Trattato sugli Atti umani - P. Tomas Tyn - Lezione 8 (1/2)

 

 Trattato sugli Atti umani

P. Tomas Tyn

Lezione 8 (Parte 1/2)

P.Tomas Tyn, OP - Corso “Atti Umani” - AA.1986-1987 - Lezione n. 16 (A-B)

Bologna, 17 marzo 1987

http://www.arpato.org/corso_attiumani.htm

Vi ricordate, che l’altra volta abbiamo cominciato con la vexata quaestio della della coscienza erronea, cioè se è possibile che la coscienza presenti all’uomo l’oggetto moralmente specificante, in maniera errata, sbagliata. La domanda allora è questa: nel caso di un errore della coscienza la volontà, che discorda, cioè che in qualche modo si scosta dalla coscienza errante, è buona o cattiva? E viceversa la volontà che si conforma, cioè che agisce secondo la coscienza erronea è una volontà buona o cattiva?

Queste due domande coincidono con il chiedersi se la coscienza erronea obblighi, cioè se ha il diritto di obbligare l’uomo, quindi se ha il diritto ad essere obbedita, e viceversa, se la coscienza erronea scusi dal peccato[1], nel caso in cui l’uomo seguendo tale coscienza si renda obiettivamente colpevole di una azione non buona.

La prima domanda è questa: se la coscienza erronea possa obbligare l’uomo a conformarsi ad essa. Ora, S.Tommaso cita in questo articolo 5 della Questione 19 alcuni moralisti, i quali cercavano di aggirare l’ostacolo. Dicevano, cioè, come abbiamo visto anche noi nella Questione 18, vi ricordate, che ci sono degli oggetti che sono specificamente neutri, indifferenti[2]; e poi che ci sono altri oggetti, che sono o moralmente buoni o moralmente cattivi, e lo sono specificamente, proprio ex genere, come si dice, cioè per natura loro.

Ora, questi moralisti dicevano: se la coscienza ci presenta come buono un oggetto cattivo o se ci presenta come cattivo un oggetto buono, questa coscienza non può comandare e non bisogna darle retta e chi le dà retta, pecca o sbaglia; invece, se la coscienza in materia indifferente, comanda o vieta, anche se di per sè l’oggetto non è nè da comandare nè da vietare, se uno obbedisce, non pecca.

S.Tommaso fa l’esempio di togliere una pagliuzza da terra. Egli dice che questo moralmente non è nè buono nè cattivo. Mettiamo invece che io sia un ossessionato patologicamente. Io vedo del bene o del male dappertutto. E penso che dal prendere la pagliuzza dalla terra, dipende la mia eterna salvezza. Ovviamente questo è sbagliato. Tuttavia in tal caso la coscienza mi obbliga, cioè io devo farlo, perchè da ciò dipende la mia salvezza. Se viceversa il togliere una pagliuzza da terra mi appare come il crimine più abominevole e più spaventoso che possa capitare, ovviamente devo astenermi dal prenderla.

Quindi, nel caso di un’azione o meglio di un oggetto di per sè indifferente, se la coscienza si sbilancia patologicamente, errando, ossia considerandolo o buono o cattivo, cioè proiettando in un oggetto, in fondo neutro, bontà o cattiveria, tale coscienza secondo questi moralisti, dovrebbe essere obbedita. Invece, non avevano coraggio di dire, per dirla grossa, che se la coscienza mi presenta come buono un qualche cosa di cattivo, per esempio la persecuzione dei cristiani, essa deve dire: no, fino a tal punto non possiamo dire che si deve obbedite alla coscienza.

Invece S.Tommaso ha il coraggio di dire che la volontà, che non obbedisce a una coscienza erronea, è sempre e comunque una volontà malvagia, una volontà cattiva, disordinata; bisogna sempre obbedire alla coscienza. Per quale motivo?

Per il motivo che, dice S.Tommaso, che non solo l’oggetto indifferente diventa moralmente significativo per noi, in quanto presentato dalla coscienza, ma ogni oggetto morale diventa moralmente specificante non in se stesso, nella sua entità fisica, bensì nella sua entità intenzionale. Presentato alla volontà da che cosa? Dalla ragion pratica, in un giudizio concreto sulla liceità o meno dell’atto.

Quindi non c’è oggetto morale, sia esso indifferente all’esser buono o cattivo, che non passi attraverso la coscienza. Quindi, il fatto che io abbia nella mia ragione un oggetto che la coscienza mi presenta come cattivo, anche se di fatto quell’oggetto fosse buono, se io agisco contro la coscienza e perseguo quel bene obiettivo, che me lo presenta come un male, io agisco contro la coscienza e agisco male. Soggettivamente agisco male.

Quindi è molto importante questa conclusione: tutti gli oggetti, che specificano moralmente il nostro agire, e prima di specificare l’agire esterno, specificano la volontà interiore che muove poi all’atto esterno, sono mediati dalla coscienza. Quindi sono tali per noi tramite la coscienza e allora bisogna adeguare la nostra volontà e il nostro agire ai dettami della coscienza, anche della coscienza erronea.

S.Tommaso fa degli esempi molto concreti. Dice che astenersi dalla lussuria - è grossa, questa, qui è tremendo -, è cosa per sè buona. Ma la volontà si porta a tale oggetto in quanto le è proposto dalla ragione, cioè dalla coscienza, cosicchè, se la ragione propone come un male questo oggetto in sè buono, cioè astenersi dalla lussuria, la volontà si porterà ad un oggetto per sé buono, però sotto la ragione del male[3].

Quindi, uno che osserva l’astinenza dalla lussuria, contro la propria coscienza[4], mentre la coscienza glielo presenta[5] come un male, costui non agisce bene, anche se obiettivamente ha ragione[6]. Però agisce contro la motivazione della coscienza, cioè persegue il bene[7], ma non sub ratione boni[8]; persegue il bene[9] materialmente, accidentalmente, oggettivamente, non soggettivamente, formalmente, in quanto è bene. Persegue il bene[10], come se fosse il male.

E viceversa, la fede cristiana è buona, quindi abbiamo un oggetto buono. La fede cristiana è buona e necessaria per la salvezza. Ma, se la ragione la[11] propone come un male, succede che la volontà la vuole[12] a sua volta come un male. Quindi, la volontà, in tal caso, vorrebbe la fede cristiana, che in sè obiettivamente è buona, vorrebbe un bene, ma ancora una volta, presentato alla volontà[13] come un male. Quindi, la volontà vorrebbe quel bene sub ratione mali, sotto l’aspetto del male. Volere il bene sotto l’aspetto del male, è sempre e comunque disordinato.

E similmente vale lo stesso discorso inverso. Come non si può volere il bene sub ratione mali così viceversa, se c’è un male, che però la coscienza ci presenta come un bene, bisogna perseguirlo, perché la coscienza ce lo presenta come un bene, anche se di fatto poi è un male. Quindi i persecutori dei cristiani facevano del male, però al limite la coscienza presentava loro la persecuzione del cristiano come un qualcosa di buono, e quindi essi si sentivano obbligato a perseguire sub ratione boni un qualche cosa, che però di fatto è un male.

Ora, bisogna dire che c’è un problema riguardo a questo aspetto della coscienza erronea, perché uno potrebbe obiettare: in tal caso la coscienza erronea non presenta la verità della cosa, e quindi non può nemmeno presentare la verità sul bene o sul male, e quindi non può nemmeno derivare da Dio. Una coscienza errante non può essere interprete di Dio.

S.Tommaso risolve questa obiezione nell’ad primum, dicendo che iudicium rationis errantis, licet non derivetur a Deo, tamen ratio errans iudicium suum proponit ut verum, et per consequens ut a Deo derivatum. Di fatto la ragione o la coscienza erronea non deriva da Dio, in quanto erronea. Però essa propone quella falsità come vera, ma la propone proprio come derivante da Dio. Siccome la propone come vera, benchè o falsa o sbagliata, la presenta dunque come derivata da Dio, in quanto ogni verità deriva dalla prima verità, che è la verità di Dio.

Quindi anche la coscienza erronea rimane sempre, come si dice comunemente, la voce di Dio nell’uomo[14]. Anche la coscienza erronea rimane, non oggettivamente, ma soggettivamente la voce di Dio. E quindi in qualche modo, la coscienza erronea cela in sé un certo obbligo. Se uno non obbedisce alla coscienza erronea, con questa disobbedienza, con questa non conformità alla coscienza, l’uomo pecca.

L’altra Questione è complementare alla prima. Ed è quella dell’articolo 6. Cioè, se la volontà, che concorda con la coscienza errante, sia buona. Abbiamo visto che la volontà discordante dalla coscienza errante, è cattiva. Adesso invece S.Tommaso ci dirà che la volontà concordante con la coscienza erronea non necessariamente però è buona.

La coscienza erronea da un lato obbliga; ma dall’altro lato non necessariamente scusa dal peccato. Povero peccatore, che si trova in mezzo a quella situazione! Qui S.Tommaso è rigorista, no? Dice egli infatti che da un lato il non attenersi alla coscienza erronea è un male, ma anche attenervisi è un male. Povero uomo, che cosa deve fare?  Non so se rendo l’idea.

Ovviamente l’articolo 6 contiene una distinzione molto importante, veramente essenziale. Si tratta di questo. La coscienza erronea ovviamente propone un oggetto morale a un atto umano. Solo un atto umano, in ultima analisi, può avere una qualifica morale. Ora un atto umano, come abbiamo visto, è un atto volontario, cioè è essenziale che l’atto umano sia perfettamente volontario, il che poi praticamente coincide con la libertà; quindi l’atto umano è libero.

Ora, esiste un certo errore, una ignoranza potremmo dire dell’intelletto pratico, quindi un errore della coscienza, che, essendo a sua volta del tutto involontario, costituisce[15] una ignoranza detta invincibile e quindi causa ciò che di per sé è involontario. C’è poi quell’errore, quella coscienza erronea, che sbaglia per colpa sua o per negligenza, perché non si dà da fare, quindi per omissione, oppure direttamente, perchè vuole ignorare, cioè si propone l’ignoranza. Pensate per esempio a una finta ignoranza. E’ il caso di chi cerca degli alibi o delle scuse con se stesso.

C’è dunque l’ignoranza finta o l’ignoranza supina o crassa, che su verifica, quando uno non si dà da fare per conoscere quello che dovrebbe sapere. Ora, in tal caso ovviamente l’atto che ne segue non è del tutto involontario. Sarà involontario, solo per accidens, secundum quid, ma per se è volontario.

Quindi, diciamo questo. Se la coscienza erra per un errore invincibile, cioè un errore che il soggetto non ha causato, di cui il soggetto non è responsabile, se uno ignora ciò che non è tenuto di sapere, o se non ha potuto procurarsi la scienza necessaria, una ignoranza di questo tipo causa l’involontario. E quindi una coscienza così erronea, è una coscienza che scusa dal peccato. Quindi c’è un caso in cui la coscienza erronea obbliga, e sarebbe peccato la difformità da essa; però la conformità a una tale coscienza scusa nel contempo dal peccato, là dove l’errore della coscienza è involontario. Si tratta, quindi, di un errore invincibile, una ignoranza invincibile.

Invece, laddove l’errore è vincibile, volontario, cioè il soggetto stesso avverte di ignorare, ma sa che potrebbe anche non ignorare e che ha il dovere di non ignorare, a questo punto, se il soggetto agisce conformandosi a una coscienza di cui sa che è erronea, quel soggetto compie ovviamente un peccato. Quindi non può nè discostarsi dalla coscienza erronea, perchè quella obbliga, ma non può nemmeno conformarvisi, perchè sa che erra[16].

Che cosa deve fare allora quel povero uomo? E qui S.Tommaso dice che cessa di essere un povero uomo, non merita più la nostra misericordia. Perché? Perchè lui sa che può sempre deporre l’errore. Può sempre deporre l’errore. Cioè egli, sapendo di essere in stato di ignoranza, sa benissimo che gli è possibile togliere l’ignoranza procurandosi la scienza necessaria.

Quindi la coscienza, contrariamente a quello che si pensa, di fatto non è mai perplessa. Infatti, in caso di perplessità, la coscienza ha sempre questa certezza, che quando essa è incerta non può agire[17], perchè chi agisce con una coscienza incerta, perplessa, si espone al pericolo prossimo del peccato. Quindi, se io ho una ignoranza volontaria vincibile, per definitionem ho la consapevolezza di ignorare, ma anche di poter non ignorare, cioè di dover ancora accertarmi per vedere come stanno le cose dal punto di vista morale. Se io ho questa consapevolezza e agisco senza deporre l’errore della coscienza, sono responsabile della mia azione malvagia.

Quindi, nel caso di una coscienza perplessa, una cosa rimane sempre certa e cioè che colui che ha una coscienza perplessa, non è obbligato ad agire. Questa è una cosa molto importante. Notate bene che al giorno d’oggi, si dice: siccome noi siamo dei pragmatisti, a noi piace tanto agire per l’agire stesso. E’ sempre meglio agire, che non agire. Questi nostri prepotenti aggrediscono proprio le cose con l’agire senza riflettere.

Invece, la morale oggettiva ci dice che bisogna riflettere prima di agire. C’è poco da fare. E’ evidente che è sbagliato. Siamo d’accordo su questo. Abbiamo ben studiato la prudenza e sappiamo che essa si consiglia bene; però, dopo essersi consigliata, agisce con una certa decisione.

Quindi non c’è dubbio che ci sono situazioni in cui l’azione è veramente doverosa, c’è un invito ad agire. Però io posso agire, e quindi devo agire, solo là dove ho la certezza morale. Qui non vale il discorso: è sempre meglio fare qualche cosa piuttosto che niente. Non è vero. Al giorno di oggi si dice spesso: beh, insomma, quel poverino, sì, ha sbagliato tutto, però almeno ha fatto qualcosa; invece quell’altro, poverino, che si è fermato ed ha riflettuto non ha fatto niente, fannullone. No, ha fatto bene colui che ha riflettuto.

Infatti, là dove io non posso, cioè non mi è lecito moralmente agire, lì nemmeno devo agire, non c’è nessun dovere che mi obblighi, moralmente parlando. E’ chiaro, fisicamente parlando, se si trae in considerazione non la rettitudine morale, ma la furbizia, il tornaconto, l’utilità, non c’è dubbio che lì chi fa di più il gradasso, è quello che, che insomma raggiunge risultati più brillanti. Su questo non ci sono dubbi.

Invece, nella morale non è così. Nella morale bisogna agire con una coscienza moralmente certa. Bisognerebbe poi naturalmente evitare l’errore opposto, che è quello degli eterni esitanti. Ci sono effettivamente dei soggetti scrupolosi, che hanno una coscienza erronea[18] non tanto quanto agli oggetti, ma quanto alla certezza, cioè quella gente che non si decide mai, perchè la coscienza non sembra loro mai sufficientemente formata. E anche questa ovviamente è una patologia della coscienza.

Però, bisogna sempre agire con una coscienza, se non fisicamente certa, almeno moralmente certa: se la coscienza erra con una certezza morale, il suo errore è invincibile. Se invece c’è incertezza in coscienza, allora c’è la consapevolezza di errare e io non posso accondiscendere all’errore, o correre il grosso rischio di errare, e non posso agire con la consapevolezza di essere probabilmente nell’errore. Se agisco, faccio del male.

Quindi, in qualche modo, è sempre doveroso seguire la coscienza, anche se sbaglia, anche se è erronea; non è però sufficiente seguirla. Non è possibile dire[19]: io ho seguito la coscienza. No! Dipende. Se la coscienza, sbaglia, può sbagliare invincibilmente. In tal caso non ho potuto fare diversamente e mi tolgo lo scrupolo: proprio lì non c’entravo. Però, in tal caso l’azione esula dalle azioni umane; infatti il mio errore è stato invincibile, l’azione è stata involontaria.

Laddove invece l’errore è vincibile, la coscienza mi avverte, cioè io so di non essermi istruito bene. Dico istruito non nel senso che devo andare a consultare libri. Ma non ho giudicato bene, non mi sono consigliato bene, non ho formato bene il giudizio di coscienza.

Ma nel caso di una coscienza perplessa e quindi probabilmente errante o addirittura certamente ma vincibilmente errante, come risulta qui da questo principio stabilito da S.Tommaso, che poi è stato fatto suo anche dalla morale cattolica, il mio primo dovere è quello di chiarire la coscienza, ottenendo la certezza almeno morale, e comunque cercare di deporre l’errore di cui sono a conoscenza. Vi prego, questo punto mandatelo bene a memoria. Questo è importante.

Vedete di nuovo come S.Tommaso, in questi articoli insiste molto sul dovere del soggetto, dovere metafisico prima che etico, di sottostare alla realtà dell’oggetto. La coscienza, prima di costituirsi regola prossima dell’atto umano, deve a sua volta sottostare alla regola della realtà del bene e del male.

Quindi, notate ancora una volta l’importanza di questo principio. Da quel lato, spesso non solo noi cattolici, che in teologia morale possiamo parlare in questi termini, ma anche semplicemente uomini onesti, diamo l’impressione ai nostri contemporanei di essere addirittura dei malvagi, perché la mentalità in qualche modo comune è quella che bisogna agire anziché astenersi dall’azione, l’azione è sempre meglio che il non agire.

Invece S.Tommaso ci insegna proprio il contrario: non è vero che l’azione è sempre meglio del non agire. Anche se è giusto che non bisogna mai assumere nemmeno questo principio: è sempre meglio non agire, perché così non sbaglio. Questo è contro la prudenza Quel tale ovviamente non ha l’imperium, che è appunto questo comando che è l’ultimo atto della ragione pratico-pratica e dell’atto specificante la prudenza.

Quindi, bisogna agire, però dopo essersi consigliati. Prima che la ragione abbia una chiarezza pratica, l’azione sarebbe illecita e quindi in nessun modo doverosa. Notate che qui ci sono problemi notevolissimi. Anch’io in alcuni casi, astrattamente proposti, non saprei che pesci pigliare. Consideriamo per esempio, la questione del cosiddetto “male minore”. E’ un caso che spesso mi viene ipotizzato: quante vite devo sacrificare per salvarne altre?

Facciamo l’esempio di un macchinista ferroviario. Egli sa che sviando un treno, salverà, mettiamo, 200 passeggeri, che si trovano su quel treno, però sa anche che su quel binario lavorano mettiamo 10 operai. Non riuscirà ad avvertirli per tempo e il treno con grande probabilità li ucciderà. Che cosa fare? Non so se rendo l’idea. Quel poverino penso che starà lì e sarà perplesso: sviare il treno o lasciarlo correre?

Ebbene, per quanto sia poverino, non deve agire prima di avere la certezza morale. E vi dico sinceramente che per quanto ci pensi, a sangue freddo, non so quale certezza morale si possa avere in tale simile situazione. Questo solo per darvi un po’ l’idea della drammaticità di certe decisioni, che si possono talvolta anche dover prendere.

Però, se la coscienza non è chiara moralmente parlando, bisogna astenersi dall’azione e nessuno può essere incolpato di questa astensione. Quindi, non si tratta di cercarsi un alibi o di cercare di deresponsabilizzarsi. Ma è il cercare la verità prima dell’agire secondo la verità, perchè l’agire deve sempre comunque sottostare alla verità.

Breve interruzione

Regola dell’agire è la coscienza, ma la regola della coscienza è proprio la norma morale oggettiva. E quindi, prima bisogna che la coscienza si adegui alla norma morale oggettiva e solo allora potrà diventare norma prossima proprio dell’agire umano. Vi ho convinto, pressappoco? Perché, sapete, su questo effettivamente i nostri contemporanei la pensano molto diversamente, giacchè per loro la norma morale nasce proprio dalla situazione nella sua concretezza.

Quindi, non c’è affatto bisogno che io mi formi un giudizio morale; basta che agisca, comunque vada. E’ la mia decisione. Ho fatto sempre bene. Invece, no! C’è prima l’esigenza di chiarire il dubbio, la perplessità della coscienza, e solo dopo agire con una coscienza certa.

S.Tommaso fa poi un duplice esempio, cioè quello dell’ignoranza del diritto e l’ignoranza del fatto. E’ un esempio, tratto dall’etica della vita coniugale. Esso dice che, che in fondo l’ignoranza della legge di Dio può essere sempre, sempre considerata come una ignoranza vincibile. Cioè le norme della legge di Dio, dice S.Tommaso, sono talmente evidenti, che è difficile ignorarle in maniera invincibile.

Quindi, si può supporre l’ignorantia iuris, non ovviamente di qualche comma del codice civile, ma l’ignoranza proprio di cose come, per esempio, se sia lecito l’adulterio, accedere ad uxorem alterius, cioè accedere alla moglie altrui. Tutti dovrebbero sapere che è illecito.

E allora, se uno, fa l’ignorante in questa materia, non bisogna credergli con facilità, ma bisogna supporre che il suo errore sia alquanto interessato, che sia, insomma, un errore effettivamente vincibile. Invece, dice S.Tommaso, esemplificando sempre in questo settore, che invece è diversa  l’ignorantia facti, cioè l’ignoranza di una circostanza particolare. Per esempio, accedere alla moglie altrui pensando che sia la moglie propria.

Uno potrebbe dire che è un esempio, che è difficile che si verifichi, però voi sapete bene che è un esempio biblico, in quanto Giacobbe ricevette in moglie prima Lia e poi Rachele. E quindi pensava di accostarsi a Rachele, mentre il padre di queste due figlie, Labano, prima gli diede la figlia maggiore, per poi dargli dopo altri sette anni la minore. Quindi, vedete che S.Tommaso trae questo esempio nientemeno che dalla Sacra Scrittura.

Ebbene, checché ne sia, la differenza ha un certo rilievo. Ossia la differenza tra l’ignoranza della legge, del diritto, dei fondamentali principi del diritto naturale, e  l’ignorantia facti, cioè l’ignoranza della circostanza particolare. Si può dire o credere che talvolta, anche se non sempre, l’ignoranza della circostanza, possa essere, una ignoranza invincibile. Invece S.Tommaso opta per dire che l’ignoranza della legge di Dio, è sempre e comunque vincibile. Prego, caro Fra Stefano

… lasso di tempo in cui uno si confronta … si pone il problema … però nello stesso tempo deve agire … deve astenersi dall’agire … ricerca della verità …

Adesso hai proprio sollevato una bella questione. I teologi moralisti del ‘600 te ne sarebbero molto grati, perchè subito farebbero tutte le distinzioni tra il probabilismo, equiprobabilismo, semiprobabilismo, probamigliorismo, lassismo e rigorismo. Il fatto è questo, che noi Domenicani siamo sempre stati probamiglioristi, seguendo, diciamo così, l’opinione, più serena[20], diciamo, evitando ovviamente il lassismo, cioè che in qualsiasi opinione che io ho contro la legge, posso sempre favorire la mia parte. Questa è la morale della situazione ed è il lassismo. Però non è nemmeno vero che comunque io debba sempre favorire la legge, contro una opinione fondata che favorisce la mia parte[21].

E’ importante che la mia opinione sia la più probabile, cioè che abbia più peso della opinione contraria. Solo allora posso seguirla. Adesso mi attengo alla tradizione del nostro Sacro Ordine, che tendeva più al rigorismo che al lassismo, senza cadere ovviamente nel rigorismo giansenistico. Però penso che effettivamente prima che uno abbia chiarito la situazione e e prima di agire, è bene che si attenga alla norma morale più severa, piuttosto che a quella che favorisce la sua parte[22].

Questo lo dico anche perché la nostra propensione umana va sempre già in partenza in qualche modo a favorire noi stessi. E quindi è bene che una persona onesta tenda piuttosto a favorire ciò che sembra essere imposto dalla legge, contro la propria tendenza. Però è chiaro che nel frattempo bisogna che questa persona al più presto cerchi di chiarire la situazione, per vedere che cosa in concreto fare.

Per esempio, ci potrebbero essere, in questo caso, anche delle forme di ignoranza proprio della legge naturale, cosa che S.Tommaso esclude. Per esempio, si vedono delle persone buone, onestamente intenzionate a vivere secondo la legge di Dio, che però dicono: ma, io, in certe cose non riesco a vederci un peccato.

Per esempio l’uso di anticoncezionali è una cosa molto frequente, che capita spesso. Dicono: ma, Padre, sa, siamo troppi in questo mondo. Già lì comincio a rabbrividire. Comunque, mi raccomando al Padre che è nei Cieli, perché mi faccia rimanere paziente. Ad ogni modo il fatto è che, secondo loro, come dicono, questi mezzi in qualche modo non costituirebbero peccato. Questa ignoranza è vincibile o è invincibile? E’ questo il punto.

E poi c’è un altro problema morale, tanto per non finire subito qui. Il confessore in tal caso può lasciarli in buona fede o deve togliere loro la buona fede? E’ un dubbio non da poco, perché bisognerebbe che in qualche modo il confessore in tal caso avesse molta capacità di entrare dentro all’animo altrui. Infatti, se il confessore toglie la buona fede[23], causa un grande turbamento di animo[24], nel senso che loro continueranno a fare obiettivamente il male, però con la piena consapevolezza di farlo. Cioè non riusciranno in qualche modo a staccarsi dal modo di fare consueto, ma nel contempo lo faranno con più consapevolezza e quindi con una peccaminosità diciamo così rafforzata. In tal caso direi che è quasi consigliato che il confessore, per ora, li lasci in buona fede.

Però ovviamente, è una questione delicatissima, perché loro stessi, se presentano al confessore questo problema, si vede che sono nel dubbio sulla rettitudine del loro modo di agire. E allora, se il confessore vede che togliendo a loro questa ignoranza, potrà indurli in qualche modo, per quanto all’inizio potrebbero avere delle difficoltà, a cambiare la vita e adeguarsi maggiormente alla legge di Dio, in tal caso ovviamente il consiglio va dato e l’ignoranza va tolta.

Il problema è poi quello, se veramente è possibile ammettere un dovere morale anche nei contenuti, per quanto non primi e quindi immediatamente evidenti. Bisogna dunque che ammettiamo che effettivamente sono contenuti in qualche modo derivati. Però, se è possibile, occorre che questi contenuti derivino dalla legge naturale, come per esempio la proibizione di quel famoso anticoncezionale, che va sotto il nome di pillola, chiamato così, dopo l’enciclica Humanae vitae.

Ebbene, la questione è questa: se in questo campo è possibile una ignorantia  iuris, ossia un’ignoranza effettivamente invincibile. E’ chiaro che chi ha letto l’enciclica Hamanae vitae non può ignorare, perché lì si parla con troppa chiarezza. Però non tutti, persino i nostri buoni cristiani, hanno letto la suddetta enciclica. Ed effettivamente in quei contenuti, talvolta, anche se si tratta di una cosa marginale, non voglio scostarmi dalla autorità degli inconcussi principi dell’Angelico Dottore.

Tuttavia, effettivamente, anche se non bisogna pensarlo con troppa facilità, si potrebbe pensare, che un certo andazzo dei tempi o condizionamenti culturali, come si suol dire al giorno di oggi, induca a togliere il senso di peccato in certi settori. Cosicchè, al giorno di oggi, anche una persona cristiana, scusate se dico così, dati i catechismi che ci ritroviamo, può effettivamente errare invincibilmente in alcune norme della legge naturale come questa.

Per il confessore, al limite, c’è sempre la difficoltà di come istruire la coscienza e se istruirla. Ho visto che effettivamente c’è ancora qualche minuto. Allora passiamo all’altro articolo e cioè: se la bontà della volontà nei mezzi dipende dall’intenzione del fine. Prego, cara. Sì.

… se la coscienza errante scusa il peccato solo quando è invincibile …

Si. Proprio così, cara. I casi sono due. Si dà il caso nel quale uno ignora, è in uno stato di errore o di ignoranza e non lo sa proprio, nè può saperlo, nè deve saperlo. In tal caso l’ignoranza invincibile è la conseguenza del tutto involontaria.

Sì. In quel caso. E’ così, cara. Cioè non è che si debba adeguare. Bisogna sospendere il giudizio. Non bisogna agire però contro la coscienza errante.

… agire …

E’ questo il punto. Appunto S.Tommaso sostiene che, dal punto di vista morale, un vero bisogno di agire fine a stesso praticamente non si può mai dare. Un bisogno di agire puramente imperativo, semplicemente dal punto di vista dell’azione fisicamente considerata. Cioè fare qualcosa per fare qualcosa. Invece dal punto di vista morale, là dove non mi è lecito agire, io non sono nemmeno tenuto ad agire.

E quindi un dovere di agire là dove non mi è lecito, non esiste. Quindi, io[25] lecitamente mi astengo dall’azione anche se l’azione potrà avere poi delle conseguenze deleterie. Noti bene. Però in tal caso mi è lecito, anzi doveroso astenermi dall’azione per deporre la perplessità in coscienza. Quindi, in tal caso, io non devo agire contro la coscienza errante, però non posso nemmeno agire secondo essa. Prego.

… attività …

E’ questo il punto. Vedremo anche in seguito come la coscienza, in questo frangente, anche se prevede dei mali, che nascono da una eventuale omissione dell’azione, deve sempre considerare globalmente e l’azione, con la sua eventuale omissione, e le eventuali conseguenze.

Ora, se io dicessi che mi è lecito porre una azione errata dal punto di vista pratico, cioè in fondo una azione malvagia, per evitare delle conseguenze effettivamente disastrose, io ammetterei in qualche modo un principio, che in morale non vale mai, cioè il principio del minor male. Ammetterei, noti bene, che mi è lecito compiere un male morale minore per evitare un male morale maggiore. E questo non è lecito.

Quindi, lo so che è una dottrina in qualche modo tremenda, ma in moralibus è così. Non è mai lecito fare un qualche cosa di cattivo, perchè ne venga fuori del bene o perchè sia impedito un male. L’azione che io pongo o per fare del bene negli effetti o per impedire negli effetti dei mali, deve a sua volta essere intrinsecamente buona.

Ora, l’azione non potrà mai essere moralmente intrinsecamente buona, se procede da una coscienza incerta. Bisogna che la coscienza chiarisca in qualche modo in anticipo la situazione in cui si trova. Se poi uno con coscienza incerta si è astenuto dall’agire, e il suo non agire ha avuto delle conseguenze anche effettivamente rovinose, e queste conseguenze non possono essergli imputate.

Faccio l’esempio del caso che mi è stato ipotizzato. Io sto guidando un treno e non so se inviarlo su quei poveretti che stanno lavorando sul binario oppure se lasciarlo correre dinnanzi, perchè poi cada in un abisso o da un ponte o qualcosa del genere uccidendo chissà quanta gente.

Se io non mi decido e non riesco ad avere una chiarezza morale in questo e lascio che il treno prosegua la sua strada, anche se comunque ci saranno delle vittime, questo non potrà essermi imputato moralmente parlando. E’ difficile. Che Dio ce la mandi buona. Possiamo noi avere la coscienza prontamente illuminata. là dove effettivamente in qualche modo la nostra azione o omissione comporta effetti eventualmente deleteri in seguito. Mi dica, caro.

… coscienza errante … i casi sono due … seguo la mia coscienza e faccio del male … in qual momento lì … la coscienza errante … se … non sarebbe errante … se io sapessi … se agisco senza informarmi è perché non so …

E’ vero. E’ vero. Sì. Certamente. Effettivamente la coscienza errante per un errore invincibile non è del tutto errante. In questo ha ragione. In tal caso l’errore è sempre dovuto ad una certa superficialità, negligenza, o non darsi da fare. Quindi il peccato che c’è nell’agire con una coscienza vincibilmente errante, è proprio un peccato di dabbenaggine, o di lasciar correre.

Invece, come diceva giustamente lei, la coscienza veramente errante è quella che erra invincibilmente, quella, cioè, dove io proprio non solo sono nell’errore, ma non so nemmeno di esserlo; mentre c’è l’altro caso, in cui io sono nell’errore, ma sospetto di esserlo. E però nel contempo talvolta succede psicologicamente, che uno dice: non vado troppo a indagare, perché potrei imparare troppe cose. Mi è comodo agire così.

Vede. Questo è un cercarsi un alibi. E’ il caso appunto della coscienza finta erronea.

… furbi … coscienza furbissima ….

Furbissima. E’ così. Lei ha ragione a dire che il vero errore è solo quello invincibile, ovviamente. E in tal caso, lei si riferiva anche alla confessione, perché il confessore, ovviamente, obiettivamente lo considera come peccato. Invece per il penitente in quel momento effettivamente peccato non era. E questo sì,  è immancabilmente così. Questo però è molto importante per i futuri confessori. Infatti, non dobbiamo mai fare un processo alle intenzioni. E’ cosa importante.

Il confessore può istruire il fedele solo sullo stato obiettivo della sua coscienza, non sullo stato soggettivo. Egli può dire: questo è peccato o non è peccato, obiettivamente parlando; è o non è una trasgressione della legge di Dio, ma non può dire qual era la coscienza del penitente in quel momento in cui agiva.

Eventualmente non è una cosa sempre consigliabile, perché indagare sul lato soggettivo dell’atto umano è sempre una cosa molto problematica. Tuttavia non è una cosa del tutto sbagliata se il penitente veramente può dire: “sono stato nell’errore invincibile e solo in un secondo tempo o quando vado a confessarmi me ne sono reso conto”. Non è sbagliato se lo indica al confessore. Cioè se: effettivamente, io ho fatto così e così; però in quel momento pensavo che fosse un bene; ma poi invece sono venuto a sapere che bene non era.

Quindi, il confessore sa che effettivamente lo stato d’animo del penitente, ex parte subiecti, è diverso da quello che potrebbe pensare immediatamente, se si trattasse di piena avvertenza. Questi sono problemi notevolissimi. Spero di non avervi confuso la coscienza, ma eventualmente di aver chiarito.

Ahimè, non ci avanza più molto. Allora, riposatevi bene, ché poi riprendiamo tra qualche minuto.

Fine Prima Parte

Padre Tomas Tyn, OP

 Registrazione di Amelia Monesi
Trascrizione di Sr. Matilde Nicoletti, OP – Bologna, 20 marzo 2014
Testo rivisto con note da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Varazze, 29 gennaio 2017
 
Padre Tomas Tyn, OP

S.Tommaso insiste molto sul dovere del soggetto, dovere metafisico prima che etico, di sottostare alla realtà dell’oggetto. La coscienza, prima di costituirsi regola prossima dell’atto umano, deve a sua volta sottostare alla regola della realtà del bene e del male.

S.Tommaso ci insegna che non è vero che l’azione è sempre meglio del non agire. Anche se è giusto che non bisogna mai assumere nemmeno questo principio: è sempre meglio non agire, perché così non sbaglio. Questo è contro la prudenza. Quel tale ovviamente non ha l’imperium, che è appunto questo comando che è l’ultimo atto della ragione pratico-pratica e dell’atto specificante la prudenza.

Quindi, bisogna agire, però dopo essersi consigliati. Prima che la ragione abbia una chiarezza pratica, l’azione sarebbe illecita e quindi in nessun modo doverosa. ... Notate che qui ci sono problemi notevolissimi. Anch’io in alcuni casi, astrattamente proposti, non saprei che pesci pigliare. Consideriamo per esempio, la questione del cosiddetto “male minore”. È un caso che spesso mi viene ipotizzato: quante vite devo sacrificare per salvarne altre?

Al giorno di oggi, anche una persona cristiana, dati i catechismi che ci ritroviamo, può effettivamente errare invincibilmente in alcune norme della legge naturale. Per il confessore, al limite, c’è sempre la difficoltà di come istruire la coscienza e se istruirla. Il confessore può istruire il fedele solo sullo stato obiettivo della sua coscienza, non sullo stato soggettivo. Egli può dire: questo è peccato o non è peccato, obiettivamente parlando; è o non è una trasgressione della legge di Dio, ma non può dire qual era la coscienza del penitente in quel momento in cui agiva.


[1] Da qui comprendiamo la famosa frase del Papa “chi sono io per giudicare?”, che è riferita non alla questione se l’omosessualità sia o non sia lecita in se stessa, ma alla condizione soggettiva dell’omosessuale, il quale, per vari motivi, potrebbe peccare senza rendersi conto che è peccato.

[2] Sono oggetti relativi all’agire spontaneo o istintivo, circa i quali si può fare così o cosà, senza preoccuparsi di chiedersi se sono buoni o cattivi, perché in fin dei conti si suppone che siano buoni, giacchè qualunque azione umana cosciente, per quanto possa essere insignificante, non sfugge mai dalla categoria del bene e del male.

[3] Alla volontà appare bene la lussuria, benchè essa secondo ragione male.

[4] Ritenendo che la lussuria sia un bene

[5] Gli presenta l’astinenza come un male.

[6] Agisce obbiettivamente secondo ragione; obbiettivamente fa bene, ma non soggettivamente.

[7] Soggettivo.

[8] Ma non in senso oggettivo.

[9] Il vero bene in sé.

[10] Si astiene dalla lussuria.

[11] La verità di fede.

[12] La intende.

[13] E, preliminarmente, all’intelletto.

[14] “Sub contraria specie”, direbbe Lutero.

[15] Provoca.

[16] Deve sospendere il giudizio, e far chiarezza sul da farsi.

[17] Non deve.

[18] Difettosa.

[19] Non si deve dire.

[20] Equilibrata

[21] Occorre evitare anche il difetto opposto del rigorismo o del legalismo, per il quale, in nome di una legge positiva, non rispetto le esigenze che possono nascere da certe circostanze o certe situazioni.

[22] La sua opinione.

[23] La buona fede suppone la buona volontà. Qui per “buona fede” Padre Tomas intende semplicemente l’errore, perchè il soggetto, da come appare successivamente, non ha buona volontà e vuol continuare  a peccare. Chi veramente è in buona fede, ha buona volontà, e se viene illuminato, ha piacere e non si turba. Allora è chiaro che se gli si mostra l’errore, e si turba vuol dire che non c’ è buona fede e non intende convertirsi.

[24] E’ il caso nel quale il confessore non riesce a correggere la volontà del penitente, per cui questi continuerà a peccare, ed anzi più gravemente. E’ inutile allora fargli capire che sbaglia. 

[25] Supponendo che io sia in buona fede.

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