La lealtà del parlare del pensare e dell’agire - Prima Parte (1/2)

 

La lealtà del parlare del pensare e dell’agire

Prima Parte (1/2)

 

Gesù Cristo non fu sì e no, ma In Lui c’è stato il sì

II Cor 1,19

 

Sia il vostro parlare: sì, sì, no, no

Mt 5,37

L’arte della discussione

L’attività del parlare e giudicare non è estranea all’ambito della moralità. Mediante essa possiamo fare al nostro prossimo un gran bene come un gran male. In essa occorre in primo luogo osservare le norme che regolano la proprietà e correttezza del linguaggio, la chiarezza e precisione dell’espressione, l’organizzazione del discorso o del dialogo o della conversazione per non uscire dal campo della correttezza formale e della verità dei contenti.

E in secondo luogo occorre che il nostro parlare sia sempre dettato dalla giustizia e dalla carità, ossia dalla volontà di edificare e di istruire, mentre nel contempo occorre da parte nostra la volontà di ascoltare ed imparare.

Occorre inoltre che abbiamo ben chiaro che la conversazione, il dialogo e la comunicazione fra noi hanno anche lo scopo di far emergere la verità per mezzo dello stesso confronto fra noi. Occorre saper persuadere, dimostrare, confutare, spiegare, motivare, argomentare. Occorre esser pronti a ricredersi, a smentirsi, a correggersi.

L’acquisizione della verità non è l’opera del singolo per conto proprio, isolato dal rapporto sociale e dalla considerazione di cosa hanno pensato coloro che ci hanno preceduto e della tradizione, come ha preteso di fare Cartesio, come se tutti coloro che ci hanno preceduto avessero sbagliato, compreso Gesù Cristo, e come se la verità dovesse immediatamente scaturire ed apparire splendida e certissima nella sua assolutezza e radicalità dal semplice sguardo del nostro io individuale rivolto verso se stesso.

Le cose vanno ben diversamente. Ognuno di noi conosce la verità e può perfezionarsi continuamente nella sua conoscenza certo per mezzo di un lavoro personale fatto di esperienza, di apprendimento, di studio, di ricerca, di ragionamento, di memoria e riflessione, ma anche per mezzo del dialogo, del confronto e della discussione con gli altri. Ecco l’importanza della dialettica.

Occorre impadronirsi dell’arte della discussione o del dialogare. Essa ha due possibili prospettive o finalità: o quella della comunicazione della verità così che l’altro possa aumentare il suo sapere oppure quella di correggerlo in modo persuasivo del suo errore, in modo che ne resti certo e convinto, mostrandogli dove sbaglia, rispondendo alle sue difficoltà, chiarendo gli equivoci o sciogliendo le sue contraddizioni.

Questo, come insegna Aristotele, è il compito del sapiente, del filosofo o dello scienziato, di uno che è in possesso del sapere, sa quello che dice, ne è certo e lo può e lo sa dimostrare.

L’altra prospettiva è quella che corrisponde a quella che Aristotele chiama arte «dialettica», la quale si fonda sul confronto delle opinioni. Il dialettico parla in base ad argomenti probabili. Il confronto dialettico, tuttavia, non è capace di far emergere la verità fra le due tesi opposte; non è capace di creare l’accordo sulla base di una comune, provata oggettiva certezza. I dialoganti devono accontentarsi del probabile e dell’opinabile.

Il filosofo, invece, continua Aristotele, dimostra scientificamente quello che dice, porta delle prove inconfutabili, rafforza il discepolo nella verità, lo conduce ad un aumento del suo sapere, e quindi toglie all’altro o all’avversario ogni dubbio, gli mostra dove sbaglia, lo corregge dall’errore e lo conduce alla certezza della verità.

Occorre dunque distinguere la discussione filosofica o scientifica dalla discussione dialettica. Il confronto dialettico può preparare la certezza scientifica, ma non sempre ciò accade, per cui i dialoganti devono sapersi accettare l’un l’altro nell’opposizione delle rispettive opinioni, entrambe legittime benché contrarie, sapendo l’uno e l’altro di non essere in grado di dimostrare all’altro apoditticamente o incontrovertibilmente la propria tesi, che non è scienza ma semplice ipotesi. Il pluralismo delle opinioni o delle spiritualità o delle correnti teologiche nella Chiesa si fonda su questo fatto.

Occorre inoltre distinguere la discussione[1] (dialoghismòs, syneloghismòs[2], synzètesis[3], syzètesis[4], dialexis, dialesis[5]), dalla contesa (mache[6], diakrisis[7], eris[8], zelos pikròs[9]). Mentre la discussione di per sé suppone una serenità d’animo con moderata passione, sincera ricerca della verità e il rispetto delle regole dell’argomentazione, la contesa è uno scontro passionale ove manca la carità e facilmente si ricorre a mezzi sleali per vincere.

Vi sono poi alcuni termini ambivalenti il cui significato va fissato di volta in volta. Quanto alla lite, alla controversia e alla polemica esse possono essere giuste o ingiuste, a seconda dell’animo, buono o cattivo dal quale sono mosse e che vengano o non vengano rispettate le regole della discussione.

Esempi innumerevoli di argomentazione o polemica pretestuosa o capziosa, ragionamenti sleali o insidiosi, false contrapposizioni, concetti confusionari, sotterfugi disonesti, discorsi contradditori, linguaggio ambiguo od equivoco, trucchi dialettici, spacconate, smargiassate, grossolani sofismi, si trovano negli impostori, negli esibizionisti, negli imbonitori, nei ciarlatani, nei seduttori, negli eretici, negli scismatici e negli apostati.

La vittoria nella discussione non si fonda affatto sull’imposizione all’altro della propria idea o sull’imbonire l’altro mediante opportuni raggiri o trucchi e con qualunque mezzo, non importa se onesto o non onesto, purchè otteniamo che ci si dia ragione, ma consiste nel saperlo convincere liberamente e in coscienza con argomenti validi, per lui probanti, mostrandogli chiaramente l’errore, sicchè egli, davanti alla verità evidente e dimostrata, non abbia più argomenti in contrario.

Aristotele introduce inoltre una terza figura, che egli chiama quella del «sofista», colui che si dà le arie di sapere ma in realtà non sa, colui che vuol darla ad intendere, che appare un sapiente senza esserlo, potremmo dire l’impostore o manipolatore delle coscienze, approfittando della loro dabbenaggine o ingenuità. È questa la falsa scienza degli eretici, della quale parla San Paolo, quando ci esorta

 

«a non essere più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore» (Ef 4,14).

La Bibbia poi conosce un’altra forma di comunicazione umana, che è quella della profezia: qui il profeta non entra in discussione con un interlocutore circa il tema del suo annuncio o l’argomento del quale tratta, come se si trattasse di una verità semplicemente razionale bisognosa di essere dimostrata, ma, sulla base di un’autorevolezza ragionevolmente conquistata presso l’ascoltatore, gli comunica, sulla base di questa sua autorità che lo rende credibile, una verità sovrarazionale e divina, che chiede di essere accolta nella fede.

Osserviamo inoltre che nella nostra condotta quotidiana e in particolare nel parlare, alterniamo spesso l’affermazione alla negazione, confrontiamo due tesi contrarie e ci chiediamo quale sarà quella vera.  Soppesiamo nella discussione con un interlocutore, gli argomenti pro e contra ed assieme cerchiamo la verità.  È, questo, un modo essenziale per cercarla e trovarla: confrontarci con le opinioni degli altri e discutere con loro.

Qui occorre, come ho già detto, quell’arte che Aristotele chiama «dialettica» e che potremmo chiamare l’arte della discussione. Essa comporta il confronto fra un’affermazione e una negazione e ci chiediamo dove sta la verità, giacchè è impossibile che una cosa sia e non sia allo stesso tempo e sotto il medesimo rispetto.

Il principio del distinguere

 

Atreptos, anynchitos, adiairètos, acoristos

I quattro avverbi del dogma cristologico dci Calcedonia

Il distinguere è l’atto fondamentale dell’intelletto, per cui io dico io non sono te etu non sei me. Qual è il principio del distinguere? La prima nozione che il nostro intelletto concepisce e nella quale tutte le altre si risolvono, è la nozione universalissima ed analogica dell’ente, che implicitamente contiene in sé tutte le sue differenziazioni e diversificazioni; nozione, quindi, una e molteplice ad un tempo, dove la molteplicità è unita e ordinata dall’unità e l’unità si moltiplica e si esprime nella molteplicità.

All’intuizione dell’ente segue la negazione del non-ente: l’ente è se stesso, è identico con se stesso, non è il non-ente, non è il nulla. Riguardo all’ente, dunque, il nostro intelletto afferma e nega: afferma che l’ente è una cosa, qualcosa, è il reale, ha un’essenza in atto d’essere, e nega che neghi se stesso, nega che sia contradditorio, diviso in se stesso, contro se stesso. L’ente è uno, non diviso in se stesso.

La negazione logico-noetica nel senso suddetto, che comincia con la considerazione dell’ente e del non-ente, è la vita, la potenza, il movimento e il respiro del pensiero e dell’intelligenza, è il principio del distinguere, del vedere le diversità e le differenze. Invece la negazione intesa come rifiuto volontario, opposizione pratica, disobbedienza, reazione ostile al bene è la sciagura e la dannazione dello spirito.

Ciò non significa che la divisione nefasta dell’ente non esista; si tratta una divisione delle volontà fra le volontà: c’è una famiglia divisa, c’è una Chiesa divisa, c’è una personalità divisa; ma ciò non significa che quella data cosa sia e non sia, ma che in sé possiede due parti in conflitto fra di loro.

La divisione come conflitto interno è possibile e rimediabile; la divisione contradditoria, come autonegazione o auto annullamento è impossibile perché è impensabile. Essere uno vuol dire essere indiviso. Tuttavia non c’è solo l’unità semplice dell’essere divino; ma ogni unità nel creato è un’unità composta di parti: per questo può scindersi, spezzarsi, disintegrarsi.

Non c’è solo l’opposizione fra l’essere e il non-essere.  Distinguere e opporre sono la stessa cosa. Il distinguere richiama l’atto del dividere e del separare; l’opporre (ob-pono) può essere atto del discorso – le proposizioni opposte[10] -oppure può essere atto ontologico. Per esempio, due proposizioni opposte: l’uomo è un corpo, l’uomo non è un corpo. Opposizione ontologica: il caldo è opposto al freddo.

L’opposizione richiama l’idea di qualcosa d’altro, di diverso o di differente da noi che ci sta davanti, in vari modi: o ci sentiamo ad esso inclinati e l’opposto ci attrae, allora abbiamo l’opposizione relativa[11]. Per esempio una relazione interpersonale.

L’opposizione contraddittoria è quella dell’essere al non essere. Per esempio: l’uomo esiste e non esiste, Dio esiste e non esiste, la verità esiste e non esiste, e così via. L’opposizione contraria invece è quella dove il soggetto è lo stesso, mentre i predicati sono opposti: caldo e freddo, vero e falso, bene e male, bello e brutto.

Dal punto di vista del giudizio speculativo è importante sapere quando affermare e quando negare, saper ben separare il sì dal no, evitare di abbinare sì e no, benché possa essere legittimo e prudente a volte astenersi dallo scegliere fra il sì e il no. Ma tenersi deliberatamente in mezzo per motivi di convenienza servendo due padroni è da persone doppie e disoneste. Davanti a Dio dobbiamo dire solo sì, come ha fatto Cristo e come fanno tutti i Santi. Davanti al peccato il nostro dev’essere un no assoluto.

Distinguere per unire

I due problemi fondamentali del pensare e del parlare sono dunque quelli della coerenza, che impone di non contraddirsi e quello della verità, che impone di aderire al dato reale e di esprimere il dato reale.

E poiché dunque il nostro giudicare deve rispecchiare il reale, tale principio suppone che è impossibile che una cosa sia e non sia allo stesso tempo sotto il medesimo riguardo, il che è il principio di identità, per cui ogni ente ha una sua identità, cioè è se stesso e non è altro da sé, ma è solo altro dall’altro, ossia è distinto, diverso o differente dall’altro. E per esprimere ciò, uso la negazione: questo non è quello. Essa però mi serve non solo per esprimere il distinto o il diverso, ma anche il contrario: la virtù non è il vizio, il bene non è il male.

L’opposto della distinzione è la confusione. Chi confonde cade nel falso, scambiando una cosa per un’altra. Occorre però saper distinguere, perché può capitare che noi distinguiamo laddove invece c’è identità. Per esempio non c’è ragione di distinguere due sostanze nell’uomo, come fa Cartesio, dato che la sostanza umana è una sola.

Oppure può capitare che per distinguere separiamo, ancora come fa Cartesio che per distinguere nell’uomo anima e corpo ne fa due sostanze. Il greco distingue la diairesis, distinzione, dal corismòs, separazione. D’altra parte non bisogna confondere una distinzione reale con una distinzione di ragione, come fanno Suarez e Duns Scoto che intendono la distinzione di essenza ed essere nella creatura come distinzione di ragione anziché reale.

Col principio di non-contraddizione affermiamo l’essere e che il non-essere sia; oppure neghiamo che il non-essere sia, come già disse Parmenide. Questo atto è virtù dell’intelletto che configura la virtù della coerenza del pensare. Abbiamo qui la legittima e doverosa negazione logica o noetica.

In questa negazione sentiamo l’obbligo di negare o respingere il contradditorio. Successivamente a questo principio entra in gioco l’esigenza della verità. Qui si aggiunge un ulteriore elemento, che è il rapporto con la realtà. A questo punto abbiamo l’opposizione tra il vero e il falso. E si pone il dovere della veracità.

Tuttavia, in forza del nostro libero arbitrio possiamo negare e rifiutare l’essere, come fosse un male sia col pensiero che con la volontà.  Abbiamo allora la negazione morale e, siccome in questo caso contravveniamo al dovere di riconoscere l’essere ovvero il bene, ecco che in questo caso si configura il peccato di falsità nel pensiero e di disobbedienza nella volontà. Negazione morale virtuosa è invece quella che oppone la volontà o che dice no al peccato.

Esiste così un negare normale, necessario e proficuo, che è quello connesso con la ricerca e l’espressione della verità; ed esiste un negare illecito, dannoso, disonesto, connesso col peccato. In linea generale il negare può essere o atto del pensiero: dire di no, ossia la predicazione del non-essere; o un atto del volere, non voglio, rifiuto, mi oppongo. Qui può capitare un peccato di disobbedienza.

Nel dire e pensare c’è innanzitutto un negare che apre un ventaglio di possibilità diverse tutte reciprocamente compatibili e coesistenti. Dico per esempio: io non sono Paolo e non sono Pietro. È l’affermazione dell’alterità, della diversità e della molteplicità. Lo chiamiamo il principio dell’et-et o del vel-vel. Qui siamo sempre nell’orizzonte del sì, del vero, del bene; abbiamo solo diversi , diversi veri, diversi beni.

Esiste poi nel giudicare un negare che suppone l’opposizione tra il vero e il falso. Dico per esempio: Dio non esiste. Oppure un negare che comporta il vero: l’uomo non è uno spirito. Qui non si apre un ventaglio di possibilità, ma una sola alternativa. Una terza non sì dà: o Dio esiste o Dio non esiste. O l’uomo è uno spirito, o l’uomo non è uno spirito. Qui parliamo del principio dell’aut-aut. I due termini della contraddizione non possono coesistere: o c’è l’uno o c’è l’altro. Una cosa o è vera o è falsa, o è buona o è cattiva, o è peccato o è giustizia, o è lecita o è illecita.  Non possono accordarsi Cristo e Beliar. 

Occorre fare attenzione altresì a casi di opposizione radicale, dove non c’è passaggio netto fra gli opposti, ma un passaggio graduale, per il quale l’opposto. si avvicina gradualmente all’altro opposto, fino a che non diventa questo opposto. Per esempio il bianco e il nero certamente sono contrari, eppure tra di loro ci possono essere sfumature per cui dal bianco attraverso il grigio si passa aa nero. Oppure pensiamo al processo del morire: si dà una diminuzione graduale delle forze vitali, finchè esse si spengono totalmente e dalla vita si passa al suo opposto o contrario, che è’ la morte, dall’essere al non-essere.

Qui devo scegliere tra il sì e il no; non posso affermarli o negarli entrambi.  Non posso dire sì ciò che è no; non posso dire no ciò che è sì. Contravverrei al precetto di Cristo: il vostro parlare sia sì, sì, no, no. Questo precetto logico-noetico corrisponde al principio di non contraddizione: non posso affermare e negare lo stesso dello stesso sotto lo stesso aspetto. Contravvenendo ad esso infrangerei la proibizione pronunciata da Cristo: non potete servire a due padroni. È, questa, disonestà, ipocrisia e doppiezza.

Ma c’è anche un negare che è proprio della volontà. Qui passiamo dal pensare all’agire ed entriamo nel campo morale. E qui possiamo negare il bene ed affermare il male col peccato, con la disobbedienza, l’odio, la violenza, la superbia, la doppiezza, l’infedeltà. E possiamo negare il male affermando il bene con l’obbedienza, l’umiltà, la giustizia, la carità, la sincerità, la fedeltà.

La negazione nel giudizio e la negazione nel volere

Qui c’è anche l’arte della negazione. Noi possiamo negare nei giudizi oppure possiamo negare nel nostro agire, nel senso di opporci o rifiutare qualcosa o qualcuno. L’attività del negare è fondamentale nel nostro pensare, nel nostro giudicare, nel nostro parlare, nel nostro volere. Il negare si fonda sull’opposizione del non-essere all’essere. Noi affermiamo che qualcosa esiste o è così, e neghiamo che qualcosa esista o sia così.

Diciamo dunque che il negare ci serve per distinguere: Pietro non è Paolo; la materia non è lo spirito. Ma il negare possiamo pronunciarlo anche per compiere degli atti della volontà: nego a qualcuno il mio consenso, mi rifiuto di obbedire. Dunque esiste un negare nel giudizio e un negare nel volere.

La parola greca diairesis, che mette in gioco il negare, ha più significati, ed è interessante confrontarli: divisione, distinzione, differenza. Essa è vicina alla diaforà, che vuol dire differenza, diversità, specie. È interessante come diaforà può voler dire anche disaccordo, discordia, dissidio, contesa, conflitto, quindi principio della lite e della guerra.

Tuttavia non sono le differenze come tali ad essere il principio del conflitto. E però esse ne costituiscono la condizione di possibilità. Perchè sorga il conflitto occorre la cattiva volontà, inquantochè la differenza come tale sarebbe di per un principio di accordo e di armonia.   Perché ci sia questo accordo, occorre l’intervento dell’amore.

A questi termini connessi col negare e il distinguere possiamo avvicinare il corismòs, che significa separazione, differenza, distinzione, isolamento, astrazione. Altro termine da citare è allos, che significa altro, differente. Altro termine da prendere in considerazione è èteros, altro, differente, diverso, dissimile, che assume anche significati negativi: opposto, contrario, alieno, estraneo.

Altro termine che qui cade opportuno è antithetikòs è l’antitetico, il contrapposto. Ad esso corrisponde il verbo antilèghein, contraddire, contestare, parlar contro, opporsi. Pensiamo per esempio alla maldicenza o la denigrazione.

Quanto alla dialexis, anch’essa legata alla negazione, essa è la discussione, il dialogo, la conversazione, ma anche la contesa, eris, la disputa, il litigio. Esiste un arte della disputa, della controversia, è l’arte dialettica. Qui l’affermazione si oppone alla negazione.

In questo quadro di discorso c’è da citare anche la parola airesis, da cui l’italiano eresia. Questa parola è interessante e fa al caso nostro. Essa significa scelta. Ma sappiamo che lo scegliere comporta un prender questo e rifiutare quello. Comporta un giudizio: questo è vero e buono, quello è falso e cattivo.  È da notare inoltre che il significato neotestamentario di airesis, più che a falsa dottrina, si riferisce a scelte sbagliate, faziose, partigiane settarie, divisive (I Cor 11,19; Tt 3,10; II Pt 2,1), anche se è ovvio che i conflitti, gli scismi, le faziosità e le guerre non possono che nascere da proposizioni false. Infatti, mentre il vero è sempre il totale, l’universale e quindi unificante, il falso, opponendosi al vero, è sempre parziale, crea conflittualità e divisione.

Che nella Chiesa esistano partiti, movimenti, correnti o tendenze particolari, preferenze, opinioni diverse o contrarie, una pluralità di spiritualità, diversità di doni, di mansioni e di uffici, nulla di male; anzi, come dice spesso il Papa, ciò non compromette affatto l’unità dottrinale di fede, ma anzi è segno di vitalità, di libertà di pensiero ed è ricchezza immensa della Chiesa, che egli paragona a un poliedro. La Chiesa è come una regina, una sposa adorna di pietre preziose e di gioielli (cf il Sal 44,10).  

Ma ciò non può essere il pretesto per avallare conflittualità interne dove manca la giustizia, l’onestà e la carità e dove i due partiti opposti pretendono ciascuno di essere la vera chiesa escludendo l’altro, come sta avvenendo da sessant’anni per uno sciagurato e studiato fraintendimento delle vere intenzioni del Concilio.

D’altra parte l’inclusivismo oggi di moda non risolve nulla, perché include ciò che si dovrebbe escludere[12] ed esclude ciò che dovrebbe includere, cioè la correttezza del ragionare e il giusto metodo per la soluzione dei conflitti.

L’airesis, l’eresia, dal canto suo, comporta una presa di posizione o a favore o contro. È possibile scegliere il falso al posto del vero, o volontariamente per loschi interessi o involontariamente, restando in buona fede, perché ingannati dall’apparenza o per mancanza di senso critico o perché ingannati da qualcuno.

È quello che oggi chiamiamo «ideologico», intendendo con ciò la riduzione e quindi decurtazione del reale a una sua sola parte trascurando o ignorando il resto, il prendere una parte come se fosse il tutto, nel che consiste appunto la ragione dell’errore e della falsità. A quest’errore sono esposti particolarmente gli idealisti, che tendono a ridurre il reale alle loro idee.

Ma la parola più interessante è la parola diàkrisis. Essa, da come si può verificare dal vocabolario del Rocci, è estremamente ricca di significati, diversi e anche contrastanti fra di loro: separazione, distinzione, risoluzione, contesa, lite, giudizio, decisione, interpretazione, discernimento.

Questi significati ci presentano in sintesi, tutti i termini della questione che stiamo esaminando: quella del distinguere l’identico dal diverso, la distinzione dalla contrapposizione, il distinto dal separato, il contrario dal contradditorio.

La stessa azione di Cristo ci offre spunti per la nostra disamina e la nostra riflessione. Egli stesso è chiamato in Luca (Lc 2,34) semeion antilegòmenon, segno di contraddizione, colui che viene contraddetto. Invece il sostantivo antikèimenos, che ha rapporto con la contraddizione o con l’avversione. Significa l’avversario, il nemico. Nel linguaggio cristiano può indicare il demonio, in ebr. Satàn, che significa l’avversario.  Il demonio è il nemico di Cristo, il suo oppositore per eccellenza. Il demonio è anche il diabolos, da diaballo, divido, il divisore, il falsario, il calunniatore, il menzognero.

«Quale accordo (symfònesis) – si chiede S.Paolo (II Cor 6, 16) – tra Cristo e Beliar?», tra il verace e il menzognero? Quale dialogo? Certo esiste il dialogo di Cristo con Satana nel deserto. Ma, come ci avverte Papa Francesco, il dialogo suppone una comune volontà di verità, cosa che non possiamo avere col demonio. Non resta dunque, davanti alle sue proposte, che  il confutarlo e l’allontanarlo, come ha fatto Cristo.

La contraddizione d’altra parte ha tre modalità: una è il contraddirsi, che è proibito dal dovere della coerenza nel pensare e nel parlare. Secondo è il contraddire, che è dovere di respingere le proposte del demonio e le falsità dei nemici della verità. Terzo, è il contradditorio, ciò che, negando e annullando se stesso, è impossibile e quindi impensabile.

Così tutti sappiamo che non possiamo affermare e negare simultaneamente di un soggetto lo stesso predicato. Se lo facciamo, il nostro giudizio non ha senso, benché ci capiti forse involontariamente di contraddirci. Tuttavia, alla vista di cose che mutano, ci vien detto di dire: questa cosa è così e non è così ad un tempo. Ma riflettendo ci accorgiamo che è così e non è così in tempi diversi.

La pianta, per esempio, come dice lo stesso Hegel, all’inizio è solo il seme, ma, giunta al termine della sua crescita chiaramente contraddice al suo esser seme. Come si risolve questa apparente contraddizione? Con l’introduzione del tempo: la pianta è prima seme e poi pianta cresciuta. Oppure ammettendo la distinzione fra l’esser pianta in potenza e l’esser pianta in atto.

Benchè infatti il divenire sembri contradditorio, in realtà non posso dire che questo ente che diviene è simultaneamente tale e non è tale, ma posso e devo risolvere nei modi suddetti l’apparente contraddizione.

Qui gioca il principio di non-contraddizione. Anche il diveniente, nel momento in cui diviene, ha una sua identità ed intellegibilità; altrimenti sarebbe inintellegibile e non potrebbe esistere la fisica, ossia la scienza di cose che mutano. L’ente non sarebbe identificabile, inconfondibile e riconoscibile e quindi pensabile e rappresentabile, se non avesse una sua identità. E ogni ente ha la sua propria identità, per la quale si distingue o differenzia dagli altri, pur essendo tutti enti ed appartenendo alla categoria dell’entità o dell’essere.

Nessun ente si confonde con un altro. La confusione la facciamo noi con i nostri concetti, quando non sappiamo distinguere un ente dall’altro. Un ente può divenire altro, ma nel momento in cui diviene, è l’altro in potenza ed è egli stesso in atto. Ora, atto e potenza si escludono a vicenda, per cui è salva la non-contradditorietà del diveniente.

È chiaro che coloro che, come Hegel, Heidegger, Severino e Bontadini, legati a Parmenide, non ammettono la distinzione fra potenza ed atto, devono fare i salti mortali per salvare la realtà ed intellegibilità del divenire, Hegel dicendo che è lo stesso reale ad essere contradditorio, Heidegger a dire che l’essere è l’esserci, Severino a dire che il divenire è apparizione dell’essere, Bontadini a dire che il divenire è reale scoperto come tale solo quando si scioglie la sua contraddizione affermando che l’essere, cioè Dio, è l’unico essere.

Fine Prima Parte (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 23 novembre 2023

Occorre impadronirsi dell’arte della discussione o del dialogare. Essa ha due possibili prospettive o finalità: o quella della comunicazione della verità così che l’altro possa aumentare il suo sapere oppure quella di correggerlo in modo persuasivo del suo errore.

Questo, come insegna Aristotele, è il compito del sapiente, del filosofo o dello scienziato, di uno che è in possesso del sapere, sa quello che dice, ne è certo e lo può e lo sa dimostrare.

L’altra prospettiva è quella che corrisponde a quella che Aristotele chiama arte «dialettica», la quale si fonda sul confronto delle opinioni. Il dialettico parla in base ad argomenti probabili. I dialoganti devono accontentarsi del probabile e dell’opinabile. 

Nel dire e pensare c’è innanzitutto un negare che apre un ventaglio di possibilità diverse tutte reciprocamente compatibili e coesistenti. Dico per esempio: io non sono Paolo e non sono Pietro. È l’affermazione dell’alterità, della diversità e della molteplicità. Lo chiamiamo il principio dell’et-et o del vel-vel. Qui siamo sempre nell’orizzonte del sì, del vero, del bene; abbiamo solo diversi sì, diversi veri, diversi beni.

Esiste poi nel giudicare un negare che suppone l’opposizione tra il vero e il falso. Qui parliamo del principio dell’aut-aut. I due termini della contraddizione non possono coesistere: o c’è l’uno o c’è l’altro.

Che nella Chiesa esistano partiti, movimenti, correnti o tendenze particolari, preferenze, opinioni diverse o contrarie, una pluralità di spiritualità, diversità di doni, di mansioni e di uffici, nulla di male; anzi, come dice spesso il Papa, ciò non compromette affatto l’unità dottrinale di fede, ma anzi è segno di vitalità, di libertà di pensiero ed è ricchezza immensa della Chiesa, che egli paragona a un poliedro. La Chiesa è come una regina, una sposa adorna di pietre preziose e di gioielli (cf il Sal 44,10).  


Immagini da Internet:
- Accademia Palatina
- Ester, 1660 Museo Puskin, Mosca

[1] San Paolo è un maestro della discussione, cf At 9,29; 15,2; 17,2; 17,17; 18,4; 19,9; 24,12).

[2] Lc 20,15; Mt 21,25; Mc11,31.

[3] Mc 8,11; Mt 16,1; Lc 11,16; Mt 12,38.

[4] Lc 24,14.

[5] Lc 6,11; Mt 12,14; Mc 3,6.

[6] Gv 6,52.

[7] Rm 14,1.

[8] II Cor 12, 20; Fil 1,15.

[9] Gc 3,14.

[10] Abbiamo qui l’opposizione contradditoria, contraria e subcontraria. Vedi J.Gredt, Elementa phlosophiae aristotelico-thomisticae, Edizioni Herder, Friburgo in Brisgovia 1937, vol.I, nn.47-48.

[11] Essa serve anche a spiegare la relazione delle Persone trinitarie fra di loro.

[12] Pensiamo per esempio all’assurda proposta di Mauro Magatti e Chiara Giaccardi (La scommessa cattolica, Il Mulino Bologna 2019) di abolire il principio del terzo escluso, includendo o aggiungendo il sì-no alle due possibilità o del sì o del no, quasi che questo terzo sia semplicemente l’”altro” e non il contradditorio. Non si può sostituire l’aut-aut con l’et-et, perché così si distrugge il pensiero. Ed infatti la legge fondamentale di onestà e lealtà del pensare, se se non si vuol erigere la menzogna a regola della verità, è, checché ne dica Hegel, il rispetto del principio di non-contraddizione.

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