Due proposte di miglioramento della missione domenicana - Seconda Parte (2/3)

Due proposte di miglioramento della missione domenicana

Seconda Parte (2/3)

Due rischi per il Domenicano: superbia ed accidia

Sono convinto che i due tarli o veleni che possono far decadere, infiacchire, indebolire, falsare e al limite distruggere la virtù domenicana sono soprattutto due: la superbia e l’accidia. Perché proprio questi vizi? Perché il vizio è il contrario della virtù che esso o falsifica o corrompe.

Quali sono le principali virtù domenicane? L’umiltà, che è il fondamento dell’amore alla verità.  Infatti umiltà vuol dire obbedienza e la conoscenza della verità è, secondo la famosa definizione di S.Tommaso, l’adaequatio intellectus et rei: l’obbedienza dell’intelletto alla realtà. È l’accoglienza intellettuale e l’apertura dell’intelletto alla realtà.

Ora sappiamo bene come la superbia è il veleno dell’umiltà. In che modo la superbia tenta il Domenicano? Ovviamente qui il demonio è particolarmente astuto, sa benissimo come il Domenicano, facendo voto di obbedienza, fa voto di umiltà. Ebbene, in che consiste allora la tentazione? Il demonio prende al laccio il teologo domenicano facendogli brillare avanti alla mente l’alta dignità del pensiero, prodotto nobilissimo della mente umana.

L’umiltà non disdegna la nobiltà, ma la superbia. Ma come il demonio l’intende questa grandezza del pensiero? Ebbene il demonio gli fa confondere l’audacia del pensiero con la superbia e il gioco è fatto.  E poi che fa? Gli istilla l’idea che non le sue idee devono essere adeguate al reale, ma è il reale che dev’essere adeguato alle sue idee.

Da qui la confusione tipicamente idealistica dell’essere con l’essere pensato, del pensabile col pensato, del poter pensare con l’atto di pensare. In tal modo il poter pensare, il pensiero, il pensare, il pensabile, l’oggetto del pensiero, l’essere e l’essere pensato sono la stessa cosa. Esattamente come in Dio. E si vorrebbe trovare tutto questo in San Tommaso.

L’altra virtù è lo zelo per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Essa suppone, come diceva Santa Caterina da Siena, l’«ardentissima carità» verso il prossimo e l’«infocato desiderio» di Dio. Questo fuoco dello Spirito Santo è donato con la vocazione domenicana, è la «luce calda», per usare un’espressione di San Giovanni della Croce, che «apre l’occhio dell’intelletto» (Santa Caterina) illuminato dalla fede salda e ben fondata, forza divina che muove la volontà alla tenacia, alla perseveranza, alla costanza, alla fedeltà, alla pazienza, al sacrificio, al coraggio, alle imprese eroiche, al martirio.

Altro grave rischio oggi per il Domenicano è quello dell’accidia, ossia della mancanza di comprensione, gusto ed interesse per i valori del sacro e dello spirito. Si è cercato di estinguere lo spirito battagliero del passato, caduto indubbiamente in eccessi, con una mitezza e moderazione che hanno certamente del buono, ma che spesso sono la mitezza di chi non vuole avere noie e vuole evitare di prendere posizione, combattere e soffrire per la verità.

Lo spirito dei Domenicani di tal fatta ha perduto il vigore e le convinzioni delle origini, si è intorpidito, si è impigrito, si è «inselvatichito», direbbe Santa Caterina da Siena, rischia quel «vaneggiare», che già temeva Dante, quando il Domenicano non «s’impingua», ossia non attinge più alle sorgenti perenni della spiritualità domenicana, che si riassume nello spirito del Fondatore; così si è adagiato nella quotidianità e non riesce più ad elevarsi al di sopra della terra per dimorare tra «le cose di lassù, dove si trova Cristo alla destra di Dio» (Col 3,1).

L’agire non pare più un tendere verso il cielo e mettere in pratica ciò che si è contemplato, ma un semplice coltivare le virtù umane, camminare sulla terra sia pure in una volontà di fratellanza, di giustizia, di misericordia, di pace, di libertà e di progresso individuale e sociale.

Il rapporto con Dio non sembra più essere l’anima costante, il pensiero dominante, la meta suprema; ma sembra limitato solo ad alcuni momenti o tempi della giornata come la preghiera, la celebrazione della Messa, l’amministrazione dei sacramenti. Pare che nel passare da questi momenti alla quotidianità cambino i suoi interessi e i criteri di valutazione.

Anziché restare in cielo e da là giudicare la terra e gli affari terreni, sembra che questo Domenicano lasci il cielo, così come si sveste dei paramenti della Messa, scenda in terra diventando completamente terreno e, col pretesto che abitiamo sulla terra, giudichi ed agisca in base a criteri ed interessi meramente terreni.

Purtroppo avviene da alcune parti una certa laicizzazione del sacerdote, mentre si fatica a presentare una figura attraente di fratello cooperatore, dal che la scarsità di essi nell’Ordine e non è infrequente la svalutazione delle claustrali e si tende a dare troppa importanza ai laici. Capita anche una scarsa comunione col Papa. Se la fedeltà ai Papi postconciliari precedenti a Papa Francesco era a volte dubbia, la fedeltà al Papa attuale esiste, ma tende ad essere interessata, perché la pastorale del Papa è travisata e interpretata in senso secolaristico, che fa comodo agli scillebexiani. L’Ordine tende a chiudersi in se stesso e a considerarsi all’avanguardia della Chiesa, anche in contrasto con lo stesso Magistero della Chiesa.

Viceversa il cristiano anche nella quotidianità, anche quando non tratta esplicitamente delle cose del cielo, deve sempre lasciar trasparire il suo contatto col cielo. Come dice San Paolo: «sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio (I Cor 10,31). Non dobbiamo mai immergerci talmente nelle cose di questa terra, così da non lasciar trapelare nulla circa il nostro contatto col cielo, come se tra queste e quelle non potesse e dovesse esserci una continua comunicazione, tale per cui queste devono sempre dirigere quelle verso il cielo.

Tommaso è la carta vincente

Sono convinto che la carta vincente per l’Ordine è tuttora Tommaso per un giusto confronto con la modernità e l’applicazione del Concilio Vaticano II. Invece purtroppo spesso il pensiero di San Tommaso o è trascurato perché ritenuto sorpassato o è mescolato con gli errori della modernità o del modernismo, per esempio Lutero, Cartesio, Hume, Kant, Hegel, Rousseau, Massoneria, ontologismo, Marx, Habermas, Freud, Bultmann, Gentile, Teilhard de Chardin, Heidegger, Husserl, Boff, Severino.

Non c’è alcun dubbio che, come ci esortano il Concilio e al suo seguito le Costituzioni dell’Ordine, essere tomisti oggi – come già indicò Maritain nel 1934 – deve voler dire utilizzare i suoi princìpi, le sue tesi maggiori e il suo metodo per arricchire il suo pensiero integrando in esso quanto di valido è stato prodotto in teologia e filosofia dopo di lui, sempre restando valida e doverosa la confutazione degli errori antichi e moderni, soprattutto quelli che recano maggior danno e sono più atti ad ingannare.

Secondo me si è perso di vista che la carta vincente dell’Ordine, la nostra grande chance per la Chiesa e per il mondo, resta sempre San Tommaso; le sorti dell’Ordine sono legate al tomismo: se il tomismo decade, l’Ordine decade; se il tomismo fiorisce, l’Ordine fiorisce.

Guai al Domenicano che crede che Tommaso sia superato e che occorra far capo a teologi domenicani che si presentano come interlocutori dell’uomo d’oggi che ha abbandonato o falsificato San Tommaso! È chiaro tuttavia che non bisogna fare di Tommaso un idolo, come si è rischiato di fare in passato: sarebbe il peggior servizio che renderemmo all’Ordine, alla Chiesa e a noi stessi.

È evidente che il Concilio Vaticano II, con la sua raccomandazione a seguire l’Aquinate, ha mutato e corretto questo precedente modo di essere tomisti, che portava al fanatismo, oltre che alla sterilità, a dannose polemiche ed all’incapacità di cogliere i valori della modernità. Il modo giusto di essere tomisti era in precedenza stato indicato con straordinario acume e saggezza dal Maritain in un memorabile scritto programmatico del 1934, ripetuto ne Le Paysan de la Garonne del 1966, programma che ritroviamo pari pari nelle nuove Costituzioni dell’Ordine del 1968:

«Ottimo maestro e modello è S.Tommaso, la cui dottrina la Chiesa raccomanda singolarmente e l’Ordine accoglie come patrimonio che esercita un fecondo influsso nella vita intellettuale dei frati e le conferisce il suo proprio carattere. Per questo i frati coltivino un’assidua comunione con i suoi scritti e secondo le necessità dei tempi, con una legittima libertà, rinnovino ed arricchiscano la sua dottrina con le ricchezze sempre nuove della sacra ed umana sapienza» (n.82).

Alla luce di queste sagge disposizioni dobbiamo constatare che spesso c’è troppa indifferenza nei confronti di questo Santo ed illustre Confratello, il «Dottore comune della Chiesa», quel teologo la cui dottrina, come disse Benedetto XV[1], la Chiesa ha fatta sua. La nostra predicazione deve caratterizzarsi per questa ispirazione tomista, anche se ovviamente non si può pretendere da tutti i frati quella conoscenza e quindi quella capacità di presentare e divulgare il pensiero dell’Aquinate, che è propria degli studiosi e dei teologi. 

Per questo, non si pretende affatto in tutti i figli e le figlie del Santo Padre Domenico la conoscenza approfondita  della sua teologia, notoriamente accostabile solo dagli addetti ai lavori, ma non bisogna neppure esagerare la difficoltà di accostarsi all’Aquinate, il quale, ben attento come ogni Santo alle esigenze ed alle possibilità delle persone semplici, dei giovani e degli indotti, offre tra i suoi scritti opere da loro accostabilissime e nutrientissime per la loro anima e la loro vita quotidiana di operai, di fornai o di garzoni di barbiere, anche se bisogna sempre ricordare a tutti che non si può acquistare la sapienza senza entrare per la porta stretta dello sforzo e della disciplina.

Ed inoltre è ben chiaro che nessuno nega ai membri dei vari ceti della grande e variegata Famiglia domenicana – ci mancherebbe! - la legittimità di valorizzare o seguire altri Santi o Sante dell’Ordine, che, nella sua lunga storia, è stato beneficato dalla Provvidenza da un’abbondanza straordinaria di fratelli e sorelle esemplari, ai quali chiedere intercessione e spirituale assistenza nella vita di ogni giorno.

Sono dell’idea, inoltre, che l’Ordine, nonostante i lodevoli sforzi fatti in questi cinquant’anni, non è ancora riuscito a trovare il suo tono giusto per il nostro tempo, il suo modo giusto di inserirsi nella Chiesa di oggi, il tono voluto dal Concilio onde capire e soddisfare i reali bisogni spirituali e morali del nostro tempo, a rapportarsi convenientemente coi Papi del postconcilio, ad accogliere docilmente e sinceramente senza snobbare e senza toni saccenti, quello che i Papi del postconcilio chiedono all’Ordine.

Non mi pare, anche qui, nonostante il bene fatto, che l’Ordine sia riuscito sufficientemente a recuperare lo spirito delle origini: la sete di Dio, e l’amore alla contemplazione ed alla meditazione, il gusto e la capacità di parlare di Dio, l’amore allo studio e al silenzio, la scelta delle buone letture e dei veri maestri,  la vita sobria, penitente e morigerata, la vita comune come comunione nella Verità, l’amore e la dedizione alla salvezza delle anime, la direzione spirituale, il «gaudium de zelo animarum», che Papa Gregorio IX lodava in San Domenico, nonché l’ampiezza di vedute, la grandezza e nobiltà di progetti e di prospettive, lo spirito di profezia, la concordia nell’azione comune, la comunione con la Chiesa, lo slancio, le iniziative  e il coraggio delle origini.

Oggi nell’Ordine agiscono forze contrastanti. Occorre fare la scelta giusta senza lasciarsi influenzare dai cattivi esempi. C’è chi spinge alla vita comoda e ai piaceri e c’è chi stimola allo sforzo ascetico, al sacrificio ed all’austerità. C’è chi propone una semplice felicità terrena e c’è chi prospetta la piena felicità solo in paradiso. C’è chi si accontenta di sbarcare il lunario e chi tenta nuove iniziative.  C’è chi dorme sugli allori e c’è chi stimola ad approfondire la Parola di Dio. C’è chi si fa delle domande e chi ritiene di sapere già abbastanza. C’è chi vuol progredire nelle virtù e c’è chi si è impigrito. C’è chi accetta le correzioni e c’è chi si offende se gliele facciamo. C’è chi è ribelle al Magistero della Chiesa e c’è chi è fedele e obbediente. C’è chi ama la vita comune e c’è chi agisce per conto proprio. C’è il chiacchierone e c’è chi sa moderare la lingua. C’è chi cura la predicazione preparandola ed arricchendola con lo studio, la meditazione e la preghiera e c’è chi ripete continuamente le stesse cose ovvie e scontate. C’è l’ingenuo, il falso modesto o il furbo che non distingue il dogma dall’eresia e c’è l’avveduto che sa scovare gli errori nascosti. C’è colui al quale le anime non interessano, ma solo i corpi e c’è chi si prende cura seriamente delle anime, della loro situazione davanti Dio, delle loro sofferenze, dei loro dubbi, delle loro miserie e debolezze, dei loro fallimenti ed insuccessi, dei loro peccati e difetti, delle loro buone qualità e capacità, delle loro aspirazioni, dei loro bisogni, dei doni che hanno  ricevuto da Dio e dell’eventuale problematica relativa ad impegni civili oppure assunti davanti alla Chiesa, come potrebbe essere una vita coniugale o una vita religiosa.

Oggi si sta verificando un’apostasia dalla fede cristiana generalizzata e in aumento, la quale fa pensare ad alcuni che siamo giunti all’apostasia finale, della quale parlano Gesù Cristo (Mt 24,12) e San Paolo (II Ts 2,3). Tuttavia non è proibito pensare che non siamo ancora alla fine, ma che è ancora possibile una rinascita generalizzata della fede, come già avvenne nel passaggio dal sec. X al sec. XI.

Come e perché infatti Dio avrebbe suscitato il Concilio Vaticano II se non per una rinascita della fede? Il guaio è che per colpa dei modernisti è stato quasi completante frustrato. Resta comunque il fatto che oggi il predicatore della fede ha la netta impressione di parlare ai muri; come gli antichi profeti, è una vox clamantis in deserto.

Ha l’impressione di gestire un ristorante che fornisce ottime pietanze, ma che non attira nessuno, perché folle di sprovveduti accorrono a cibarsi di cibi saporiti, ma sofisticati ed avariati, forniti da abili impostori. È vero che il Papa con pochi altri ha successo, ma gran parte di questo successo è dato dalla strumentalizzazione che i modernisti fanno delle sue parole a loro vantaggio.

Certo, per attirare gente, viene al Domenicano la tentazione di imitare eretici e ciarlatani. Ma che gli direbbe la sua coscienza? È vero che Cristo gli dice: «spingili ad entrare» (compelle eos ad intrare, Lc 14,23). Ma più che offrire buon cibo, insistere con ogni persuasivo argomento e una sincera testimonianza, che può mai fare il predicatore? Trascinarli per forza o minacciarli come fanno i musulmani? Questo sarebbe il «proselitismo» detestato dal Papa.

La proposta di Padre Giuseppe Barzaghi

Vanno accolti i tentativi ricorrenti di mettere in luce il principio ispiratore ed organizzatore del pensiero tomista a confronto col pensiero moderno. Ma l’operazione non è facile ed occorre uno speciale acume teoretico e forte capacità di sintesi. Non c’è dubbio che il pensiero di Tommaso è fortemente coerente e sistematico. Ma qual è il principio ispiratore?

Il Padre Fabro ha ragione quando con altri tomisti dice che il pensiero dell’Aquinate ruota attorno all’actus essendi. Così l’acutezza del pensiero di Fabro e la sua immensa cultura filosofica lo preservano da false interpretazioni ed inquinamenti, che affettano spiriti meno prudenti di lui, vedi per esempio Rousselot o Maréchal, per cui in questi casi quello che salta fuori è lo scambiare Tommaso per un cartesiano, per un kantiano o per un hegeliano o per un heideggeriano o per un esistenzialista o per un severiniano.

Occorre inoltre andare adagio nella convinzione di aver finalmente trovato l’anima o il principio originario ispiratore del pensiero dell’Aquinate saltando o contro tutti suoi commentatori domenicani del passato, anche se lodati e raccomandati dai sommi Pontefici.

Un tentativo recente in questo senso è stato compiuto dal Padre Giuseppe Barzaghi, il quale propone un tomismo a confronto col pensiero di Emanuele Severino. Barzaghi coglie bene il punto di confronto fra Tommaso e Severino: il concetto dell’essere. Ma purtroppo egli, invece di correggere il concetto severiniano dell’essere alla luce di Tommaso, fa l’operazione inversa, pretendendo di trovare nell’essere severiniano l’«originario» tomista, sicchè l’esse tomista non sarebbe il vero originario, ma un «derivato» dell’essere severiniano.

Così il pensiero originario, secondo Barzaghi, è lo «sguardo di Dio», che noi dobbiamo assumere se vogliamo raggiungere un pensare adulto e critico, al di là dell’ingenuità infantile che ci fa credere che l’essere sia fuori del pensiero ed indipendente dal pensiero. No! Dice Barzaghi: l’essere è l’essere pensato. Non c’è un essere oltre e al di là del pensiero. Il pensiero è «intrascendibile». Anche il non-pensato è pensato.

Ciò non significa che Barzaghi non assegni un posto alla gnoseologia realista che pone l’essere oltre il pensiero. Tutt’altro. Egli ne affetta rispetto ed egli stesso quando gli conviene, si pone da questo punto di vista con una specie di accondiscendenza come farebbe il papà col figlioletto Paoletto, che crede all’esistenza di Babbo Natale. Similmente Barzaghi, quando espone il pensiero di San Tommaso, assume questo tono paterno che è sostanzialmente gnostico, e fa suo occasionalmente per motivi pratici o pedagogici il registro di pensiero realista con l’accondiscendenza che avrebbe il papà di Paoletto nel parlare con lui di Babbo Natale.

 Ora però, siccome questa immanenza dell’essere al pensiero è propria del sapere divino, mentre nel sapere umano l’essere è esterno al pensiero – extra animam dice San Tommaso – ne viene che Barzaghi confonde il sapere umano col sapere divino. Quindi, in fin dei conti questo mettersi dal punto di vista di Dio, questo assumere lo sguardo di Dio, che di per sé potrebbe avere un senso, in quanto sapere di fede, finisce per elevare prometeicamente la natura umana alla natura divina. E chiediamoci se questa non è superbia della più bell’acqua.

In ogni modo la proposta di Barzaghi non è priva d’interesse: in una cultura approssimativa, piagnucolosa, balbuziente, dispersiva, sdilinquita, favolistica, orecchiante, storicista, relativista, evoluzionista, empirista, positivista e scientista come la nostra, Barzaghi al seguito di Severino e cogliendo l’appello di fondo del pensiero dell’Aquinate, ha il coraggio e la franchezza di affermare con decisione virile, lucidità di concetti  e chiarezza intellettuale nonché di proporre un pensare metafisico, argomentativo, decisamente speculativo, serio, rigoroso, fondato sul principio di non-contraddizione e sul concetto dell’essere.

Una sfida vigorosa a tutte le marmellate intellettuali, a tutti ronzii dialettici, a tutte le pappemolli negatrici della metafisica, a tutti i tremolanti pensieri deboli, a tutti i cantautori della filosofia, a tutte le filosofie psicodrammatiche, a tutte le teologie narrative a fumetti, a tutti gli empirismi del droghiere, a tutto il menar per l’aia del pensiero che gira a vuoto, a tutte le case costruite sulla sabbia. 

Dunque un pensiero forte, ma – e qui è il guaio – anche troppo forte. Troppo pretenzioso. Sì, un poderoso richiamo al Pensiero, al Logos, all’Assoluto, all’Univoco, all’Identico, al Necessario, all’Eterno, all’Infinito, all’ Uno-Tutto.

Va bene. Ma poi che ne è del divenire? Dello spazio-tempo? Della realtà esterna? Dell’esperienza sensibile? Della storia? Della materia? Del possibile? Del contingente? Della creazione? Del male? Della morte? È qui, purtroppo, che cadit asinus. Chi troppo vuole, nulla stringe, dice il proverbio. Chi si illude di navigare nell’Assoluto solo perché lo pensa, quando apre gli occhi, se li apre, si trova nel nulla.

È qui che, dopo una prima meraviglia nel vedere l’abilità del giocoliere,  tutta la sua costruzione ingannevole e fantastica che ci fa montare la testa si dissolve nel nulla come un fuoco d’artificio che scompare nel buio della notte, per cui la proposta del tomismo barzaghiano, con tutto il suo fascino apparentemente geniale[2], per cui «tutto è eterno», si rivela in realtà quanto di più opposto si possa immaginare alla serietà di una prospettiva che possa dirsi non dico domenicana, ma anche del più elementare buon senso.

Per questo, una predicazione domenicana ispirata al barzaghismo potrà incuriosire o stupire l’ambiente intellettuale, fare spettacolo, dare spazio agli esibizionisti e ai prestigiatori, ma non è certo quella che ridarà forza e vigore alla predicazione tomista, nella sua modestia e sapienza, soprattutto tra la gente comune e i cattolici fedeli all’ortodossia.

Un’ultima osservazione: l’esser Cristo «tutto in tutti» (I Cor 15, 28), del quale parla Barzaghi alla p.336 de Lo sguardo di Dio, non è per San Paolo un dato di fatto, ma è lo scopo finale della redenzione, quindi è una realtà futura, non una realtà presente. E questi tutti, non sono tutti gli uomini in senso assoluto, ma sono tutti gli eletti, giacchè è chiaro che da questa presenza di Cristo sono esclusi i dannati. Meraviglia che il Card. Biffi approvi questa deformazione del testo paolino[3]. Ciò però corrisponde all’assioma barzaghiano per il quale «tutto è adesso», in ossequio al quale Barzaghi è pronto a cambiare anche il testo della Sacra Scrittura.

La proposta di Schillebeeckx 

Barzaghi assume il realismo come una forma immatura del pensare, un decadere dall’idealismo di Severino. Invece Schillebeeckx, qui più vicino a S.Tommaso, prende sul serio il realismo e l’idealismo gli ripugna, benché col suo concetto di esperienza atematica preconcettuale, derivata dal cogito cartesiano, potesse sfociare anche lui nell’idealismo.

Eppure, per Schillebeeckx Dio resta trascendente e distinto dall’uomo. A Schillebeeckx non viene assolutamente in mente di identificare l’essere con l’essere pensato. Il suo pensiero vuole essere modesto e restare sul piano umano, senza alcuna ambizione o presunzione gnostica, monista o panteista o, come egli si esprime, senza alcuna «megalomania», tanto da arrivare a considerare «megalomania» la pretesa di essere Dio. E per questo secondo lui lo stesso rispetto che si deve avere per Gesù Cristo richiede che si neghi la sua divinità.  Viceversa Barzaghi non ha difficoltà ad ammettere la divinità di Cristo, dato che per lui l’uomo come tale è Dio.

L’esperienza atematica per Schillebeeckx è solo la radice della ragione e della fede, che pongono l’uomo davanti a Dio. Egli è quindi molto lontano dalla visione barzaghiana del cogito come pensiero che pensa l’essere come essere pensato. Schillebeeckx non parla mai dell’essere, né di Dio come ipsum Esse, mentre la tematica dell’essere in Barzaghi è fondamentale.

Schillebeeckx parla di realtà. È un realista. Ma un realista agnostico, anticoncettualista, si direbbe occamista. Dio è trascendente e dona la grazia. Ma essa non divinizza l’uomo, non lo cristifica, perché Schillebeeckx non crede nella divinità di Cristo.

Per lui Cristo è solo il «profeta escatologico». E la sua morte non è espiazione del peccato e soddisfazione per il peccato, ma è semplicemente la morte del «martire». Se Barzaghi è uno gnostico, col suo identificare pensiero umano e pensiero divino, essere e pensiero, Schillebeeckx è un pelagiano col concepire la grazia non come partecipazione alla divinità di Cristo, ma solo come coronamento creato, anche se dono di Dio, dell’operare umano. Figlio di Dio o figlio dell’uomo per Schillebeeckx è la stessa cosa. Gesù era figlio di Dio non come Dio ma come uomo.

Se Barzaghi sembra attirare gli aspiranti-genio a delle sublimi imprese speculative per giungere «oltre Dio»[4], Schillebeeckx attira i Domenicani che mettono da parte le astrazioni metafisiche, ritengono di avere i «piedi per terra», occupati nei problemi concreti e quotidiani della comunità, dell’uomo, della società, della giustizia, dell’ecologia, dei diritti umani, della pace, dei poveri e degli emarginati.

Il che andrebbe anche bene se non fosse un pretesto per rinunciare alla ricerca delle «cose di lassù» (Col 3,1) e per vivere una vita che, col pretesto della mitezza e della tolleranza, rinuncia alla lotta contro l’eresia, contro il peccato, contro il mondo e contro Satana.

 In un tale clima di intorpidimento e fiacca spirituale, di soggettivismo, di secolarismo, di relativismo dottrinale e morale, di perdita di prestigio del Magistero della Chiesa, si comprende il successo di una proposta come quella di Schillebeeckx, il quale parla di «una nuova prassi»[5], in conformità al rinnovamento della vita religiosa promosso dal Concilio Vaticano II.

Con un documentatissimo riferimento ai testi biblici interpretati dall’esegesi contemporanea, il famoso teologo domenicano olandese, ispiratore dell’altrettanto famoso Catechismo Olandese, in numerose sue opere soprattutto di cristologia e di ecclesiologia, propone una concezione di Dio e di Cristo, della fede, del dogma, della Chiesa, della predicazione e della morale evangeliche chiaramente influenzate dal protestantesimo liberale ottocentesco e contemporaneo.

Lo stesso Catechismo Olandese, benché approvato dalla Conferenza Episcopale olandese, come notò il Padre Alberto Galli mio venerato maestro di teologia morale, contiene 16 eresie, che dovettero essere corrette da una Commissione Cardinalizia appositamente nominata da S.Paolo VI.

Quale disonore per il nostro Ordine, se pensiamo alla differenza abissale dal Catechismo Tridentino, redatto da quattro teologi domenicani, la cui gloria immortale fu assicurata loro dalla Chiesa, che ordinando ad essi l’opera, ovviamente poi fece sua l’opera di questi valorosi Domenicani, questi sì degni figli di san Domenico e discepoli dell’Aquinate!

Secondo Schillebeeckx noi non conosciamo Dio partendo dall’esperienza sensibile dalla quale traiamo, applicando analogicamente il principio di causalità, la nozione di Causa prima, la cui Essenza è quella di Essere.  Infatti per Schillebeeckx il nostro intelletto nel formare il concetto non coglie il reale[6], che per lui è extramentale, quindi egli non è idealista ma realista, ma il concetto teologico secondo lui è un semplice «modello interpretativo» della precedente esperienza atematica[7] della concretezza del mistero di fede[8].

I concetti per lui sono solo univoci e colgono solo il finito, l’umano. Non esistono concetti analogici che colgano l’infinito, il divino. «La parola di Dio è una parola umana. Parlare di Dio è nello stesso tempo uno speciale modo di parlare dell’uomo e del suo mondo»[9]. La base del parlare di Dio non sono i concetti né quelli di ragione né quelli di fede, ma è l’esperienza atematica di Dio. L’ortodossia non dipende dalla teoresi, cioè dalla concettualizzazione, ma dall’ortoprassi: «L’ortodossia non può essere verificata in modo puramente teoretico»[10], ma solo in base a una «decisione fondamentale»[11], che è appunto l’esperienza atematica. «L’elemento conoscitivo puramente teoretico nella spiegazione della fede è in sé insufficiente per la verificazione dell’ortodossia della fede. Esso funziona soltanto all’interno dell’insieme dell’esistenza e della prassi cristiana totale», ossia della previa esperienza atematica.

Ovviamente Schillebeeckx non è che non creda nella comunicabilità dei concetti, altrimenti non avrebbe scritto tanti libri; solo che per lui, che non crede nella metafisica, non esistono concetti analogici che possano essere applicati al creato e a Dio, per cui i concetti dogmatici non ci dicono niente di concettualizzabile sul mistero rivelato, che resta concettualmente inconoscibile, perché per lui il contenuto del concetto può essere solo umano. Per questo per lui, che confonde concetto e linguaggio, come si può esprimere una medesima verità di fede con diversi linguaggi, così la si può esprimere con diversi concetti[12].

Dunque per lui i concetti di fede non sono immutabili ed universali, perché non colgono la realtà divina come è in sé, ma solo indirizzano ad essa nella sua concretezza dal di fuori. Simili a cartelli indicatori, sono semplici modelli interpretativi, immaginari e simbolici, che variano a seconda dei tempi e delle diverse culture, che li elaborano e li utilizzano creativamente.  «L’”ortodossia”  di un secolo è non raramente la preistoria dell’eresia dell’epoca successiva e viceversa»[13].

Le formulazioni magisteriali non si basano su nozioni universali, immutabili, assolutamente ed oggettivamente vere, che non esistono, ma «implicano una teologia e, più concretamente, una teologia tra molte altre»[14]. «La formulazione ecclesiale» non è al di sopra dello spazio-tempo, per cui non è universale ed immutabile, ma al contrario, per Schillebeeckx, «è dipendente dallo spazio e dal tempo e pertanto relativa»[15].

La verità della fede pertanto, per Schillebeeckx, si mantiene esprimendo con diversi concetti la medesima esperienza atematica, così come una verità può essere espressa in inglese o in italiano. L’importante è che sia sempre quella verità. Senonché però, essendo il contenuto dell’esperienza di fede non concettualizzabile per definizione, Schillebeeckx suppone che nel dialogo religioso l’esperienza dell’uno sia la stessa dell’altro. Ma con quale diritto?

Infatti, per verificare questa eventuale concordanza noi non abbiamo altro che il concetto; ma se questo non serve per fare quella verifica, allora Schillebeeckx rimane, per così dire, in braghe di tela, ossia  la verifica diventa impossibile, per cui l’uno non può sapere se la sua esperienza è o non è la stessa dell’altro e quindi diventa impossibile la comunicazione verbale-concettuale della verità di fede. Un bel risultato per un predicatore domenicano!

Tuttavia Schillebeeckx non si arrende e invece di rifare tutto da capo sulla base del buon senso, si lancia verso le vette della spiritualità, trattando tranquillamente dell’esperienza mistica e dell’esperienza della grazia, della pratica dei sacramenti, dell’importanza della liturgia, del sacerdozio, della Messa e dell’Eucaristia, della pratica della carità, della salvezza, della vita futura  e della docilità allo Spirito Santo.

Ma purtroppo, come gli è stato fatto notare dalla Chiesa, non tutto in questi delicati discorsi è dottrinalmente a posto. Tuttavia Schillebeeckx non pare darsene troppo pensiero, perché sembra soddisfatto della sua esperienza atematica, che lo mette a contatto diretto con lo Spirito Santo e se Roma ha scelto una certa teologia, egli ne sceglie un’altra.

Ci domandiamo allora quanto sinceramente egli crede in questi valori, se poi il loro supporto concettuale dogmatico si risolve ad essere un insieme di «modelli interpretativi» di una previa «esperienza atematica di Dio» nei confronti della quale il concetto teologico o dogmatico non è che una semplice immagine simbolica creata dalla nostra prassi, senza che essa ci dica nulla di ciò che sperimentiamo?

Fine Seconda Parte (2/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 5 gennaio 2021

Altro grave rischio oggi per il Domenicano è quello dell’accidia, ossia della mancanza di comprensione, gusto ed interesse per i valori del sacro e dello spirito. 

Si è cercato di estinguere lo spirito battagliero del passato, caduto indubbiamente in eccessi, con una mitezza e moderazione che hanno certamente del buono, ma che spesso sono la mitezza di chi non vuole avere noie e vuole evitare di prendere posizione, combattere e soffrire per la verità.

Lo spirito dei Domenicani di tal fatta ha perduto il vigore e le convinzioni delle origini, si è intorpidito, si è impigrito, si è «inselvatichito», direbbe Santa Caterina da Siena, rischia quel «vaneggiare», che già temeva Dante, quando il Domenicano non «s’impingua», ossia non attinge più alle sorgenti perenni della spiritualità domenicana, che si riassume nello spirito del Fondatore; così si è adagiato nella quotidianità e non riesce più ad elevarsi al di sopra della terra per dimorare tra «le cose di lassù, dove si trova Cristo alla destra di Dio» (Col 3,1).


Immagini da internet:
- Dante, Divina Commedia
- Paris, Bibliothèque Nationale de France, Par. lat. 10484, f. 272r. Il sogno di papa Innocenzo III, dal Breviarium ad usum fratrum predicatorum (Bréviaire de Belleville), v. II.


[1] Thomae doctrinam Ecclesia suam propriam edixit esse, Enciclica Fausto appetente die del 29 giugno 1921 per il VII centenario della morte di San Domenico, parole riprese da Pio XI nell’enciclica Studiorum ducem del 29 giugno 1923.

[2] Lo stesso Card.Biffi è stato sedotto da Barzaghi: vedi la Prefazione estremamente elogiativa che fece al libro di Barzaghi Lo sguardo di Dio, Edizioni Cantagalli, Siena 2003. Di ben diverso avviso fu il suo Successore nella direzione della diocesi bolognese, il Card.Carlo Caffarra, appoggiò una segnalazione degli errori di Barzaghi alla CDF fatta da un gruppo di teologi.

[3] Vedi la Prefazione a p.7.

[4] È il titolo stesso di un suo libro: Oltre Dio ovvero omnia in omnibus. Pensieri su Dio, il divino, la deità, Giorgio Barghigiani Editore, Bologna 2000.

[5] Il Cristo. La storia di una nuova prassi, Queriniana, Brescia 1980.

[6] Cf Intelligenza della fede, Edizioni Paoline 1975, p.98.

[7] Cf Ibid., pp.101, 102, 123, 133.

[8] Cf il mio articolo Il criterio della verità in Schillebeeckx, in Sacra Doctrina, 2, 1984, pp.188-205.

[9] Cf Intelligenza della fede, op.cit., p.80.

[10] Ibid., p.87

[11] Ibid., p.94.

[12] Cf il mio articolo Il criterio della verità n Schillebeeckx, in Sacra Doctrina, 2, 1984, pp.188-205.

[13] Intelligenza della fede,op.cit., p.87.

[14] Ibid., p.90.

[15] Ibid.,p.97

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