Un ricordo di Mons. Antonio Livi. Il dramma di un tomista - Seconda Parte (2/2)

  Un ricordo di Mons. Antonio Livi

Il dramma di un tomista

 

Seconda Parte (2/2) 
 

Perché la Chiesa raccomanda San Tommaso

La Chiesa, in ragione del suo compito di annunciare il Vangelo, ha anche quello di dirci quale, tra tutte e filosofie e le teologie in corso, è quella che meglio serve il Vangelo. E per questo, essa sceglie con giudizio infallibile quel sistema dottrinale umano, che più di tutti gli altri è adatto ad interpretare rettamente la Parola di Dio, il dogma e il dato rivelato e condanna quelle che ne rendono impossibile o falsa l’accettazione.

Essa lo raccomanda soprattutto ai teologi naturalmente non come fosse un dato di fede o della dottrina della Chiesa, ma in quanto utile o necessario alla retta comprensione della fede e a confutare gli errori contro la fede. Per questo e in quest’ottica la Chiesa ha scelto di San Tommaso. Scelta irrevocabile? Sì, fino a che la Provvidenza non susciterà eventualmente un filosofo o teologo migliore di San Tommaso. Così essa è stata per Sant’Agostino fino a che non è sorto San Tommaso. Tutto ciò Mons. Livi lo sapeva benissimo.

La Chiesa, infatti, ha la facoltà, tra un insieme di iniziative umane, simili fra di loro o in un campo dottrinale o in campo morale o religioso, di eleggerne una, che essa giudica la migliore, e di ufficializzarla, come rappresentante ufficiale della Chiesa. Così per esempio un Vescovo, tra i Santuari mariani presenti in diocesi, può sceglierne uno, quello che giudica il più degno o il più importante, come Santuario diocesano. Tra i Santi Patroni delle varie attività del cattolicesimo, ne sceglie uno, che essa giudica il più degno e il più adatto. Tra i vari riti religiosi ne ha scelto uno, in questo caso il rito romano, tra i sistemi giuridici ne sceglie uno, nel qual caso è stato il diritto romano, che la Chiesa giudica il più adatto all’organizzazione liturgica o giuridica della Chiesa e delle sue attività istituzionali ed ufficiali. E così via.

Il che non impedisce affatto alla Chiesa di nutrire rispetto e stima anche per altre forme dello spirito umano, per altre filosofie, per altre culture, per altri culti, per altre religioni, per altri sistemi giuridici. Ma ciò sempre subordinatamente alle sue scelte prioritarie, obbligatorie per tutti i suoi figli non certo in nome della fede, ma della disciplina ecclesiastica.

Ancora un esempio. Papa Onorio III nell’approvare l’Ordine domenicano, ha nominato la predicazione domenicana come predicazione ufficiale della Chiesa, non certo al posto della predicazione episcopale o al suo livello, ma come partecipe ufficiale della predicazione apostolica o pontificia. Tutti nella Chiesa possono predicare: ma solo la predicazione domenicana è la predicazione per eccellenza, modello di ogni altro tipo di predicazione. Così molti sono i teologi e i dottori cattolici, ma solo Tommaso è il teologo per eccellenza e il modello per tutti.

Così è successo che nella storia della teologia seguente a San Tommaso si possono notare momenti nei quali certi teologi sembrano voler ribellarsi al primato del Dottore Comune per sostituirlo col genio filosofico o profeta di grido o col riformatore di turno. Ci si entusiasma per un po’, ma ecco che ben presto appaiono i guai che nascono dall’applicazione della dottrina del nuovo maestro.

Costatando tali guai, i Papi tornano a proporre San Tommaso e così il ciclo vitale riprende. La Chiesa torna a respirare. Questi episodi si sono ripetuti già diverse volte: il Concilio di Trento per esempio rimediò all’antitomismo protestante, il Vaticano I insieme e Leone XIII rimediò all’antitomismo degli ontologisti e degli idealisti, San Pio X rimediò all’antitomismo dei modernisti, Pio XII rimediò all’antitomismo della «théologie nouvelle».

Il Concilio Vaticano II, riproponendo San Tommaso, rimedia alle avvisaglie di un arrogante neomodernismo, che però purtroppo si scatenerà nella seconda metà del secolo scorso fino ad oggi. Per rimediare in qualche modo a questa sciagura, dalla quale non ci siamo ancora liberati, San Paolo VI e San Giovanni Paolo II sono tornati a raccomandare San Tommaso. E in concomitanza di ciò hanno raccomandato Maritain, San Paolo VI consegnando a lui il Messaggio per gli Intellettuali del Concilio e ricordandolo con ammirazione in occasione della sua scomparsa in un’udienza generale del 1974, mentre San Giovanni Paolo II fece le sue lodi in una sua Lettera personale inviata nel novembre del 1982 a Giuseppe Lazzati, Rettore dell’Università cattolica di Milano, in occasione di un convegno su Maritain e raccomandandolo come esempio di pensatore nella Ratio et Fides.

Invece possiamo chiederci come mai Benedetto XVI non abbia mai raccomandato Maritain; probabilmente perché il teologo Ratzinger non fu tomista ma agostiniano e ciò deve aver giocato sulla sua reticenza, benché il tomismo maritainiano si possa qualificare come tomismo agostiniano. D’altra parte, l’agostinismo del Card. Ratzinger non gli ha affatto impedito di firmare molti interventi della CDF, che non si spiegherebbero senza un riferimento San Tommaso.

Il tomismo promosso dal Concilio

Il Concilio, dal canto suo, come è noto, ribadisce ancora una volta con encomiabile perseveranza – repetita juvant - la secolare raccomandazione preferenziale dei Sommi Pontefici per San Tommaso tra tutti i teologi scolastici, ma  lo fa in un modo così nuovo ed inusuale, che pochi tra i tomisti di allora, tranne i maritainiani, capirono e capiscono in che senso il Concilio si accorda con Tommaso ed hanno il timore che lo abbia abbandonato per tornare a Sant’Agostino o addirittura per fare l’occhiolino a Lutero.

In fondo, la ribellione di Lefebvre fino ad arrivare ieri a Romano Amerio ed oggi a Padre Serafino Lanzetta, De Mattei, Vassallo, Radaelli, Don Nitoglia, Don Minutella, Mons. Viganò ed altri[1], rispecchia questo tipo di tomisti, che non riuscirono e non riescono a capire e ad appezzare il modo col quale il Concilio ripropone San Tommaso.

E tra costoro purtroppo c’è stato Mons. Livi, il quale, però, continuò a credere che Tommaso rifiorirà in questo secolo. Ne sono convinto anch’io e così non potrà non essere, perché la Chiesa non torna sul giudizio che dà di un Santo Dottore, a meno che non sorga un Dottore più sapiente di San Tommaso. Ma adesso come adesso tale prospettiva è assolutamente irrealistica.

In che modo dunque Tommaso tornerà? Nel modo proposto dal Concilio! È qui che mi scosto da Mons. Livi, il quale sembra sperare che Tommaso verrà riproposto alla maniera con la quale i Papi lo avevano proposto prima del Vaticano II.

Alcuni ritengono però che il Magistero della Chiesa, avendo per compito la trasmissione di una verità trascendente, quale la verità di fede, che supera tutte le filosofie e le culture, non s‘impegna né si pronuncia per nessuna filosofia o cultura storicamente determinata, ma lascia libertà a tutti di scegliere quella filosofia o cultura che maggiormente gli aggrada o trova adatta alle sue esigenze.

Ma non è assolutamente così, per il motivo che ho detto sopra. Di fatto e di diritto la Chiesa ha scelto Tommaso come «Doctor communis Ecclesiae», titolo che essa stessa ha dato all’Aquinate. Solo Tommaso è il Dottore comune: tutti gli altri hanno titoli molto belli ed espressivi, uno diverso dall’altro, ma che non s’innalzano all’universalità di Doctor Communis.

Solo Tommaso infatti ha questo titolo. E del resto è logico: ciò che è comune in una comunità o in un insieme non può essere che una cosa sola: il bene comune. San Tommaso, senz’affatto escludere altri Dottori, appartiene a tutti ed è al servizio di tutti coloro che desiderano percorrere la via razionale migliore per giungere alla fede e per interpretare i misteri della fede.

Ma che vuol dire Dottore comune? Vuol dire che se i Francescani possono seguire San Bonaventura o il Beato Duns Scoto, se i Monaci Basiliani San Basilio, se i Cisterciensi possono seguire San Bernardo, se i Gesuiti possono seguire Molina o Suarez, se i Carmelitani possono seguire Santa Teresa o San Giovanni della Croce, se i Salesiani possono seguire San Francesco di Sales, se i Redentoristi Sant’Alfonso de’ Liguori, se i Rosminiani il Beato Antonio Rosmini, se gli Agostiniani possono seguire Sant’Agostino, se Comunione e Liberazione può seguire Don Giussani o Von Balthasar, se i Focolarini possono seguire Chiara Lubić, se l’Opus Dei può seguire Escrivá de Balaguer, non solo i Domenicani, ma  tutti nella Chiesa devono seguire San Tommaso non tanto contro quanto piuttosto al di sopra di ogni altro Dottore o Maestro.

E se Pio XI disse «Ecclesia doctrinam Divi Thomae suam propriam edixit esse»[2]che cosa ha voluto dire? Ha voluto mettere la dottrina di San Tommaso alla pari di quella della Chiesa? Neanche per idea! La dottrina della Chiesa è infallibile, con i suoi dogmi e il suo Magistero ordinario, nell’interpretare il dato rivelato. La teologia di Tommaso, invece, per quanto eccellente, è una semplice dottrina umana, fallibile, perfezionabile, correggibile ed imperfetta, in alcune cose meramente opinabile. Dunque, che cosa ha voluto dire il Papa con quelle parole?

Occorre distinguere il dichiarare una cosa come propria dall’appropriarsi di una cosa, dal’assumere o far propria una cosa giuridicamente, ufficialmente riconosciuta ed approvata. Un conto è l’ufficialità e un conto è ciò che è ufficializzato. Un conto è ciò che mi appartiene per essenza, come il poter ragionare, che è ciò senza di cui io non possederei una mia proprietà essenziale. E un conto è ciò di cui mi approprio o che faccio mio, come per esempio la dottrina di San Tommaso, perchè mi conviene in modo speciale, ma di cui, se non l’avessi, potrei anche fare a meno. Così il Magistero della Chiesa è andato avanti benissimo con Sant’Agostino fino al sec. XIII, quando ha cambiato Agostino con Tommaso.

Un’obiezione forse potrebbe sorgere da queste parole di San Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et Ratio: «La Chiesa non propone una propria filosofia né canonizza una qualsiasi filosofia particolare a scapito delle altre» (n.49). È chiaro che qui il Papa non si riferisce alla filosofia del Doctor Communis dato che il comune si contrappone al particolare. Il sapere filosofico, quando è sano e non diventa un’ideologia, è per sua essenza universale, come è universale tra gli uomini il potere della ragione di cogliere l’universale.

D’altra parte occorre ricordare che il buon pastore deve provvedere non solo al bene del gregge, ma anche a che ci sia ciò senza di cui il gregge non potrebbe vivere bene. Così similmente il Magistero della Chiesa non ha solo il compito di trasmettere fedelmente le verità di fede, ma anche di conseguenza quello di favorire quell’attività razionale, in special modo la sana filosofia, che rende possibile l’acquisto e il mantenimento della retta fede.

La fatica di capire Papa Francesco 


Mons. Livi, consapevole della sua responsabilità di teologo e di uomo di fede, al servizio della Chiesa e delle anime, valendosi dei sottili criteri di discernimento e di vaglio critico acquisiti da una ragione lungamente coltivata nello studio e nella disciplina logica, esperto di epistemologia e di ermeneutica teologica, attento e instancabile osservatore degli eventi della teologia cattolica, compì un’attenta, vasta ed informatissima analisi della presente situazione, constatando i numerosi influssi velenosi penetrati nel campo della teologia cattolica e la diffusa trascuratezza nel ricorso al pensiero di San Tommaso, che tanto efficace rimedio  apporterebbe, come ha sempre fatto, agli errori potenziando gli elementi positivi.

 

Col pontificato di Papa Francesco, Livi si è interrogato assai turbato su come mai  questo Papa in sette anni di pontificato non abbia una sola volta emanato un documento impegnativo per  raccomandare il pensiero di San Tommaso, come i Papi hanno sempre fatto con frutto soprattutto nei momenti di maggiore crisi, fino a San Giovanni Paolo II ed allo stesso Benedetto XVI, il quale dedicò almeno un’Udienza generale a San Tommaso, a parte tutti i meriti che si è acquistato da Cardinale alla CDF, meriti che non si sarebbe fatto, se non avesse fatto ricorso al Dottore Comune.

 

Certamente ci possiamo chiedere come mai Papa Francesco in un frangente così grave come il presente, non utilizza quella «terapia tomistica», per usare un’espressione del Card. Parente[3], che si è rivelata efficace in altri difficili momenti, soprattutto di oscuramento dell’intelletto e della ragione, di crisi della metafisica e della morale, della fede e della carità.

 

È possibile che Papa Francesco giudichi sufficienti i riferimenti a San Tommaso fatti da San Giovanni Paolo II nella Fides et ratio, alla preparazione della quale, del resto, lo stesso Livi collaborò. È possibile che il Papa faccia un’analisi e una diagnosi dei mali della Chiesa più preoccupata dell’assenza di misericordia che di certezze teologiche. Per questo è possibile che ritenga che ci sia più bisogno per il momento di offrire la medicina della misericordia che quella della correzione degli errori. In ogni caso è impensabile, contro quello che sospetta Livi, che Francesco non creda più nella medicina tomistica. 

 

È anche possibile che il Papa non raccomandi apertamente Tommaso per non scoprirsi. Ma nella sostanza agisce da tomista. Del resto Sant’Ignazio prescrive ai suoi figli di seguire come maestro San Tommaso. Ma al Gesuita piace agire segretamente e in ciò è molto abile, perché a volte questo tipo di azione sconfigge il nemico o lo converte meglio dell’azione aperta. Può essere utile nascondere il proprio tomismo a chi ha pregiudizi su Tommaso, persuadendolo della dottrina di Tommaso senza citare l’autore. È probabilmente questa la tattica di Francesco, molto usata nella tradizione ignaziana. Vedi il caso famoso di Matteo Ricci.

 

Mons. Livi non comprese e rimase turbato da questa condotta del Papa, per il fatto che, a suo giudizio, proprio oggi che come non mai occorrerebbe ricorrere a Tommaso, come la Chiesa ha sempre fatto superando i momenti più difficili e vincendo le eresie più pericolose. Il disappunto di Livi nei confronti dell’attuale Papa giunse al punto, come abbiamo visto nella Correctio finalis, di sospettarlo di modernismo e, in un’intervista concessa poco tempo prima della morte, di accusarlo di favorire una riforma non di stampo cattolico, ma luterano, prendendo spunto da quell’infelice frase di Francesco a proposito di Lutero, secondo la quale Lutero avrebbe offerto una «medicina». 

 

La radice di fondo del dramma di Mons. Livi credo sia da rintracciarsi, come in tanti altri tomisti troppo scolastici, e insufficientemente attenti alle richieste di aggiornamento pastorale del presente contesto storico, nel fatto che egli non è riuscito più a vedere Tommaso tra le righe del Concilio. Questa fu la tremenda delusione e il doloroso dramma soprattutto dei teologi della cosiddetta «scuola romana» preconciliare, alcuni dei quali di altissimo livello, come i Cardd.  Ottaviani, Piolanti, Cento, Oddi, Parente, nonché i Gherardini, i Gagnebet, i Brown, i Ciappi, i Perini, il Padre Calmel. Alcuni di essi superarono la prova e si mantennero fedeli al Papa. Ma altri, purtroppo, passarono su posizioni lefevriane o filolefevriane. 

 

Maritain, invece, senz’affatto essere ignaro del tomismo scolastico dei Gaetano, dei Giovanni di San Tommaso, dei Garrigou-Lagrange, dei Gredt, è anche figlio di quel tomismo francese degli anni ’30-’40 del secolo scorso dei Clérissac, dei Dehau, dei Gilson, dei Gardeil, dei Couturier, degli Chenu, dei Congar. 

 

Papa Francesco utilizza San Tommaso? 


Ma purtroppo l’attuale marea modernista è talmente forte, che neppure i richiami a San Tommaso da parte di due Santi Pontefici come Paolo VI e Giovanni Paolo II hanno sortito effetto. Papa Francesco sembra essersi arreso, come se avesse detto: è inutile insistere.  E ciò angosciava l’animo del pio Mons. Livi.

Ma quello che penso io è che Papa Francesco stia studiando una nuova mossa, che sottende il metodo tomista, che poi è quello evangelico. Il suo puntare sulla fraternità, tomisticamente corrisponde a quello che è il possesso comune a tutti gli uomini della ratio naturalis, quello che Livi chiama sensus communis, principio della lex naturalis, che è appunto il principio della fratellanza umana universale, base e presupposto della fratellanza cristiana. Papa Francesco adesso congiunge l’appello alla fraternità alla sua ben nota esortazione ad esercitare verso tutti la misericordia. E su ciò Tommaso non sarebbe stato d’accordo?

Questa esortazione alla fraternità e alla misericordia costituisce l’evangelica esortazione alla conversione, perché tutti manchiamo in fatto di fraternità e di misericordia. Invece il mostrarci misericordiosi e fratelli verso tutti, li obbliga a ragionare e induce i non-credenti ad interrogarsi da dove traiamo quell’amore e quella forza che ci fa operare in questo modo. E questo non è lo stile tomista dell’evangelizzazione? A questo punto, come ha detto Papa Francesco, dobbiamo essere pronti a rispondere a chiunque ci chieda ragione della speranza che è in noi (cf I Pt 3,15).

L’annuncio evangelico consiste certamente nell’annunciare che il regno dei cieli è vicino. Ma a chi non crede nell’esistenza del cielo e a chi il cielo non interessa, che cosa diciamo? È chiaro che un annuncio del genere ex abrupto lascia freddi i non-credenti per non dire che induce a ironizzare o a farsi beffe di noi.

Occorre invece innanzitutto dimostrare che il cielo esiste ed è più importante della terra. Occorre, in sostanza, dimostrare l’esistenza di Dio come nostro fine ultimo e sommo bene. Questo sarebbe il metodo tomista.  Ma non è necessario che usiamo le famose «cinque vie». Indubbiamente Francesco non ne parla, ma non per questo respinge i due principi metafisici che le anima tutte: il principio di causalità, che riguarda l’essere e il principio di finalità, che riguarda il bene.

Le prove bergogliane dell’esistenza di Dio sembrano infatti riassumersi nell’esercizio della misericordia: il nostro essere misericordiosi con gli altri fa sì che noi per loro siamo una prova dell’esistenza di Dio, il misericordioso, come lo chiama lo stesso Corano. E per converso, lo sperimentare di essere oggetto di misericordia da parte degli altri ci induce ad ammettere l’esistenza di Dio misericordioso, così come per induzione si passa dall’effetto alla causa.

Se poi mi chiedo: che cosa è che mi spinge ad essere misericordioso, quando da me avrei voglia di fare i miei comodi, devo ammettere che esiste Qualcuno immensamente buono e misericordioso e gusterò le famose parole di San Paolo caritas urget nos (II Cor 5,40), applicando il principio di finalità che dice che ogni agente agisce per un fine ultimo. Questo Qualcuno è Gesù Cristo, che premierà coloro che hanno compiuto opere di misericordia con cuore generoso senza rendersi conto che così facendo agivano per Cristo e con Cristo.

Ancora il Papa ci suggerisce un’altra via per condurre gli uomini a Dio e a Cristo, del tutto conforme alla metafisica di Tommaso, una via imposta sul ragionamento, sul passaggio dall’effetto alla causa: far loro capire che se siamo fratelli, siamo tutti figli di un padre. E che padre può essere un padre che è padre di tutti noi? Può essere un padre in senso fisico, un padre biologico, un padre terreno? Impossibile! Dovrà essere un padre in senso spirituale, ma vero padre che dà origine alla nostra esistenza e provvede ai nostri bisogni. Ma qual è il simbolo dello spirito se non il cielo? Ecco dunque perchè Gesù parla di un Padre che sta nei cieli!

Ma allora che cosa è questo «regno dei cieli»? È il regno del Padre, è un’umanità di fratelli figli del Padre celeste. Ma che vuol dire ciò? Vuol dire un’umanità dove finalmente, per sempre e perfettamente regnano la giustizia, la misericordia, la comunione, la fraternità, l’uguaglianza, la libertà, la concordia, l’armonia, la pace, l’amore al Padre e ai fratelli. È questo il regno di Dio. E tutto ciò non coincide forse con le idee di San Tommaso? Forse che se l’Aquinate sapesse delle vie di Papa Francesco non concorderebbe in pieno con lui?

Ma questa, certamente, è solo l’introduzione al Vangelo; è quella che tradizionalmente si chiama «apologetica». Quando gli uomini sono disposti ad ascoltarci perché siamo riusciti a suscitare in loro la fiducia necessaria, allora l’evangelizzazione entra in medias res, allora s’impone il nostro dovere di annunciare, «con molto timore e trepidazione » (I Cor 2,3) quello che San Paolo chiama lo «scandalo della Croce», scandalo per la verità solo apparente, perchè in realtà esso corrisponde ad una logica più profonda di quella umana, quello che Paolo chiama «logos tu staurù» (I Cor 1,18), la logica della Croce: quindi, nell’accettazione credente di questo mistero, bisogna continuare ancora a ragionare, ma questa volta sulla base della fede. E questo non è ancora tomismo? E quando Francesco ci parla di Gesù Crocifisso e dei «crocifissi del mondo», che cosa fa se non essere in linea con Tommaso nel momento in cui annuncia il Vangelo?

La soluzione per l’oggi non è Rahner, ma Maritain

Oggi per molti illusi il nuovo astro capace di sostituire Tommaso nel promettere il sol dell’avvenire è Rahner. Sono ormai 50 che imperversa. Ma come era da prevedere, i risultati di questa truffa che pretende di essere l’interpretazione del Concilio, mentre ne è la sua contraffazione, appaiono sempre di più sotto gli occhi di tutti. Più che mai sono necessari i teologi tomisti per aprire gli occhi della gente, curare i mali, alleviare le sofferenze, riparare i danni. Infatti i vizi morali dipendono dalla messa in pratica di una dottrina eretica.

È a questo punto che il teologo tomista svolge un prezioso servizio, che difficilmente il comune fedele può fare da solo, perché egli, se è onesto, si accorge del diffondersi di certi vizi, ma fatica a individuarne le cause teoretiche. Ebbene, il teologo, da buon medico delle anime, è specializzato nello scovare l’origine ereticale del vizio morale. I più gravi mali morali che oggi affliggono la Chiesa sono di origine rahneriana. Mons. Livi se ne è accorto e ha denunciato il fatto. E per questo i rahneriani lo hanno perseguitato con un odio implacabile.

Il vero tomista, però, il cui modello appare più che mai dai documenti del Concilio, non si limita ad imparare dai maestri che lo hanno preceduto e a trasmettere il sapere acquisito ai discepoli, ma utilizza l’eredità ricevuta per farla fruttare, prende atto del punto a cui i predecessori sono arrivati per avanzare e aumentare il sapere, come avviene nell’accumulo dei beni: senza gettar via ciò che già si possiede, c’è sempre del nuovo da aggiungere, da ottenere con lo stesso metodo col quale si sono ottenuti i beni precedenti.

Si vede che quei tomisti che non hanno compreso il Concilio o ad esso si sono ribellati, non erano veri tomisti o erano stati formai male. Evidentemente erano stati abituati dai loro insegnanti a limitarsi ad assumere e a ripetere l’insegnamento ricevuto, senza tentare di far avanzare il sapere mediante un lavoro personale di ricerca e di approfondimento, istillando in essi una falsa umiltà, che era un eccessivo timore di poter sbagliare.

Quanto a me, io sono grato agli insegnanti che ho avuto nello Studio Teologico di Bologna: essi non erano dei maritainiani, ma dei conservatori. Essi però erano lontani dall’imprudenza di un Lefebvre di accusare il Concilio di modernismo. Essi si limitavano ad insegnare il tomismo tradizionale, astenendosi dal dar giudizi sul Concilio. Era già qualcosa, anche se certo non bastava. Dio ha voluto che io fossi maritainiano già da 10 anni prima di farmi frate, per cui ho potuto rimediare o sopperire per conto mio al conservatorismo dei miei insegnanti.

Mons. Livi appartiene invece a quel gruppo di tomisti che non sono riusciti a reggere la prova del Vaticano II.  Non hanno capito il tomismo maritainiano. Lo stesso Padre Garrigou-Lagrange, già intimo amico del Maritain, allorchè questi, a partire dalla metà degli anni ’30, iniziò a realizzare quel tomismo progressista, il cui programma aveva enunciato da tempo, si mise in agitazione e cominciò a temere per la sua anima. Maritain lo venne a sapere e ne provò un grandissimo dolore. Si aggiunga il fatto che allora Garrigou insegnava a Roma ed era stimato da Pio XII e non è escluso che si fosse lamentato di Maritain col Papa. Ma a quanto mi è stato riferito, il Papa avrebbe risposto: «lasciatelo stare: è un uomo di fede». Sappiamo poi tutti quanta stima avesse per Maritain San Paolo VI.

Così similmente il Domenicano spagnolo Santiago Ramirez, dottissimo tomista, ma conservatore, non capì nulla del tomismo progressista del Maritain, tanto da uscire un giorno in parole beffarde, sconvenienti sulle labbra di un Domenicano, cioè che Maritain avrebbe fatto meglio a fare liberos piuttosto che fare libros. Ci sono stati bensì dei tomisti domenicani, come Schillebeeckx, i quali, credendo che il Concilio avesse abbandonato San Tommaso, sono passati armi e bagagli da San Tommaso a Hume, Ockham, Kant, Gadamer ed Heidegger.

Perché Maritain, che pure era un fedelissimo di Tommaso, non è rimasto affatto turbato nel leggere i documenti del Concilio, ma anzi ha parlato di un «fuoco nuovo»? Evidentemente perché egli ha capito che le dottrine del Concilio, al di là del linguaggio pastorale moderno non scolastico, avevano come sfondo teologico l’anima perenne ed immortale del tomismo, ossia quella capacità meravigliosa di coniugare la ragione con la fede, l’intelletto con la volontà, la verità con la carità,  la filosofia con la teologia, la carne con lo spirito, l’umano col divino, l’uomo con la natura, la storia con la metafisica, l’immortalità dell’anima con la risurrezione del corpo. la protologia con l’escatologia. 

 

Verso la santità

Tutto è bene ciò che finisce bene. Quando Mons. Livi seppe di essere stato colpito da un terribile morbo inguaribile, Dio lo aveva ormai rasserenato nei confronti del Papa. Dopo tanti anni al servizio di Dio e della Chiesa. Antonio non doveva più pensare alle piccinerie di questo mondo, ma, avendo combattuto la buona battaglia, pentito e perdonato delle sue colpe, disposto a far penitenza, era ormai preparato al cimento finale.

Aveva ormai raggiunto un grado di maturità spirituale, per il quale Dio lo ispirò a prendere appunti giorno per giorno sul procedere del suo cammino spirituale, della sua via Crucis, un po’ come i novissima verba di Santa Teresa di Gesù Bambino. Da questo diario spirituale, le sue più alte lezioni di teologia, tenute per tutta la durata della malattia – circa un anno - è uscito un libretto di recente pubblicato dalla sua Casa Editrice Leonardo da Vinci Preparazione alla morte. Riflessioni teologiche a partire dall’esperienza (€10, 122 pp.).

Traiamo da tale prezioso libretto questo passo particolarmente toccante ed edificante. Qui vediamo la grandezza di un’anima, che, se nella vita precedente ha conosciuto i moti dell’orgoglio e dell’arroganza, adesso viene forgiata dal fuoco dello Spirito Santo, che la purifica e la guida alla santità. Ecco le sue parole:

«Passo quasi tutta la notte sveglio a fare orazione e a dialogare con il Signore come non mai nella mia vita precedente. E passo da momenti di richiesta di sollievo fisico a momenti di piena accettazione del dolore con ringraziamento convinto per come mi sta santificando. E ho capito finalmente che cos’è la santità: solo opera di Dio, che può fare a meno anche della corrispondenza alla grazia da parte della persona beneficiata (come i santi Innocenti)».

Per quanto riguarda i miei ricordi personali di Mons. Livi in questo periodo conclusivo del suo pellegrinaggio terreno, vi cito solo una frase del grande teologo, che fa intravedere quali altezze spirituali stava raggiungendo: «quanto più il mio corpo decade fisicamente, tanto più cresco e gioisco spiritualmente»: parole che sembrano l’eco di quelle di San Paolo: «se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno» (II Cor 4,16).

Fine Seconda Parte (2/2)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 6 aprile 2021


 Immagine da internet



[1] Cf L’altro Vaticano II. Voci su un Concilio che non vuole finire, a cura di Aldo Maria Valli Chorabooks, Hong Kong 2021.

[2] Dall’eniclica Studiorum ducem del 1923, cit. da J.Maritain, Le Docteur Angélique, Desclée de Brouwer, Paris 1930, p.262.

[3] Terapia tomistica per la problematica moderna da Leone XIII a Paolo VI, Edizioni Logos, Roma 1979.

2 commenti:

  1. Prima di tutto una preghiera ed un grazie al nostro fratello Mons. Livi di cui sto leggendo la parte conclusiva del suo ultimo scritto prima della morte. Vi sono considerazioni che corrispondono perfettamente a quanto si dice qui. Nell'insieme, capisco sempre di più a cosa ci si riferisce quando si parla dell'oscurità che ha avvolto il mondo, direi pure il mondo dei teologi, oggi. Non ci resta che pregare aggrappati alla croce e protestare come possiamo, secondo me, anche da parte di noi semplici fedeli "senza preparazione" come ci sentiamo dire...

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    1. Caro Alessandro, comprendo molto bene i tuoi sentimenti e condivido la tua ammirazione per Mons. Livi.
      Egli ha sostanzialmente sofferto per la verità e per lo stesso Pontefice, affinchè sia pienamente fedele al suo mandato apostolico.
      Credo che a questo punto sia bene chiedere le sue preghiere per il Sommo Pontefice, per la Chiesa, per i teologi e per noi, comuni fedeli.

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