La creazione divina secondo Gustavo Bontadini - Seconda Parte (2/5)

 La creazione divina secondo Gustavo Bontadini

Seconda Parte (2/5)

La nozione di creazione va cercata nella linea dell’atto d’essere,

non della attività dialettica

Ora, Bontadini sembra trovarsi su questa linea concettualista ed essenzialista, che per un eccessivo bisogno di precisione e formalità, perde di vista la causalità efficiente dell’atto d’essere, che invece è necessario tener presente per formarsi il concetto giusto di creazione, che è la risposta radicale al problema del perché dell’effetto creato, ossia dell’ente mondano, una causa sufficientemente esplicativa.

Bontadini allora, in questa visuale esclusivamente formale ed essenzialista, ritiene che la prova più rigorosa per la dimostrazione di Dio creatore non debba basarsi sul principio di causalità, ma su quello di non contraddizione, che è quello che maggiormente soddisfa la forma del pensare.

Non si tratta allora in questa visuale di badare alla realtà, anche se oscura e misteriosa, ma di operare su concetti. Il pensiero per Bontadini non è forse intrascendibile? Così il reale non gli appare un gradino ontologico esterno al pensiero – le cose sensibili - per salire a Dio, ma un ostacolo, perché gli pare, con gli occhi di Parmenide, contradditorio.

Invece gli sembra che Parmenide, col suo concetto entusiasmante dell’essere «pieno e rotondo», come lo stesso Parmenide si esprime, gli metta subito Dio, l’Essere necessario e sussistente, davanti agli occhi. Che bisogno c’è delle complicate cinque vie di San Tommaso? Bontadini non si sente come un alpinista che con prudenza e circospezione misura l’affidabilità di ogni passo compiuto, ma parte come un razzo interplanetario che corre velocissimo verso il cielo stellato. Ma c’è da fidarsi?

Così per lui il negare l’esistenza di Dio comporta un’assurdità, che però non è quella di ammettere ed adorare l’effetto negandone la causa, ma è quella di idolatrare il divenire facendone un assoluto, considerando come identico ciò che è contradditorio.

Bontadini ragiona in modo simile all’argomentare di Sant’Anselmo: negare che esista Colui che non può non esistere è contradditorio. Bontadini parte dall’enunciato parmenideo del principio di identità, per il quale l’essere è, ed è contradditorio che l’essere non sia. Solo che assume il concetto parmenideo dell’essere, come essere uno, immobile, eterno e necessario, che non può non essere. Da qui la conseguenza che Parmenide non si accontenta di dire che è contradditorio che l’essere non sia, ma, in forza del suo concetto di essere, arriva a dire che è contradditorio che l’essere possa non essere.

Da qui la negazione dell’identità e dello statuto ontologico dell’ente contingente, ovvero dell’ente diveniente. Bontadini non arriva a dire (così almeno pare) che il divenire sia contradditorio, ma sostiene che lo divenga, se posto al posto di Dio, cioè se non si afferma l’esistenza di Dio distinto dal divenire.

Dio avrebbe la funzione di togliere l’apparente contradditorietà del divenire. L’essere infatti è identico. Divinizzare o assolutizzare il divenire, che è contradditorio. vuol dire dichiarare identico il contradditorio, il che è assurdo. L’essere per il parmenideo Bontadini è di per sé immobile; dichiarare immobile l’essere mobile è assurdo. Occorre distinguere l’identico dal contradditorio, l’immobile dal mobile. Ciò comporta l’affermazione dell’esistenza di Dio.

E come Dio crea? Non con l’affermazione ma con la negazione. Non con un atto ontologico, ma con un atto logico. Dio crea il finito negando alla creatura l’infinità; annulla ossia nega l’essere che trascende la creatura e così la pone nel suo limite.

Occorre però notare che ripugna l’idea di un Dio che crea annullando, seppure soltanto un surplus di essere, un essere trascendente. Ma quell’essere non è Egli stesso? Viene in mente il principio di Spinoza: omnis determinatio est negatio. Così per Bontadini creare non è far sorgere l’essere dal nulla, perché per lui sarebbe contradditorio, ma negare l’infinità del finito, limitare l’infinito. Questo però si può concepire nei concetti, ma non nella realtà. Ora Bontadini dimentica che il problema dell’esistenza di Dio non è un problema di logica, anche se è logico il ragionamento che dimostra l’esistenza di Dio. Ma è il problema di dar fondamento alla realtà. La logica certamente occorre, ma al servizio dell’indagine sulle cause della realtà

In Bontadini abbiamo il metodo dialettico della negazione concettuale al posto dell’affermazione di realtà. Ma se guardiamo alla realtà, vediamo che le cose non vanno a questo modo. Dio crea il finito non limitando il concetto dell’infinito, ma ponendo l’essere fino a fargli raggiungere un certo limite. Ciò come avviene? Ciò si comprende, se concepiamo Dio come causa e non come negazione dialettica. Dio, creando, non nullifica e non nega nulla, ma al contrario, afferma e causa l’essere dal nulla.

Invece di concepire un nulla dal quale Dio trae la creatura, Bontadini preferisce concepire un Dio che limita l’essere per renderlo finito. Bontadini non si rende conto che è un grave inconveniente concepire un Dio che annulla, quando in realtà è tutto il contrario: Dio non vuole il nulla, ma vuole l’essere! Il nulla è fuori di Dio, come il non-essere è fuori dall’essere. Ed è dal nulla che Egli trae la creatura. Per Bontadini è contradditorio un nulla posto fuori di Dio, dal quale Egli tragga l’essere e non è contradditorio il nulla col quale Dio annulla l’essere per renderlo finito. Non avrebbe fatto meglio a pensare il contrario?

Secondo Bontadini, legato al concetto gentiliano del pensare ridotto all’agire, che Gentile chiamava «atto», la creazione non è un atto della volontà, ossia della causalità efficiente divina, ma è un atto del pensiero-atto, un atto della mente divina, per il quale essa toglie la contraddizione del divenire, Dio non agisce, ma pensa e crea non con la volontà ma col pensiero. Ma siccome il pensare è volere, ciò non impedisce a Bontadini di dire che il creare è atto della libera volontà divina.

Per Bontadini, inoltre, il pensiero non parte dall’esperienza sensibile per formare il concetto dell’essere, ma il pensiero parte cartesianamente da se stesso, perché per sua essenza è pensiero dell’essere e quindi non ha bisogno di passare dalla potenza all’atto per la mediazione dei sensi.  Il sentire non precede il pensare ma lo segue perché è fondato sul pensare.

Con queste premesse teoretiche, al fine di dimostrare l’esistenza di Dio creatore non si tratta per Bontadini di fare un’indagine fisica come ha fatto Aristotele e chiedersi qual é e come dev’essere la causa sufficiente dell’ente fisico, ma di compiere un’operazione logica, di sciogliere una contraddizione, al fine di dar soddisfazione alla ragione, che non ammette che l’essere sia contradditorio, ossia la ragione che rifiuta il nichilismo, secondo cui l’essere non è.

Per questo Bontadini nega il non esser più e il non essere ancora. Nega un essere che possa non essere. Nega l’esistenza del nulla come non-essere, in base al principio parmenideo che l’essere non può non essere. Certo, osserva Aristotele, nel momento in cui è, un ente mutevole e temporale non può non essere, ma un momento dopo può non essere più o un momento prima può non esser stato.  Così Bontadini nega l’esistenza del tempo.

Per Bontadini Dio, creando il mondo lo fa dipendere da sé non come una causa efficiente o movente fa dipendere da sé l’effetto, ma come un’essenza fa dipendere da sé le sue proprietà, che discendono logicamente dall’essenza. Dio non produce l’ente dal nulla ma deduce l’ente dal suo Essere.

Il ragionare di Bontadini è tipico degli idealisti. Non si muovono sulla realtà ma sulle idee. E se chiediamo loro a che cosa riferiscono le loro idee, ci indicano altre loro idee. I loro discepoli e ammiratori, allora, come Berlanda, si mettono a discutere non circa la realtà che i maestri indicano, ma per capire che cosa hanno detto e che cosa pensano, quali sono, insomma, le loro vere idee. C’è chi si accontenta di questo e scrive libri per interpretare il pensiero del maestro. Con ciò abbiamo dimostrato l’esistenza di Dio e la nozione di creazione?

La nozione di creazione corrisponde alla radicalizzazione del concetto di causalità. Le cause seconde, con le quali quotidianamente abbiamo a che fare ed anche quelle prese in esame dalle scienze sperimentali, sono cause seconde, cause causate, cause dei fenomeni, che rimandano a cause precedenti, ossia cause del divenire, del moto, della generazione e della corruzione, dell’alterazione o della permanenza, della trasformazione o della malformazione, dell’aumento e del decremento, del progresso e del regresso, dell’aggregazione e della dissoluzione, del conflitto e della conciliazione, dell’unificazione e della dispersione, ecc.

Queste cause, però, non danno mai ragione dell’esistenza dell’effetto nella sua totalità, ma solo di mutamenti accidentali o anche formali o sostanziali, ma non danno ragione del soggetto stesso di questi mutamenti. Esse danno ragione del cambiare, ma non dell’esistenza del soggetto stesso del cambiamento.

Ebbene la causalità creatrice, propria esclusivamente di Dio, Essere assoluto e onnipotente, dà ragione anche dell’esistenza di questo soggetto, che Aristotele chiamava ypokèimenon, pensando alla materia, ma che nelle sostanze spirituali è l’essenza stessa o forma sussistente, chiamata da Aristotele ypòstasis, sussistenza propria dell’usìa coristè, la forma sussistente da sé, separatamente dalla materia, la sostanza spirituale, ontologizzazione dell’idea platonica.

Una concezione sbagliata del divenire

Bontadini afferma che «il divenire è unità di essere e non-essere»[1]. Ora, questo non è affatto vero. Bontadini assume la definizione hegeliana del divenire, che suppone che un ente possa essere e non essere simultaneamente sotto il medesimo aspetto. Il che è impossibile. Ma il divenire esiste, non è affatto impossibile. Dunque la definizione hegeliana non ha senso.

Da essa nasce l’idea che ossessiona Bontadini, che il divenire sia o appaia contradditorio. Mentre Hegel non prova difficoltà ad accettare questa assurdità, Bontadini si ribella e per questo si sforza di dimostrare che la contraddizione è solo apparente e comunque può essere tolta, o considerando il divenire come solo apparente.

Hegel identifica fra di loro e confonde gli opposti, come l’essere e il non-essere e separa e contrappone ciò che deve essere unito, così riduce l’alterità e il diverso al negativo, e il proporzionato al conflittuale. È chiaro che in questa visione non esiste un progresso nella continuità, ma il progresso avviene per contraddizione alla fase precedente. L’etica hegeliana non è fatta per risolvere i conflitti, ma al contrario li suscita e li alimenta, nella convinzione di favorire il progresso.

I razionalisti ed Hegel con lui danno per esistente e intellegibile solo quello che essi possono concepire e comprendere con la loro ragione. Ciò che sta al di sotto, come la materia o al di sopra, come lo spirito, lo giudicano contradditorio o impossibile. Così il divenire spirituale e temporale non è assunto con oggettività e attenzione alle pieghe del concreto, ma è dialettizzato e incasellato negli schemi della logica della contraddizione. 

Eppure la nostra ragione, ci fa notare Aristotele, se fa attenzione alla realtà, si accorge che essa, come già aveva intuìto Platone con la distinzione fra il sensibile e l’intellegibile, è posta su due piani ontologici uno (cielo) sull’altro (terra) e non si lascia penetrare e scrutare dal nostro intelletto, perché sul piano della materia, dell’ypokèimenon, come lo chiamava Aristotele, il reale ci appare ostico e troppo poco intellegibile.

Quel soggetto che prima aveva la forma del legno, successivamente, bruciato dal fuoco, è divenuto cenere. Aristotele comprese che non è il caso di supporre che qui sia violato il principio d’identità perché il legno è e non è e la cenere non è ed è, a patto che si abbia il buon senso di riconoscere il prima e il dopo e che non c’è confusione fra l’essere e il non-essere, ma passaggio dal non-essere all’essere e viceversa.

Passare dal non essere all’essere non implica alcuna violazione del principio di identità, in quanto non comporta una simultaneità, ma una successione. Contraddizione ci sarebbe se si affermasse e negasse ad un tempo l’essere e il non-essere. Il fatto del passare, del divenire mantiene l’opposizione fra essere e non essere; non li identifica affatto. Semmai questo avviene in Hegel, ma non certo in Aristotele, che ha cura di distinguere il possibile dall’attuale e la potenza dall’atto.

Ciò allora vuol dire che la creazione come passaggio della creatura dal non essere all’essere non è per nulla contradditorio, perché al contrario suppone l’opposizione del non essere prima all’essere dopo. E il prima e il dopo non fanno altro che chiarire il rispetto del principio di non-contraddizione. Non è l’affermazione congiunta del sì e del no, ma l’affermazione del sì e la negazione del no, già presente in Parmenide e confermata da Aristotele.

Invece nel seguente esempio portato da Bontadini, egli si aggroviglia in una contraddizione inesistente per non voler usare le categorie fornite di Aristotele atte ad un tempo a spiegare il divenire e a restar fedeli al principio di non-contraddizione:

«nel divenire c’è il momento di non essere dell’essere, c’è una contraddizione dell’esperienza»; «nel divenire c’è una contraddizione»; «la contraddizione del divenire consiste nel fatto che c’è un momento di non essere dell’essere»; «nel divenire l’essere non è. Questo è contradditorio in quanto è affermare idem et de eodem et sub eodem. Contraddizione non è il fatto che Socrate era vivo ed ora è morto (in momenti diversi), non cioè il fatto che l’essere prima è e poi non è: ma che simpliciter Socrate non è. La contraddizione è in questo punto in cui l’essere non è»; «il dato è contradditorio: l’esperienza ci presenta il non-essere dell’essere»[2].

Bontadini non riflette al fatto che è semplicemente impossibile che l’ente sia e non sia simultaneamente e sotto il medesimo aspetto. Da cui il divieto fatto dalla ragione al giudizio di affermare e negare simultaneamente una stessa cosa dello stesso soggetto cosa sotto il medesimo aspetto.

Qualunque persona di mente sana capisce che non è possibile che Socrate sia ad un tempo vivo e morto. Si può certo predicare di lui il vivere e il morire, ma non ha senso ed è disonesto predicarli assieme simultaneamente. Per evitare la contraddizione è sufficiente introdurre il riferimento al tempo, come lo stesso Bontadini si esprime: Socrate fu vivo. Adesso è morto. Non è c’è nessuna offesa al principio di non-contraddizione nel dire che Socrate non c’è più, è morto. Il principio di non-contraddizione non proibisce la semplice negazione, se il referente oggettivo effettivamente non esiste, ma è la proibizione di affermare e negare simultaneamente.

E quindi la tesi di Bontadini secondo la quale «nel divenire c’è una contraddizione»; «la contraddizione del divenire consiste nel fatto che c’è un momento di non essere dell’essere»; «nel divenire l’essere non è», questa tesi è assolutamente falsa e assurda.

Il movimento, allora, nota Aristotele, non è la negazione dell’essere, ma l’atto di ciò che è in potenza e non si può dire che il legno è totalmente annullato, ma che quello che prima aveva la forma del legno, ossia la materia del legno, adesso ha la forma della cenere, e che nel trasformarsi del legno in cenere c’è stato un passaggio dal non essere all’essere e dall’essere al non-essere. Passaggio non comporta nessuna contraddizione, ma collegamento fra il prima e il poi. Contraddizione ci sarebbe se si dicesse che il legno è la cenere o il legno non è il legno. Ma nell’affermare che l’uno non è l’altro non c’è alcuna contraddizione.

Una forma, quella del legno, certo, viene meno e ne appare un’altra, quella della cenere. Ma perché mai l’essere dovrebbe essere solo l’essere immutabile e incorruttibile, quando vediamo che muta e si corrompe? E perché non potrebbe venire all’esistenza qualcosa di nuovo, quando vediamo che le cose vanno effettivamente così? Contra factum non valet argumentum. Non è la nostra ragione che deve dar forma alla realtà, ma spetta alla realtà, quale che sia, immutabile o mutevole, informare la nostra ragione.

I nostri sensi non sperimentano direttamente il soggetto materiale della forma, l’ypokèimenon, ma solo le sue qualità sensibili. Invece sul piano dello spirito il reale ci sovrasta, è troppo intellegibile. Il nostro intelletto avanza nella luce, ma sempre superato da una luce superiore che non comprende.

Il nostro intelletto, infatti, si potrebbe paragonare a uno stomaco da saziare. Il reale è il cibo che gli viene offerto. Ora capita che la materia non lo sazia, perché è un cibo insufficiente, mentre lo spirito eccede le sue capacità, per cui, se per ingordigia ne mangia troppo, finisce per fare un’indigestione; fuor di metafora, finisce per gonfiarsi d’orgoglio e con ciò stesso, come avviene in tutte le passioni,  gli si offusca la vista spirituale, quasi a castigo della sua pretesa gnostica di poter sapere di più di quanto all’umana ragione sia concesso di sapere.

Nello scrutare la materia, capiamo che è una realtà: i nostri sensi lo attestano. Ma il nostro intelletto la trova oscura. Similmente accade nella percezione della realtà spirituale. Anche qui siamo davanti al mistero, ma di segno totalmente differente, perchè qui il nostro spirito si perde in una vastità sconfinata, infinitamente superiore a quanto di meglio riusciamo ad immaginare.

Bontadini trova il divenire contradditorio perché nel prenderlo in considerazione, non usa le categorie giuste, che pur aveva già elaborato Aristotele, come quelle della potenza e dell’atto, della materia e della forma, del passare (metàbasis), del soggetto (ypokèimenon), del prima-poi.

Alla luce di queste precisazioni sulla corretta interpretazione del principio di identità e di non-contraddizione, riprendiamo l’esempio precedente, dove apparirà di come lo stesso Bontadini, per non usare le suddette categorie temporali e fare con esse le dovute precisazioni dettate dal buon senso, si impiglia in contraddizioni irresolubili, come abbiamo visto in precedenza.

Osserviamo che il non-essere nel divenire non è il semplice ed assoluto non-essere, ma è un certo modo di non-essere. È il non-essere-ancora, il non-essere-più, il non-essere-adesso, che si oppone ad un opposto modo di essere: all’esser prima, all’essere adesso, all’esser poi, all’essere simultaneo, all’essere-già, all’esser presente, all’esser-stato, all’essere-che-sarà, all’esser futuro. Si tratta di forme del non-essere e dell’essere, legate al tempo, che occorre tener presenti per non trovare la contraddizione dove non c’è.

Contraddizione sarebbe se io dicessi che adesso Socrate è vivo ed è morto. Ma è evidente che se si tolgono gli avverbi temporali e i tempi del verbo essere e lo si mette all’infinito confondendo la metafisica con la narrazione di un fatto, sorge la contraddizione. Ma facciamoci una semplice domanda: a che servono i tempi del verbo essere e gli avverbi di tempo, se non per tenerci a contatto con la realtà? E se perdiamo il contatto con la realtà, a che serve ragionare su concetti che non la colgono? Il tempo è una realtà. Non esiste solo l’essere eterno. Esiste anche l’essere temporale.

Ora l’essere non è solo atto d’essere, ma anche poter essere. Il non essere non è solo il non poter essere, ma anche il poter non essere. Se teniamo presenti questi modi di essere e di non-essere, scioglieremo le apparenti contraddizioni che sorgono da una cattiva e inadatta concettualizzazione dell’essere, che manca di quella apertura e duttilità che sono necessarie per afferrare l’intellegibilità e capire l’identità propria del divenire temporale.

Essere, inoltre, non significa solo essere fisso, statico e immobile, ma anche passare, mutare, fluire, scorrere, cambiare, avvenire, divenire. Non dobbiamo opporre l’essere al divenire come se fossimo davanti ad un aut-aut, come se ci fosse in gioco il principio di non-contraddizione. L’essere non esclude il divenire. Il divenire è semplicemente un modo d’essere. L’identità non è solo quella dell’immutabile, ma anche quella del mutevole. Esistono entrambi. Semplicemente sono diversi.

Fine Seconda Parte (2/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 2 gennaio 2023

 

Parmenide

 

Bontadini ritiene che la prova più rigorosa per la dimostrazione di Dio creatore non debba basarsi sul principio di causalità, ma su quello di non contraddizione, che è quello che maggiormente soddisfa la forma del pensare.

Non si tratta allora in questa visuale di badare alla realtà, anche se oscura e misteriosa, ma di operare sui concetti. Così il reale non gli appare un gradino ontologico esterno al pensiero – le cose sensibili - per salire a Dio, ma un ostacolo, perché gli pare, con gli occhi di Parmenide, contradditorio.


Eppure la nostra ragione, ci fa notare Aristotele, se fa attenzione alla realtà, si accorge che essa, come già aveva intuìto Platone con la distinzione fra il sensibile e l’intellegibile, è posta su due piani ontologici, uno (cielo) sull’altro (terra), e non si lascia penetrare e scrutare dal nostro intelletto, perché sul piano della materia, dell’ypokèimenon, come lo chiamava Aristotele, il reale ci appare ostico e troppo poco intellegibile.

Quel soggetto che prima aveva la forma del legno, successivamente, bruciato dal fuoco, è divenuto cenere. Aristotele comprese che non è il caso di supporre che qui sia violato il principio d’identità, perché il legno è e non è e la cenere non è ed è, a patto che si abbia il buon senso di riconoscere il prima e il dopo e che non c’è confusione fra l’essere e il non-essere, ma passaggio dal non-essere all’essere e viceversa.

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[1] Berlanda, op.cit.,p.438.

[2] Ibid., p.496.



2 commenti:

  1. Egregio prof. Cavalcoli,
    quantunque io non sia un filosofo, non mi pare che Bontadini abbia completamente torto. Il divenire, se assolutizzato, è contraddittorio.
    Infatti, il divenire è sempre concernente qualcosa; il nulla non è.
    Il divenire è passaggio di questo qualcosa dal non essere in una certa maniera all'essere in quella certa maniera: dalla privazione all'acquisizione di una certa maniera di essere.
    A questo punto ci chiediamo :"Donde proviene questa nuovo modo di essere?
    Possibili risposte:
    1) dal nulla.
    Ma questa risposta è contraddittoria, poichè il nulla non è, e, dunque, non è dante né facente nulla.
    2) dallo stesso ente diveniente.
    Ma anche questa risposta è contraddittoria, poiché il presupposto del divenire è che quell'ente ne sia privo.
    3) da un ente differente da quello diveniente.
    Solo in questo modo possiamo risolvere la contraddittorietà del divenire assolutizzato E questo ente possiamo chiamarlo causa efficiente.
    Dunque, il nesso di causalità non è un principio, ma un teorema, dimostrabile sulla base della contraddittorietà del divenire, qualora lo si assolutizzi.
    Ora, se noi consideriamo il tutto, esso ci appare in divenire. E la contraddittorietà di questo divenire è risolvibile solo se sia ammette un Ente che a sua volta non sia diveniente.
    Grazie, e mi scusi anticipatamente se ho frainteso il suo pensiero.

    P. S. Vorrei anche che dedicasse un suo articolo a confutare in maniera specifica la negazione del nesso di causalità da parte , per es. di Hume.



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    1. Caro Giuseppe, rispondo con piacere al suo interessante intervento, trattando la questione con una certa estensione in un articolo che pubblico su questo blog.

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