Trattato sugli Atti umani - P. Tomas Tyn - Lezione 5 (2/2)

 Trattato sugli Atti umani

P. Tomas Tyn

Lezione 5 (Parte 2/2)

P.Tomas Tyn, OP - Corso “Atti Umani” - AA.1986-1987 - Lezione n. 15 (A-B)

Bologna, 22 febbraio 1987

http://www.arpato.org/corso_attiumani.htm

… a una di quelle facoltà che possono o meno essere comandate dalla volontà. Così potremmo partire da un elenco. Sarebbe quasi meglio dire riguardo alla volontà, l’abbiamo precisato, che la volontà può usare liberamente o che la volontà usa, più che comandi. Ma il comando, il termine “comando” ha un duplice significato. Uno più stretto e così è l’atto di ragione. L’altro è più vasto nel senso della volontà che, in qualche modo, impone a un’altra facoltà l’esecuzione di un’opera, che spetta principalmente alla volontà.

Quindi non lasciatevi turbare dal fatto, che io vi dica ogni tanto che la volontà comanda. Ricordatevi che il comando di per sé, come atto specifico tra i dodici atti integranti l’unico atto umano, spetta sostanzialmente alla ragione. Però si usa la parola comandare anche in una maniera diversa, un pochino più vasta, Ebbene si usa questa parola anche per significare l’uso che la volontà fa di altre facoltà.

E quindi vedete che un atto, cioè la cresis, la praxis, l’uso, appunto, può essere dovuto o alla volontà da sola o alla volontà che si serve di altre facoltà. La questione è questa: se la ragione può disporre e la volontà usare anche di altre facoltà, al di là della volontà stessa. La prima domanda è questa, e cioè se l’atto della volontà può essere a sua volta imperato, cioè se l’atto della volontà può essere comandato.

Ora, comandare è disporre con una certa intimazione, cioè ordinare una cosa a un’altra con una certa intimazione. E non c’è dubbio che la ragione può ordinare alla volontà che la volontà voglia qualcosa. Questo lo vediamo sin dall’inizio dell’atto umano, che la ragion pratica, si capisce, propone sempre la verità del bene alla volontà, affinchè la volontà faccia suo affettivamente, appetitivamente, quel bene che la ragione pratica le propone.

Quindi, come la ragione può dire, e dice di fatto a ogni livello dell’atto umano, alla volontà: guarda che questo è un bene per te; così nell’ultimo atto, ossia dell’imperium, la ragione dice alla volontà: fa’ questo, è un bene per te. E la volontà usa di sé, ed eventualmente di altre facoltà, in ossequio all’imperium rationis. Notate che ovviamente la volontà poi muove a sua volta se stessa, cioè la volontà, come la ragione riflessiva, in quanto facoltà spirituali sono tutte e due riflessive, come l’intelletto non solo pensa ma avverte di pensare, cioè pensa di pensare, così anche la volontà non solo vuole, ma vuole volere.

Questo o implicitamente o anche esplicitamente, cioè la volontà può anche sdoppiare il suo atto. La volontà può prima volere e poi volere di volere, cioè prima vuole e, nella prima volizione, vuole la seconda volizione, che poi dovrà però avere per oggetto qualche altra cosa. Per esempio io voglio studiare e, se proprio sono molto pigro, allora voglio almeno voler studiare.

E’ un po’ come quel confessore, che voleva stimolare il penitente, alla contrizione e dice: se non riesce proprio a essere contrito, almeno abbia il pentimento di non essere contrito. Questa riflessività talvolta può persino salvare i penitenti in extremis. In questo senso la volontà ovviamente vuole e la ragione dispone riguardo alla volontà.

Importantissimo è l’ad tertium di questo articolo. Si potrebbe dire questo, che siccome il primo atto della volontà non proviene dall’ordinazione della ragione, da un imperium, bensì dall’istinto della natura, instinctus naturae, dall’istinto della natura, l’impulso naturale, è evidente che tale atto, cioè il primo atto della volontà, non è imperato e quindi non si procede all’infinito.

Infatti uno potrebbe dire: se ogni atto della volontà è imperato, allora la ragione muove la volontà, ma la volontà muove a sua volta la ragione a imperare. E così non ci si ferma mai, in sostanza, no? Invece nella volontà c’è anche un atto di volontà, che è certamente non imperato; un atto spontaneo, immediato della volontà. Spontaneo un po’ come sono spontanei gli istinti degli animali. E’ appunto l’atto della volontà, non in quanto è volontà, appetito razionale, ma in quanto è un che di naturale, un pondus naturae.

Molto interessante questa analisi del pondus naturae. Adesso solo come, come parentesi, tanto per aggiornare il nostro discorso, siamo sempre nel XIII secolo, adesso facciamo una escursione nel XX, almeno agli inizi della psicologia del profondo. Penso che qui ci si potrebbe benissimo collegare. Notate questo discorso tomistico. Conoscete gli psicologi del profondo. Vedete come è meglio perseverare con il ‘200 piuttosto che con il ‘900. nel senso che, gli psicologi dell’epoca contemporanea vi parlano dell’inconscio e vi risolvono la domanda della psiche.

Certamente l’inconscio esiste. E poi vogliono farne un uso, per il quale di fatto talvolta, direi piuttosto per accidens, capita che guariscono anche dei soggetti che hanno bisogno dello psicoterapeuta. Però, non voglio essere proprio cattivo. Perché ho detto per accidens? Perché, quando si chiede, a quel tale freudiano, per esempio, o anche junghiano, dov’è la sorgente dell’inconscio? Non vi sanno rispondere.

Gli junghiani poi sono già, come si potrebbe dire, non tanto riduttivi di tutto a una sola cosa, la famosa libido. Jung almeno, insomma, differenzia già un pochino la psiche umana e anche l’inconscio.

E invece probabilmente, proprio come ut littera sonat, la parola coscienza implica una certa riflessività. Quindi è conscio ciò su cui la ragione riesce a riflettete; è inconscio ciò che la ragione non afferra, cioè ciò che in qualche modo la stessa ragione o altre facoltà eseguono, senza che la ragione lo sappia, in sostanza.

Perché ve ne parlo nel contesto presente? Proprio perché questo si potrebbe dire in qualche modo, contro quella tendenza un tantino animalizzante della psicologia del profondo, a parte Freud, il quale riduce tutto alla libido.

Ma lo stesso Jung vi dirà che praticamente ci sono, sì, diversi archetipi  dell’inconscio collettivo, che però tutti hanno in comune il fatto di derivare dall’istinto. Ecco lui almeno tenta una risposta alla domanda della derivazione. Gli archetipi dell’inconscio derivano dall’istinto, sono come delle rappresentazioni formali, diremmo noi, dell’istinto.

Ora, queste rappresentazioni dell’istinto potrebbero indurre a pensare che praticamente l’inconscio sia fatto solamente di dimensioni quasi bestiali. Scusate se dico così, e saremmo ancora nel riduzionismo. Io penso che, in base a quello che ci dice S.Tommaso, potremmo benissimo pensare che esistano degli archetipi, istintuali nel senso stretto della parola, cioè non riflessi, perchè facenti parte, diciamo così, della sensibilità, non della intellettualità dell’uomo. Però ci sono alcuni archetipi più alti, che sono fondati sull’intellettualità, ma su di una intellettualità non riflessa.

E quindi, è così noi che scappiamo, in qualche modo, evitiamo insomma lo scoglio del riduzionismo, che veramente suona in maniera alquanto sgradevole[1], almeno per le mie orecchie. Non pretendo di averle più pie. Ad ogni modo le mie orecchie un po’soffrono quando sentono dire che praticamente, gli archetipi religiosi sono dovuti a degli istinti, in sostanza.

C’è certamente in qualche modo un archetipo, una idea archetipo di Dio in ogni creatura, tanto più nell’uomo, e certamente inconsapevole nell’uomo, ma ciò non vuol dire ancora che la religione nell’uomo non abbia niente a che fare con la razionalità.

Quindi, insomma, bisogna distinguere nello stesso inconscio, di cui non si può negare l’esistenza, gli strati dell’inconscio. Prego.

… che cosa è l’archetipo razionale non riflesso …

E’ quello che dice praticamente Jung. Esistono diversissimi archetipi. Ci sono sempre nell’uomo determinate finalità, come le chiameremmo, le quali in qualche modo non sono solo degli appetiti, ma, hanno sempre, si potrebbe dire, un fondamento formale.

Per esempio, Jung parla riguardo all’appetito, diciamo così, o alla tendenza procreativa, alla sessualità, dell’archetipo dell’animus dell’anima. Quindi praticamente nella psiche maschile c’è un’immagine, diciamo così, eidetica del femminile, che egli chiama anima, e viceversa c’è l’animus nella donna, nella psiche della donna.

Quindi, in questo senso c’è, diciamo così, una certa pulsione istintuale, che trova però un che di eidetico e di archetipico insito nell’anima umana. E questo contenuto, che è soggiacente nell’inconscio dell’anima umana, in qualche modo poi si manifesta. In che cosa? Diciamo così, nelle elaborazioni dell’archetipo, che sono le rappresentazioni archetipiche. In fondo sono i miti.

Per esempio Jung come arriva a dire che esiste un archetipo dell’animus, dell’anima? Perché si rende conto che moltissime nazioni raccontano gli stessi miti, che riguardano, per esempio, il rapporto sponsale. Quindi, ecco, c’è una certa costante in situazioni ovviamente di assoluta indipendenza letteraria. Se io trovo lo stesso mito nell’antica Grecia e nell’Africa Centrale, posso proprio dire, che i due non hanno comunicato tra loro.

E posso quindi e debbo pensare che ci sia in qualche modo un’immagine comune, all’una e all’altra popolazione, che esse, senza esserne consapevoli, estraggono dal loro inconscio, e che Jung significativamente chiama appunto inconscio collettivo, anziché inconscio individuale, proprio perché è comune a tutti, praticamente a tutta l’umanità, a parte le differenze, di popoli, di razze e di lingue e via dicendo.

Ebbene, egli però tende appunto a ridurre. Cioè, non introduce solo gli archetipi legati appunto agli istinti veri e propri, come potrebbe essere l’istinto nutritivo o sessuale, ma collega gli archetipi anche con finalità, diremmo noi, più alte, come può essere appunto la finalità sociale, per esempio, o la finalità di onorare Dio, la religione.

Ora, a questo punto mi trovo sempre estremamente contrariato. Scusate, avrò una sensibilità un po’ particolare, ma mi sento estremamente contrariato, quando gli psicologi mi dicono: ma, sai, come l’archetipo dell’anima e dell’animus deriva dall’istinto sessuale, così c’è in noi una specie di pulsione religiosa, da cui poi allo stesso modo deriva, una specie di archetipo della divinità o qualcosa del genere. Ebbene, no! Mi dispiace, ma così non può essere.

Se vogliamo fondare la realtà di queste, come si può dire, idee archetipiche, che effettivamente ci sono e si manifestano in questi miti comuni, bisogna tuttavia - e questo penso che abbiamo diritto di chiederlo agli junghiani, - che ammettano appunto una certa stratificazione assiologica dello stesso inconscio.

E penso di aver trovato una possibilità interpretativa proprio in questa inconsapevolezza delle stesse facoltà per sè riflessive, le quali però alle loro origini, alla sorgente, non riflettono. La volontà riflette, ma non nel primo atto; riflette nel secondo e nel terzo. Nel primo atto agisce assolutamente senza essere previamente comandata dalla ragione[2].

Quindi, la volontà ha una certa sua appetitività non comandata, in virtù o in base alla quale poi essa comanda altri appetiti particolari. Però c’è questa appetitività fondamentale assolutamente spontanea. E così anche si evita, come dice qui l’Aquinate, appunto, il processo all’infinito, cioè non si richiede sempre un imperium, precedente a ogni uso della volontà.

A sua volta, l’atto della ragione può essere imperato, cioè la ragione può comandare a se stessa, di conoscere o meglio può comandare alla volontà, che applichi la ragione al conoscere. Cioè la volontà può disporre, riguardo a se stessa, l’applicazione della ragione all’atto del conoscere. Ora, può disporlo, ma non in tutte le sue dimensioni.  Può disporlo sempre - e questa è una cosa molto importante -, quanto all’esercizio.  

Quindi, c’è la prima parte della distinzione. E’ questa: quanto all’esercizio, l’atto della ragione può essere sempre comandato, può essere imperato, in quanto sempre si può ordinare a qualcuno, anche a noi stessi, una certa vigilanza intenzionale, cioè di fare attenzione. E quindi in questo senso nell’esercizio dell’atto della ragione possiamo comandare, cioè disporre di stare attenti, di fare attenzione, di studiare, di applicarci.

Quanto all’oggetto, che specifica l’atto della ragione, c’è questa distinzione da fare. E questa invece è la parte difficile. Anzitutto c’è l’apprensione della verità di una cosa, apprendere immediatamente la verità di una cosa. Questo non è in nostro potere, cioè non è nel nostro arbitrio, ma avviene in virtù della luce conoscitiva o naturale o soprannaturale. Non è nella nostra potestà l’apprensione della verità.

Questo però fa una certa difficoltà. Come interpretare questo punto? L’apprensione della verità non è in nostro potere. Immediatamente dopo S.Tommaso dice che, per quanto riguarda l’assenso a ciò che si apprende, i giudizi non evidenti sono comandabili, cioè posso comandare di assentire o no. Allora, bisogna distinguere tra l’apprensione e l’assenso. E ciò costituisce una difficoltà interpretativa.

Io vi propongo questa modesta interpretazione, che però potrebbe un po’ fare a pugni con quello che dice S.Tommaso, riguardo all’apprensione della verità. Perchè la verità, lo sapete bene, risiede nel giudizio. Io però penso che ci sia una certa verità, non nel senso stretto, capitemi bene, ma in un senso molto vasto. C’è infatti una certa verità anche nella simplex apprehensio, in quanto il concetto rappresenta fedelmente ciò che rappresenta.

In questo senso, si potrebbe dire che la semplice apprensione, sia del senso che dell’intelletto, non può essere comandato, non è possibile comandarla. Questo risulta molto chiaro nella semplice apprensione del senso, a livello sensitivo. Se io apro gli occhi in una sala illuminata come questa, non posso comandare agli occhi di vedere il buio, vedrò per forza la luce. Sarebbe inutile, no?

Quindi, aprendo gli occhi, basta questo e subito non domino l’oggetto, vedere una cosa anzichè un’altra. E qualcosa del genere capita anche con l’intelligenza. Cioè, se formo un concetto rappresentante una determinata realtà, il concetto non posso non averlo come tale rappresentante di quella tale determinata realtà.

Per quanto invece riguarda quell’oggetto dell’intelletto, che è, non il primo, ma il secondo o il terzo atto della mente, cioè il giudizio, sia il giudizio sia in sé, sia la concatenazione dei giudizi nel raziocinio, il giudizio, che è il luogo proprio della verità, questa volta infatti si parla propriamente della verità, ebbene, nel giudizio riguardo al suo contenuto di verità, c’é anche l’atto di assenso. Il giudizio non solo apprende la cosa, ma acconsente alla apprensione della cosa, almeno implicitamente.

Se io dico che il legno ha un colore giallo marrone, in questo, io non solo dico che le cose stanno così, ma che io acconsento intellettivamente al fatto che le cose stanno così. Quindi, voi lo sapete bene, è inutile che mi ripeta, lo sapete dalla gnoseologia, è una cosa molto importante, questa. Cioè, il confronto, a livello dell’oggetto, tra oggetto e oggetto, tra soggetto e predicato, implica il confronto tra soggetto e oggetto. Il quale confronto tra soggetto e oggetto è appunto il costitutivo della verità, adaequatio rei et intellectus.

In questo senso, dice S.Tommaso, per quanto riguarda l’assenso al giudizio, ci sono due casi. C’è il giudizio evidente, i primi principi della ragione, e questi non possono essere ovviamente comandati. Ai i giudizi evidenti immediatamente o per dimostrazione.  noi non possiamo rifiutare l’assenso, la ragione lì non è comandabile.

Per esempio, se io capisco che cosa è il tutto e che cosa è la parte, non posso non dire che la parte è minore rispetto del tutto. Similmente, se un matematico mi spiega il teorema, per esempio, di Pitagora, io non posso non assentire alla conclusione. Invece, là dove il giudizio è inevidente e rimane tale, cioè rimane appunto in qualche modo ancora suscettibile di dubbio riguardo al soggetto, allora l’assenso è comandabile, cioè è possibile comandare di acconsentire a quella verità o meno.

Questo sarà poi molto importante soprattutto per l’atto di fede, evidentemente. La fede ha una evidenza, ma che non deriva dalla sola ragione. Ed è per questo che non si può comandare una conclusione scientifica. Si può però comandare l’atto di fede. Lì la volontà muove la ragione, persino quella speculativa, ad acconsentire.

Ora, una simile difficoltà, se sia comandabile o meno, si propone anche riguardo all’appetito sensitivo. La domanda è questa: se l’appetito sensitivo con le sue passioni, i famosi pathe degli antichi Greci, se questo appetito sensitivo, con i suoi atti, possa essere comandato. Ebbene, per dirimere la questione, cioè per sapere fino a che punto possiamo comandare le nostre passioni sensitive, bisogna vedere fino a che punto esse sono in nostro potere, cioè fino a che punto le dominiamo.

Ora, vedete, la comandabilità, diciamo così, è strettamente legata alla libertà. Cioè, ciò che si può scegliere, si può anche comandare; ciò che non si può scegliere, ciò che non è oggetto di libertà, non può nemmeno essere comandato. Quindi, per vedere se le passioni sensitive sono suscettibili di comando, bisogna vedere se sono in nostro potere, se le dominiamo.  

Ora, l’appetito sensitivo differisce da quello intellettivo. E’ una cosa molto importante. E cioè, mentre tutta la razionalità, anche la sua parte appetitiva, cioè la volontà, è slegata dall’organo corporeo, tutte le facoltà sensitive, gli appetiti sensitivi, tutto il concupiscibile e l’irascibile, sono legati a organi corporei. Questo legame è di estrema importanza anche per la valutazione della moralità di alcune azioni, che implicano le passioni.

Quindi, il fatto è questo, che, per quanto riguarda la conoscenza sensitiva, che determina l’appetito sensitivo, non c’è dubbio che da quel lato l’appetito sensitivo è oggetto del dominio dalla parte della volontà. Cioè noi possiamo dominare con la volontà l’appetito sensitivo, un po’ come la razionalità domina le singole rappresentazioni sensitive.

Quindi, sotto questo aspetto, per quanto riguarda le facoltà sensitive, in quanto facoltà della psiche, nel loro, diciamo così, risvolto psicologico, sotto questo aspetto le facoltà dell’anima, le facoltà sensitive, sono sottomesse al comando della volontà. C’è una specie di analogia. Come la ragione si serve dei sensi, perchè l’intelligibile è universale rispetto al sensibile, così le facoltà appetitive sensitive sono come un qualcosa di particolare rispetto a quella facoltà universale, che è la volontà.

E quindi, come il particolare si sottomette all’universale, così la volontà, facoltà del bene universale sottomette a sè tutte le facoltà sensitive. Quindi le facoltà sensitive sono sottomesse alla volontà come il particolare è sottomesso all’universale o come anche uno strumento è sottomesso alla causa principale. In questo senso noi dominiamo, e comandiamo, quindi, ai nostri appetiti sensitivi. Però, ahimè, miei cari, per quanto riguarda il legame all’organo corporeo, questo purtroppo non lo dominiamo[3].

Quindi, la disposizione fisica che ovviamente condiziona la situazione della passio dell’uomo, la situazione patetica, chiamiamola così, del soggetto, in rapporto all’organo corporeo, questo non lo dominiamo. Quindi talvolta, alludendo a quello che egli poi chiamerà peccato di sensualità, S.Tommaso dice appunto che può accadere che il moto dell’appetito sensitivo sia subito stimolato dall’apprensione dell’immaginazione o del senso. E in tal caso il movimento dell’appetito sensitivo esula dal comando della ragione, anche se sarebbe potuto essere impedito, se fosse stato previsto.

Quindi può succedere talvolta, in qualche modo, che la sensitività, che di regola si sottomette alla razionalità, nata est oboedire rationi, cioè è per natura tale da poter obbedire alla ragione, in questo o quell’ atto prevenga la razionalità e quindi si sottragga alla razionalità stessa. Questo succede quando, per esempio, c’è un atto incontrollato dell’immaginazione, a cui segue poi un atto dell’appetito sensitivo, una passione dell’appetito sensitivo, in maniera tale che la ragione non sia riuscita in qualche modo ad avvertire[4].

Però, dice S.Tommaso, in assoluto[5] la ragione avrebbe potuto prevedere. Solo che in quella circostanza particolare, in assoluto lo potrebbe fare, ma riguardo a quell’atto particolare, non c’è riuscita, anche senza sua colpa E in tal caso evidentemente un eventuale disordine[6] rimane tutto sommato sul piano dell’atto di peccato veniale, proprio ex imperfectione actus, perché non c’è stato un sufficiente confronto con la razionalità.

Quindi, notate che c’è questo dominio, possiamo dire non dispotico, ma solo politico, della nostra parte sensitiva. Quindi, c’è un qualche cosa negli appetiti sensitivi che si sottrae effettivamente alla nostra razionalità e anche al comando della volontà. Per quanto invece riguarda gli atti della parte vegetativa dell’anima, questi non possono essere comandati in nessun modo, perché evidentemente la volontà comanda tramite la conoscenza.

Ora, gli appetiti sensitivi sono determinati da conoscenze sensitive, cioè da conoscenze particolari, che sono dominate[7] dalla ragione, e quindi similmente gli appetiti sensitivi saranno dominati dalla volontà. Invece, l’appetito naturale non è in nessun modo fondato su di una conoscenza. Esso è proprio detto giustamente vegetativo, perché corrisponde alla vitalità delle piante, che è una vitalità carente di conoscenza, anche di conoscenza sensitiva.

Come una pianta cresce senza sapere in nessun modo di crescere, così succede anche con l’uomo. Non è che l’uomo comandi a se stesso, o che il bambino dica a se stesso: “adesso voglio crescere tre centimetri” e di fatto cresce. Può magari volerlo, ma a livello velleitario.

Quindi, praticamente appunto, anche in esseri superiori alle piante evidentemente ci sono le dimensioni vegetative, che non sono radicate in una precognizione, e questi appetiti naturali vegetativi, proprio in quanto non sono fondati sulla conoscenza, non sono dominabili ovviamente dalla volontà.

Quindi, talvolta potete avere una situazione di compenetrazione di una di una dimensione sensitiva e di una dimensione vegetativa. Per esempio, la nutrizione. In essa, il fatto di prendere il cibo o meno è dominabile dalla volontà. Di questo non c’è alcun dubbio, perché proprio corrisponde a una certa appetitività sensitiva.

Invece, il fatto materiale della digestione non dipende più dalla volontà. A meno che uno non si faccia fachiro o yogin, a quanto pare essi hanno anche la possibilità  di influire su queste cose. Ma, ad ogni modo, ordinariamente, sono, diciamo così, dei processi del corpo umano che non sono controllabili appunto dalla volontà. Proprio perché si sottraggono anche alla stessa dimensione sensitiva, sono immediatamente radicati, si potrebbe dire, nella natura dell’uomo.

Ovviamente poi, per quanto riguarda invece le membra esterne del corpo, il loro atto è comandabile dalla volontà. Perché? Perchè il corpo è come uno strumento delle facoltà sensitive e le facoltà sensitive a loro volta sono strumento della volontà. Quindi ovviamente la volontà usa di se stessa, usa delle facoltà sensitive nel senso che abbiamo visto e tramite esse o anche immediatamente usa poi delle membra del corpo. Questo per quanto riguarda l’oggetto dell’imperium.   

Adesso, almeno proviamo, abbiamo ancora un quarto d’ora, se non sbaglio, o quasi. Ebbene, iniziamo almeno il discorso della quaestio 18, che è una questione veramente fondante. Adesso, fin qui c’era l’analisi del volontario e dell’involontario e delle parti dell’atto umano, mentre ormai con la quaestio 18 affrontiamo proprio il costitutivo della moralità, non più dalla parte dell’atto, ma dalla parte dell’oggetto dell’atto. Certo sempre nell’atto, ma in quanto l’atto deve sottostare a un determinato oggetto, potremmo dire ormai, a una determinata legge.

Quindi, è molto importante questa quaestio 18, che proprio pone, si potrebbe dire, le basi della moralità obiettiva. Abbiamo detto che la moralità è definita dai moralisti come la relazione trascendentale, ossia secondo tutta l’essenza dell’atto umano alla norma della legge. E’ la definizione classica, ma sempre ben soddisfacente, molto chiara.

Quindi praticamente l’atto umano ha un certo obbligo di sottostare alla norma della legge. Se si sottomette a quell’obbligo, ha una certa pienezza di essere, che lo rende buono; se invece si sottrae a questo obbligo di sottostare alla norma dettata dalla ragione, questa sottrazione, questo venir meno, avrà ragione di male, di difetto, quindi di malizia morale.

Però è molto importante, perché questa quaestio l8, è ovviamente, come tutti gli articoli di S.Tommaso,  dei già Giovanni XXII diceva: quantos articulos scripsit, tanta miracula fecit. Questo articolo primo della quaestio 18, è di una straordinaria importanza per il legame strutturale tra la morale e la metafisica, tra la morale, l’etica e l’ontologia, se volete, tra la dottrina dell’essere e la dottrina del bene nell’atto umano.  

L’etica è la dottrina del bene nell’atto umano. Ma c’è anche la dottrina ontologica, dottrina dell’essere in genere. E allora bisogna vedere come passare dall’ontologia dell’essere, dell’ente e del bene, alla morale, che sarà anch’essa in qualche modo un’ontologia, ma una ontologia di quel particolare bene, che è il bene dell’atto libero, in quanto precisamente libero.

Vedete come la razionalità etica è collegata con la metafisica, checché ne dica Immanuel Kant, cum bono pacis tanti viri, con buona pace di sì grande uomo, Oso dire che non è la morale che fonda la metafisica, ma viceversa è la metafisica che sempre e comunque fonda la morale. Non c’è altra via.

Notate che questa è una crux dei moralisti, perché al giorno d’oggi, essi si scervellano per trovare una possibile fondazione della deontologia nell’ontologia, ma non ne vedono la possibilità. D’altra parte non mi meraviglio, perché le filosofie moderne non sono adatte a dare una risposta,

Ebbene S.Tommaso, proprio in questo articolo, mi pare in maniera estremamente qualificata, con quel semplice presupposto che l’uomo conosce non solo i pensieri, ma la realtà, riesce a stabilire il ponte, si direbbe, tra la deontologia e l’ontologia, tra l’essere e il dover essere, nel senso più specificatamente morale che ci sia. Ma supponente ovviamente la filosofia realistica, la gnoseologia realistica.

Adesso percorriamo con l’Aquinate le singole tappe della sua argomentazione. Egli dice anzitutto che ogni agente produce l’azione secondo la sua forma intrinseca, cosicché vi è una certa somiglianza da una parte tra il bene e il male delle azioni e dall’altra tra il bene e il male delle cose. Qui stabilisce la chiara analogia tra ontologia e deontologia. C’è una analogia tra il bene e il male morale e il bene e il male fisico o più ancora di questo c’è una analogia tra il bene e il male operativo e il bene e il male, diciamo così, entitativo.

Questo perché? Notate il motivo. Perché ogni agente produce la sua azione secondo la sua forma Agere sequitur esse. Ovviamente l’esse è determinato dalla forma. Vedete quindi che in qualche modo dalla forma dipende sia l’essere che l’agire. La forma determina e l’essere e l’agire. Determina. Si capisce, ma per voi non c’è bisogno, perché penso che ormai sapete queste cose. Ma per accontentare anche i nostri esistenzialisti, come Padre Fabro, bisognerebbe dire che la forma determina, non ovviamente l’Ipsum Esse, questo è chiaro, ma l’essere partecipato.

Infatti molti esistenzialisti prendono scandalo da questo modo di dire, che l’essenza determina l’essere. Certo, l’essenza determina l’essere, non l’Ipsum Esse, l’atto di essere non è determinabile dall’essenza, ma l’esistere, cioè l’essere partecipato all’essenza prende la proporzione dell’essenza. Quindi è determinato in questo senso dall’essenza.

L’essere è proporzionato alla forma. E similmente l’operazione procede dall’agente secondo le esigenze della sua forma. Quindi, la forma impone una somiglianza[8], la forma fa quasi da mediatrice tra l’essere e l’agire. Perciò, questo fatto che sia l’essere che l’agire è fondato sulla forma, fa sì che c’è un’analogia tra il bene e il male nell’essere e il bene e il male nell’agire.

Solo che nell’agire, tanto per semplificare le cose, ci sono due tipi di azione. C’è un’azione che segue fatalmente l’essere ed è l’azione involontaria degli agenti naturali. E poi c’è l’azione che in qualche modo segue, diciamo così, non l’essere fisico dell’agente, ma il suo essere intenzionale, intellettivo, il suo ultimo giudizio pratico-pratico e questo sarà ovviamente l’agire libero, l’agire moralmente responsabile. E quindi vedete che nell’ambito stesso dell’azione bisogna ancora distinguere tra una azione puramente fisica e una azione morale perchè libera..

Ora, le cose. E questo è importante. Quindi, dopo aver stabilito questo ponte di analogia tra l’ordine dell’agire e l’ordine dell’essere, vediamo adesso come si configura, diciamo così, il bene nell’ordine dell’essere delle cose. Quando si dice che una cosa è buona, questo vuol dire che le cose hanno tanto di bontà quanto hanno di essere. Solo Dio che è pienezza di essere è anche pienezza infinita del bene. Le cose finite hanno una bontà conveniente a ciascuna di esse, secondo aspetti diversi.

Quindi solo Dio è buono infinitamente e pienamente. Quando Gesù dice appunto a quel giovanotto: “Perchè mi chiami buono? Solo Dio è buono”, era profondamente metafisico. Seppure avrebbe potuto dirlo proprio di Se Stesso, in quanto era vero Dio, quanto alla Persona. Ma, parlava di ciò che appariva all’esterno, non solo appariva, ma anche c’era. Io non sono un doceta. Ma comunque in rapporto la natura umana visibile dal suo interlocutore, quanto alla natura umana creata, giustamente Gesù dice: “Perché mi chiami buono? Solo Dio è buono.”.

Nessuna creatura è buona, in quel senso pieno della parola, perché, siccome esistono le medesime condizioni a livello di essere e a livello di bene, è necessario pensare che solo l’essere pieno sarà anche il bene assoluto. Quindi, S.Tommaso, se volete, in ciò, se vi rendete conto, allude delicatamente a quello che Leibniz, molto meno disciplinatamente quanto al linguaggio, chiamerà il male metafisico.

Il male metafisico, secondo Leibniz, è il male che consiste nella finitezza delle cose. S.Tommaso avrebbe detto no, non lo chiamo male. Perché? Perchè il male non è la privazione[9] dell’essere, Se fosse solo privazione dell’essere, allora sarebbe vero. Infatti ogni ente finito è privazione di una pienezza, e quindi ogni ente finito sarebbe cattivo, tra virgolette Perchè non si può dire che un essere particolare è cattivo? Perché il male è, sì, privazione di essere, ma è dell’essere dovuto al soggetto, proporzionato all’essenza del soggetto.

 Io sono poco esperto in zoologia, ma mi pare, non so, che le talpe siano cieche o poco ci manca. Ebbene, non si può dire che per loro ciò sia un male. E poi ci sono quei vari animali che vivono nelle caverne e via dicendo. Ebbene, mettiamo che la talpa sia cieca, non lo so; adesso faccio un po’ di zoologia aristotelica, non vado a vedere come stanno le cose. Sant’Alberto Magno mi sgriderebbe.

Comunque, mettiamo che questi animali che vivono sotto terra siano ciechi. Ebbene, se la loro natura è tale da non dover avere la vista, non si può parlare di cecità. Cioè, in loro non è un difetto, è un loro bene, non avere la vista. Cioè è una privazione, ma non la mancanza di un essere dovuto a loro. Quindi la talpa non è ammalata, per il fatto di essere cieca. E’ perfettamente sana, di ottima salute, perché non le spetta avere la vista.

In questo senso, S.Tommaso dice, certo, che l’unica essenza buona in assoluto è quell’essenza, che coincide con l’essere e che è l’Actus Ipse Essendi, cioè lo stesso Atto di Essere, Dio. Ogni altra entità ha una proporzione di essere commisurata alla propria essenza, alla propria forma.

Ora, è possibile che alcune di tali cose finite realizzino l’essere sotto un aspetto e sotto un altro aspetto, vengano meno, notate, rispetto all’essere dovuto a loro. Così tali cose, in quanto hanno l’essere, sono buone; ma in quanto mancano di essere dovuto, sono cattive. Per esempio, un uomo cieco ha il bene della vita, vive. E’ un uomo, ha tante qualità, è molto intelligente, e ha dei sensi; alcuni li ha più acuti, proprio perché voi sapete bene che i ciechi poi acuiscono gli altri sensi.

Quindi sotto quest’aspetto ha una certa pienezza di essere, di ente. Però ha quella particolare mancanza della vista, mancanza di un’entità di per sé dovuta al soggetto. Ecco perchè allora si può parlare di un male fisico, di una infermità, di una malattia.

Quindi, il male consiste nella privazione. E questo mi pare che S.Tommaso si premuri di chiarirlo bene. E’, se volee, la definizione del male. Il male è la privazione dell’ente dovuto ad un determinato soggetto, secondo le esigenze della sua natura.

Se è radicato nella natura umana il fatto di avere la vista, la privazione della vista sarà un male fisico. Tuttavia l’uomo non sarà completamente cattivo; il cieco poverino è buono, fondamentalmente; è “cattivo”, tra virgolette, cioè è imperfetto, perchè gli manca quella particolare perfezione, che è la vista.

In questo senso, il nostro caro ottimista d’Aquino, è il caso di dirlo, nella metafisica del bene è veramente eccezionale. Egli dice che se qualcuno fosse privo di tutta la bontà, dovrebbe essere privo anche di tutta l’entità, quindi non sarebbe nè buono nè cattivo, semplicemente non ci sarebbe. E’ così semplice la faccenda.

Metafisicamente parlando, il male assoluto non esiste, il male assoluto non c’è, per definizione, perchè il male assoluto è la privazione di tutto l’essere. Ora, la privazione di tutto l’essere, proprio di tutto l’essere, è il nulla. Ditelo bene, miei cari, citando S.Tommaso, quando alcune anime un tantino laiche, troppo laiche vi diranno che i cristiani sono un po’ come i manichei, che credono nei demoni, che combattono il Signore Iddio Onnipotente.

Guardate che ci sono delle cose assurde, allucinanti, che si sentono dalla gente in giro. Cioè la concezione che la gente ha del demonio. E’ pauroso. Veramente loro credono, cioè quelli che non credono, credono che noi crediamo, che il demonio sia una specie  di male assoluto. Come Dio è un bene assoluto, il demonio è un male assoluto. E che fatica spiegare, in base a simili riflessioni tomistiche, che il demonio non può essere un male assoluto, perchè il male assoluto non c’è. Prego, mio caro (?), prego.

… questa mancanza di esercizio … si può considerare un male oppure no …

Sì. Sì. Sì. Sì. Io direi questo. Effettivamente questa è una domanda molto importante, molto bella. Bisogna notare che evidentemente l’entelecheia, come direbbe Aristotele, riguarda sia le singole facoltà, ma anzitutto le riguarda ognuna nella sua particolarità; però le riguarda rispetto al tutto. Cioè, ogni facoltà è a sua volta finalizzata al tutto.

Quindi, quello che in qualche è da raggiungere, non è lo sviluppo ipertrofico di questo o di quell’organo. Pensate per esempio a quelli che si dedicano, come si chiama in inglese, al body healing, mi pare, dove rafforzano dei muscoli assolutamente inutili, persino dannosi, si potrebbe dire. Almeno alcuni medici sostengono questo.

Ebbene, questo non è un peccato. A meno che non ci sia quella sciocca vanità che spesso può essere sottesa. Ma questa è un’altra vicenda. Non è però, diciamo, che sia una cosa cattiva di per sé. Però è importante che tutto sia proporzionato allo sviluppo armonioso di tutto l’uomo; che non ci sia, in sostanza, in qualche modo, un’attenzione eccessiva alla finalità particolare. Cioè, se la finalità particolare, soprasviluppata, esulasse dall’armonia del tutto, allora ci sarebbe mancanza, non mancanza rispetto a quella facoltà, ma mancanza rispetto all’armonia, dovuta al tutto.

Questo mi pare. Prego.

… si può parlare di uno sviluppo normale … uno sviluppo ulteriore …

Sì. Sì. Sì. Si potrebbe dire così: che c’è nell’entità fisica dell’uomo una certa tolleranza riguardo allo sviluppo di organi particolari. Per esempio, è evidente che un giocatore di tennis avrà il muscolo del braccio destro ben più sviluppato di quello del braccio sinistro. In questo senso, però, ancora una volta, insomma, c’è un certo margine di tolleranza, che non compromette in qualche modo l’armonia globale del corpo umano.

Termine della registrazione

Padre Tomas Tyn, OP

 Registrazione di Amelia Monesi
Trascrizione di Sr. Matilde Nicoletti, OP – Bologna, 8 marzo 2014
Testo rivisto con note da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Varazze, 16 agosto 2015.


La volontà può anche sdoppiare il suo atto. La volontà può prima volere e poi volere di volere, cioè prima vuole e, nella prima volizione, vuole la seconda volizione, che poi dovrà però avere per oggetto qualche altra cosa. Per esempio io voglio studiare e, se proprio sono molto pigro, allora voglio almeno voler studiare.

E’ un po’ come quel confessore, che voleva stimolare il penitente, alla contrizione e dice: se non riesce proprio a essere contrito, almeno abbia il pentimento di non essere contrito. Questa riflessività talvolta può persino salvare i penitenti in extremis. In questo senso la volontà ovviamente vuole e la ragione dispone riguardo alla volontà.

Uno potrebbe dire: se ogni atto della volontà è imperato, allora la ragione muove la volontà, ma la volontà muove a sua volta la ragione a imperare. E così non ci si ferma mai, in sostanza, no? Invece nella volontà c’è anche un atto di volontà, che è certamente non imperato; un atto spontaneo, immediato della volontà. Spontaneo un po’ come sono spontanei gli istinti degli animali. E’ appunto l’atto della volontà, non in quanto è volontà, appetito razionale, ma in quanto è un che di naturale, un pondus naturae.

Si potrebbe dire che la semplice apprensione, sia del senso che dell’intelletto, non può essere comandato, non è possibile comandarla. Questo risulta molto chiaro nella semplice apprensione del senso, a livello sensitivo. Se io apro gli occhi in una sala illuminata come questa, non posso comandare agli occhi di vedere il buio, vedrò per forza la luce.

Quindi, aprendo gli occhi, basta questo e subito non domino l’oggetto, vedere una cosa anzichè un’altra. E qualcosa del genere capita anche con l’intelligenza. Cioè, se formo un concetto rappresentante una determinata realtà, il concetto non posso non averlo come tale rappresentante di quella tale determinata realtà. 

 Immagine: Padre Tomas Tyn, ottobre 1989 - foto di Roberta Ricci


[1] Parola ipotetica.

[2] Riguardo all’esercizio. Invece sta alla ragione specificare l’oggetto della volontà. In tal senso la ragione comanda alla volontà.

[3] Perchè  “purtroppo”?  E’cosa naturale l’aspetto o fondamento o espressione fisici della passione, Dio ci ha creati così. Accontentiamoci della libertà che ci è consentita dalla nostra natura. L’animalità è una dimensione essenziale della dignità della persona umana.

[4] Qui indubbiamente si verifica una spiacevole mancanza di libertà dovuta alla nostra fragilità umana, ma non certo al legame naturale della passione col corpo.

[5] In linea di principio.

[6] Morale.

[7] Regolate.

[8] Dell’agire all’essere.

[9] Negazione.

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