Il Dio dell’Amore non può volere l’uccisione dell’innocente

 Il Dio dell’Amore non può volere l’uccisione dell’innocente

Il nostro Lettore Bruno, mi ha offerto nuovi elementi nella complessa ed interessante discussione sul significato del sacrificio di Abramo.

Questa volta si vorrebbe sostenere l’interpretazione letteralistica in base a un concetto sbagliato della fede e dell’amore, che entrano in contrasto con la sana ragione e con la coscienza morale naturale.

Cf. https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/dio-non-e-ambiguo-e-non-vuole-un_30.html

Caro Padre Giovanni,

a proposito della tesi di André Wénin sulla presunta comunicazione ambigua, da parte di Dio, che lascerebbe libero Abramo di scegliere tra le due opzioni che, comunque non sarebbero in contrasto col comando divino, desidero rilevare quello che, a mio parere, costituisce un ulteriore punto debole di tale tesi, oltre a quelli già da lei esposti.

Ammettiamo per ipotesi (senza concederlo) che, come sostiene Wénin, la prova abramitica possa essere assimilata ad un test, similmente ai casi in cui, per usare le parole dello stesso teologo francese:

«Il professore fa passare un test a uno studente perché non sa se lo studente ha integrato le competenze che il corso si propone di dargli […] ma quando si è verificato ciò che si voleva sapere, lo studente sa o non sa, lo scienziato vede se l’ipotesi è giusta o meno, il test si ferma».

Ne consegue che devono esistere, necessariamente, una o più risposte “giuste” che permettono di superare con successo il test, e una o più risposte “sbagliate” che causano l’insuccesso di chi è stato sottoposto al test. Se fosse impossibile fallire il test, questo evidentemente, non avrebbe senso.

Ora, se Abramo, dinanzi al comando di Dio è libero di scegliere, se sacrificare Isacco oppure sacrificare un animale alla presenza di Isacco, e se ambedue le opzioni possono essere, in qualche modo, accettate da Dio come risposte “giuste” al suo comando, mi chiedo: quale avrebbe potuto essere, invece (nella logica di Wénin), la risposta “sbagliata”, cioè il comportamento col quale Abramo non avrebbe superato positivamente il test?

Credo che, in generale, ad una prova richiestaci da Dio, il comportamento non giusto da parte nostra, sia il rifiutarci di compiere la Sua volontà. Dunque, la risposta “sbagliata”, da parte di Abramo, sarebbe stata se questi si fosse ribellato, o quanto meno, si fosse rifiutato di compiere il sacrificio, disobbedendo così al comando di Dio.

Ma questa risposta “sbagliata” sarebbe stata possibile solo se, alla coscienza di Abramo, fosse stato chiaro e inequivocabile che Dio gli avesse chiesto proprio il sacrificio di Isacco. Soltanto in tale drammatica situazione interiore avrebbe avuto senso, non giustificabile ma comprensibile per la fragilità umana, disobbedire a Dio.

Altrimenti, se Abramo avesse invece percepito che vi fosse stata la pur minima possibilità di cavarsela con il semplice olocausto di un animale, avrebbe ragionevolmente tentato di percorrere questa strada, prima solo di pensare di non ottemperare al comando di Dio.

La conseguenza logica di questa mia considerazione, se fondata, è che dovremmo allora escludere che, per Abramo, si sia posto il dilemma su quale tipo di sacrificio Dio gli stesse chiedendo.

L’ipotesi di Wénin che, accanto al sacrificio di Isacco, venga prospettato ad Abramo “anche” il sacrificio di un animale, elimina di fatto, all’origine, la possibilità anche solo teorica, che Abramo possa incorrere in un comportamento sgradito a Dio, cioè esclude la possibilità di una risposta “sbagliata” alla prova/test cui Dio sottopone Abramo, ma in tal modo, rende priva di senso proprio la “prova” in quanto tale (ancor di più se assimilata ad un puro test come fa Wénin), che invece costituisce aspetto essenziale del racconto genesiaco sin dall’inizio (“Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo…”).

E dunque, nel respingere la tesi di Wénin, siamo necessariamente ricondotti alla traduzione/lettura più tradizionale di Genesi 22, per cui Dio, nell’ambito della prova cui sottopose Abramo, chiese al patriarca, senza ambiguità alcuna, di offrire in olocausto il proprio figlio Isacco.

Caro Bruno,

io ritengo che anche nell’ipotesi della scelta, ipotesi che noi scartiamo, Abramo di per sé avrebbe potuto rifiutare sia l’una che l’altra proposta.

Se da un lato condivido in buona parte le sue critiche al pensiero di Wénin, dall’altro confermo il mio dissenso rispetto alla sua tesi che il comando di sacrificare Isacco sia frutto di un fraintendimento da parte di Abramo.

Non c’è dubbio che Dio non voglia sacrifici umani, e l’intervento dell’angelo in Genesi 22,12 (“Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente!”) lo certifica in modo inequivocabile.

Ma questo non significa che, all’interno della prova, e sottolineo, limitatamente allo spazio della prova, Dio non possa aver comandato ad Abramo di recarsi sul monte nel territorio di Mòria per offrirgli il figlio in olocausto.

Come ho cercato di argomentare in miei precedenti interventi sul blog, la “prova” è una dimensione a parte, con un suo spazio e un suo tempo ben delimitati, e non riguarda la realtà e la vita diciamo così… “normale”, rispetto alla quale è come una provvisoria parentesi.

Per fare una similitudine, per quanto poco cogente… con la vita pratica: immaginiamo che in fase di progettazione industriale, si decida di sottoporre a “prova” la resistenza di un determinato materiale. Durante tale prova quel materiale verrà sottoposto gradualmente a sollecitazioni sempre maggiori, sino al suo limite di resilienza, superato il quale collasserà. Terminata la prova, se, nelle realizzazioni industriali (ovvero nella vita “normale”), si deciderà di utilizzare quel materiale, si dovrà prestare grande attenzione affinché esso non sia sottoposto al grado di sollecitazione che, durante la prova, ha portato al suo collasso.

Fuor di metafora, ciò che può essere “giusto” all’interno della prova (spingersi sino all’estremo limite), può non esserlo affatto nella realtà “normale”, al di fuori della prova.

Il fatto che, in Genesi 22.1, Dio comandi il sacrificio di un figlio quale prova “estrema”, significa che Dio ci sta comunicando che vuole che, nella nostra vita, si compiano sacrifici umani? Assolutamente no, perché quel comando ha un suo senso solo all’interno della prova di Abramo. E di questo il lettore viene subito informato dall’incipit del capitolo.

Di conseguenza, affermare che non si possa accettare il comando di Genesi 22 come proveniente da Dio, perché significherebbe che Dio sia favorevole ai sacrifici umani, è, a mio avviso, errato.

Quel comando divino, valido per la durata della prova, che richiede di affrontare un percorso fisico / spirituale, di tre giorni (“va' nel territorio di Mòria […] su di un monte che io ti indicherò”), con l’idea di dover sacrificare il proprio figlio amato, chiede, essenzialmente, che l’uomo si disponga all’obbedienza.

Fino a che punto, Dio può chiedere tanto all’uomo? Fino al punto che, a insindacabile giudizio divino, avrà dimostrato quanto è grande la sua fede obbedienziale. Allora la prova potrà concludersi poiché significa che veramente quell’uomo ama Dio:

«Se mi amate, osserverete i miei comandamenti» (Gv 14,15).

La conclusione della prova abramitica si risolve nella comunicazione, che Dio fa al patriarca, di non volere la morte di Isacco poiché era stata comandata con l’unico fine di poter affermare che “Ora” «so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito […] perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni […]» (Gn 22,12;16-17).

Dio, comandando, nell’ambito della prova, il sacrificio di Isacco, vuole davvero la morte di Isacco? Certamente no, visto che pone fine alla prova proprio fermando la mano di Abramo.

Dio, comandando, nell’ambito della prova, il sacrificio di Isacco, intende dunque avallare i sacrifici umani, oppure provare sino all’estremo la fede di Abramo? La risposta mi sembra scontata.

Pertanto, tra la verità che Dio non voglia sacrifici umani e il comando di Genesi 22,1 (nell’ambito della prova), non sussiste vera contraddizione.

Caro Bruno,

io direi che la proibizione di sacrifici umani è un precetto divino che vale sempre ed ovunque, non solo nella vita ordinaria, ma anche nei momenti di prova, e non è ammissibile che Dio pretenda da un uomo come prova di fede l’uccisione del figlio.

Lo so che lei può obiettare citando la lettera del testo, ma come le ho detto e ripetuto, l’esegesi moderna, che ha assunto per comando stesso della Chiesa il metodo storico-critico, ha capito che in certi casi, se si fa una interpretazione letterale, si cade in concezioni teologicamente erronee.

Sappiamo già dalla storia quali enormi inconvenienti nacquero in occasione del caso Galileo, proprio a causa di una interpretazione letterale, che l’esegesi moderna ha superato in modo del tutto ragionevole.

Così similmente Papa Francesco, in forza della sua autorità apostolica, ha interpretato l’espressione letterale “non indurci in tentazione” nel senso di “non abbandonarci alla tentazione”.

In questo 2022, Vita e Pensiero, ha pubblicato “Parlare delle Scritture sacre” di Paul Beauchamp, presentato come uno dei più importanti esegeti dell'Antico Testamento del 900.

Su Genesi 22, Beauchamp scrive:

«Tutta l’istanza, e, se vogliamo, la sostanza di questa storia è che Dio si contraddice ordinando prima una cosa e poi il suo contrario. Ed è importante mantenere l’ardire di un racconto che attribuisce a Dio due volti così differenti, secondo le sue due fasi. Nella seconda fase apprendiamo che Dio non vuole la morte di Isacco, vuole la sua vita, la vita del figlio; che egli viva in unione col padre. È la verità, e di conseguenza dovrebbe bastare. È tuttavia non è sufficiente».

Beauchamp ci sta dicendo che la verità che Dio non voglia la morte di Isacco è, paradossalmente, inseparabile dal comando iniziale che sembra contraddire tale verità, pena il non comprendere appieno il messaggio di Genesi 22.

Caro Bruno,

dovrebbe essere chiaro che Dio non può comandare ciò che è peccato.

Ora, un Dio che chiede ad Abramo di uccidere il figlio sarebbe un Dio che comanda di peccare. Per questo, come ho detto e ripetuto, una interpretazione letterale del testo è da respingersi, perché comporterebbe l’idea di un Dio, che comanda un peccato.

In tal modo una esegesi storico-critica suggerisce una soluzione sul tipo di quella che ho proposto io.

Prosegue Beauchamp: «Ci vuole anche la prima fase: Dio chiede l’offerta di Isacco in olocausto. Ci vuole perché è così facile andar ripetendo che Dio ci ama, credendo di sapere quello che significa! Anche Abramo avrebbe potuto dire «Dio, mio figlio e io siamo uniti dall’amore». Ma, così dicendo, avrebbe potuto credere che Dio fosse come lui. Ora, per rispondere con le parole di san Giovanni della Croce: «Se vuoi andare a quello che tu non sai, devi passare per “dove” tu non sai e per andare a quello che tu non vedi devi passare per “dove” che tu non vedi», cioè attraverso la notte.

Fu necessario che Abramo imparasse che cosa significhi dire «Dio ama» passando per il punto in cui egli non vede più affatto cosa significhi tale parola perché non vede che il suo contrario, e, ciò nonostante, va avanti ancora passo dopo passo».

Per quanto riguarda l’esercizio dell’amore, si tratti dell’amore divino o dell’amore umano, in ogni caso esso deve essere fondato sul vero bene.

Ora, l’uomo ha il dovere di non uccidere, per il fatto che Dio stesso, Signore della vita, non vuole la morte dei viventi. Per questo ciò che Dio chiede veramente ad Abramo, come è rivelato dall’angelo, non è l’uccisione di Isacco, ma quella dell’ariete.

Quanto ad Abramo, egli intende per errore in un primo tempo che Dio lo ami così da comandare l’uccisione del figlio, ma come narra il racconto biblico, Abramo viene illuminato dall’angelo su quello che è il vero amore, il quale non può assolutamente comportare all’omicidio, ma semmai richiedere il sacrificio di un animale.

Abramo è chiamato a purificare la sua fede, uscendo dalla logica puramente retributiva, per cui “amo Dio e gli obbedisco fintantoché, in questa vita, mi fa del bene”. Perché ciò sia possibile, è necessario che nella prova Abramo passi per la notte oscura… Affinché gli uomini imparino che qualsiasi dolore, disgrazia, ingiustizia possa loro capitare, mai dovranno rifiutarsi di aver fede e fare la volontà di Dio.

La prova che Dio chiede ad Abramo, stando alla lettera del testo, non è l’essere pronto a soffrire, ma il compiere un atto che, per la sua illeceità, non può essere comandato da Dio, perché Dio non può comandare di peccare. Per questo è necessario superare il senso letterale per evitare quel grave inconveniente e dare una interpretazione che scagioni Dio dall’accusa di volere il male.

Non bisogna confondere il male di colpa con il male di pena. Le prove che Dio ci manda non ci inducono a peccare, ma sono delle sofferenze che occorre sopportare. Le prove che ci inducono a peccare non vengono da Dio, ma dal diavolo.

Con le parole del cardinal Martini:

«la prova di Abramo è, come ogni prova seria, un mettere l'uomo di fronte al caso limite, dove l'uomo mostra veramente ciò che è. La fede di Abramo viene provocata fino al limite estremo».

È vero che Dio ci manda le prove perché appunto noi diamo prova del massimo delle nostre forze, ma è sottinteso che l’oggetto di questa prova sia una azione buona e non un’azione cattiva, come sarebbe il compiere un sacrificio umano.

Beauchamp prende poi in considerazione un tipo di esegesi che si avvicina alla sua, Padre Giovanni:

«Si potrebbe, e lo si fa sovente, raccontare la storia in altra maniera: Abramo, condotto dalla sua fanatica generosità, impressionato dalla crudele generosità dei pagani, i quali realmente sacrificavano spesso un figlio al loro dio, decide di offrire Isacco immolandolo, ma Dio gli rivela che egli non vuole la morte. In questa forma, solo la seconda fase comporterebbe una parola di Dio».

E il giudizio dell’esegeta francese è negativo:

«Lettura “edificante”, ma mi sembra che questo risultato sia ottenuto solo dopo aver un po’ espurgato il testo, addolcito i suoi spigoli e, in definitiva… scritto un altro testo.

[…] Che contrasto con lo stile della Bibbia, per la quale «Abramo, Abramo […] offri in olocausto!» è una parola di Dio e «Abramo, Abramo […] non stendere la mano contro il ragazzo!» è una seconda parola di Dio. Infatti, Dio era con lui alla fine, perché era con lui all’inizio e nel mezzo della prova. È così se Dio è Dio. Abramo si ingannava credendo che Dio volesse la morte. Certamente. Ma la Bibbia preferisce vedere nell’errore di Abramo una parola di Dio, tanto è sicura che Dio parli in Abramo, che Dio sia presente in Abramo anche quando Abramo sembra lontano da Dio».

In sostanza Beauchamp ci invita a non alterare la parola di Dio nella Scrittura, neppure se, aggiungerei, ci sembra non in linea col nostro schema teologico-metafisico.

Non c’è dubbio che Dio è sempre stato con Abramo, dall’inizio alla fine della prova: prima ispirando la sua buona fede, per la quale Abramo scambia per Parola di Dio una pratica pagana; e in seguito illuminandolo su quello che Egli voleva veramente. Ed anche Abramo è sempre stato con Dio: prima con la sua buona fede e poi obbedendo all’angelo.

Non si tratta di alterare la Parola di Dio, ma di darne la retta interpretazione, per impedire, come ho detto più volte, che da una interpretazione letteralistica risulti un Dio che vuole i sacrifici umani.

Osservo che, ragionando con la mentalità letteralistica di Beauchamp, si verrebbe a dare alla famosa frase di Giosuè “Fermati, o sole” un significato letterale tale per cui si verificherebbe un miracolo assurdo. Infatti, la moderna esegesi interpreta quelle parole nel senso che la battaglia si protrasse fino a tarda notte. In sostanza il testo biblico, con l’espressione del sole che si ferma, intendeva dire che la battaglia continuò ancora per molto tempo. Quindi l’espressone “fermati, o sole” non va presa alla lettera, ma è solo un modo di dire per esprimere che Dio dette ad Israele molto tempo per poter sconfiggere il nemico.

Non bisogna confondere l'interpretazione letterale col letteralismo. La prima è la comprensione di ciò che l'Autore sacro intende dire tenendo presenti i vari modi di dire nelle varie lingue, nei vari tempi, nelle varie culture e nei vari generi letterari, così come insegna il metodo storico-critico.

Il letteralismo invece è un'interpretazione ingenua, sprovveduta ed acritica, per la quale si viene a far dire all'agiografo ciò che non intende dire e si possono assegnare a Dio attributi che non Gli convengono.

Per questo è necessario, oltre all'esegesi storico-critica, dato che la verità di fede non può essere in contrasto con la verità di ragione, far uso anche di una buona teologia naturale e di una buona metafisica, le quali ci dicono in anticipo con assoluta certezza razionale ciò che Dio può essere o fare e ciò che non può essere o non può fare, così da poter capire che quando il testo biblico sembra assegnare a Dio cose che non Gli convengono, comprendiamo subito che non possiamo prendere il testo materialmente alla lettera, come suona alle nostre orecchie secondo il modo comune o scientifico di esprimerci noi oggi, ma occorre interpretarlo criticamente e scoprire di che genere letterario si tratta, se mitologico o storico o aneddotico o speculativo o sapienziale oppure  di che modo di esprimersi si tratta, se antropomorfico o metaforico o simbolico o poetico.

Infatti dire che Dio è onnipotente non vuol dire che può chiamare bene il male od ordinare o commettere peccati o dire falsità o fare cose assurde o impossibili o mutare identità o premiare i malvagi e castigare i buoni.

Queste erano le idee di Guglielmo di Ockham, che in qualche modo si trovano anche nel Corano. Ma questo non è certamente il Dio della ragione e della fede. Non è certamente il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Questo è il parto mostruoso di una fantasia malata e malevola.

Criticando la tesi di Wénin-Candido, lei ha scritto:

«quello che assolutamente non possiamo ammettere è che Dio si sia espresso in maniera ambigua, perché se c’è un Essere che si esprime con inequivocabile chiarezza e precisione di significati, questo è proprio Dio, dato che Dio è la Verità sussistente e il principio di ogni onestà e lealtà del linguaggio, proibendo formalmente in Cristo di mescolare il sì e il no».

Giustissimo. Ne consegue che il comando dato da Dio ad Abramo era necessariamente di “inequivocabile chiarezza e precisione di significati”. E come è possibile allora che Abramo lo abbia equivocato?

Se Dio non si esprime mai in modo ambiguo, se dunque anche quel Suo comando era inequivocabile, come ha potuto Abramo fraintenderlo? Se lo ha frainteso, allora, conseguenzialmente, dovremmo dire che non era inequivocabile.

E a questo punto, qualcuno potrebbe dire, Padre Giovanni, che la sua tesi finisce per contraddirsi.

Certamente le testuali parole “offrilo in olocausto” sono chiarissime e inequivocabili. Ma il problema non è questo. Il problema è che uno che sa che Dio non può volere sacrifici umani, dovrebbe comprendere subito che queste parole nascondono un qualcosa che non può essere messo in relazione con la vera intenzione di Dio. Che cosa fare, allora? Come risolvere questo problema? Come spiegare queste parole? A quale metodo esegetico dobbiamo ricorrere, per non fare di Dio un omicida?

Evidentemente dobbiamo rinunciare a prendere sul serio quelle parole. L’unica via d’uscita per interpretare quel testo è supporre che esso non esprima oggettivamente quello che Dio ha veramente voluto, ma esprima ciò che Abramo in coscienza, cioè in buona fede, ha creduto che Dio volesse e per questo si è accinto ad uccidere il figlio. E lo avrebbe fatto, se l’angelo non lo avesse fermato rivelandogli ciò che Dio voleva veramente e facendogli capire che Abramo si era sbagliato, probabilmente influenzato dall’esempio di riti pagani.

Le prime parole attribuite a Dio, probabilmente sono conformi alla religiosità di alcuni popoli contemporanei ad Abramo, possiamo pensare in particolare al popolo dal quale Abramo proveniva, mentre le parole dell’angelo sono vera e propria Rivelazione divina. Abramo riconosce il contrasto e obbedisce prontamente a Dio sospendendo, con somma soddisfazione, quando stava per fare a Isacco.

Bisogna inoltre considerare che Abramo era un uomo fallibile, come tutti noi, il quale pertanto ha progredito nella conoscenza di Dio, abbandonando errori che probabilmente aveva ereditato dalla sua terra d’origine.

Forse, con un certo “teologismo”, si potrebbe replicare che il parlare di Dio è inequivocabile “in se stesso”, ma che l’uomo, ferito dal peccato originale e oggetto degli attacchi di Satana, può comunque, in taluni casi, equivocarlo.

Non con un certo “teologismo”, ma con una sana teologia naturale, non “si potrebbe”, ma si può e si deve assolutamente replicare che il parlare di Dio è inequivocabile, perché Dio parla in modo leale e limpido, univoco e intellegibile, per quanto misterioso e trascendente rispetto alla capacità di comprensione della nostra ragione.

Condivido pienamente tutto il resto e non sarei alieno neppure io a credere che nell’errore commesso da Abramo sia presente lo zampino del demonio.

Abramo, quando riceve il comando di Genesi 22, aveva già, in precedenza, compiuto un sacrificio di animali su comando di Dio (Gen 15, 9-10) ma, in quel caso, le pratiche di sacrificio umano in uso all’epoca presso i cananei, non lo avevano minimamente influenzato. Come mai, tale condizionamento, così forte da fargli equivocare la parola divina inequivocabile, avverrebbe, nella coscienza di Abramo, solo in Genesi 22 e non anche in Genesi 15?

Non dobbiamo meravigliarci di questo mutamento d’idee nella vita di Abramo, perché dobbiamo ricordarci che ci troviamo in un periodo arcaico della teologia, un periodo nel quale pullulavano idee di carattere idolatrico, per cui dobbiamo pensare, con tutto il rispetto per Abramo, che egli non avesse piena chiarezza sul modo di offrire sacrifici a Dio.

E ciò spiega il fatto che a un certo punto Abramo acquista la convinzione di dovere sacrificare suo figlio, credendo di avere ricevuto una rivelazione divina. Come si spiega una cosa del genere? Si può spiegare appunto con un inganno del demonio. Tuttavia Dio non permette ai suoi santi che essi restino ingannati, se non per breve tempo, perché Egli vuole salvarli, per cui, se rimangono ingannati, manda un “angelo” a illuminarlo.

Caro Padre Giovanni,

riconosco di aver esagerato scrivendo che “l’ipotesi di Wénin… elimina di fatto, all’origine, la possibilità anche solo teorica, che Abramo possa incorrere in un comportamento sgradito a Dio…”.

Indubbiamente, Abramo è sempre libero di disobbedire a Dio. Anche nell’ipotesi esegetica di Wénin, Abramo avrebbe potuto rifiutarsi di compiere qualsiasi tipo di sacrificio.

Tuttavia, non possiamo fare a meno di domandarci che senso avrebbe potuto avere una scelta del genere?

Abramo, dopo che aveva ricevuto da Dio tanti doni, dopo che il Signore lo aveva aiutato in tante difficilissime situazioni, dopo che gli aveva donato il figlio tanto atteso a lui e alla moglie ormai molto avanti nell’età, dopo che gli aveva promesso una grandiosa discendenza e stabilito con lui un patto, ecc… dopo che Dio aveva fatto tutto questo per Abramo… alla richiesta di un sacrificio che, secondo Wénin, avrebbe potuto assolvere anche con l’uccisione di un animale, Abramo avrebbe potuto disobbedire a Dio?

In via puramente teorica, possiamo rispondere di sì, ma realisticamente dobbiamo riconoscere che si tratta di una possibilità talmente remota, talmente improbabile che finisce per inficiare l’aspetto della “prova”, sottolineato dall’incipit di Genesi 22, che resta fondamentale per l’intelligenza di tutto l’episodio del sacrificio abramitico.

E questo ritengo sia un punto debole, non banale, dell’esegesi di Wénin, nel proporre la libertà di scelta per Abramo tra i due tipi di sacrifici.

Abramo, per quanto fosse un uomo di virtù e pieno di zelo per Dio e per quanto conservasse memoria delle stupende promesse del Signore, oltre che dell’aiuto da Lui ricevuto, era pur sempre un figlio di Adamo peccatore, per cui di per sé, a sentire di dover sacrificare suo figlio, avrebbe potuto rifiutarsi.

Avrebbe potuto, con una riflessione più attenta, accorgersi, anche senza la rivelazione dell’angelo, che Dio non può chiedere un sacrificio umano e quindi far presente a Dio che non era degno di Lui chiedere una cosa simile. Dio, da parte sua, avrebbe potuto riconoscere che Egli effettivamente non la voleva, ma che era Abramo ad essersi ingannato. E la prova avrebbe funzionato lo stesso, anche se in modo diverso. Dio avrebbe lodato Abramo per la sua intelligenza teologica. Ma non possiamo chiedere a un semita di 4000 anni fa l’acume teologico di un San Tommaso d’Aquino.

Lei replica al mio commento “non è ammissibile che Dio pretenda da un uomo come prova di fede l’uccisione del figlio”.

Ho forse io sostenuto che il significato della prova, a cui Dio sottopone il patriarca, si riduca nel chiedere semplicemente ad Abramo di uccidere tout court Isacco?

No, io ho scritto invece:

«Quel comando divino, valido per la durata della prova, che richiede di affrontare un percorso fisico / spirituale, di tre giorni (“va' nel territorio di Mòria […] su di un monte che io ti indicherò”), con l’idea di dover sacrificare il proprio figlio amato, chiede, essenzialmente, che l’uomo si disponga all’obbedienza. Fino a che punto, Dio può chiedere tanto all’uomo? Fino al punto che, a insindacabile giudizio divino, avrà dimostrato quanto è grande la sua fede obbedienziale […]

Dio, comandando, nell’ambito della prova, il sacrificio di Isacco, vuole davvero la morte di Isacco? Certamente no, visto che pone fine alla prova proprio fermando la mano di Abramo».

In altre parole, il racconto genesiaco ci dice che Dio non pretende “davvero”, cioè sino all’ultimo, che un uomo uccida il proprio figlio come prova di fede, ma vuole che Abramo lo creda possibile fino ad un certo punto, in cui Dio svelerà il significato della prova.

Se Abramo aveva l’idea di dover sacrificare il figlio, ciò era dovuto alla sua convinzione in buona fede che fosse Dio a chiederlo. Se quindi Lei insiste nel dire che Dio all’inizio voleva questo sacrificio, come può sfuggire alla mia obiezione che in tal modo faremmo di Dio un assassino?

Lei dice che Dio non pretese il sacrificio «fino all’ultimo». Dunque lo pretese all’inizio. Ma allora ho ragione io nel dire che Lei sostiene che, almeno all’inizio, Dio avrebbe voluto il sacrificio, salvo poi a cambiare idea o a dare un contrordine mediante l’angelo.

Nel giudicare quel comando divino non possiamo non considerarne l’intenzione che lo muove, che, chiaramente, non è la volontà che Isacco muoia, ma che tutti noi conosciamo quanto è grande la fede di Abramo (Dio nella sua preveggenza già lo sa). Se abbiamo compreso qual è l’intenzione del comando divino, nell’ambito della prova, e come Dio voglia che termini tale prova (in modo incruento), come possiamo affermare che Dio “pretenda” dall’ uomo l’uccisione del proprio figlio, a prova di fede?

È chiaro che l’intenzione divina è quella che Abramo sacrifichi l’ariete e non il figlio. È Abramo che fraintende, fino a che non viene illuminato dall’angelo. Tuttavia Dio permette che Abramo fraintenda. Perchè? Perché ovviamente costa immensamente di più sacrificare il figlio che un animale. Ciò quindi ha richiesto ad Abramo una fede e un’obbedienza assai maggiori. Questo è stato il vertice della prova, dove Abramo ha acquistato maggior merito. Dio ha permesso che Abramo si sbagliasse solo per questo solo motivo.

Al contrario di quanto afferma, mi sembra che sia proprio lei che voglia fermarsi al mero significato letterale delle parole del comando divino, estrapolando dal testo sacro e da tutto il contesto, soltanto le parole “Prendi… Isacco… ed offrilo in olocausto”, per sottoporle al tribunale della teologia dogmatica e delle ultime espressioni papali, ricavandone così contrasto e incompatibilità, per arrivare alla conclusione che l’intero comando di Genesi 22,1, non solo non possa esser preso alla lettera, ma debba essere profondamente reinterpretato. Senonché, a mio modesto parere, lei non si limita a reinterpretare quel comando in chiave simbolica, ma lo cambia radicalmente o, per usare le parole di Beauchamp “scrive un altro testo”.

Io non «prendo alla lettera», cioè non faccio del letteralismo, e neppure reinterpreto o cambio il testo, ma dò l’interpretazione sanamente letterale, che, come ho detto in precedenza, è la comprensione di ciò che l’Autore sacro ha inteso dire, al di là di quanto a tutta prima potrebbe sembrare ad un occhio ingenuo, e a tal fine ho applicato il metodo storico-critico, che in questi casi difficili è più che mai utile per non dire indispensabile, onde salvare le esigenze della ragione e della fede e non cascare nel volontarismo irrazionalistico e fatalistico di Ockham o di Lutero, già segnalato a suo tempo da Benedetto XVI nel famoso discorso di Ratisbona contro il Corano.  

Un esegeta potrebbe sostenere che comandando di sacrificare Isacco, Dio non stia chiedendo il sacrificio cruento del figlio, ma che Abramo debba sacrificare il suo attaccamento possessivo ad Isacco che, da un lato, impedisce al figlio di realizzare liberamente la propria vita, dall’altro, incatena Abramo ad amare il dono più del Donatore. Non mi interessa ora entrare nel merito di questo tipo di esegesi, quanto rilevare che essa non mette in dubbio l’origine divina del comando, ma “si limita” a leggere l’Isacco da sacrificare, come l’”idea di Isacco” coltivata da Abramo, assieme al suo modo di vivere il dono ricevuto da Dio, che debbano essere sacrificati al Signore. È un esempio di reinterpretazione in chiave simbolica.

Provare orrore al pensiero di sacrificare il figlio non è morboso attaccamento affettivo, ma comprensibilissimo e doverosissimo amore di padre. Nessun impedimento al figlio di realizzare liberamente la propria vita che sia venuto dall’annullamento del sacrificio. Al contrario, c’è da immaginare piuttosto che Isacco sia rimasto traumatizzato al vedere il padre che stava per ucciderlo ed abbia tirato un grande sospiro di sollievo nel vedere l’angelo che gli fermava il coltello.

È con la morte, non restando in vita, che Isacco avrebbe visto tragicamente stroncata la libera realizzazione della propria vita di giovane innocente. Il padre che vuole che il figlio viva, come ogni padre normale, non ama di più il dono che non il Donatore, ma mostra con gratitudine e fedeltà il suo volere di amare di più il Donatore, che è Signore della vita e il creatore di suo figlio.

Viceversa, lei, Padre Giovanni, dinanzi alla frase contenente il comando divino, propone una doppia trasformazione della stessa:

1. “Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco […] e offrilo in olocausto”, si deve leggere come “Prendi un ariete […] e offrilo in olocausto”;

2. Si deve poi aggiungere, come sottinteso, “ma Abramo si convinse che Dio volesse che fosse il suo unigenito e amato Isacco a dover esser offerto in olocausto”.

Al di là di tutte le problematiche poste dal fraintendimento di Abramo, a mio avviso, questa, si configura più come una “riscrittura”, che come una “reinterpretazione” del testo sacro.

Al n.1 rispondo che io non trasformo niente, ma semplicemente dò l’unica interpretazione possibile per non fare di Dio un assassino.

Al n.2 ribadisco per l’ennesima volta che io non reinterpreto né riscrivo, ma interpreto. Trovi Lei, se ne è capace, di dare un’interpretazione diversa dalla mia rispettando i diritti del Dio della vita e dell’amore. Tutto quello di cui Lei è capace di dire è che Dio non vuole la morte di Isacco, però vuole la morte di Isacco.

Lo so di essere in minoranza in questa interpretazione in contrasto con quella che ha a suo conforto una tradizione millenaria. Ma quando nell’interpretare la Scrittura ci si accorge d’aver trovato una spiegazione che evita inconvenienti ai quali non si aveva pensato, perché non la si dovrebbe adottare? Chi oggi prende più alla lettera il «fermati o sole» di Giosuè? Eppure essa valeva da più di 1600 anni. E altrettanto dicasi di altri casi nei quali il letteralismo è stato corretto dalla vera interpretazione letterale.

La Chiesa non si è pronunciata sull’interpretazione tradizionale del sacrificio di Abramo. Il fatto che essa non sia finora intervenuta non vuol dire che l’approva, ma solo che la permette e che agli esegeti è concessa libertà di interpretazione. Se la discussione su questo punto molto importante per le sue implicazioni teologiche e morali, dovesse continuare, non si può escludere che un domani la Chiesa dia una sua interpretazione chiarificatrice e definitiva. Ma suppongo che accoglierà la mia proposta, soprattutto oggi che più che mai essa va proclamando l’importanza della buona fede e della libertà religiosa, nonché il Dio della vita e la promozione e il rispetto della vita condannando l’uccisione della vita innocente. 

Lei si appella all’autorità apostolica di Papa Francesco, il quale però nelle due occasioni che già le segnalai:

• nell’Angelus del 22 dicembre 2013

(https://www.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2013/documents/papa-francesco_angelus_20131222.html

• nell’udienza generale del 3 giugno 2020

(https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2020/documents/papa-francesco_20200603_udienza-generale.html)

dice chiaramente che fu Dio a chiedere ad Abramo il sacrificio di Isacco.

Accettando la sua esegesi e nel contempo il suo riferimento al Dio che non vuole mai sacrifici umani, ribadito con enfasi da Papa Francesco, dovrei concludere che il Papa, nelle suddette due occasioni, si è contraddetto?

Nessuno mette in forse la storicità del racconto di Dio che chiede ad Abramo di sacrificare il figlio. È chiaro che un Papa non può che ripetere le parole della Scrittura e non è obbligato a entrare in questioni esegetiche.

Ma è altrettanto chiaro che non possiamo figurarci un Papa Francesco, così ostile a un tradizionalismo superato, così insistente nella difesa della vita innocente, così contrario a un Dio che comandi di uccidere, così comprensivo verso la fallibilità umana, così rispettoso della buona fede del peccatore e della libertà religiosa, possa essere favorevole all’immagine arcaica semipagana, che oggi appare inammissibile, di un Dio che ordina a un padre di sacrificare il proprio figlio, salvo poi a smentirsi per ordinargli di non farlo.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 5 ottobre 2022

 

La Chiesa non si è pronunciata sull’interpretazione tradizionale del sacrificio di Abramo. 

Il fatto che essa non sia finora intervenuta non vuol dire che l’approva, ma solo che la permette e che agli esegeti è concessa libertà di interpretazione.

Se la discussione su questo punto molto importante per le sue implicazioni teologiche e morali, dovesse continuare, non si può escludere che un domani la Chiesa dia una sua interpretazione chiarificatrice e definitiva. 

Ma suppongo che accoglierà la mia proposta, soprattutto oggi che più che mai essa va proclamando l’importanza della buona fede e della libertà religiosa, nonché il Dio della vita e la promozione e il rispetto della vita condannando l’uccisione della vita innocente.  

Immagini da Internet:
- Sacrificio di Isacco, Bartolomeo Cavarozzi
- Sacrificio di Isacco, Michelangelo Buonarotti

11 commenti:

  1. Caro Padre Giovanni,
    trovo un po’ ingeneroso, da parte sua, scrivermi che «Tutto quello di cui Lei è capace di dire è che Dio non vuole la morte di Isacco, però vuole la morte di Isacco». La frase che lei mi attribuisce va corretta in “Dio non vuole la morte di Isacco, però vuole che Abramo lo creda per il tempo della prova”. È ciò che ho sostenuto nei miei commenti. Perché per lei, “Dio fa credere ad Abramo (per il tempo della prova) di volere la morte di Isacco” coincide con “Dio vuole la morte di Isacco”? Eppure, sono due frasi diverse.
    Immaginiamo una coppia di innamorati, il cui amore è contrastato da un figlio di lui. La donna dice al suo innamorato: “se davvero mi ami, prendi questa pistola e spara a tuo figlio”. L’uomo, pur soffrendo, fa ciò che gli viene chiesto e uccide il proprio figlio. Non c’è dubbio che questa donna sia responsabile di istigazione all’omicidio.
    Consideriamo ora la seguente variante. La donna, dopo aver detto quelle stesse parole, consegna all’uomo una pistola che sa essere scarica. L’uomo punta la pistola verso il figlio, ma quando sta per premere il grilletto, la donna gli dice: “basta così, volevo sapere quanto mi ami.” In questo secondo caso, la donna è responsabile di istigazione all’omicidio? L’intenzione della donna nella seconda storiella, che ferma la mano dell’uomo e si è cautelata che non possa accadere nulla di grave, è di testare sin dove arriva l’amore dell’uomo. Le parole “prendi questa pistola e spara a tuo figlio”, pur essendo esattamente le stesse in ambedue le storielle, assumono il significato di istigazione all’omicidio, soltanto nella prima.
    La “pistola” di Abramo è stata sempre scarica, dall’inizio alla fine della prova, perché Dio misericordioso non avrebbe mai permesso la consumazione dell’uccisione di Isacco.
    Se lei ora mi replicasse che «se Dio comanda l’uccisione di Isacco significa che “vuole” l’uccisione di Isacco», è come se, alla precedente domanda, lei rispondesse «sì la donna, per il solo fatto di aver detto “prendi questa pistola e spara a tuo figlio”, è responsabile di istigazione all’omicidio».
    Probabilmente, lei mi dirà “non si possono paragonare comportamenti, peraltro discutibili, di esseri umani con l’operare di Dio. Una volta che Egli manifesta la sua intenzione, non può cambiarla, altrimenti sarebbe un dio volubile, ecc…” Ma è proprio così? La Sacra Scrittura, tanto nell’Antico che nel Nuovo Testamento, ci testimonia un Dio che a fronte del comportamento degli uomini è disponibile, proprio in virtù della sua infinita misericordia, a modificare il suo atteggiamento, soprattutto passando dalla condanna al perdono. Del resto, se così non fosse, che senso avrebbe il relazionarsi di Dio con l’uomo?
    Un esempio fra i tanti dall’A.T. è quello di Genesi 18, che ho citato nel mio terzo commento a https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/nel-sacrificio-di-abramo-dio-non-si_27.html.
    Dapprima Dio manifesta il proposito di punire con la massima severità gli abitanti di Sòdoma e Gomorra, poi, a fronte delle richieste supplicanti di Abramo, si dice disposto a perdonarli, se vi troverà almeno 50 giusti, poi 40, poi 30 e poi 10. Un paio di esempi fra i tanti dal N.T.:
    «Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto, e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà». (Mt 6,6).
    «E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente». (Lc 18,7-8).
    Evidentemente, secondo le promesse del Signore, se passiamo dal non pregare al pregare autentico, l’atteggiamento di Dio nei nostri confronti potrà mutare. Non è volubilità se Dio cambia atteggiamento a fronte di come noi lo corrispondiamo. Una volta che Abramo ha dimostrato quanto è grande la sua fede obbedienziale, non vi è evidentemente alcuna ragione per Dio di mantenere il comando di sacrificare Isacco.

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  2. Rilevo, in alcune sue affermazioni, le seguenti contraddizioni.
    Nell’articolo https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/dio-non-e-ambiguo-e-non-vuole-un_30.html,
    lei, Padre Giovanni, afferma:
    1) «Ripeto che il comando divino non è per nulla ambiguo, ma molto preciso: sacrificare Isacco.»
    2) ma più avanti lei scrive «Abramo riceve un ordine molto chiaro, anche se egli in buona fede crede che sia un ordine divino.» Ora, se Abramo “crede” che sia un ordine divino, lei lascia intendere che, in realtà, non lo è. Ma allora non è più vera l’affermazione del punto 1, dove lei afferma che il comando divino è precisamente sacrificare Isacco.
    3) poi lei scrive «Abramo in un primo tempo non intende ciò che Dio voleva veramente […] Abramo in un primo tempo intende sacrificare il figlio, perché le formali e testuali parole di Dio erano il comando di sacrificare il figlio». Ma se le parole di Dio, nella forma e nel testo, comandavano di sacrificare il figlio, e però questo non corrisponde a “ciò che Dio voleva veramente”, è difficile non dover ammettere un’ambiguità nelle parole divine. Secondo lei, Dio farebbe risuonare nella mente di Abramo le “formali e testuali parole… di sacrificare il figlio”, ma in realtà vorrebbe che il patriarca le interpreti come comando di sacrificare un ariete. Eppure, il comando biblico specifica per ben tre volte che si tratta del figlio:
    prima volta: “Prendi tuo figlio”,
    seconda volta: ”il tuo unico figlio che ami”,
    terza volta: “Isacco”.
    Come ho argomentato nel mio secondo commento a https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/nel-sacrificio-di-abramo-dio-non-si_27.html, commento a cui lei non replicò, per ipotizzare un possibile fraintendimento, da parte di Abramo, del comando divino, siamo costretti ad ammettere una qualche ambiguità nel comando divino, ovvero un’apertura alla possibilità del sacrificio umano. Ma come ha detto lei giustamente «quello che assolutamente non possiamo ammettere è che Dio si sia espresso in maniera ambigua».
    Dunque, se Dio dice ad Abramo “Isacco” non dice “ariete”; se Dio dice ad Abramo “ariete” non dice “Isacco”. Tertium non datur. Se il comando divino avesse richiesto un generico sacrificio, senza specificare di chi, allora un fraintendimento da parte di Abramo sarebbe stato possibile. Ma, ripeto, il comando divino enfatizza per ben tre volte che si tratta di Isacco e solo di lui. Più chiaro di così…
    Suvvia, Padre Giovanni, deve riconoscere che su questo punto la sua tesi risulta piuttosto debole se non contraddittoria.

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  3. Lei ha scritto: «Osservo che, ragionando con la mentalità letteralistica di Beauchamp, si verrebbe a dare alla famosa frase di Giosuè “Fermati, o sole” un significato letterale tale per cui si verificherebbe un miracolo assurdo».
    Come dichiara il Concilio Vaticano II, per altro anticipato da affermazioni analoghe dello stesso Galileo, «i libri della Sacra Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, a causa della nostra salvezza, volle che fosse consegnata alle Sacre Lettere» (Dei Verbum n. 11).
    L’«inerranza» – come si diceva in passato – o meglio la «verità» di cui è dotata la Bibbia non è di tipo scientifico, ma teologico e, quindi, il passo citato del libro di Giosuè deve necessariamente essere interpretato in modo non letterale.
    Ma davanti al testo di Genesi 22,1 non vi è alcuna legge scientifica che verrebbe violata, tale per cui non sarebbe possibile accoglierne il significato letterale. Pertanto, il confronto che lei opera con Gs 10,12-13 non appare molto pertinente.
    Prima di ironizzare sulla “mentalità letteralistica” di Beauchamp, la inviterei a documentarsi sui numerosi riconoscimenti che ha ricevuto.
    Qualche esempio di quanto è stato scritto su di lui:
    «Per la sua scienza e la sua erudizione fu certamente un eminente esegeta. Ma, lettore di una Bibbia che sapeva essere scrittura vitale, poiché la Parola di Dio vi unisce l'uomo, non ha mai smesso di oltrepassare i limiti di una semplice esegesi storico-critica. Parimenti, non mancò di essere attento ai suggerimenti delle scienze umane, ma mantenne sempre piena libertà rispetto ai metodi e ai temi del momento.» (Anne-Marie Pelletier).
    «Ampiamente riconosciuto come esegeta biblico e teologo di ampiezza e profondità davvero eccezionali, bisogna ammettere che il suo pensiero, la sua espressione, spesso intimidiscono anche i più coraggiosi […] L'unica cosa a cui ha dedicato tutta la sua vita è stato il mistero dell'unità dei due Testamenti, entrambi legati in un unico libro. Ciò che ha sempre cercato, appassionatamente, è come l'Uno "si compia" nell'Altro. Quanti articoli, interi capitoli dei suoi libri sono dedicati al «compimento delle Scritture», che trova il suo posto nel mistero pasquale, nella croce di Cristo. Per questo ha voluto restaurare la lettura tipologica o figurativa praticata dai Padri della Chiesa che videro in Cristo Colui che riempie e porta a compimento tutte le figure del Primo Testamento. Ma ha anche dimostrato che poteva essere fatto solo su basi radicalmente nuove. Il fondamento su cui tale lettura figurativa può e deve essere costruita è in realtà tanto semplice quanto innovativo: mostrare che questa lettura non è specifica del Nuovo Testamento, ma che è già all'opera all'interno dell'Antico, che il compimento è perciò chiamato "rispondente" fin dall'inizio, dalla prima pagina del Libro.» (P. Roland Meynet)
    «P. Beauchamp (1924-2001) traccia un solco fecondo circa il modo di affacciarsi alla Bibbia in nome di una teologia biblica adeguatamente sostenuta da una consapevolezza teologale, teologica, antropologica, e quindi necessariamente e sanamente letteraria – poetica perché sapiente e vitale – della Bibbia presa en bloc, come «racconto totale», che lancia la più grande sfida di significazione possibile. «L’Écriture, c’est le Dieu inattendu; la lecture met la foi à l’épreuve comme la vie met la foi à l’épreuve». Il lettore è chiamato ad esporsi a uno sconvolgimento (bouleversement), ad un risveglio, a decidere se assumere o meno il timor Domini, consentendo a «l’attirance du désir, consciente du danger de l’aventure divine» (PES, 41). B. chiama tutto ciò «intimazione» della Parola – legge, figura – «che intima all’intimo del cuore un consenso amoroso» con impatto al tempo stesso estetico/etico, configurante all’obbedienza di Gesù al Padre». (Roberto Vignolo, https://www.gliscritti.it/blog/entry/4270)

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  4. Dalla Dei Verbum (11):
    «Le verità divinamente rivelate, che sono contenute ed espresse nei libri della sacra Scrittura, furono scritte per ispirazione dello Spirito Santo. La santa madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cfr. Gv 20,31; 2 Tm 3,16); hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte».
    Commenta Paul Beauchamp:
    «Possiamo dire che certe cose nella Bibbia vengono da Dio e certe altre dagli uomini? Magari che quello che nella Scrittura appare come troppo oscuro, troppo inesatto, troppo urtante è dell’uomo e tutto ciò che ci sembra inattaccabile è di Dio? La risposta del Concilio è assolutamente negativa.
    Prima di tutto, l’ispirazione dello Spirito Santo tocca “tutti interi i libri sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, in tutte le loro parti” (Dei Verbum III, 11). E poi, i “veri autori” hanno scritto soltanto ciò che Dio voleva.
    […] La Bibbia ci introduce nella storia degli uomini con Dio. Come potremmo non trovarvi la realtà umana in ciò che ha di più terribile? È una garanzia di verità. Ma è pur vero che Dio è presentato come colui che approva o che ordina le azioni più terribili dell’uomo, e specialmente le guerre. Impossibile negare quest’aspetto della Bibbia. Israele era un popolo guerriero e faceva la guerra così come gli uomini della sua epoca. Possiamo anche dire: come gli uomini di tutte le epoche. Vi è certamente un mistero assai temibile nel fatto che Dio sembra fare la guerra a fianco del suo popolo, incoraggiarlo, e persino ordinargli di farla. Il capitolo 20 del Deuteronomio, espressione di un’epoca assai evoluta della storia d’Israele, fornisce precetti d’umanità: le città nemiche saranno attaccate solo se rifiutano la pace; donne e bambini saranno risparmiati. Ma una tale moderazione non si applica “alle città di quei popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità: non lascerai in vita nessun essere che respiri (Dt 20,16)
    […] Il fatto che questo popolo sia stato condotto alla mitezza da Dio è per noi più eloquente che se si fosse trattato di un popolo (ma ne esistono?) senza violenza […] Ma il mistero risiede in ciò: per condurre questo popolo sino alla fine, bisognava che Dio fosse con questo popolo sin dal principio […] In che modo possiamo sapere che Dio era con Israele anche in quegli inizi che sembrano barbari? Il solo mezzo è di verificare come Dio abbia effettivamente guidato il suo popolo fino a fargli ammirare e praticare la mitezza […] Perché era necessario che Dio passasse attraverso tali inizi nell’accompagnarci? Per liberarci dalle apparenze […]
    Se Dio era (imperfettamente) presente alle vittorie (imperfette) del suo popolo quando faceva la guerra, è perché noi sapessimo che la mitezza non è debolezza. Quando, con il Cristo, noi amiamo la mitezza, è ancora la forza che amiamo. Quando camminiamo dietro il Cristo che porta la croce, è dietro un vincitore che camminiamo. Camminando con un popolo guerriero, Dio lo conduceva verso la propria mitezza. Ma, manifestandosi nella mitezza del Cristo, Dio realizza la più assoluta e radicale di tutte le vittorie sul nemico».

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    1. Il documento conciliare sottolinea che la sacralità e canonicità del Vecchio e del Nuovo Testamento, deve essere intesa per “tutti interi” i libri che li compongono, i quali “hanno Dio per autore”, il quale scelse degli uomini “come veri autori”, agendo in essi e per loro tramite, affinché scrivessero “tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte”.
      E Beauchamp chiosa:
      «Possiamo dire che certe cose nella Bibbia vengono da Dio e certe altre dagli uomini? Magari che quello che nella Scrittura appare come troppo oscuro, troppo inesatto, troppo urtante è dell’uomo e tutto ciò che ci sembra inattaccabile è di Dio? La risposta del Concilio è assolutamente negativa […] i “veri autori” hanno scritto soltanto ciò che Dio voleva».
      Penso che tanto le sottolineature della Dei Verbum, che il relativo commento dell’esegeta francese, debbano esser tenute presenti, ogniqualvolta, accostandoci al Sacro testo, in particolare all’A.T., capita di imbattersi in frasi o brani che saremmo portati a respingere o a derubricare come solo umani…

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  5. Lei ha scritto: «un Dio che chiede ad Abramo di uccidere il figlio sarebbe un Dio che comanda di peccare».
    Sono costretto a ripetere cose già dette in precedenti commenti.
    Il libro di Giuditta conferma pienamente che l’unica intenzione divina, che sottostà alla prova di Abramo, è, esclusivamente, di saggiare la sua fede:
    «Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare a Isacco […] come ha passato al crogiuolo costoro con il solo scopo di saggiare il loro cuore» Giuditta (8, 26–27)
    Ciò esclude che il comando divino di uccidere il figlio possa essere inteso come qualcosa che, potenzialmente, Dio potrebbe chiedere agli altri uomini.
    “[…] con il solo scopo di saggiare il loro cuore” significa che nessuno è autorizzato ad estrapolare il comando divino, dal suo contesto di prova della fede abramitica, per interpretarlo come invito al gravissimo peccato di uccidere un figlio.
    Purtroppo, lei Padre Giovanni, continua a leggere quel comando fuori dal suo contesto, assolutizzandolo, e facendo così dire al testo biblico ciò che non dice, ovvero che Dio inviti gli uomini a sacrifici umani, sicché si trova poi costretto a doverlo rifiutare, perché “altrimenti risulterebbe un Dio omicida”, ma questa conseguenza è errata perché derivante da un presupposto errato.
    Nell’articolo https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/ancora-sul-sacrificio-di-abramo.html, lei ha cercato di smontare la conferma di Giuditta all’interpretazione tradizionale, con le seguenti parole:
    «Le lodi che vengono fatte ad Abramo dal Libro di Giuditta e da San Giacomo, non si riferiscono tanto al fatto che Abramo credette di dover sacrificare il figlio, ma all’angoscia tremenda che egli passò nel credere che Dio gli avesse ordinato una cosa simile».
    Ma questa sua precisazione non regge, perché il soggetto della frase di Giuditta, Colui che ha fatto passare le prove ad Abramo ed Isacco “con il solo scopo di saggiare il loro cuore”, è inequivocabilmente Dio, e non quello che erroneamente avrebbe creduto Abramo.

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  6. Anche Papa Francesco conferma pienamente che l’unica intenzione divina, che sottostà alla prova di Abramo, è, esclusivamente, di saggiare la sua fede, e non certo di invitare gli uomini a compiere sacrifici umani.
    Dall’ Angelus del 22 dicembre 2013, https://www.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2013/documents/papa-francesco_angelus_20131222.html:
    «Una prova simile a quella del sacrificio di Abramo, quando Dio gli chiese il figlio Isacco (cfr Gen 22): rinunciare alla cosa più preziosa, alla persona più amata. Ma, come nel caso di Abramo, il Signore interviene: ha trovato la fede che cercava e apre una via diversa, una via di amore e di felicità […]»
    Pertanto, Francesco afferma chiaramente che:
    1) il sacrificio di Abramo è “una prova” e solo in tale contesto deve essere letto;
    2) in cui “Dio gli chiese”, quindi il soggetto è inequivocabilmente Dio e non la mente confusa di Abramo;
    3) “il figlio Isacco”, quindi l’oggetto della richiesta di sacrificio è inequivocabilmente Isacco, e non un animale.
    4) “il Signore interviene: ha trovato la fede che cercava e apre una via diversa”, quindi l’intervento divino che, tramite l’angelo, ferma la mano di Abramo, è dovuto al fatto che Dio “ha trovato la fede che cercava”, il che conferma che la prova viene terminata quando ha raggiunto quello che era il suo unico scopo: testare la fede di Abramo. Ciò implicitamente respinge la sua interpretazione, Padre Giovanni, che l’intervento dell’angelo serva a far capire ad Abramo che Dio non gli avrebbe chiesto il sacrificio di Isacco ma di un animale. Senza il disporsi di Abramo al sacrifico del figlio, Dio non avrebbe “trovato la fede che cercava”.
    Dall’Udienza generale del 3 giugno 2020, https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2020/documents/papa-francesco_20200603_udienza-generale.html:
    «Così Abramo diventa familiare di Dio, capace anche di discutere con Lui, ma sempre fedele. Parla con Dio e discute. Fino alla prova suprema, quando Dio gli chiede di sacrificare proprio il figlio Isacco, il figlio della vecchiaia, l'unico erede […] Dio stesso fermerà la mano di Abramo già pronta a colpire, perché ha visto la sua disponibilità veramente totale (cfr Gen 22,1-19)»
    Anche in questo secondo intervento Papa Francesco ribadisce che:
    1) “Fino alla prova suprema”, il sacrificio di Abramo è “una prova” e solo in tale contesto deve essere letto;
    2) “quando Dio gli chiede di sacrificare”, quindi il soggetto è inequivocabilmente Dio e non la mente confusa di Abramo;
    3) “proprio il figlio Isacco”, quindi l’oggetto della richiesta di sacrificio è inequivocabilmente Isacco, e non l’ariete.
    4) “Dio stesso fermerà la mano di Abramo già pronta a colpire, perché ha visto la sua disponibilità veramente totale”, quindi l’intervento divino che ferma Abramo, è dovuto al fatto che Dio “ha visto la sua disponibilità veramente totale”, e ciò conferma qual era l’unico scopo della prova, e smentisce la sua preoccupazione, Padre Giovanni, che il comando divino possa leggersi come un invito a peccare.

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  7. Lei, Padre Giovanni, mi ha mosso questa obiezione:
    «Lei dice che Dio non pretese il sacrificio «fino all’ultimo». Dunque lo pretese all’inizio. Ma allora ho ragione io nel dire che Lei sostiene che, almeno all’inizio, Dio avrebbe voluto il sacrificio, salvo poi a cambiare idea o a dare un contrordine mediante l’angelo».
    No, col dire che Dio non pretese il sacrificio “fino all’ultimo”, intendevo dire che Dio, comandò ad Abramo di disporsi al sacrificio di Isacco, ma poi non pretese che tale sacrificio fosse condotto “fino all’ultimo”, perché non era certo questa la Sua intenzione, che invece era, di provare la fede del patriarca.
    Inoltre, un conto è comandare un processo che per essere portato a termine richiede necessariamente un certo tempo preparatorio, e la possibilità di poterlo interrompere, un altro conto è comandare un ordine che deve essere prontamente eseguito e quindi completato.
    Nel caso di Genesi 22.1, siamo decisamente nella prima fattispecie. Come avevo argomentato nella lettera che lei ha ripreso in https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/nel-sacrificio-di-abramo-dio-non-si_27.html, il comando di Dio, non è di uccidere immediatamente Isacco. Richiede invece di compiere un lungo percorso preparatorio (durerà tre giorni), che è sì geografico, ma soprattutto interiore. Il comando, infatti, non è “Abramo, offrimi ora Isacco in olocausto”, bensì “va' nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”.
    Come già scrissi: «E’ proprio su ciò che Abramo passerà, come reagirà e, in definitiva, se si arrenderà o rimarrà fermo nella fede, durante tutto questo itinerario, che egli verrà valutato da Dio, è il “percorso” che costituisce la “prova”. E in tale percorso, la prospettiva di dover uccidere il proprio figlio, costituisce il tarlo, il tormento angosciante che dovrà pesare come un macigno sulle spalle di Abramo […]».
    Ora se noi per sintetizzare il testo biblico, nell’ottica di cogliere l’essenziale, lo riduciamo a “Dio comandò ad Abramo di sacrificargli il figlio”, in realtà stiamo decurtando il comando divino di due aspetti fondamentali che lo caratterizzano: innanzitutto manchiamo di sottolineare che il comando è espresso all’interno della prova di fede cui è sottoposto Abramo, e solo in questa trova senso; il secondo aspetto che dimentichiamo, anzi travisiamo, è che siamo portati a compiere l’equazione “sacrificare = uccidere subito”, annullando di fatto il tema della via crucis che viene richiesta ad Abramo dove, come scrissi «in ciascuno dei vari momenti e degli atti da compiere, il padre di Isacco avrebbe potuto cedere e implorare Dio di non fargli portare a termine quella richiesta, o di non essere umanamente in grado di soddisfarla». In tali casi, la prova sarebbe comunque terminata in modo incruento, ma Abramo l’avrebbe fallita.
    La “durata” del percorso preparatorio per arrivare a quell’ultimo atto (che Dio non vuole, ma Abramo deve provvisoriamente crederlo), da un lato, consente a Dio di valutare fino a che punto riesce a resistere la fede del patriarca (in realtà per mostrarlo a noi, Lui nella sua preveggenza lo sa da sempre), dall’altro permette ad Abramo di sperare sempre che l’esito finale possa non compiersi, che Dio abbia misericordia… E ciò che Abramo dice, tanto ai servi che al figlio, potrebbe interpretarsi in questo senso, per cui la grandezza della fede abramitica consisterebbe anche nel “credo che Tu sia misericordioso nonostante ciò che mi hai chiesto”. Questo aspetto della durata del percorso preparatorio, che non sarebbe stato possibile con un comando di esecuzione immediata della sentenza, è ulteriore conferma che quanto Dio sta chiedendo è ben altro che la “semplice” uccisione del figlio, come sembrerebbe dalla frase “Dio comandò ad Abramo di sacrificargli il figlio”.
    Una frase di sintesi, lunga, ma più corretta sarebbe: “Dio, per mettere alla prova la fede e l’obbedienza di Abramo, gli comandò di effettuare un percorso di sacrificio che, gli fece credere, doveva concludersi con l’olocausto di Isacco, cosa che Dio non avrebbe comunque permesso”.

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    1. Quanto al “contrordine” che Dio non può dare, pena il contraddirsi, ho già replicato in
      https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/abramo-maestro-di-liberta-religiosa.html:
      «la situazione, il contesto in cui avviene il primo comando, e […] in cui avviene la revoca dello stesso, sono profondamente diverse […] Dopo tutto quanto Abramo ha dimostrato, nella propria carne e nel proprio spirito, non è forse cambiata la sua situazione esistenziale e spirituale, per lui e davanti a Dio? E dunque, il comando di fermare il sacrificio del figlio [...] non contraddice il primo comando ma sancisce il superamento di quella prova, richiesta da Dio, che non si sarebbe potuta realizzare se non tramite la prima richiesta».

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  8. Lei ha scritto:
    «ribadisco per l’ennesima volta che io non reinterpreto, né riscrivo, ma interpreto».
    Anche se sul sacrificio di Isacco non vi è stato un pronunciamento definitivo da parte del Magistero, è pacifico che l’interpretazione dei Padri, peraltro confermata dagli interventi degli ultimi due pontefici che ho già segnalato, possa ritenersi l’interpretazione tradizionale, rispetto alla quale la sua, Padre Giovanni, è obiettivamente diversa.
    Ora l’Istituto Treccani, massima autorità per la lingua italiana, definisce “reinterpretazione” come:
    «Il fatto, l’opera di reinterpretare; nuova e diversa interpretazione di opere, autori, fatti storici, ecc. rispetto alle interpretazioni precedenti o all’interpretazione tradizionale».
    Non capisco allora la ragione per cui lei non accetti che si definisca come “reinterpretazione” la sua esegesi del sacrificio abramitico.

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    1. Caro Bruno, ho risposto alle sue nuove obiezioni in un articolo, che pubblicherò a breve.

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