piacere spirituale, come sosteneva Gassendi. Anche i vizi spirituali , come la superbia, arrecano un piacere spirituale; ma questo non li trasforma in virtù. Occorre che il piacere sia un piacere lecito, fondato sul bene onesto, oggetto dell’intelletto che coglie il vero bene intellegibile, corrispondente al vero fine dell’agente.
L’etica platonica concernente il governo dell’anima sul corpo conduce sia al rigorismo che al lassismo. Siccome il corporeo è ritenuto ostile allo spirito ed estraneo all’essenza della persona, che è puro spirito e siccome il corporeo non ha una dignità e consistenza ontologica e quindi non contiene finalità naturali che debbano far da regola alla condotta morale, l’uomo è posto davanti a due possibilità: o respingere il corporeo per una vita spirituale angelica priva di soddisfazioni sensibili oppure manipolare liberamente la realtà corporea fruendo dei piaceri sensibili che essa offre non in relazione a finalità naturali che essa possa avere, ma subordinatamente alle libere decisioni dello spirito.
Al contrario, per Aristotele la materia, benché in sè e per noi resti inintellegibile e irraggiungibile, può essere conosciuta per il tramite della forma, che la attua, perché la materia è essere in potenza di ricevere la forma. Il moto, nel momento in cui è tale, non può non essere tale. In tal modo per Aristotele si può avere anche una scienza del divenire, perché l’intelletto riesce a trovare anche in esso una certa necessità, necessaria al sapere scientifico. Ed ecco così costituita la scienza fisica, cosa che Platone non era riuscito a fare.
La verità si
trova col ragionamento, non con la spavalderia
L’avvento di Cartesio sembrò a molti una nuova partenza del filosofare, come se nulla si fosse acquistato di certo fino ad allora e si fosse finalmente raggiunto il conseguimento della certezza tra le interminabili controversie di scuola, la convalida filosofica del metodo della fisico-matematica, la scoperta di un metodo facile per l’acquisto di tutte le scienze e le virtù e per diventare signori e padroni della natura, un servizio alla fede cristiana migliore di quello offerto dal tomismo.
La Chiesa nel 1663 mise all’Indice le opere di Cartesio[1], ma purtroppo ciò non è servito quasi a nulla. Ed oggi ci sono teologi cattolici, che non si accontentano di Cartesio, ma che pretendono di costruire una teologia infetta dalle conseguenze idealiste e panteiste del cartesianismo.
Molti purtroppo credono che siano certe di ciò che dicono non le persone che ragionano sensatamente e con ponderazione, ma quelle che parlano ad alta voce con tono perentorio. A queste persone ci richiama lo stile e il metodo di Cartesio. Le altre ci fanno pensare piuttosto a Socrate, a Platone, Aristotele, Agostino o Tommaso.
È interessante come Cartesio scrisse il Discorso sul metodo a 24 anni l’età[2], si potrebbe dire l’età delle spacconate. Cartesio avrebbe avuto un ruolo di primo piano nella rivoluzione del 1968: sarebbe stato alla testa della sollevazione della balda gioventù contro il potere dei «baroni» dell’Università, come si diceva allora.
Dietro il ’68 non c’era altro che Cartesio e dietro Cartesio c’è sempre il rinnovato tentativo dell’uomo di mettere l’io al posto di Dio, magari con l’apparenza del più nobile spiritualismo, che ha l’aria di dissolvere la materia nel pensiero, ma solo perchè ha materializzato il pensiero, uno spiritualismo che affetta altezzoso dispregio per le futilità della materia, ma solo perché trova in essa il suo necessario idolo polemico, come Cartesio con Gassendi, inizialmente l’uno l’antitesi dell’altro, ma che poi scopersero che conveniva loro far la parte degli amici-nemici e lavorare assieme per il vantaggio che loro offriva il successo mondano.
Il risultato del ’68 nelle Università fu che chi si laureava allora in ingegneria meccanica o aereonautica, avendo sostituito allo studio i discorsi infuocati all’assemblea costituente, quando aveva da lavorare in un’azienda, gli facevano fare tutti gli esami che aveva trascurato di fare, altrimenti, se avesse dovuto costruire un ponte o un aereo con le nozioni rivoluzionarie che aveva acquistato nei dibattiti assembleari, il ponte sarebbe crollato dopo tre settimane e l’aereo sarebbe precipitato dopo aver preso il volo.
Così è
dell’etica di Cartesio: è un’etica sessantottina. Messa alla prova nella vita
reale, essa non è capace di edificare la condotta umana, ma fa crollare i ponti
che costruiamo col prossimo e fa precipitare gli aerei che costruiamo per
salire a Dio. Per fortuna che, nonostante Cartesio, i buoni ingegneri tomisti
continuano a lavorare, sopportando le derisioni dei cartesiani, ma costruendo
ponti solidi e aerei che volano, mentre riparano i danni provocati dagli
ingegneri cartesiani.
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 28 maggio 2023
Cartesio, riprendendo Platone, convinto di esaltare lo spirito al di sopra del corpo, e di fondare una spiritualità superiore a quella tomista, a causa di una falsa concezione di entrambi, li confonde tra di loro e concepisce uno spirito che finisce nella carne e una carne che si eleva a spirito.
Il risultato del ’68 nelle Università fu che chi si laureava allora in ingegneria meccanica o aereonautica, avendo sostituito allo studio i discorsi infuocati all’assemblea costituente, quando aveva da lavorare in un’azienda, gli facevano fare tutti gli esami che aveva trascurato di fare, altrimenti, se avesse dovuto costruire un ponte o un aereo con le nozioni rivoluzionarie che aveva acquistato nei dibattiti assembleari, il ponte sarebbe crollato dopo tre settimane e l’aereo sarebbe precipitato dopo aver preso il volo.
Immagini da Internet:
- Dedalo e Icaro, Andrea Sacchi
- La caduta di Icaro, XVII secolo, Musée Antoine Vivenel
[1] Cf voce DESCARTES nel Dictionnaire de théologie catholique.
[2] Anche S.Tommaso d’Aquino scrisse il De ente et essentia a 20 anni. Ma qui è evidente che ci troviamo davanti ad un gigante del pensiero, prodigio rarissimo della divina provvidenza e non all’atteggiamento gigionesco di chi si fa avanti con la sua prosopopea e con la pretesa di zittire con la voce grossa una baruffa fra ragazzi che litigano perché non riescono ad accordarsi. Prendere sul serio Cartesio, come avrebbero dimostrato i secoli seguenti che hanno esplicitato il cogito sino alle sue ultime conseguenze nichiliste, panteiste ed atee, richiede un prezzo altissimo, che non conviene assolutamente pagare, e fanno veramente pena quei cattolici come Olgiati, Bontadini, Carabellese, Carlini, Moretti-Costanzi, Sciacca e Stefanini, che nel secolo scorso ancora si attardarono a magnificare Cartesio, dopo tutto quello che è venuto fuori dal suo insensato cogito.
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