Circa la rigorizzazione del concetto di creazione - Parte Seconda (2/5)

 Circa la rigorizzazione del concetto di creazione

Parte Seconda (2/5)

La nozione dell’essere non è univoca, ma analogica

Del resto, già Hegel nel dare inizio alla sua Scienza della logica con la sua idea dell’essere come «immediato indeterminato»[1] esplicitamente parte da Parmenide[2], anticipando l’errore di Postorino o di Severino o di Bontadini, che pretendono di interpretare il divenire alla luce di Parmenide e non di Aristotele.

Hegel però non dimentica neppure Eraclito, anzi va a lui la sua preferenza, perché il vero essere per lui non è l’essere astratto di Parmenide, che è solo il cominciamento dell’essere e del sapere, ma è la sintesi eraclitea di essere e non-essere, lungamente elogiata da Hegel nelle sue Lezioni di storia della filosofia[3], mentre a Parmenide dedica pochissime pagine, pur dichiarando di rifarsi anche a lui.

Così  Hegel, nel tentativo di concepire il divenire, che egli considera reale ed anzi lo stesso assoluto, a differenza di Parmenide, che assolutizza l’essere e respinge come contradditorio il divenire, Hegel rifiuta il principio parmenideo di identità e non contraddizione fondato sull’identità di un concetto dell’essere, che astrae da ogni determinazione, sicchè alla fine resta un puro essere, che non è l’ipsum Esse subsistens di Tommaso e forse anche di Parmenide, ma un puro e semplice essere vuoto e privo di significato quanto il nulla.

Così dall’«unità dell’essere e nulla» di Hegel, come è noto, scaturisce il divenire, perché chiaramente Hegel non recepisce la distinzione aristotelica di potenza ed atto e resta con le categorie parmenidee di essere e nulla, per cui ancora platonicamente il divenire è un essere che non è.

Hegel tiene peraltro, almeno a parole, ad affermare con Parmenide l’identità dell’essere. Ma in forza della sua commistione col divenire eracliteo, che dà secondo Hegel la concretezza dell’essere e riconosce il divenire e la storia, ne risulta la sua celebre formula che l’identità è l’«identità dell’identità con la non-identità».

Ciò significa che nella logica hegeliana non vale il principio aristotelico ed evangelico del terzo escluso, ma vale quello che Cristo definirebbe «diabolico»: il principio del terzo incluso. Con la scusa che non si deve escludere nulla, Hegel pretende di includere nell’essere ciò che non può essere incluso, ciò che non può esistere, ossia il suo contrario, la sua negazione. Ne verrebbe, per esempio, in teologia, che la vera fede in Dio sarebbe quella di essere ad un tempo teisti ed atei a seconda delle circostanze e delle convenienze.

Infatti il principio del terzo escluso dice che una cosa o è tale non è tale. Non si dà una terza possibilità. Aut-aut. Invece la logica hegeliana sostituisce l’aut-aut con l’et-et, che non riguarda l’opposizione essere-non-essere, ma il diverso nell’essere, per cui per Hegel il diverso è il nemico e il nemico è il diverso. Hegel, cioè, ammette che una cosa sia tale e non sia tale simultaneamente.

Nella logica normale, che è quella aristotelica, se l’uno non è l’altro, non vuol dire che l’altro contraddica all’uno o escluda l’uno, ma significa solo la diversità nell’essere, un diverso modo d’essere. L’essere si attua in diversi modi, non va inteso come puro e semplice atto d’essere, come in Parmenide. L’essere è inteso come diversificato e analogico, non univoco. Non è uno solo, ma uno e molteplice. Questo è l’essere reale.

L’essere pensato o concepito come uno solo, indeterminato, dato immediato, semplice essere, puro essere, astratto da ogni determinazione, come fa Hegel nella sua Logica, è un nostro pensato, è un ente intramentale, certamente legittimo e necessario al pensiero, ma è un essere astratto, privo di contenuto determinato. Certo è intellegibile perché è oggetto del pensiero, ma, dato che astrae da ogni determinazione, non può essere l’essere reale e creato, diversificato e molteplice, analogico, mutevole e immutabile, spirituale o materiale, che è oggetto della metafisica.

Per questo occorre fare attenzione a non scambiarlo per l’essere reale, che non può essere concepito a questo modo, ma che dev’essere concepito, come ci insegna Aristotele, in modo analogico e proporzionale. Possiamo sì concepire l’essere in modo generico, ma ricordandoci che è un genere che non esclude, ma contiene implicitamente e confusamente le differenze, perché anche loro appartengono all’orizzonte dell’essere.

Se l’essere è univoco,

è impossibile capire il divenire, il diverso e il molteplice

Occorre inoltre tener presente che l’essere univoco di Parmenide e di Hegel non ci permette di pensare e concepire senza contraddizione la molteplicità, la diversità e l’alterità, perché l’essere univoco, col pretesto della semplicità e purezza del suo significato, che astrae da tutto, toglie tutte le differenze e le determinazioni e finisce per non significare più nulla.

E appunto per questo Hegel identifica l’essere col nulla. Essere e nulla significano la stessa cosa. Ma, ciò che è ancora più grave, per Hegel essere e nulla sono la stessa cosa, dando prova di confondere l’essere col significare, il pensare con l’essere.

D’altra parte Hegel era ben consapevole dell’esistenza del diverso, perché aveva un vivo senso della concretezza e della storicità. Ma, ignorando il pensare analogico aristotelico, che solo consente di concettualizzare la diversità, e non avendo a disposizione altro che l’opposizione affermazione-negazione, essere-non-essere alla maniera parmenidea, succede che per Hegel il dire che uno è diverso da un altro è come dire che l’uno esclude l’altro, così che i due non possono coesistere se non in modo conflittuale.

Hegel non ha alternative: se ammetto che l’essere sono io, come risulta dal principio parmenideo, allora l’altro, per esistere, o deve essermi identico oppure deve contrappormisi come il non-essere all’essere, dato che io non sono lui. Come già aveva detto Fichte: l’altro non è veramente un altro, perché non esiste un altro dall’essere, che sono io[4], ma è semplicemente il non-io.

Per questo, siccome l’essere, secondo Parmenide, è l’assoluto, non ci possono essere due assoluti. Per questo, se esisto io che esaurisco già la totalità dell’essere, fuori o di diverso da me non può esistere nulla. Per questo, se posso ammettere l’altro, questo non sarà che un posto-da-me[5], il mio non-essere, ma non posso ammettera l’altro come altro, perchè dovrei ammettere come essere ciò che non è. Tuttavia, l’altro come non-io, negando il mio essere, fa scattare il meccanismo dialettico del divenire, che è il vero essere. E qui, curiosamente, incontriamo Eraclito. Dal che vediamo come Eraclito e Parmenide, nel momento in cui si oppongono, si richiamano a vicenda. Ma questo è appunto il processo della dialettica hegeliana.

Hegel, dunque, non si rende conto che se io dico: io non sono te, questo mio negare non comporta da parte mia nessuna ostilità. Io infatti, non intendo affatto dire che io mi posso affermare solo se tu non esisti, ma significa semplicemente la mia somiglianza o analogia con te sul piano dell’essere. Hegel non sa che cosa è la somiglianza, la proporzione. Non ha mai meditato sul fatto che l’uomo è stato creato non identico a Dio, e neppure come negazione di Dio, ma come sua immagine e somigliante, seppur più diverso che somigliante, come dirà il Concilio Lateranense IV nel 1215.

Se Hegel avesse conservato nella sua biblioteca una collezione degli insegnamenti dei Concili, la sua filosofia ne avrebbe molto giovato e non avrebbe detto le assurdità che ha detto.

È chiaro invece che, se io concepisco l’essere alla maniera astratta, monistica, monolitica ed univoca di Parmenide e di Hegel, come fanno Severino e Postorino al suo seguito, dato che l’essere è uno solo, l’essere sono io, e tu non sei me, tu sei un non-essere, tu sei un nulla, tu sei la mia antitesi, così come il nulla si oppone all’essere.

O se tu esisti, è perché te lo concedo io perché ho voglia di oppormi a me stesso tanto per passare il tempo. Oppure sarai il mio nemico mortale, contro il quale lotto, senza che nessuno di noi due possa prevalere sull’altro, altrimenti verrebbe meno la sacra dialettica, sulla quale poggia l’essere e il divenire. La dialettica, il conflitto e la guerra sono la vita. Invece la pace e la concordia sarebbero la morte.

Così se esiste questo e quello, se esiste l’uno e l’altro da lui diverso, per Hegel, per il semplice fatto che l’altro è non-l’uno, è la negazione dell’uno. Quindi il diverso è ridotto al contrario o al contradditorio. Ne viene, quindi, sul piano ontologico e sociale, che l’altro è incompatibile con l’uno, per cui l’altro diventa il nemico dell’uno. Solo l’io è identico all’io; ma il non-io, l’altro, è contro l’io, è il mio nemico. Così la società non è convivenza tra amici, ma contrasto istituzionale fra nemici. Il conflitto non è un guaio da risolvere, ma la legge della vita.

Ora, è chiaro che questo modo dialettico di intendere l’alterità è del tutto falso e, proprio perchè distruttivo del retto pensare, che chiede l’analogia e non l’univocità, è distruttivo di qualunque convivenza umana. Ed è certamente contrario alla logica e all’ontologia del Vangelo.

E parlo di Vangelo, perchè Cristo stesso ci impone perentoriamente di evitare il linguaggio doppio ed ipocrita, e ci comanda severamente che il nostro parlare sia si sì, no, no, mentre ci ricorda l’impossibilità di servire a due padroni. Cristo ci proibisce insomma di affermare il sì e il no assieme. Egli poi precisa ed aggiunge: «il resto appartiene al diavolo». Per questo è formalmente consentito, da un punto di vista cristiano, di qualificare come diabolica la logica hegeliana e la concezione della vita sociale che ne consegue.

La formulazione rigorosa del principio di non-contraddizione

è quella di Aristotele, non quella di Parmenide

Si tratta nel Vangelo del principio di non-contraddizione, che San Tommaso enuncia in una maniera lapidaria: non est affirmare et negare simul, perché ogni ente è quello che è, per cui è impossibile che un ente sia e non sia simultaneamente e sotto lo stesso riguardo: principio di identità. Può esserlo in tempi diversi e sotto aspetti diversi.

Introducendo nel principio la citazione del tempo («simultaneamente»), cosa che Parmenide trascura di fare, tempo, che suppone e comporta il passaggio dell’ente dalla potenza all’atto, Aristotele ha spiegato come il divenire non è contradditorio, ma intellegibile e identitario, fino a concernere il mobile nell’istante presente nel quale è in atto il suo movimento, benché questo istante passi e il successivo non sia ancora giunto.

Severino, invece, togliendo dal principio aristotelico di non-contraddizione la citazione del tempo, che per lui non esiste o è apparire e non essere e credendo di enunciare il principio in modo più rigoroso e non nichilistico, in realtà, non applicando il principio al diveniente nel tempo, non ci fa capire come sia possibile che nel divenire un ente sia e non sia, per cui, in nome di una falsa concezione del principio d’identità, viene a negare il principio d’identità.

Dal che vediamo peraltro come sia anticristiana la logica di coloro, per esempio, che, come il Cusano, affermano che la logica divina sarebbe al di sopra di quella umana nel senso che per Dio può essere identico ciò che per la ragione umana è contradditorio. Il che corrisponde alla nota tesi luterana secondo la quale la fede sarebbe contro la ragione o quella massonico-kantiana, secondo la quale la ragione sarebbe contro la fede.

È chiaro, in base a ciò, che la logica di Hegel è la logica della doppiezza e del conflitto. Essa favorisce quindi l’incoerenza nel pensare, la disonestà nel parlare e la conflittualità nell’agire. Essa è incapace di risolvere o di appianare i conflitti e neanche lo vuole, perché per Hegel l’esistenza è di per sé conflittuale e il progresso sta nella negazione di una precedente tesi. Per Hegel la «riconciliazione» non è l’accordo e l’armonia fra le parti, ma l’unità dialettica degli opposti, che restano opposti nell’identità. Non la pace ma la guerra è per Hegel l’anima dell’esistere.

Così per Hegel vale tanto che l’essere è quanto che l’essere non è. Il nulla non è l’opposto dell’essere, ma fa uno con lui. E questo sarebbe il divenire, che pertanto coincide con l’essere. L’essere hegeliano è divenire dialettico della sintesi degli opposti. E alla fine, come dimostra Postorino con la «contraddizione fondamentale», Severino, che pur parte da Parmenide, rifiutando Aristotele, non trova niente di meglio che rifugiarsi in Hegel per spiegare il divenire, sicchè l’essere severiniano alla fine si rivela come l’essere-divenire hegeliano, con la differenza che al posto del divenire essere-non-essere c’è l’apparire e scomparire dell’essere.

Negli enti viventi il nascere è interpretato da Severino come apparire di ciò che prima esisteva già, ma nascosto; il morire è interpretato come scomparire di ciò che però permane. Gli enti, quindi, per Severino e per Postorino che lo segue, sono eterni. E sono eterni perché sono visti solo in Dio. Manca quindi la percezione del fatto che un ente comincia ad essere e, trascorso un certo tempo, se questo ente è materiale, cessa di essere. Non si ammette che il non-essere di quell’ente lo precedae prima di essere creato e lo segua quando ha finito di essere.

Così Postorino mostra come Severino non rinuncia a concepire come contradditorio il divenire, non rinuncia ad accusare di nichilismo Aristotele e la sua nozione analogica dell’essere, nonché per conseguenza la nozione tomistica e il dogma biblico della creazione. Severino pensa di poter sciogliere la detta contraddizione sostituendo la categoria dell’apparire e scomparire a quella del passare dal non-essere e all’essere e dall’essere al non-essere, ossia la categoria del divenire.

Tolta questa contraddizione, Postorino segue Severino nell’ammettere un’altra contraddizione, questa volta, «fondamentale»[6] e radicale, assente in Parmenide e presente in Hegel, che qui assume lo scorrere, il fluire, il passare, rein eracliteo, il werden. Da qui la «fluidità» e mutabilità del concetto in Hegel, appunto per rappresentare lo scorrere dell’essere.

Postorino segue Severino anche nell’ignorare la distinzione fra l’effetto e la causa; il concetto di causa non ha senso, l’essere non causa niente, perché nulla esiste al di fuori dell’essere; perché l’effetto, il mondo, il divenire, il tempo e il molteplice, che congiungono essere e non-essere, sono impossibili ed inconcepibili in quanto contravverrebbero al principio di identità parmenideo che l’essere è e il non-essere non-è. In termini teologici dovremmo dire che esiste solo Dio. Ritenere esistente il divenire, nella sua contradditorietà è pertanto per Severino assurdità e nichilismo. E Postorino fa propria questa concezione.

Creare vuol dire produrre, non apparire

È evidente allora per Postorino che il concetto biblico di creazione come causare o produrre l’essere dal nulla è assurdo per quattro motivi: 1) perché la causa efficiente non esiste; 2) perché il concetto del nulla è contradditorio; 3) perché suppone una precedenza temporale del non-essere della creatura all’essere della creatura; 4) perché l’essere, che è solo l’essere assoluto ed incausato, non può provenire dal nulla. Da un punto di vista teologico sarebbe come chiedersi chi ha creato Dio.

Ora, Pastorino, che si professa cattolico, non se la sente di assumere in toto la posizione di Severino che notoriamente accusa il concetto biblico e quindi il cristianesimo di nichilismo e di follìa, e tuttavia ritiene di poter utilizzare in parte il concetto di essere di Severino addirittura per formulare il concetto di creazione meglio e in modo più «rigoroso», non nichilistico e non «dualistico» di quanto faccia San Tommaso e quindi lo stesso dogma della creazione formulato dal Concilio Lateranense IV nel 1215, secondo il quale Dio «simul ab initio temporis utramque de nihilo condidit creaturam, spiritualem et corporalem»[7].

Postorino si rifiuta di concepire il creare come un produrre, in quanto comporterebbe un far passare l’essere dal non-essere all’essere, cosa che a Postorino sembra contradditoria perchè comporterebbe la affermazione e la negazione dell’essere, senza capire che proprio il passare evita la contraddizione mediante l’introduzione del prima e del poi.

Il dualismo che Postorino crede di rintracciare nella concezione biblico-tomista di creazione  consisterebbe nel fatto che essa non sarebbe riconducibile a quella concezione assolutamente unitaria dell’essere che sarebbe data da Parmenide, ma assume e suppone quella aristotelica che distingue l’atto dalla potenza  sul piano ontologico e il possibile o pensabile dall’attuale o esistente sul piano dell’ente di ragione logico, come se solo Parmenide e non Aristotele avesse una concezione rigorosa dell’essere e del principio di identità e non contraddizione, il che è falso, perché invece è Aristotele a cogliere pienamente e perfettamente il valore del principio parmenideo, ed è lui a formularlo in modo perfetto e rigoroso, perché vi include anche l’identità, la necessità e la non-contradditorietà del diveniente e del contingente, cosa che Parmenide non era riuscito a fare, e neppure Platone col suo «essere-che-non-è», perché Parmenide identifica l’essere con l’essere univoco, come se fosse un genere le cui differenze restano fuori, o come se il diverso s’identificasse con l’identico, o come se l’essere fosse  solo l’essere uno, universale, necessario, increato e sussistente, il che evidentemente esclude l’essere analogico, singolo, concreto, diversificato, contingente, creato ed accidentale.   

Postorino crede che l’essere parmenideo nella reinterpretazione severiniana, che in realtà – come vedremo - ha come ultimo appoggio l’essere dialettico di Hegel, sia necessario per «rigorizzare» il concetto biblico di creazione, senza rendersi conto che Severino elabora il suo concetto di essere non per rigorizzare ma per distruggere come «follìa» il concetto biblico di creazione come produzione dell’essere dal nulla.

Il concetto severiniano di essere è quindi il più opposto si possa immaginare a quello biblico. Esso invece fa riferimento, anche, come vedremo, con riserva, alla concezione di Parmenide, dalla quale di per sé si trae che il causato, il molteplice, il sensibile, il materiale, il divenire, il diverso, il singolo, il mutamento, la generazione e la corruzione, l’aumento e la diminuzione, l’alterazione e la trasformazione, il progresso e il regresso, lo spazio e il tempo, il nulla e l’ente di ragione sono al di fuori dell’essere e quindi non esistono. O sono pura illusione e vana apparenza.

Postorino si pronuncia contro il dualismo dal quale secondo lui sarebbe affetta la formula dogmatica della creatio ex nihilo, intesa tomisticamente come productio totius entis, evidenzia la necessità che il filosofare parta da un unico principio, che tutto faccia convergere verso quel principio, perché «il due richiede di essere spiegato, mentre l’uno non ha bisogno di spiegazione»[8].

Ora è chiaro che il principio del reale, Dio, non può che essere uno solo. Ma nulla vieta che il primo principio e i primi princìpi del filosofare comportino dei giudizi e delle distinzioni concettuali fondamentali proprio ordinati alla dimostrazione dell’esistenza dell’unico sommo e divino principio dell’essere e degli enti. 

Ê vero che tutto il reale dev’essere ricondotto a un unico principio. In tal senso Postorino ha ragione a rifiutare la dualità perché sarebbe il dualismo, ossia contraddizione e rottura dell’identità assoluta. Per questo nel bisogno di unità e identità proprio di un Parmenide potremmo addirittura rintracciare un’esigenza monoteistica e la traccia dell’ipsum Esse subsistens che San Tommaso ricaverà da Es 3,14, se non fosse che purtroppo Parmenide blocca l’essere nell’essere necessario senza dare spazio a quello contingente.

Ma la dualità di essere e nulla, come fa il dogma biblico, l’esistenza sia dell’essere che del nulla non è affatto dualismo, ma necessità fondamentale dell’essere e del pensare, appunto per evitare la contraddizione. L’opposizione e la      separazione dell’essere dal nulla, dell’affermazione dalla negazione, del sì dal no non è dualismo, ma verità assoluta e dovere assoluto del pensare.

Come ho già detto, Cristo stesso insegna questo principio quando proibisce di confondere il sì col no, e di servire a due padroni e ci avverte che chi non è con Lui è contro di Lui, mentre San Paolo ci avverte che Satana e Cristo non hanno nulla in comune. Non bisogna confondere l’aut-aut con l’et-et. Il primo è opposizione ed esclusione reciproca assoluta; il secondo è il principio dell’alterità, della diversità e della pluralità nell’essere, nel vero e nel bene.

È chiaro tuttavia che Severino, per non apparire un malato di mente, non può in fondo non riconoscere l’esistenza di tutte queste cose evidenti alla più elementare ed universale esperienza e ragione. Tuttavia egli tiene duro sul concetto parmenideo dell’essere, convinto che risponda ad un’irrinunciabile esigenza del pensiero e della ragione per non cadere in contraddizione ed evitare quel nichilismo secondo il quale l’essere non è o l’essere coincide col non essere, così da annullare se stesso, per cui, come dice Severino, «l’essere è nulla», «l’essere viene dal nulla e torna al nulla», come già credeva quella povera creatura di Leopardi, ammesso che ci credesse sul serio.

Severino assume questa posizione in base alla sua formulazione del principio d’identità e non contraddizione, che egli riprende da Parmenide: «l’essere è; il non-essere non è». Da questo principio si può ricavare certamente il principio d’identità, che dice: ogni ente è ciò che è, è se stesso e non altro; ogni ente è un ente, ma nel contempo è diverso dall’altro; ogni ente non si oppone a un altro ente, ma solo al nulla.

Fine Seconda Parte (2/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 18 novembre 2022

 
San Tommaso enuncia in una maniera lapidaria il principio di non-contraddizione: non est affirmare et negare simul, perché ogni ente è quello che è, per cui è impossibile che un ente sia e non sia simultaneamente e sotto lo stesso riguardo: principio di identità. Può esserlo in tempi diversi e sotto aspetti diversi.

Introducendo nel principio la citazione del tempo («simultaneamente»), cosa che Parmenide trascura di fare, tempo, che suppone e comporta il passaggio dell’ente dalla potenza all’atto, Aristotele ha spiegato come il divenire non è contradditorio, ma intellegibile e identitario, fino a concernere il mobile nell’istante presente nel quale è in atto il suo movimento, benché questo istante passi e il successivo non sia ancora giunto.

 
 
 
Severino, togliendo dal principio aristotelico di non-contraddizione la citazione del tempo, che per lui non esiste o è apparire e non essere, e credendo di enunciare il principio in modo più rigoroso e non nichilistico, in realtà, non applicando il principio al diveniente nel tempo, non ci fa capire come sia possibile che nel divenire un ente sia e non sia, per cui, in nome di una falsa concezione del principio d’identità, viene a negare il principio d’identità.
 
 

Postorino si rifiuta di concepire il creare come un produrre, in quanto comporterebbe un far passare l’essere dal non-essere all’essere, cosa che a Postorino sembra contradditoria perchè comporterebbe la affermazione e la negazione dell’essere, senza capire che proprio il passare evita la contraddizione mediante l’introduzione del prima e del poi.

 
Immagini da Internet:
La creazione, Maurits Cornelis Escher
 
 
 

[1] Scienza della logica, Edizioni Laterza, Bari 1984, p.69.

[2] Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Edizioni Laterza, Bari 1963, p.91.

[3] Vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1995, pp.326-328.

[4] Questa è l’esplicitazione del sum cartesiano.

[5] In termini teologici: creato da me. Peraltro, non un creare dal nulla, ma nel senso che  pongo (setzen) l’essere del non-io (l’altro) come negazione del mio essere.

[6] Il concetto della «creatio ex nihilo», op.cit., pp.263,265,266,267.

[7] Denz.800.

[8]Il concetto della creatio, op.cit., p.202.

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