Trattato sugli Atti umani - P. Tomas Tyn - Lezione 5 (1/2)

  Trattato sugli Atti umani

P. Tomas Tyn

Lezione 5 (Parte 1/2)

P.Tomas Tyn, OP - Corso “Atti Umani” - AA.1986-1987 - Lezione n. 15 (A-B)

Bologna, 22 febbraio 1987

http://www.arpato.org/corso_attiumani.htm

             Bene, miei cari. Ci siamo soffermati sulla questione 16. Abbiamo dovuto operare delle scelte; abbiamo visto solamente alcune tra le diverse parti dell’atto umano, in particolare abbiamo visto il momento della scelta, che abbiamo reputato giustamente centrale per la costituzione dell’atto umano nella sua globalità, in quanto determina il giudizio pratico-pratico e in quanto in esso si manifesta la libertà dell’uomo.

Poi abbiamo studiato l’atto dell’uso, in quanto l’uso, la cresis in greco, coincide praticamente con l’atto umano stesso, l’esecuzione dell’atto praxis. Abbiamo detto che l’uso consiste nell’applicazione di una realtà all’azione. Questa realtà può essere una realtà esterna, per esempio uno strumento che si applica all’azione, ma soprattutto sono le facoltà interiori dell’anima. In ultima analisi è la facoltà motrice di tutte le altre, cioè la volontà, per cui spetta in ultima analisi alla volontà usare.

 L’uso è l’atto della volontà. Abbiamo visto che l’uso, si può dire certo in un senso un pochino più vasto di applicazione quocumque modo all’azione; ma nel senso più stretto della parola tale applicazione implica un certo ordine, quell’imperium, di cui parleremo poi in seguito, cioè una certa ordinazione della ragione in virtù della quale si applica consapevolmente una cosa per ottenerne un’altra.

In questo senso ovviamente l’uso, nel senso stretto della parola, ossia l’uso che implica quest’ordine di una cosa all’altra, l’applicazione consapevole di un mezzo per il raggiungimento di un fine, in questo senso l’uso ovviamente compete solamente all’uomo, non certo agli animali o comunque ai soggetti, agli agenti irrazionali. Quindi, e questo lo abbiamo visto l’altra volta, l’uso propriamente spetta solamente al soggetto dotato di razionalità.

Interessante era, se vi ricordate bene, l’ad primum di questo secondo articolo della XVI questione di San Tommaso, dove l’Aquinate precisa la distinzione tra il gaudium, la delectatio, cioè la fruitio, il momento della gioia per l’azione compiuta, la differenza tra questo gaudium da una parta e l’uso dall’altra. Certamente la gioia è superiore rispetto all’uso, in quanto la gioia ha per oggetto il fine e non qualche mezzo per ottenere il fine.

Con la gioia si compie proprio l’agire umano. In questo San Tommaso, come Aristotele stesso prima di lui, sono degli ottimisti: ogni agire procura un certo piacere, la compiacenza dell’agente, che raggiunge il suo fine. Non c’è dubbio che nel gaudium c’è un elemento di perfezione, che non c’è nell’uso. L’uso è uno sforzo in vista del raggiungimento del fine, in vista dell’esecuzione del fine. Invece il gaudium è ovviamente il riposarsi, lata quies, il riposarsi nel fine ottenuto. 

Diciamo che ex parte obiecti, si potrebbe dire, il gaudium prevale sull’uso. Invece, per quanto riguarda il soggetto, ex parte subiecti, la differenziazione del modo in cui il movimento procede dall’agente, non c’è dubbio che l’uso prevale sul gaudium, in quanto il gaudium c’è anche nelle facoltà inferiori, in quanto omne agens agit propter finem.

Quindi qualsiasi agente segue una certa linea, diciamo così, appetitiva ben indirizzata finalisticamente e quindi il raggiungimento di fine, non solo a livello diciamo così intellettivo, ma anche a livello puramente sensitivo, procura nella parte appetitiva un certo gaudium, un riposo nel fine.

Quindi gli animali condividono con l’uomo il gaudium, ma non certo l’uso, perché l’uso, come abbiamo visto, è un applicare una cosa all’altra con la consapevolezza di questo ordine di una cosa all’altra.

Nel terzo articolo San Tommaso dimostra, e non c’è molta difficoltà a farlo,  che l’uso non riguarda i fini in quanto tali, ma i mezzi. Abbiamo visto che ovviamente un fine può essere mezzo in un altro ordine. Cioè un fine particolare, che è fine rispetto a una cosa, rispetto a un’altra può essere ancora un mezzo. Il discorso è ovviamente da prendersi formalmente, cioè il fine in quanto reduplicativamente fine, non è oggetto dell’uso.

L’oggetto dell’uso è il mezzo disposto al fine, ovviamente perché si tratta di applicare una cosa all’altra in vista di una altra ancora, cioè applicare uno strumento, per esempio all’azione, perché con l’azione si ottenga un fine. Si potrebbe dire, nel senso molto vasto della parola, che c’è un certo uso del fine ultimo, il quale fine ultimo è ovviamente il fine simpliciter, in assoluto, non è finalizzato a null’altro, ma finalizza tutto a sé.

Ebbene, in che senso si potrebbe parlare dell’“uso”, tra virgolette, molto tra virgolette, del fine ultimo? Si potrebbe dire che, e S.Tommaso poi lo fa nel corpus articuli, che c’è una distinzione tra il fine ultimo oggettivo e soggettivo. Quella cosa che è il fine, finis qui, il fine oggettivo, e il finis quo, cioè quell’azione per mezzo della quale ci si impossessa del fine. Pensate per esempio al fine ultimo. Il fine ultimo oggettivo, il finis qui, è Dio; il finis quo è primariamente la visione beatifica, poi l’amore, la gioia, eccetera.

Quindi, si potrebbe dire che la visione beatifica è quasi, tra virgolette, l’“uso” di quel fine ultimo che è Dio. S.Tommaso fa l’esempio di un fine ultimo pervertito, cioè di un fine ultimo vizioso, quello dell’avaro. Esempio a cui spesso ricorre. Cioè l’avaro ha come fine ultimo il danaro. Tuttavia. stranamente, quando avviene questa perversione, nel male c’è la tendenza a preporre il piacere a quella realtà con la quale ci si procura il piacere.

Si potrebbe dire che agire secondo la ragione, significa agire da emancipati dalla schiavitù del piacere. Il Signore Dio dispone che anche negli stessi processi biologici, si potrebbe dire, potremmo dire, la razionalità divina disponga il piacere al fine dell’azione che il Creatore ha posto nelle creature.

Per esempio, l’azione nutritiva è piacevole. Ora, il Creatore dispone che il piacere serva alla nutrizione, mentre l’animale cerca nella nutrizione, che cosa? Il piacere. L’uomo in cui, direbbe Hegel, lo Spirito assoluto torna a se stesso, diventa di nuovo vigilante, dopo quel sonno e smarrimento delle creature, diremmo noi - Hegel non parlerebbe di creature -, infrarazionali, infraumane.

Ebbene, - adesso, a parte Hegel -, nell’uomo che è un essere razionale, quindi ad imaginem et similitudinem Dei, di nuovo ritorna questa emancipazione dal piacere. In realtà, non è una negazione del piacere, ma è di nuovo un disporre, non l’azione al piacere ma il piacere all’azione, al fine, meglio, dell’azione.

Invece nel male succede il contrario. Cioè, l’avaro, dirà qui S.Tommaso, persino del danaro, cioè del fine oggettivo, non fa il fine ultimo; il fine ultimo è il possesso fine a se stesso. Così il danaro è usato in vista del possesso. Perciò, dice, in fondo nell’avaro quello che dovrebbe essere il fine quo diventa quasi il fine oggettivo e viceversa.  

Comunque è una precisazione, che ha una sua certa importanza, soprattutto riguardo alla distinzione del fine soggettivo e oggettivo e il reciproco ordine. Di per sè è l’azione con la quale ci si impossessa del fine oggettivo, ma ci può essere una certa inversione di ruoli da parte dell’intenzione ovviamente disordinata dell’agente.

L’uso non precede, ma segue la scelta. Qui il nostro S.Tommaso sistema un po’, diciamo così, la posizione dell’uso nell’ambito dell’atto umano e distingue molto bene questo duplice ordine, potremmo dire, di intenzione e di scelta, cioè praticamente le prime otto parti dell’atto umano e poi le altre quattro, cioè l’ordo executionis, l’ordine della esecuzione.

L’ordine dell’intenzione e della scelta o, se volete, globalmente possiamo chiamarlo ordo intentionis, consiste nell’avere presente il bene da realizzare, averlo presente non secondo la realtà fisica, appunto secundum intentionem mentis, cioè secondo l’intenzione della mente, adoperando adesso la parola intenzione nel senso più vasto, cioè nel senso semplicemente di una rappresentazione della mente.

Quindi, il fine e anche i mezzi al fine, il bene potremmo dire, che analogicamente si diffonde dal fine ai mezzi, il bene in genere può essere presente al soggetto che agisce in un duplice modo: in maniera rappresentativa-conoscitiva e volitiva, cioè in maniera intenzionale, nel senso più vasto della parola; e poi in maniera reale e fisica. Ovviamene il modo più perfetto di possedere il fine e il bene è il modo fisico, reale. Cioè, non è solo un ente di ragione, ma un ente reale.

Ora, in questo senso, secondo l’ordine genetico di costituzione dell’atto umano, precede l’imperfetto e segue il perfetto. Quindi prima l’uomo possiede il bene imperfettamente, per poi realizzarlo perfettamente, cioè per poi metterlo in atto, nella realtà proprio ontologica, nella realtà fisica delle cose. Quindi, per quanto riguarda l’uso, esso si colloca ovviamente dopo la scelta, in quanto l’atto della scelta è l’ultimo e più perfetto atto nel primo ordine, cioè nell’ordine della intenzione.

Abbiamo praticamente questa situazione, che la prima parte, cioè l’ordo intentionis nel senso stretto della parola, finisce con la intentio finis. C’è appunto la semplice apprensione del bene, cui segue una certa semplice volizione, cioè una approvazione: quel bene così mi piace. Poi c’è la concretizzazione dei mezzi; il discorso diventa più realistico, più concreto. Mi rendo conto che per raggiungere il fine dovrò adoperare dei determinati mezzi. Questo è il giudizio speculativo-pratico, a cui segue l’intenzione, una specie di approvazione, se volete, della volontà, l’intenzione intesa come atto della volontà, cioè di approvazione: voglio raggiungere questo fine con dei mezzi, adoperando dei mezzi.

Poi, ecco che l’uomo comincia a deliberare più concretamente sui mezzi. La prima intenzionalità riguarda il fine, la seconda intenzionalità riguarda piuttosto i mezzi. La rappresentazione della mente, sia sotto l’aspetto cognitivo che sotto quello appetitivo, si muove poi a deliberare. Quindi avete l’atto del consilium, per approvare le proposte operative e avete il consenso, il famoso consenso.

Dopo di che, ed ecco che qui siamo al centro dell’atto umano, si tratta di una certa emergenza, di un giudizio pratico-pratico particolare, cioè questa cosa sarebbe da fare, cioè anzi è da fare, hic et nunc. Mediante l’azione nella particolarità delle circostanze, questa cosa è da fare, questo determinato mezzo è da adoperare per giungere al fine.

Dopo di che segue la scelta, che però nel contempo segue il giudizio pratico-pratico, ma anche lo precede[1], in quanto lo rende proprio giudizio pratico-pratico ultimo. Quindi, con la scelta si compie l’ordo intentionis, e vedete che la scelta è all’ottavo posto tra questi atti. Con la scelta si determina proprio l’ultimo mezzo su cui si delibera, che poi sarà il primo mezzo ad essere adoperato in vista della consecuzione del fine.

Vi ricordate che vi feci quel piccolo esempio banale della costruzione della casa, no? L’architetto che prima ha la visione globale della casa. Il proprietario gli dà certi suggerimenti: voglio che mi costruisca una casa che abbia queste e queste proprietà. L’architetto ci pensa, fa un progetto.

Ormai le speculazioni riguardo all’intenzione, eccetera, sono cessate, perchè comincia, almeno nel progetto, a disporre dei mezzi e poi, accedendo sempre di più alla particolarità e completezza dei mezzi, determina l’ultimo mezzo, che poi sarà il primo mezzo adoperato nell’esecuzione dagli operai, che si metteranno lì a costruire la casa, cioè sarà, come si dice, la pietra fondamentale, insomma, il fondamento della casa.

Così, praticamente siamo all’ultimo atto, il più perfetto, perché il più concreto, siamo ovviamente nella razionalità pratica, quindi razionalità che ha l’esigenza della azione. Le actiones sunt in particularibus, cioè le azioni si svolgono nella concretezza. Quindi la determinazione più concreta del mezzo spetta alla parte più perfetta della parte intenzionale dell’atto umano; e allora c’è l’atto di scelta.

Dopo di che, c’è appunto l’imperium, il comando della ragione, che studieremo dopo. S.Tommaso stranamente premette l’uso all’imperium. Comunque segue la disposizione razionale, che ordina che una cosa sia disposta in vista di un’altra, ma ordina con intimazione. Cioè dice: fac hoc. Non dice solo come nel giudizio pratico-pratico: “questa cosa è da fare”, ma dice: “fa questa determinata cosa in vista di quell’altra determinata cosa”, cioè “adopera quel mezzo per raggiungere quel determinato fine”.

Dopo di che, ecco, e qui si situa l’atto dell’uso: la volontà così determinata dall’intelligenza, si muove a eseguire essa stessa, se l’atto in questione, cioè l’atto imperato, è un atto della volontà, elicito dalla volontà; se, invece, è imperato non solo dalla ragione alla volontà, ma anche dalla volontà ad altre facoltà, allora la volontà a sua volta usa di altre facoltà per giungere all’azione, eventualmente anche a una azione che ha dei risvolti esterni, rispetto al soggetto agente.

Dopo di che, sapete bene, tutto finisce in gloria, cioè praticamente c’è poi l’usus passivus, cioè il rendersi conto ormai potremmo dire, di questo successo operativo, perchè nell’usus l’atto è già compiuto. Poi c’è come una ridondanza dell’atto compiuto nell’intelligenza e persino nella sensibilità, nella conoscenza, che si rende conto dell’opera compiuta, e la fruitio nella volontà, la quale si quieta, è contenta di essere giunta al conseguimento del fine.

In questo senso è evidente che l’uso segue la scelta. Essa scelta appartiene all’ordine dell’intenzione, l’uso ormai appartiene all’ordine dell’esecuzione. Siccome l’ordine dell’esecuzione segue quello dell’intenzione, non c’è dubbio che l’uso segue alla scelta.

Qui c’è una precisazione da fare. È una cosa interessantissima. Il discorso è alquanto complicatuccio, perché, sapete, quello che abbiamo fatto adesso è proprio una analisi dell’atto umano; ma il guaio dell’analisi è che praticamente slega dei momenti che di fatto appartengono l’uno all’altro. Cioè, va sempre tenuto presente, che, quando noi compiamo una azione, non è possibile nemmeno introspettivamente, dire: ecco, a questo punto sono al momento del consenso Poi ci vorranno altri tre minuti secondi per arrivare, non so, all’imperium.

No, non si può ragionare così. Tutto succede spesso come un fulmine. E tuttavia le singole parti strutturalmente parlando sono quelle. Ora l’interessante è, tanto per semplificare le cose, che è possibile che l’uso riguardi riflessivamente anche altre parti dell’atto umano.

S.Tommaso qui, nel corpus articuli, allude molto significativamente al fatto che si può far uso, per esempio, della stessa ragione pratica. Cioè, è possibile che uno a un certo punto dica: voglio ulteriormente deliberare. Ma non compie più una deliberazione quasi spontanea, ma consapevole.

Quindi, in qualche modo la deliberazione, cioè il consilium, diventa oggetto dell’uso. Cioè in qualche modo la ragione pratica comanda alla volontà di usare la volontà della stessa ragion pratica per consigliarsi. Questo può succedere non solo con il consiglio, ma anche con altri atti. Per esempio, può succedere con la scelta stessa, e via dicendo.

Questa è una precisazione importante. E’ evidente che il consiglio a sua volta precede la scelta Quindi, in tal caso avete questa precedenza, avete l’uso che in qualche modo ha per oggetto, il consiglio, il quale consiglio poi a sua volta arriverà a quell’altro uso, in vista del quale si delibera.

Quindi ovviamente, ovviamente l’uno e l’altro uso sono chiaramente distinti, cioè è diverso l’uso del consiglio da quell’uso in vista del quale ci si consiglia. Questa ovviamente è una differenza da fare. Ma comunque quello che è importante in questo contesto è notare che lo stesso consiglio può essere fatto oggetto di uso. E’ possibile che, in sostanza, l’atto umano isoli una delle sue parti e si costituisca a livello dell’uso proprio come quella determinata parte di se stesso.

Ora, appunto, dopo aver analizzato questo momento particolarmente significativo dell’uso con cui si compie, potremmo dire, l’atto umano stesso, infatti l’uso coincide con l’atto umano, la cresis e la praxis sono la stessa cosa, S.Tommaso, dopo questa questione riguardante l’uso, parla dell’atto che di fatto però precede l’uso, cioè dell’atto dell’imperium, del comando.

E lo fa per poter allargare il discorso al di là della stessa ragion pratica, che è il soggetto dell’imperium, a tante facoltà, che possono essere in qualche modo imperate dalla ragione e dalla volontà. Cioè la volontà può liberamente usare di altre facoltà. E quindi la ragione può disporre od ordinare che la volontà si serva di questa o quella facoltà nell’esecuzione dell’opera. Quindi vedremo poi appunto la distinzione tra l’atto elicito, cioè l’atto posto dalla volontà stessa, e l’atto imperato, ossia quell’atto in cui la volontà non pone lei stessa l’atto, ma si serve di un’altra facoltà per compierlo.

Anzitutto, qui faremo adesso un discorso analogo a quello che dovevamo fare, riguardo alla scelta, ma, sarà proprio l’opposto quanto alla soluzione. Abbiamo visto che nella scelta c’è una certa sostanza dell’atto, che riceve una perfezione aggiunta, quella che S.Tommaso chiama parte formale dell’atto di scelta, parte formale non nel senso della forma costitutiva, ma quasi una forma accidentale, perfezionante la sostanza dell’atto stesso. Una partecipazione perfettiva di una perfezione, che però solo accidentalmente può realizzarsi nel soggetto.

Quindi, abbiamo visto che nella scelta, siccome alla scelta spetta disporre dei mezzi al fine determinatamente, cioè determinare proprio ultimamente i mezzi al fine, e siccome abbiamo visto che la ragione, per quanto deliberi dei mezzi, tuttavia non può determinarli ultimamente, i mezzi devono essere quindi effettivamente accettati in vista del fine con questo appetitus, questo appetere, questo indirizzare i mezzi al fine. Così abbiamo visto che l’atto di scelta è sostanzialmente, quindi propriamente un atto della volontà, che però riceve in sè la partecipazione dell’ordine razionale. L’oggetto specificante l’atto di scelta, infatti, è questa razionalità pratica del iudicium practico-practicum, dell’ultimo giudizio pratico.

Similmente qui, per analogia, anche se le parti saranno proprio inversamente distribuite, per l’atto del comando o dell’ordinare, possiamo dire questo, che anche qui avremo una specie di compenetrazione della ragione e della volontà. Queste due facoltà si condizionano a vicenda. Cioè la ragione può pensare di volere e la volontà può in qualche modo muovere al pensare. Quindi c’è questa reciproca dipendenza tra intelletto e volontà.

Ora, si tratta appunto di vedere in che cosa consiste esattamente questo ordine, in quanto fa parte dell’atto umano globale. Ora, ordinare significa disporre. Non è lo applicare una cosa all’altra, cosa che era propria dell’uso, ma disporre, che si ottenga una cosa tramite un’altra. Quindi disporre che si ottenga una cosa, un fine, tramite la realizzazione di un mezzo.

Ora, questa disposizione, cioè questo rapportare una cosa all’altra, questa disposizione, che tramite un mezzo si ottenga il fine, spetta alla ragion pratica, perchè è della ragione, è proprio alla ragione il fatto di ordinare, cioè disporre appunto ordinando una cosa all’altra. C’è quasi una specie di confronto tra mezzo e fine, cioè la ragione in qualche modo considera quel determinato mezzo come adatto al fine, ma è una considerazione, che spetta appunto alla ragione, una rappresentazione.

Quindi spetta alla ragione, alla parte conoscitiva, seppure pratica, cioè alla parte rappresentativa, questo confronto tra ciò che è da ottenere e i mezzi con cui lo si vuole ottenere. Quindi disporre una cosa all’altra spetta alla ragione pratica. Sia detto tra parentesi, questo è il motivo per cui, secondo S.Tommaso, anche la preghiera rientra nella razionalità pratica, perché, egli dice, come il comando è della ragione pratica, perché io comando a un’altra persona, che tramite essa.

Qui intendiamo comando non nel senso nostro della parola, e tuttavia comando. Immaginatevi una caserma e l’ufficiale che comanda ai soldati. In questo senso del comando, l’ufficiale comanda che una cosa sia fatta tramite una persona. Quindi dispone che qualcosa sia fatto tramite un agente, insomma. E questo è tipico della ragione.

Ora, anche nel pregare, si dispone in qualche modo, ma non autoritativamente, si capisce, perchè di Dio noi per fortuna non disponiamo, ma al contrario è il Signore che dispone di noi. Tuttavia, a modo di supplica, si chiede al Signore che per la Sua benevolenza succeda qualche cosa a nostro favore. È quello che si chiama la preghiera imperativa.

Per quanto non ci sia il comandare nel senso di disporre dell’altro, perché appunto di Dio per fortuna non si dispone, tuttavia c’è a modo di supplica un chiedere al Signore che, in grazia della Sua bontà e della Sua misericordia, Egli faccia qualche cosa per noi. Questo disporre una cosa all’altra è un atto tipico della ragione. Questo solo come parentesi. Vedete che lì c’è anche questo aspetto della razionalità pratica nella preghiera.

Ebbene, nella razionalità pratica dell’imperium, tuttavia, non c’è solo l’aspetto cognitivo, ma come l’atto di scelta riceveva tutta la razionalità predeliberata del consilium e del iudicium practico-practicum, così anche qui l’atto del comando riceve tutta l’appetitivitàtà, partecipa di tutta la veemenza della spinta volitiva. Questo mi preme molto che si capisca

Nell’imperium è a sua volta partecipata la volontà, la quale si è manifestata libera nella scelta. Il iudicium practico-practicum è partecipato nell’atto volitivo della scelta e l’appetitività della scelta è partecipata a sua volta nel comando. Sicché, vedete come in questi due atti della scelta e del comando avviene la fusione, si potrebbe proprio dire, non tra l’intelletto pratico e la volontà come facoltà, ma come atto dello intelletto pratico e quello della volontà.

Ho detto questo non in termini rigorosi. Probabilmente S.Tommaso mi sgriderebbe. Ma avviene proprio un incontro tra questi due atti di facoltà ovviamente distinte e anche gli atti sono distinti, però sono partecipati l’uno nell’altro. Quindi, come la scelta partecipa della razionalità del consiglio e soprattutto del giudizio pratico-pratico, così a sua volta l’imperium partecipa della spinta appetitiva della volontà, così come si è manifestata liberamente nella scelta.

Giustamente si dice che con la scelta si manifesta, ma termina anche, la libertà. Ormai l’imperium segue necessariamente. Cioè, una volta che abbiamo liberamente scelto e così determinato il giudizio pratico-pratico, anche il comando seguirà il giudizio pratico-pratico, però lo seguirà tramite la scelta. E con l’impeto della scelta. Questa cosa è’ molto molto interessante da notare, cari. La affido a voi, perché non possiamo trattarla qui. Ma eventualmente, se volete approfondire, è una cosa veramente da fare, e cioè la finalizzazione della libertà proprio nell’atto della scelta.

S’incontra sempre, sempre di nuovo, in S.Tommaso, questa dualità nell’atto della scelta, luogo privilegiato della libertà. C’è il dominio attivo dei mezzi, ma nel contempo anche la veemenza dell’adesione al fine. Si potrebbe quasi dire che si dominano i mezzi, perchè ci si eleva al di sopra di essi aderendo al fine.

Guardate che la cosa è importantissima, perché in articulo libertatis, nella vicenda della libertà, si fanno degli sbagli estremamente grossolani, di ordine speculativo-metafisico, ma soprattutto, cosa che maxime cavenda, sbagli di ordine pratico. Pensate, appunto, pensate alla concezione contemporanea della libertà, che praticamente è una libertà che è puro dominio del proprio fare. Certamente c’è anche questo. Ma questo stesso dominio del proprio fare, che l’uomo di oggi tanto esalta, non ci sarebbe, se non ci fosse proprio una dipendenza, morale e persino psicologica, dall’appetitus voluntatis, dalla voluntas natura, in sostanza.

Questo discorso si collega molto con il duplice aspetto delle facoltà spirituali, sia ragione che volontà. Ma ora ci interessa la volontà. Cioè, la voluntas ut voluntas, che si manifesta nella libertà, dipende interamente dalla determinatezza della voluntas natura. La volontà non dispone di sè in quanto è natura. Dispone invece di tutto ciò che riguarda la sua intenzionalità.

Quindi la volontà non dispone del fatto che essa è una facoltà del bene. A questo è obbligata per natura, Ma proprio perchè è determinatamente facoltà del bene universale, proprio per questa determinatezza, è indeterminata rispetto a tutti i beni particolari[2]. Non è facile, ma è importante.

In questo senso nell’atto della scelta si manifesta nel contempo la libertà, cioè il dominio dei mezzi, ma si manifesta anche l’impeto rafforzato quasi della libertà, della volontà tendente al fine. E questo impeto è partecipato nell’imperium, cosicchè, se volete tradurre, diciamo in forma grammaticale, la voce del giudizio pratico-pratico, essa suona all’indicativo: questa cosa è da realizzare. Questa cosa. Quindi si tratta già di qualche cosa di concreto. Questo determinato mezzo è da mettere in pratica.

Invece, nell’imperium avete il modus imperativo, cioè: fac hoc, fa quella determinata cosa. Quindi c’è l’aspetto rappresentativo razionale di ordinare una cosa all’altra, il che esige ovviamente ancora la famosa collatio, il confronto rappresentativo, ma nel contempo c’è anche l’impeto partecipante dell’altra facoltà, cioè della facoltà appunto volitiva.

In questo senso si può dire che comandare è un atto di ragione, supponendo però l’atto della volontà, in virtù del quale la ragione muove poi per mezzo del comando all’esercizio dell’atto. Quindi è un atto della ragione, sostanzialmente, e della volontà partecipativamente e perfettivamente. Ovviamente tramite l’imperium poi si arriva all’usus, all’uso o della volontà immediatamente o mediatamente per mezzo delle altre facoltà.

Per questo motivo è evidente che il comando si può trovare solamente nelle creature razionali. E’ fin troppo evidente, è solo una appendice dell’articolo precedente, perché è chiaro che, se il comando risiede nella razionalità pratica, è evidente che non sono suscettibili dell’atto di comando delle creature, che non sono in possesso della razionalità. E questo è ovvio, perché l’ordine in questione è un ordine con un certo dominio degli elementi ordinati.

Non si tratta solo di eseguire passivamente una certa disposizione, ma si tratta di disporre attivamente, come l’esempio del cane da caccia. Vi ricordate, no? C’è, diciamo, questa complessa struttura dell’anima sensitiva, che dà quasi l’impressione di razionalità. Nell’uomo non si tratta, veramente, solo di eseguire, percorrere passivamente una certa struttura complessa di elementi riguardanti l’anima sensitiva, ma si tratta proprio di dominare questi stessi elementi, ordinarli l’uno all’altro. Questo ordinare attivo di un elemento all’altro non può spettare che alla ragione, Non spetta, per esempio, alla conoscenza sensitiva. Spetta appunto a una conoscenza astraente, quindi alla razionalità.

Nel senso più vasto si potrebbe parlare negli animali non tanto di un che di imperativo, ma piuttosto di un che di motivo, cioè di un qualche cosa che li muove. Non c’è qualcosa che comanda, cioè loro non comandano le loro azioni[3], ma hanno un motivo delle loro azioni. C’è quindi appunto questo appetitus sensitivus che dà a loro un certo indirizzo di spontaneità per definire quelle determinate azioni.

E’ evidente che nell’ordine dell’atto umano, come abbiamo già spiegato, l’uso segue l’imperium rationis, cioè l’uso segue il comando della ragione. S.Tommaso non fa molta fatica a dimostrarlo, nel senso che dirà che l’uso coincide con l’azione. L’uso è contemporaneo con l’azione.

Abbiamo visto che la definizione stessa dell’uso è applicare uno strumento a una realtà qualsiasi. Bisogna così definirlo in maniera molto molto vasta: applicare una realtà ad un’altra, nell’agire. Per esempio, per cavalcare si usa un cavallo. Ma l’uso stesso del cavallo è l’atto di cavalcare. Quindi l’uso del cavallo è contemporaneo all’atto di cavalcare, come è ovvio, no?

Mentre disporre di voler fare una piacevole cavalcata, usando un cavallo, questo può benissimo precedere l’uso attuale del cavallo. E’ evidente questo, no? Quindi, l’imperium precede, anche cronologicamente, ma sempre strutturalmente, l’atto dell’uso.

Il comando e l’atto comandato. Questo è un articolo molto importante, non facile da analizzare. Il comando, sostiene S.Tommaso, e l’atto comandato sono un unico atto, distinto solo come parti nel tutto. Quindi l’atto umano è integrato nella sua sostanziale unità dal comando e da ciò che è comandato.

L’atto umano non si sdoppia per la dualità del comando e dell’uso. Il comando attivo, e l’esecuzione del comando, cioè usare secondo quanto ha predisposto il comando, non sono due atti umani, ma due parti di un solo atto umano. Sembrerebbe quasi, che qui l’atto umano volesse scindersi in due. E’ una visione molto molto più importante di quanto non si pensi, questa. Perché poi riguarda non solo la dualità tra imperium e usus, ma anche l’ambito stesso dell’uso, l’uso interno e l’uso esterno, tramite l’usus.

Quindi, se l’atto ha un risvolto esterno - la domanda è questa - è un solo atto o sono due atti? Cioè c’è un atto interiore e un altro atto che è esteriore o si tratta proprio solo di due parti integranti di un unico atto, sostanzialmente uno? S.Tommaso - e non penso solo S.Tommaso, ma la sana ragione -, sostiene l’unità morale dell’atto  morale.

Ovviamente psicologicamente e anche ontologicamente si tratta di due entità ben diverse. Siamo d’accordo. Ben diversa è l’intenzionalità interiore e la realtà fisica in rerum natura. Su questo non c’è dubbio.. Però c’è una unità morale dell’atto umano. Quindi, sotto questo punto di vista, l’atto interiore e quello esterno, il comandare e il comandato, cioè ciò che è comandato, sono un unico atto.

Per spiegare bene questo punto S.Tommaso distingue nientemeno che nell’ambito dell’ente. Cioè dice: l’ente è uno in due modi; o può essere uno simpliciter e allora abbiamo la sostanza, che è il sommo analogato dell’ente, è l’uno in assoluto; si dice invece uno secundum quid ciò che è ente in qualche modo, secundum quid, ossia l’ente accidentale o l’ente di ragione.

Ora, ciò che è uno sostanzialmente, la sostanza stessa, è uno in assoluto e molteplice sotto qualche aspetto particolare. Pensate a una sostanza concreta, composta di materia e di forma, per esempio a un pezzo di legno, che ha una sua materia, una yle, una materia prima e una struttura. C’è la composizione di materia e di forma, ma il pezzo di legno è a sua volta una sostanza intera.

Quindi è un unum per se e molteplice per accidens. Ovviamente, sia la forma che la materia sono trascendentalmente rapportate l’una all’altra, cioè non hanno una autonomia l’una accanto all’altra, ma possono esistere solo come parti nel tutto. Ciò che esiste, ciò che ha l’essere, ciò che ha l’unità, è solo il tutto. Ciò che fa parte del tutto esiste, sì, ma solo appunto a titolo di parte.

Invece ciò che è diverso sostanzialmente, è unito accidentalmente, è diverso in assoluto e uno solo secundum quid. Quindi ciò che semplicemente e sostanzialmente diverso, è anche per se molteplice e poi può essere unificato secundum quid. Pensate, per esempio, a un mucchio di sabbia. Un mucchio di sabbia, di fieno, di qualsiasi cosa. Voi avete un’unità di ordine, un’unità di collocazione, potremmo dire, di relazione, di distanza. Questa unità di ordine è ovviamente accidentale. Quindi, è un molteplice per se. Ogni granellino di sabbia ha una sua autonomia, è un unum per se.

Similmente si può dire che l’uomo e l’animale formano il genere e la specie di un solo uomo. Quindi la sostanza uomo è una per se e i gradi, diciamo così, metafisici, cioè il genere e la specie, entrano nella costituzione dell’uomo individuale.

Dunque, in questo senso si può dire che l’atto umano sarà uno, cioè sarà uno per se - questo ci interessa -, se presenterà delle caratteristiche analoghe a ciò che è la sostanza nell’ambito dell’essere fisico. Cioè, se l’atto umano presenterà le caratteristiche morali analoghe a quelle della sostanzialità nell’ambito dell’ente fisico, potremo dire che è un uno per se.

Ora, evidentemente, per quanto riguarda la facoltà imperante e le facoltà imperate, cioè quelle facoltà che subiscono il comando della facoltà imperante, nell’atto umano scorgiamo la dualità di ciò che attivamente comanda e di ciò che passivamente si sottomette al comando. Tale dualità di comando e di sottomissione al comando, ricalca analogicamente la dualità della potenza e dell’atto. Quindi, la facoltà comandata, ovvero la facoltà alla quale si comanda l’atto, è quasi potenziale rispetto alla facoltà che comanda.

Ora, in questo completarsi vicendevole dell’atto e della potenza, si forma un unum per se. Perché? Perchè abbiamo la perfetta analogia all’uno della sostanza fisica, della sostanza ilemorfica, dove ovviamente la materia e la forma sono, rispettivamente, la materia potenza e la forma atto. Questo vale sempre per l’atto e la potenza. Essi sono sempre trascendentalmente rapportati l’uno all’altro. L’uno non mai senza l’altro. Proprius actus in propria potentia.

Quindi, siccome l’atto, in quanto comandato, è la parte attuale di quello stesso atto che, sotto l’aspetto dell’essere passivamente comandato, si presenta come una potenza, abbiamo perfettamente l’analogia con la potenza e l’atto che costituiscono insieme una sola sostanza fisica. E quindi c’è da pensare che anche l’atto umano analogicamente sarà sostanzialmente, cioè per se uno. Questo è molto importante.

Quindi, l’atto umano non si può dividere proprio come due atti, moralmente parlando, non si può dividere come un atto di qua e un atto di là, l’atto interiore di comando e l’atto con risvolti esterni delle facoltà comandate. Tutto quell’atto, dal comando fino all’ultima facoltà comandata, tutto quell’atto forma una sostanziale unità.

Questo mi pare molto importante, perché nell’etica c’è spesso una certa discordanza tra quelli che sostengono la cosiddetta etica dell’intenzione e altri che sostengono l’etica chiamiamola della realizzazione, o l’etica della responsabilità reale, in sostanza.

Lo vedremo ancora in seguito, perché S.Tommaso poi nella questione 20 e fino 19, 20 e 21 anche, spiegherà bene il rapporto tra l’atto interiore e quello esterno, che, come vedete, è un tutt’uno, in fondo. Ebbene, generalmente queste due etiche si oppongono l’una all’altra, perchè slegano o scindono queste due parti, che di per sè dovrebbero integrare un solo atto umano.

E quindi c’è questa opposizione tra quei moralisti, che dicono: tutto è intenzione. Nobis autem bene volumus tantum, noi siamo contenti di avere voluto bene. E poi che cosa ne è venuto fuori, non ha importanza. E poi ci sono gli etici invece, della crassa realtà, di ciò che succede. Ebbene, di fatto le due cose si richiamano a vicenda.

Quindi è evidente che l’intenzione probabilmente non sarà corretta, se gli effetti non sono corretti e viceversa, affinché gli effetti siano corretti non solo fisicamente, ma anche moralmente, avranno bisogno pure di una buona intenzione. Quindi le due cose, vanno assieme. Qui dobbiamo solo constatare questo: che questi due aspetti si appartengono a vicenda e sono sempre visti come due parti di una sostanziale unità e non come due cose slegate l’una dall’altra.

Vi ringrazio della vostra pazienza e vi do ovviamente i ben meritati cinque minuti, in attesa di cominciare poi l’altra ora.

 Fine Prima Parte

 Padre Tomas Tyn, OP

Registrazione di Amelia Monesi
Trascrizione di Sr. Matilde Nicoletti, OP – Bologna, 8 marzo 2014
Testo rivisto con note da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Varazze, 16 agosto 2015.

 

La gioia ha per oggetto il fine e non qualche mezzo per ottenere il fine.

Con la gioia si compie proprio l’agire umano.

In questo San Tommaso, come Aristotele stesso prima di lui, sono degli ottimisti: ogni agire procura un certo piacere, la compiacenza dell’agente, che raggiunge il suo fine. Non c’è dubbio che nel gaudium c’è un elemento di perfezione, che non c’è nell’uso. L’uso è uno sforzo in vista del raggiungimento del fine, in vista dell’esecuzione del fine. Invece il gaudium è ovviamente il riposarsi, lata quies, il riposarsi nel fine ottenuto. 

Il gaudium c’è anche nelle facoltà inferiori, in quanto omne agens agit propter finem.

 

 

 

Tomas nacque a Brno, in Cecoslovacchia, oggi Repubblica Ceca, il 3 maggio 1950.

La sua robusta fibra fu improvvisamente stroncata nel pieno dell’età – a 39 anni – da un male terribile ed incurabile.

A Neckargemünd morì il 1° gennaio 1990, con il volto sereno e quasi sorridente, mentre nella sua patria avveniva il passaggio da un regime oppressore alla democrazia: i voti di Tomas si erano compiuti!

Immagine: Padre Tomas Tyn, ottobre 1989 - foto di Roberta Ricci


[1] Non è che il giudizio preceda la scelta e la scelta preceda il giudizio, perché è difficile per non dire impossibile immaginare una cosa del genere. Ma forse è meglio dire che l’atto del giudicare e dello scegliere sono simultanei, ciascuno nel rispetto della sua natura: specificazione nel giudizio, esercizio nella scelta. Si avrebbe quindi un unico atto sintetico fatto di intelletto e di volontà.

[2] L’universale è libero rispetto al particolare. Lo sovrasta e lo domina. Questa è la dote dello spirito, che risulta dal potere astrattivo dell’intelletto. La materia invece è legata e limitata al particolare. E per questo lo spirito, cogliendo l’universale al di là della materia, spazia e può infinitamente di più di quello che può la materia. Il concreto non può dominare sull’universale.

Chi è chiuso nel concreto, non può elevarsi all’universale, come gli animali. Solo lo spirito sa elevarsi dal particolare all’universale. La materia non può darsi questa capacità che essa non ha per sua natura. Se la materia potesse di più, sarebbe spirito. Ma questo è impossibile, perché niente e nessuno può darsi ciò che supera le proprie forze. Qui sta il sasso di inciampo di tutti i materialisti, da Democrito a Teilhard de Chardin.

[3] Non c’è un giudizio, ma un impulso emotivo, o un giudizio dettato dalla passione, come capita a volte anche a noi, se ci lasciamo dominare dalla passione o anche nel caso delle malattie mentali o in soggetti minori.

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