Tomisti a confronto con Severino sul problema della creazione - Prima Parte (1/3)

 

Tomisti a confronto con Severino sul problema della creazione

Parte Prima (1/3)

Da sempre Tu Sei

Sal 93,2

Un’impresa votata al fallimento

Nel clima filosofico e teologico ispirato dal Concilio Vaticano II negli anni ’60 del secolo scorso all’Università Cattolica di Milano fiorì un interessante tentativo di aprire il tomismo ad un più ampio confronto col pensiero moderno secondo le indicazioni del Concilio soprattutto ad opera di Gustavo Bontadini, che ebbe l’idea di tentare una più rigorosa definizione del concetto di creazione divina  col valersi dell’ontologia di Parmenide[1], allora valorizzato da Heidegger convinto che dai tempi di Parmenide la filosofia avesse perduto la percezione dell’essere  e dell’esistenza per fermarsi alla considerazione dell’ente, dell’idea e dell’essenza.

Questi tomisti, influenzati dalla concezione parmenidea dell’essere, dalla quale risulta che il divenire e quindi il passaggio dal non-essere all’essere è contradditorio o impossibile, credono (influenzati da Severino) che la formula dogmatica creatio ex nihilo sappia di nichilismo, per cui si sentono in dovere di esprimere il dogma della creazione in modo tale da non far uso della categoria del non-essere, ossia del nulla, perché dicono che il nulla non esiste e l’essere non può essere negato dal non-essere.

Ora, grande merito effettivo di Parmenide è stato quello che non si può dire che l’essere non è. Si tratta nientedimeno che del famoso e fondamentalissimo principio di non-contraddizione, sacro anche per Aristotele e San Tommaso. Solo che questi tomisti piuttosto sprovveduti, credendo di essere più acuti di San Tommaso, dimenticano che Tommaso, spiegando meglio il principio di non-contraddizione ed illustrando il dogma della creazione, chiarisce che nell’affermare la provenienza della creatura dal nulla, la Chiesa non intende dire che la creatura è e non è – cosa assurda -, ma semplicemente che non esisteva prima di essere creata. Prima era solo pensata da Dio, poi Dio l’ha realizzata. Che cosa c’è di assurdo in tutto ciò? La Scrittura paragona in modo del tutto legittimo, per analogia[2], Dio all’artefice che realizza un’idea della sua mente.

Il creare non comporta una simultaneità di essere e non essere, ma un passaggio dal non-essere all’essere. Per questo, per evitare questo concetto di passaggio dal prima al poi, affermano che la creazione è una semplice dipendenza nell’essere, una relazione dell’ente creato a Dio, confondendo la creazione con la conservazione.

Ciò vuol dire allora che non ammettono la successione temporale del prima e del poi e quindi negano l’esistenza del tempo; non riconoscono un succedersi di passato, presente e futuro, ma per loro, siccome l’essere è uno, tutto è uno, tutto è adesso, tutto è un istante e tutto è eterno. Col pretesto che il mondo in Dio è eterno come Dio, chiudono gli occhi (quando fa loro comodo) alla realtà temporale, diveniente e contingente che hanno sotto il naso.

Da qui viene che non ammettono un inizio del tempo creato da Dio, e che quindi Dio esisteva da solo prima di creare, ma per loro il mondo esiste ab aeterno, andando così chiaramente contro il dogma della creazione.

Il cattolico Bontadini comunque raccolse l’istanza heideggeriana, estranea all’indagine sul tema della creazione, e volle utilizzare questo interesse per l’einai parmenideo per una formulazione rigorizzata della dottrina tomista della creazione a suo giudizio suscettibile di assumere una configurazione radicalmente incontrovertibile che ancora non possedeva, una via più sicura e più breve e più certa per arrivare là dove erano arrivati Tommaso e il dogma cattolico.

Bontadini pensò di trovare questa via breve accantonando o saltando il principio di causalità ed utilizzando solo il principio di non contraddizione. Bastava secondo lui porsi semplicemente sul piano della logica e considerare la nozione dell’essere, che non ammette di essere contraddetto.

Egli però non si pose davanti l’esse analogico tomista, uno e molteplice, sensibile e intellegibile, mutevole e immutabile, causa ed effetto, ma l’einai di Parmenide, essere uno, unico, assoluto, totale, necessario et eterno, immediatamente intuìto nella sua assolutezza ed unità. E lo chiamò l’«intero». Esso doveva costituire quella che Bontadini chiamò «unità dell’esperienza», come a dire che noi abbiamo esperienza dell’essere come unità, come uno, alla maniera di Parmenide.

Per questo Bontadini concepì la metafisica alla maniera hegeliana come scienza dell’unità o della sintesi prima ancora che scienza dell’ente in quanto ente. Ma bisogna osservare che l’intelletto comincia con l’affermazione e non con la negazione. Prima coglie l’ente e poi il non-ente. Comincia col sapere che l’ente esiste, e poi capisce che è impossibile che l’ente simultaneamente sia e non sia. Comincia con lo sperimentare l’identità e non il contradditorio, comincia col distinguere e poi passa ad unire.

Così Bontadini preferì il concetto parmenideo dell’essere come uno-tutto al concetto analogico e plurisenso di Tommaso. Per Bontadini il compito del metafisico è unificare e sciogliere la contraddizione insita tra l’essere come nel dato immediato della coscienza e l’esperienza sensibile, che contraddice alla ragione.

La ragione deve far trionfare l’identità dell’essere sulla vanità e l’apparenza dell’esperienza sensibile, una impostazione che richiama al panteismo indiano e buddista ed è in perfetta linea della metafisica che si può ricavare da Parmenide, i cui estremi sviluppi erano già presenti nell’attualismo gentiliano, del quale Bontadini fu ammiratore in gioventù, pur senza assumere l’elemento storicistico-dinamico e fermandosi all’aspetto logico, peraltro legato alla dialettica hegeliana.

Per questo, Bontadini pensò di poter costruire una «metafisica dell’esperienza», tale da poter evitare i tre gradi di astrazione richiesti dalla metafisica di Tommaso, per il quale la nozione dell’essere è sì una nozione spontanea ed universale, ma l’essere non è oggetto di un’intuizione originaria esplicita ed immediata di coscienza, come fosse una semplice idea, come credeva Cartesio, ma è colto solo partendo dall’esperienza delle cose esterne.

Così, per Tommaso come per Aristotele, dall’esperienza si arriva alla fisica (1° grado), dalla fisica si passa alla matematica (2° grado) e da questa si giunge alla metafisica (3° grado). A questo punto il metafisico forma il concetto dell’ente in quanto ente, oggetto della metafisica.

Invece per Bontadini la metafisica non ha per oggetto l’ente, ricavato dall’esperienza sensibile ma l’essere, oggetto di un’intuizione immediata ed originaria, come per Parmenide[3]. E quale essere, dunque? Quello di Parmenide: l’essere uno ed unico, il solo essere esistente, essere totale ed assoluto, che Bontadini chiama «intero».

Per questo per Bontadini la metafisica non comporta un giudizio di esistenza, ma un’esperienza immediata ed originaria, si potrebbe dire con Rahner e Lotz, un’esperienza trascendentale; è esperienza dell’unità. Per questo egli parla di «unità dell’esperienza». Ma perché unità? Perché è esperienza dell’essere, che è uno, ossia l’essere di Parmenide.

Viene in mente l’Uno di Plotino, se non fosse che questo Uno è al di sopra dell’essere, mentre per Bontadini è l’essere. Inoltre, per Plotino il mondo emana dall’Uno, mentre per Bontadini è immanente all’Uno. Più vicino a Bontadini è qui Hegel con la sua Ganzheit o Totalität, se non fosse che mentre il Tutto hegeliano include il mutamento, il Tutto bontadiniano è immutabile.

E l’essere di Bontadini non si coglie, come dice San Tommaso, in un giudizio di esistenza al 3° grado di astrazione[4], ma, come ho detto, in un’intuizione immediata e originaria ed inoltre coscienziale, come per Cartesio, giacchè per Bontadini il pensiero è intrascendibile e non coglie una realtà esterna, ma solo dati di coscienza.

Con questi presupposti Bontadini pensò che la dimostrazione breve dell’esistenza di Dio consistesse essenzialmente non – come aveva fatto Tommaso - in un processo induttivo,  non nel partire dall’esperienza dell’ente materiale, sensibile, mosso, diveniente e contingente per concludere a un ente causa prima, produttrice, motore immobile, necessario; insomma, non consistesse  nel passare da un effetto alla causa efficiente e agente, come causa produttrice di un effetto, ma fosse sufficiente mostrare che se il divenire fosse l’assoluto, cadremmo nell’assurdo e dunque occorre ammettere il vero assoluto che è Dio.

Bontadini ha lasciato dei discepoli che continuano la sua impresa, sforzandosi di elaborare un concetto di creazione sulla base di una conciliazione dell’esse tomistico con l’einai parmenideo, cosa in realtà impossibile, perché mentre l’esse tomistico è analogico, uno e molteplice, distingue il pensiero dall’essere, Dio dal mondo, ammette  il divenire, il contingente, il diverso, il differente, il distinto,  il graduato, il gerarchico e il differente, l’essere parmenideo è univoco, è uno solo, è solo l’essere necessario, è Dio-mondo (l’«Intero»), è indistinto e piatto, identifica pensiero ed essere, esclude il divenire e il gerarchico, ogni molteplicità, differenza e diversità.

Unico punto di contatto, peraltro molto importante, fra Tommaso e Parmenide è che entrambi ammettono l’essere semplice, uno, eterno, immutabile e necessario e il principio di non contraddizione. Ma anche qui non c’è pieno accordo, perché mentre Tommaso distingue l’uno dal molteplice, il semplice dal composto, l’eterno e il necessario dal temporale e contingente, Parmenide li confonde nell’unità monistica dell’essere, e mentre Tommaso include il divenire nella non-contraddizione, per Parmenide il divenire è contradditorio.

Questo bisogno di affermare l’assoluto, l’uno, l’immutabile, l’universale, il necessario e l’eterno nella cultura di oggi relativista, evoluzionista, storicista e nichilista è altamente lodevole. E che dei tomisti abbiano trovato in ciò come alleati Parmenide e Severino lo si può comprendere. Quello che di questa operazione è inaccettabile da un punto di vista filosofico e cristiano è l’esito panteista che provoca in morale l’illusione di possedere una libertà divina al di fuori di ogni regola morale vista come ottusa umiliazione della genialità e creatività dello spirito che trascende ed eleva se stesso nello spazio infinito dell’essere e del puro pensiero.

Il bersaglio principale di questa rivendicazione dell’essere contro il divenire, dell’eterno contro il Dio in vicenda, della filosofia speculativa contro la teologia favolistica sembrerebbe essere un certo hegelismo popolare e dilettante. Ma, se andiamo ad esaminare a fondo le radici metafisiche del bontadinismo con quelle hegeliane, mediate da Severino, troveremo che nell’uno e nell’altro caso il divenire è frainteso nella sua concreta esistenzialità e ridotto a categorie astratte logico-dialettiche, vuoi per farne l’Assoluto, come in Hegel, vuoi per farne la teofania dell’Essere, come in Severino e Bontadini.

È interessante peraltro come il tentativo di Bontadini di basare l’affermazione teologica su di un concetto monistico dell’essere abbia un precedente in Meister Eckhart, già ammirato da Hegel. Eckhart infatti, forse sotto l’influsso del neoplatonismo di Plotino e di Scoto Eriugena, concepì un sapere teologico nella luce dell’eterno, che portava a vedere solo l’essere divino e la creatura annullata come creatura extra Deum ed eternizzata in Dio[5].

Diversa, drammatica ed infelice fu la vicenda di Emanuele Severino.  Egli pure cattolico, in quanto docente dell’Università cattolica, nella scoperta di Parmenide fu talmente affascinato dalla sua concezione dell’essere, che abbandonò la concezione cattolica dell’essere, comportante il realismo e il creazionismo, per abbracciare quella parmenidea comportante l’idealismo e il panteismo[6].

Per capire il divenire senza offendere l’essere bisogna essere realisti

La ragione del filosofo indubbiamente fatica a scorgere l’intellegibilità del divenire, che sembra sfuggire alla ragione.  Se questo filosofo è troppo preso dalle sue idee, come capita nell’idealismo, è tentato di accettare del reale solo ciò che quadra perfettamente con le sue idee. Ma d’altra parte, dato che il conoscere umano è congiunzione di intelletto e di senso, il filosofo gioisce dell’esperienza sensibile anche se indubbiamente il suo spirito trova la massima gioia nell’esperienza spirituale dell’autocoscienza e della metafisica, quella che Bontadini chiama «unità dell’esperienza». 

Per questo non è normale che un filosofo provi disagio, ripugnanza o diffidenza per quanto gli danno i sensi, l’esperienza e la stessa intelligenza, ossia per le cose che gli stanno attorno, per il suo io corporeo, per il divenire e gli enti contingenti e temporali, generabili e corruttibili del mondo materiale. Egli gode del fatto che i sensi gli danno la verità sensibile.

Se prova disagio e sconcerto o addirittura scandalo, non è un buon segno, perché dà prova di mancanza di umiltà e di insofferenza per la condizione umana del conoscere, con la pretesa di dominare talmente il reale, da ridurlo alle sue idee. O altrimenti esistono quei filosofi così turbati dal mondo dei sensi e spaventati per il conflitto dello spirito con la carne, che si chiudono nelle loro idee con la pretesa di procedere solo per deduzioni precludendosi così quel contatto col mondo materiale che pur servirebbe loro per una vera maturità umana e perfezione morale 

Certamente nella pratica della sensibilità il filosofo si scopre fallibile ed influenzabile dalle passioni; ma si sente anche capace di correggersi, con il controllo dell’emotività e un’esperienza più attenta. Le immagini, i concetti e i ricordi delle cose, che egli ha ricavato dalle cose, formano per lui un mondo e un tesoro interiore, che lo stimolano a un sempre rinnovato e più approfondito contatto con le cose, per il quale aumenta continuamente il suo sapere.

Il rischio dell’idealista è quello di confondere l’esperienza spirituale con quella sensibile, perchè solo questa è un’esperienza immediata. L’esperienza spirituale, l’esperienza della coscienza, in noi animali ragionevoli, non è originaria, ma suppone l’esperienza sensibile. Solo il puro spirito, l’angelo, che non ha sensi, parte direttamente dall’autocoscienza.

Inoltre il rischio dell’idealista, che fatica ad applicare la logica materiale e si ferma solo a quella formale, magari sa dedurre, ma la materia del ragionare, anzichè essere un approfondimento della realtà, rischia di essere una successione di esperienze soggettive o di idee brillanti, ma senza fondamento reale.

Viceversa, la ragione del filosofo realista, al quale interessa tutto il reale, a partire da quello materiale, si accorge che gli enti divenienti, in movimento, generabili e corruttibili, spesso effimeri, passeggeri, transitori  e fuggevoli, tuttavia sono conoscibili  e intellegibili, esiste una quidditas rei materialis,  della quale si può avere scienza – la fisica - e nonostante la loro precarietà  e provvisorietà,  nonostante il loro scorrere e fluire, finire, svanire  e sparire, hanno una loro consistenza, identità e necessità, giacchè, nel momento in cui sono, non possono non essere.

Non si tratta di momenti in cui sono e non sono, il che è impossibile. Ma in quei momenti sono un già e un non ancora, un trascorre e un passare, un avvenire e un sopraggiungere. Li vediamo col senso e con l’intelletto. Contra factum non valet argumentum.

 Il realista non percepisce solo la causa formale, non si ferma alle essenze, ma coglie anche il loro esistere concreto extramentale, coglie anche la causa agente e quella efficiente, parte dalla percezione dell’agire in atto per cogliere l’essere dell’agente, dall’effetto sa risalire alla causa. Per questo si pone la questione di chi ha creato il mondo e sa raggiungere il giusto concetto di creazione.

Ragione ed esperienza

Tanto i sensi quanto l’intelletto danno la verità delle cose. Se i sensi non potessero cogliere la verità, neppure la ragione potrebbe coglierla. La certezza della coscienza è maggiore di quella del senso, ma se non avessimo la certezza del senso, non potremmo raggiungere neppure quella della coscienza. Anzi l’esperienza sensibile può smentire certe illusioni della coscienza.

Il senso ha un suo giudizio per conto proprio, senza che occorra che sia corretto dall’intelletto. La verità intellettuale è più certa di quella sensibile, ma anche il senso dà per conto proprio il vero nel suo campo indipendentemente e antecedentemente alla ragione. Anche gli animali, benchè privi di ragione, sanno cogliere la verità nell’orizzonte del senso e anche meglio di noi.  

L’intelletto può correggere gli errori del senso, ma anche il senso può correggere gli errori dell’intelletto. Le cose materiali sono più evidenti di quelle spirituali rispetto a noi, benchè queste lo siano maggiormente in se stesse, perché per noi il vero spirituale è mediato dal vero sensibile.  Nei primi princìpi della ragione tutti conoscono la verità. Ma la conoscenza delle cose dello spirito è per noi più difficile di quelle materiali.

La percezione del divenire è più facile e più evidente per noi della percezione dell’essere. Certo è impossibile dubitare dell’esistenza dell’essere, ma è altrettanto impossibile dubitare della realtà del divenire. Tutti sappiamo che l’essere esiste, ma è difficile prenderne coscienza.

I sensi possono ingannare, ma anche l’intelletto può ingannare. Sono peggiori gli errori dell’intelletto che quelli dei sensi. Tuttavia i primi possono essere più scusabili. Chi non riconosce la verità spirituale, è scusabile, ma chi non riconosce quella sensibile o è un demente o mente o non gli funzionano gli organi di senso.

Quando il senso inganna, anche l’intelletto non capisce. E così pure, se l’intelletto è nell’errore, non si arrende neppure davanti all’evidenza del senso. L’idealista è così schiavo del suo errore intellettuale, che non si arrende neppure davanti alla più evidente verità del senso.

Per quanto riguarda le esigenze della ragione, indubbiamente essa chiede la non-contraddizione dell’essere, ma la esige non per imporla all’essere, bensì perchè è la stessa identità dell’essere, diveniente o immutabile, che fonda il principio di non contraddizione. Se possiamo dire non est simul affirmare et negare è perchè non è possibile che l’essere sia e non-sia, si tratti di essere diveniente o non diveniente.

Non è dunque la ragione che deve dar senso o forma intellegibile e coerente alla realtà, come credeva Kant, ma è la realtà, mutevole o immutabile che sia, è la realtà creata da Dio creatore, che ha l’ufficio di istruire la nostra ragione.

Il nostro intelletto, partendo dall’esperienza di questo o quell’ente, concepisce certamente in modo spontaneo l’ente universale e intuisce l’essere presente in tutte le cose nel suo stesso io. Ma davanti a questi enti prodotti in modo intelligente si accorge che non hanno in sé la ragione del proprio essere e si chiede allora chi li ha causato, chi li ha ideati, progettati, voluti, modellati, fatti o prodotti.

Così la ragione giunge alla scoperta di Dio come causa prima, necessaria, immutabile ed eterna, verità e bontà infinite, unità e totalità assolute, Dio sapiente e onnipotente, fine ultimo, sommo e primo ente, esistente prima di tutti i secoli e prima del tempo, creatore del cielo o della terra,  essere sussistente e semplicissimo, atto puro di essere senza potenza, attuazione di tutti i possibili, ente in cui l’essenza coincide col suo essere, l’essere coincide con l’agire, identità di pensiero ed essere, nòesis noèseos, autocoscienza assoluta ed esemplare assoluto di tutte le cose.

La nozione del divenire

L’ostinato attaccamento di Bontadini e Severino al monismo univocista immobilistico di Parmenide, di due pensatori formati nella Chiesa cattolica, assunti ad insegnare in un’Università cattolica, non ignari del tomismo, ci fa capire quanto occorra essere vigilanti nei confronti di errori filosofici e metafisici, che  danno l’illusione di una rigorosa speculazione metafisica, ma in realtà ci fanno evadere dalle più elementari evidenze dell’esperienza e della ragione naturale, qual è quella dell’evidenza del divenire e della storia nello scorrere del tempo e nelle dimensioni dello spazio.

Il divenire non è affatto, come crede Severino, un annullamento dell’essere. Il divenire è passaggio dall’essere potenziale all’essere attuale, dalla potenza all’atto, dal possibile all’attuale, dal non-essere all’essere. In ciò non c’è alcuna contraddizione, non c’è nessun annullamento.

Nello spazio e nel tempo, e nella vita dello spirito, il cambiamento, il mutamento, lo svolgimento, l’evoluzione, la storia, il moto locale, lo spostamento, la trasformazione, l’alterazione, la generazione, la corruzione, l’aggregazione, la dissoluzione, l’aumento, il decremento, il progresso, l’esplicitazione, la retrocessione, il regresso sono fatti reali, palmari, evidenti, indiscutibili, sotto gli occhi di tutti, anche degli animali. Non sono solo fatti d’esperienza sensibile, come crede Bontadini, ma anche di ragione. Sono fatti razionali, razionalmente intellegibili, conoscibili e concettualizzabili.

Riprendiamo un famoso esempio con il quale Severino vorrebbe convincerci che nelle trasformazioni fisiche occorre ammettere l’eternità sia del diveniente che del divenuto per evitare la contraddizione che ci sarebbe nel sostenere che il diveniente non c’è più quanto si attua il divenuto e che questo non c’è ancora quando c’è il diveniente.

A Severino non va bene spiegare il fatto che il legno, bruciando, diventa cenere col fatto che nel processo di combustione la materia prima comune al legno e alla cenere resta la stessa e muta la forma sostanziale da quella del legno a quella della cenere. Secondo lui il sostenere che il legno non è più legno è contradditorio e il sostenere che la cenere non è ancora cenere è pure contradditorio perchè egli con un ingiustificato colpo di mano cosmologico toglie il «non più» e il «non ancora», ossia toglie il tempo, perché il tempo secondo lui non è misura del moto, ma successione di istanti eterni, per cui non c’è un prima e un poi connessi col divenire, che non esiste, ma solo col succedersi dell’apparire e lo scomparire dell’essere.

Severino allora, per togliere questa contraddizione implicata dal divenire e dal tempo, non trova di meglio che affermare che tanto il legno che la cenere sono eterni, precisando che nel processo di combustione non si dà un vero divenire, ma si dà la scomparsa del legno, che diventa invisibile ai nostri occhi e la comparsa della cenere, che esisteva già dall’eternità, ma che non vedevamo prima che comparisse.

Osserviamo molto semplicemente contro la costruzione immaginaria di Severino, del tutto contraria al buon senso, che se nel fatto che il legno diventa cenere perché bruciato dal fuoco, il legno non c’è più non perché è diventato niente, ma perché la sua materia ha preso la materia della cenere. Nessuna creatura cade nel nulla o ne annulla un’altra, perchè l’essere non dipende dalla creatura, ma dal creatore, il quale soltanto crea l’essere e se volesse, potrebbe annullarlo. Ma, come diceva il Lavoisier: in natura nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Gli elementi chimici sono sempre quelli.

E se è vero che nel processo di combustione legno e cenere si escludono a vicenda, questo non vuol dire che il processo per il quale il legno diventa cenere sia contradditorio. Contraddizione ci sarebbe ad ammettere un’esistenza simultanea di legno e cenere, ma l’esperienza attesta che prima c’è il legno e poi c’è la cenere. Quando c’è il legno non c’è la cenere e quando c’è la cenere non c’è il legno.

Fine Prima Parte (1/3)

P. Giovanni Cavalcoli   

Fontanellato, 25 gennaio 2024

Grande merito effettivo di Parmenide è stato quello che non si può dire che l’essere non è. Si tratta nientedimeno che del famoso e fondamentalissimo principio di non-contraddizione, sacro anche per Aristotele e San Tommaso. Solo che questi tomisti piuttosto sprovveduti, credendo di essere più acuti di San Tommaso, dimenticano che Tommaso, spiegando meglio il principio di non-contraddizione ed illustrando il dogma della creazione, chiarisce che nell’affermare la provenienza della creatura dal nulla, la Chiesa non intende dire che la creatura è e non è – cosa assurda -, ma semplicemente che non esisteva prima di essere creata. Prima era solo pensata da Dio, poi Dio l’ha realizzata. Che cosa c’è di assurdo in tutto ciò? La Scrittura paragona in modo del tutto legittimo, per analogia, Dio all’artefice che realizza un’idea della sua mente.

Il creare non comporta una simultaneità di essere e non essere, ma un passaggio dal non-essere all’essere. Per questo, per evitare questo concetto di passaggio dal prima al poi, affermano che la creazione è una semplice dipendenza nell’essere, una relazione dell’ente creato a Dio, confondendo la creazione con la conservazione.

Unico punto di contatto, peraltro molto importante, fra Tommaso e Parmenide è che entrambi ammettono l’essere semplice, uno, eterno, immutabile e necessario e il principio di non contraddizione. Ma anche qui non c’è pieno accordo, perché mentre Tommaso distingue l’uno dal molteplice, il semplice dal composto, l’eterno e il necessario dal temporale e contingente, Parmenide li confonde nell’unità monistica dell’essere, e mentre Tommaso include il divenire nella non-contraddizione, per Parmenide il divenire è contradditorio.

Immagine da Internet:
- Dio crea l’universo, Miniatura dal Codex Vindobonensis 2554, Bibbia illustrata del 1220-1230 circa


[1] Vedi, per esempio di Bontadini, Protologia, Edizioni ESD, Bologna 2023; Antonino Postorino, Il concetto della «creatio ex nihilo». Ipoteca nichilistica e rigorizzazione metafisica, in Sacra Doctrina, 1, 2017, pp.199-269; Marco Berlanda, L’unica svolta di Bontadini. Dal fideismo attualistico alla metafisica dell’essere, Vita e Pensiero, Milano 2022.

[2] Chi non sa ragionare per analogia, è meglio che non faccia né il filosofo, né il metafisico, né il teologo, ma che si dedichi ad occupazioni più modeste, ammesso che riesca anche lì.

[3] Si distingue dall’essere degli ontologisti, un quanto il loro essere è bensì l’essere divino, ma implicito nell’essere universale o comune.

[4] Vedi J. Maritain, Court traité de l’existence et de l’existant, Paul Hartmann Editeur, Paris 1947.

[5] Cf Giuseppe Faggin, Meister Eckhart e la mistica tedesca preprotestante, Fratelli Bocca Editori, Milano 1946; Kurt Ruh, Meister Eckhart, teologo predicatore mistico, Morcelliana, Brescia 1989; Alain de Libera, Meister Eckhart e la mistica renana, Jacabook, Milano 1998; Alois M.Haas, Introduzione a Meister Eckhart, Nardini Editore, Firenze 1995; Meister Eckhart, La via del distacco, Mondadori Editore, Milano 1995; Maestro Eckhart, a cura di Giuseppe Barzaghi, Edizioni San Paolo, 2002; Suzanne Eck, «Jetez-vous ern Dieu». Initiation à MaÎtre Eckhart, Les Editions du Cerf, Paris 2003.

[6] Ciò provocò nel 1970 un intervento censorio della Congregazione per la Dottrina della Fede, che dichiarava l’incompatibilità del suo pensiero con la dottrina cattolica. A seguito di questo intervento Severino fu esonerato dall’insegnamento. Vedi quanto Severino stesso narra di questa vicenda e la difesa del suo pensiero che conferma le accuse di nichilismo da lui fatte alla dottrina Chiesa nel suo libro Essenza del nichilismo, Adelphi Edizioni, Milano 1995, pp.317-387. Sul nichilismo, vedi Vittorio Possenti, Il nichilismo teoretico e la «morte della metafisica», Armando Editore, Roma1995.

10 commenti:

  1. Caro Padre, ma le pare che Bontadini e Severino non si sono accorti del molteplice? Semplicemente affermano che il molteplice sta nel pensiero, che la trascendenza sta nel fatto che il mio pensiero non è quello del Dio-Tutto. Idealismo oggettivo alla Schopenhauer.

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    1. Caro Sconosciuto,
      avrei piacere che lei mi chiarisse il collegamento che lei fa di Bontadini e Severino con Schopenhauer.

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    2. In Schopenhauer la realtà è una rappresentazione del soggetto, ma non è creata dal soggetto stesso, esiste una realtà indipendente dalla mente umana, ma la possiamo conoscere solo attraverso le nostre rappresentazioni.

      A me pare che questa forma di idealismo non tolga nulla realismo, rendendo la contrapposizione un po' fittizia, con Schopenhauer che si dichiarava apertamente idealista, Bontadini che era infastidito dall'accusa di esserlo e Severino che sembra volersi porre oltre ad entrambe le etichette.

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    3. Caro Anonimo,
      io direi che la dottrina della conoscenza può avere soltanto due forme fondamentali. O l’oggetto della conoscenza è l’idea, e allora abbiamo l’idealismo. O l’oggetto della conoscenza è la realtà, e allora abbiamo il realismo. Non ci sono altre possibilità.
      Quello che può accadere è che un filosofo mescoli realismo e idealismo. Per esempio, Bontadini, che io conosco bene, apprezza l’idealismo e lo considera inconfutabile. Per questo non mi risulta che egli rifiutasse l’appellativo di idealista. Conosco l’idealismo da sessant’anni, e posso confermare che Bontadini è idealista.
      Tuttavia riconosco anche che egli ha interesse per il tema dell’essere e in questo senso c’è in lui una presenza di realismo, che egli chiama metafisica classica.
      Per quanto riguarda Severino, il discorso è simile a quello di Bontadini. Anch’egli si può considerare realista, perché pone l’essere come oggetto della filosofia. È tuttavia idealista in quanto sostiene che le cose sono delle apparizioni dell’essere.
      Per quanto riguarda Schopenhauer, egli è idealista in quanto per lui il mondo è una rappresentazione. Mentre, come dice lei, è realista in quanto considera il mondo come indipendente dal soggetto.
      Un’ultima osservazione: il realismo è un’attitudine dell’intelletto, che non può essere evitata, perché corrisponde al funzionamento normale dell’intelletto. Invece l’idealismo è una disfunzione della conoscenza. Succede allora che è possibile un realismo completamente libero dall’idealismo, come per esempio quello di San Tommaso. Viceversa è impossibile un puro idealismo, perché in ogni caso l’intelletto, come ho detto, è naturalmente realista. Così similmente è possibile un soggetto totalmente sano, mentre ogni malato, nonostante la sua malattia, conserva in parte la salute. In poche parole: il realismo corrisponde al sano intelletto, che rappresenta la realtà così com’è; l’idealismo è l’intelletto che confonde il reale con le sue idee.

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    4. In questa accezione, solo Dio può conoscere la filosofia di san Tommaso in modo realista, noi mortali solo secondo il nostro grado di idealismo, non le pare?

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    5. Caro Anonimo,
      certamente Dio conosce la filosofia di San Tommaso, ma questa filosofia San Tommaso l’ha scritta per noi, è un’opera umana, frutto della sua ragione e quindi accessibile alla nostra ragione mediante i segni del linguaggio e i concetti che l’Aquinate ha espresso nella sua opera.
      Quindi, non solo Dio, ma anche noi possiamo conoscere la filosofia di San Tommaso in modo realista, ossia la possiamo conoscere così come Tommaso intende comunicarcela, in quanto fondata sulla realtà.
      Per quanto riguarda l’idealismo, le ho già detto che è un metodo conoscitivo, che porta a cadere nell’errore, perché in questo caso il soggetto bada troppo alle proprie idee e troppo poco alla realtà, per cui facilmente si fa l’idea o concetto di qualcosa, che non corrisponde alla realtà di quella cosa.
      Come le ho già detto, anche l’idealista non può fare a meno di essere realista, perché il rapporto della mente con la realtà è un rapporto naturale, e anche quando l’idealista sostiene il suo idealismo, pretende di dire le cose come sono, cioè necessariamente fa il realista. Tanto è vero che la confutazione dell’idealismo, l’idealista se la fa da solo, perché, per sostenere l’idealismo, deve essere per forza realista in quanto vuole sostenere che quanto dice è vero, che cioè corrisponde alla realtà, e questa è appunto la tesi del realismo.

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  2. In un articolo della Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, leggo Bontadini che scrive:

    "il divenire, per il sottoscritto, non solo è incontraddittorio, ma che sia tale lo si sa originariamente, sempre per la elementare ragione che esso è riconosciuto come reale. Ma allora (inevitabile insistenza): dove va a finire la «molla» della dimostrazione metafisica - il « teorema di creazione » - che consiste nel toglimento della contraddizione? La molla c'è - anche qui debbo subito essere esplicito - in quanto il divenire offre una tessera di contraddittorietà nel suo presentarsi nell'esperienza."

    Mi pare che questa sia la posizione che assume anche Severino quando commenta la filosofia di Leopardi, cioè che all'esperienza la morte degli enti appare come il loro venir meno, altrimenti non piangeremmo sulla morte dei nostri cari.

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    1. Caro Anonimo,
      questa citazione di Bontadini è molto interessante, perché secondo me manifesta la sofferenza del suo animo, che non sapeva decidersi tra il riconoscimento della realtà del divenire, che è frutto del realismo tomista, ed è un dato d’esperienza, e il divenire come apparenza, che è invece legato all’idealismo di Gentile.
      L’esigenza di Bontadini, del tutto legittima, era quella del rispetto del principio di non contraddizione, che è il principio fondamentale della ragione. Senonché egli, insieme con Severino, aveva accantonato la formula aristotelica di questo principio e si basava solo su Parmenide.
      Ma succedeva che in questo modo il divenire appariva contradditorio. Severino lo dichiarava senz’altro contradditorio e risolveva il divenire nella molteplicità successiva delle apparizioni dell’essere eterno.
      Bontadini affronta il problema del divenire in relazione al problema della dimostrazione dell’esistenza di Dio e crede di poter trovare una via breve più rigorosa di quella di San Tommaso, la quale non utilizzi il principio della causalità efficiente, ma si basi soltanto sull’uso del principio di non-contraddizione.
      Nel brano citato, Bontadini esprime questa possibilità di dimostrare l’esistenza di Dio togliendo l’apparenza di contradditorietà del divenire. Egli infatti diceva che se del divenire facciamo un assoluto, il divenire diventa veramente contradditorio, per cui, per evitare questa contraddizione, era necessario ammettere l’esistenza di Dio.
      Questo procedimento è certamente corretto dal punto di vista logico, solo che Bontadini, che voleva fare metafisica, influenzato dall’idealismo gentiliano, si pone da un punto di vista soltanto logico, trascurando che il problema dell’esistenza di Dio richiede sì la logica, ma è squisitamente un problema di fondazione della realtà. È qui che Bontadini fallisce, perché gli idealisti sono chiusi nelle loro idee.
      Questo errore portò Bontadini a trascurare l’uso del principio di causalità, per il quale passiamo dall’effetto alla causa. L’aver trascurato l’uso di questo principio portò Bontadini ad un concetto sbagliato della creazione. Infatti il concetto giusto, che è sia di ragione che di fede, è che la creazione è la produzione di tutto l’ente dal nulla.
      Senonché Bontadini, influenzato da Parmenide, che dice che il non-essere non è, si rifiutò di usare il concetto del nulla nel teorema della creazione, per cui risultava che la creatura non proviene dal nulla, ma da Dio, cosa che implica se non proprio il panteismo, una tendenza al panteismo.
      Per quanto riguarda Severino, egli, come è noto, non ha alcun interesse a dimostrare l’esistenza di Dio, in quanto ente sommo tra molti enti, perché per lui, come per Parmenide, esiste un unico essere, che è l’essere eterno e necessario. Per questo, per Severino, gli enti molteplici diventano molteplici apparizioni dell’Essere e la loro corruzione corrisponde alla loro scomparsa. Quanto all’essere, non occorre che ne dimostriamo l’esistenza, perché secondo lui è immediatamente evidente.

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  3. Buongiorno Padre, lei scrive in una risposta
    che “Bontadini, influenzato da Parmenide, che dice che il non-essere non è, si rifiutò di usare il concetto del nulla nel teorema della creazione, per cui risultava che la creatura non proviene dal nulla, ma da Dio”; quindi si potrebbe dire che se la creatura proviene dal nulla, prima non c’era, ma esisteva nella mente progettuale di Dio, e che dopo con la creazione esiste. Dicendo così uso il termine esiste in due sensi: uno virtuale (ESISTE nella mente di Dio) e uno reale, cioè ESISTE di fatto quando comincia a vivere. Domande: 1) E’ corretto questo mio ragionamento? 2) E’ corretto il doppio significato che io attribuisco al termine ESISTE? Grazie….come sempre. Distintamente. Francesco Orsi

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    1. Caro Francesco,
      certamente la distinzione tra il virtuale e il reale va molto bene per distinguere gli enti in Dio, in quanto da Lui ideati o progettati, e gli enti al di fuori di Dio in quanto creati da Lui dal nulla.
      Si potrebbe aggiungere su questa base che in Dio gli enti, in quanto da Lui ideati, si identificano con la stessa essenza divina, in quanto idee divine.
      Invece, in quanto prodotti al di fuori di Lui con l’atto creativo sono certamente distinti da Lui, sono effetti della azione creatrice divina.
      L’errore del panteismo non sta quindi tanto nell’identificare il mondo con Dio, perché effettivamente in Dio, nella mente di Dio, sono la stessa cosa. L’errore sta nel negare l’esistenza del mondo creato da Dio, fuori di Dio (opus ad extra). Questo è panteismo idealista di tipo parmenideo. Oppure consiste nell’identificare Dio e il mondo nel momento che sono distinti. Questo è panteismo dialettico di Hegel.

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