I danni del misericordismo


I danni del misericordismo

Non ci si può prender gioco di Dio
Gal 6,7                 
Chi risparmia il bastone odia suo figlio
Pr 13,24

Educatori frustrati

Da alcuni anni si sta diffondendo nella Chiesa una concezione della misericordia divina considerata come l’unica espressione dell’amore di Dio per gli uomini e della divina provvidenza, misericordia per la quale tutti tendono a Dio, tutti sono in grazia di Dio, tutti sono scusabili, tutti sono perdonati senza meriti, indipendentemente dalle loro opere, e tutti sono salvi.

Solo qui si troverebbe il «Dio di Gesù Cristo», pieno di amore, di comprensione e di tenerezza per tutti, un Dio che non condanna, non castiga, ma salva tutti. Non esiste una giustizia divina punitrice e compensatrice distinta ed opposta alla misericordia, ma l’unica giustizia divina è la misericordia. Si pensa di trovarsi davanti ad un aut-aut: un Dio misericordioso non può essere un Dio punitore, perché castigo e misericordia si escludono a vicenda. Non si riflette a un fatto molto semplice e cioè che la contraddizione si scioglie considerando che Dio alterna nel tempo la severità alla misericordia, così come si alternano le stagioni. Nessuno ha mai pensato che l’inverno non esiste perché si oppone alla primavera.

Viene così escluso l’attributo divino della severità, evidente soprattutto nell’Antico Testamento. Per spiegare allora questo fatto ci si pone su di un terreno scivoloso, che al limite porta all’eresia di Marcione: il Dio dell’Antico Testamento non è il Dio del Nuovo, ma è un dio pagano superato dal Nuovo.

Ma i misericordisti, detti altrimenti «buonisti» (Dio è buono e tutti sono buoni), devono chiudere gli occhi a due serissimi fatti dell’esistenza, a tutti noti sin dalla più tenera infanzia, fatti che dimostrano l’illusorietà e l’assurdità della loro concezione del Dio «buono» e del buonismo universale. 

Primo. Sono costretti a negare l’esistenza delle sventure che colpiscono l’umanità o affermando che esse sono un bene voluto o dalla natura o da Dio; oppure affermando che esse sono bensì un male, ma non sono un castigo per il peccato dell’uomo. Dipendono allora da una natura cattiva che agisce indipendentemente da Dio. Oppure cambiano il male in bene o danno a Dio e alla natura delle colpe che non hanno. 

Se essi leggessero la Bibbia senza gli occhiali di Marcione, essa offrirebbe la soluzione: le sventure sono il castigo del peccato dell’uomo. Ma è proprio quello che non vogliono sentire, perché non accettano il dogma del peccato originale e piuttosto che riconoscerlo, se la prendono con Dio o con la natura oppure sono costretti a dire che la sventura è manifestazione della bontà divina che ci salva. Ora è assurdo credere che la sventura sia salvezza. Il discorso giusto al riguardo sarebbe che Dio ci manda la sventura perché da essa traiamo, in Cristo, occasione per trasformarla in salvezza.

Secondo. Sono costretti a dire che alla fin fine il peccato è cosa buona e lecita. Essi infatti concepiscono il peccato non come atto meritevole di essere castigato, ma come atto essenzialmente perdonato, stravolgendo il concetto del peccato. Ora invece, essenziale al peccato è il castigo, non l’essere perdonato. Ogni peccato infatti merita castigo, ma non ogni peccato è perdonato, perché non tutti sono buoni.

Ora bisogna tenere presente che Dio è un grande Educatore, modello di tutti gli educatori; e ogni buon educatore, sia la madre, sia il maestro, sia la suora, sia il sacerdote sanno che nell’opera educativa bisogna saper alternare con sapienza e prudenza, l’indulgenza con la severità, il rimprovero con la lode, l’approvazione col richiamo, la pazienza con la sollecitazione, l’incoraggiamento con l’ammonimento, la correzione con la promozione, il premio col castigo.

Sappiamo bene che educare sotto la minaccia del castigo è controproducente e genera degli scrupolosi, dei plagiati, degli ipocriti, degli opportunisti e dei codardi e, alla fine, dei ribelli. Occorre invece persuadere e convincere argomentando con buone ragioni, con pazienza, stimolando la responsabilità e una sana libertà nell’educando, nonché un agire secondo coscienza, disinteressatamente, con sano timor di Dio, per amore del bene e della virtù. 

Ma anche concedere un’eccessiva libertà con la falsa assicurazione che ogni peccato è comunque perdonato senza essere  castigato, ed è solo fragilità degna di comprensione, aggiungendo eventualmente una nota di relativismo morale, negatore dei valori assoluti, che dà spazio al lassismo sotto pretesto della «libertà» e della «diversità», è un errore gravissimo che  produce ipocriti di segno opposto, canne sbattute dal vento e soggetti amorfi, senza spina dorsale, vaganti tra i fantasmi, come vediamo abbondantemente ai nostri giorni.

 È poi interessante notare altresì come l’educatore misericordista più spinto è proprio quello che, quando gli vengono i cinque minuti, sbotta in una maniera assai più violenta degli educatori autoritari del passato. E questo perché gli manca un criterio oggettivo di discernimento per sapere quando essere misericordiosi e quando essere severi.

Due casi di buonismo

Vediamo adesso di esaminare e valutare due interessanti casi recenti di buonismo, basati sul solito ritornello che «Dio non castiga». Si tratta di un articolo di Antonio Staglianò su Avvenire del 27 febbraio scorso, dal titolo «La forza delle nostre preghiere per “contrastare” l’epidemia», e dell’intervista concessa il 26 febbraio scorso a La Repubblica dall’Arcivescovo emerito di Milano, Cardinale Angelo Scola. In essa – qui riportiamo la parte che c’interessa – il Porporato  ha affrontato anche l’emergenza Coronavirus. Richiesto se sia “cristianesimo la visione per la quale dietro il Coronavirus vi sarebbero dei castighi divini”, ha risposto:

«È una visione scorretta. Dio vuole il nostro bene, ci ama e ci è vicino. Il rapporto con lui è da persona a persona, è un rapporto di libertà. Certo, conosce e prevede gli avvenimenti ma non li determina. (…) Per i cristiani Dio comunica attraverso le circostanze e i rapporti. Anche da questa circostanza potrà emergere un bene per noi. Fra i tanti insegnamenti la necessità di imparare a stare nella paura portandola a un livello razionale»

Osservo che il Cardinale non spiega perché sarebbe una «visione scorretta». E non lo spiega perché non ha ragioni per fare una simile affermazione. È invece cosa normale, tradizionale e conforme alla Scrittura, come mostrerò in questo articolo, considerare le sventure che ci capitano come castighi divini, i quali hanno il loro perché nel peccato originale e a volte nei nostri stessi peccati. Dio, tuttavia, ci manda queste prove affinchè noi, pentiti dei nostri peccati, ne facciamo penitenza ed otteniamo la sua misericordia. Questa è la risposta della fede cristiana, che illustrerò nel mio articolo.

Le parole, peraltro, del Cardinale, che «Dio vuole il nostro bene, ci ama e ci è vicino. Il rapporto con lui è da persona a persona, è un rapporto di libertà. Certo, conosce e prevede gli avvenimenti ma non li determina. (…) Per i cristiani Dio comunica attraverso le circostanze e i rapporti» sono cose evidenti, ma non sono una risposta alla domanda. 

Anche quanto il Cardinale aggiunge sono cose scontate: «Anche da questa circostanza potrà emergere un bene per noi. Fra i tanti insegnamenti, c’è la necessità di imparare a stare nella paura portandola a un livello razionale». Ma non ci spiega come in questa circostanza potrà sorgere un bene per noi e in che senso Dio vuole il nostro bene, ci ama e ci è vicino, giacché a tutta prima a noi parrebbe che non sia così. Questa difficoltà, come vedremo, si risolve solo esponendo con chiarezza – come cercherò di fare - la risposta della fede.

Quanto ad Antonio Staglianò, egli dice: 

«Non esiste un Dio castigatore o un Dio guerriero. I cristiani devono pregare, ma solo il Dio di Gesù, il Padre del Signore Nostro Gesù Cristo, che dona lo Spirito, un Dio solo e sempre amore, che non castiga, non manda il dolore e non terrorizza o “piega la volontà degli esseri umani con flagelli come il coronavirus”».

Rispondiamo dicendo che Dio certamente non vuole il peccato, ma ha voluto il castigo del peccato di Adamo e le conseguenze nefaste di questo peccato e dei nostri stessi peccati personali, fino alla pena eterna per i ribelli. Ma Egli, per liberarci dalle nefaste conseguenze del peccato, ha altresì voluto la sofferenza redentrice del Figlio innocente. 

Nel volere questa sofferenza, il Padre non è stato crudele, come alcuni pensano, ma  è stato misericordioso con noi e fautore della gloria del Figlio, che liberamente accettando la volontà del Padre, è stato trionfatore di Satana, del peccato, della sofferenza e della morte. Per percepire il senso della volontà del Padre, non ci si deve concentrare sul fatto materiale della morte di Gesù, ma sul valore redentivo di questa morte. 

E anche noi siamo chiamati ad unirci a Cristo nell’offrire le nostre sofferenze in sconto dei nostri peccati e per la salvezza dei fratelli. Ora, il castigo comporta certamente sofferenza. Se Dio vuole il castigo, dobbiamo dire che in tal senso vuole la sofferenza. Siccome infatti è giusto che al peccato segua il castigo e Dio è giusto, Egli Dio vuole il castigo per un motivo di giustizia. 

Ma la sofferenza è desiderabile in quanto soffrire per Cristo[1]. In quanto il Padre vuole che ci uniamo alle sofferenze di Cristo, non c’è dubbio che in questa luce Egli ci manda la sofferenza, che può essere anche sofferenza per i nostri peccati (II Mac 7,32; Sal 107,17), affinchè la accettiamo volentieri unendola alla sofferenza redentrice di Cristo, e trasformandola così in principio di salvezza.

Aggiungiamo che concepire un peccato senza castigo è tanto assurdo quanto porre una causa che non causa. Dio può togliere castigo, ma solo perché toglie il peccato. A volte può perdonare il peccato, ma resta la pena da scontare. A volte Dio non punisce subito, perché vuol dare al peccatore il tempo di pentirsi. Le sventure che ci capitano sono sempre conseguenze del peccato originale e a volte anche delle nostre colpe personali. Dunque, come si può dire che Dio «non manda il dolore»?

Come ho già detto, Dio è un sommo Educatore e l’amore profuso dall’educatore per l’educando non esclude affatto al momento giusto una severità moderata e ben mirata, a favore della formazione dell’educando. Questo lo sa qualunque genitore o educatore o maestro. Amare vuol dire volere il bene dell’altro. Ebbene, anche una giusta severità può ottenere il bene dell’educando. E Dio nella Scrittura si comporta proprio così nei confronti dell’uomo.

Le sventure e le sofferenze ci sono mandate da Dio per provare e rafforzare nelle virtù, come ha fatto con Giobbe, e come fa con tutti i santi; e tanto più grande è la prova, quanto più grande è la gloria che vuol dare a coloro che sopportano virilmente per amore.

 Con i flagelli Dio non piega la volontà dell’uomo, ma la stimola alla conversione e alla penitenza, e la corregge. Diciamo piuttosto che piega il suo orgoglio e rende umile, almeno se l’uomo impara questa salutare lezione divina. Gli ricorda che è polvere e in polvere dovrà tornare. Ma solo per ritrovare la sua dignità, rialzarsi dalla polvere, guardare al cielo e trafficare quei doni che Dio gli ha dato per la sua gloria e per il bene dei fratelli.

Diciamo al riguardo che la Bibbia riassume la storia del rapporto dell’uomo con Dio in questi termini di peccato, castigo, misericordia e redenzione. Nell’AT Dio, offeso e adirato per il peccato, lo castiga ed esige riparazione. Dio dona la Legge a Mosè. Si salva chi le obbedisce, ma l’uomo peccatore non riesce ad obbedire alla Legge.

 Occorre allora implorare grazia e perdono. L’offerta di sacrifici non basta. Dio Padre – ecco il NT -  ha pietà di noi e ci dona Cristo. Solo la grazia di Cristo ci dà la forza di obbedire alla Legge. Tuttavia, il Dio del NT continua ad essere severo, ed anzi è più esigente, benché aumenti la grazia, mentre la misericordia divina è già presente nell’AT, anche se non con quell’abbondanza che troviamo nel NT. 

Quindi è errore gravissimo, anzi eresia, quella di Marcione, per la quale egli, come gli fu rimproverato a suo tempo, ha creato una frattura fra AT e il NT col sostenere che il Dio terrorizzante, adirato, castigatore, legalista e schiavista dell’AT è un falso Dio; mentre il Dio del NT è solo amore, libertà, perdono, tenerezza, misericordia ed amore.

È evidentissimo invece dalla Bibbia, nonché da tutta la tradizione dei Padri, dei Dottori, dei Santi e del Magistero della Chiesa fino al Catechismo della Chiesa Cattolica,  che Dio castiga in molti modi e in molte forme, dalle pene temporali purificative, espiative e o correttive, fino alla pena eterna infernale[2]. Mi limiterò alla sola Scrittura, altrimenti, anziché un articolo, verrebbe fuori un grosso volume.

Il problema, semmai, è quello di capire che cosa intende dire la Bibbia con l’espressione «castigo di Dio». È quanto ho cercato di mostrare in un mio recente articolo e in altri pubblicati in questi ultimi anni in isoladipatmos. Espressione equivalente molto usata dalla Bibbia è «flagello»[3]. Altro termine equivalente è «punizione»[4]. Il verbo «punire» è usato molte volte. Sinonimo è anche «pena»[5]. Il tema della «gelosia» divina è strettamente connesso con quello del castigo[6]. Quindi affermare che Dio non castiga è un’asserzione falsissima, contraria alla convinzione di tutte le religioni e contraria alla stessa fede cristiana. 

L’ira divina produce il castigo

L’ira è la passione che si esercita nel castigare. La Bibbia, come si sa, parla abbondantemente dell’ira divina. L’ira del Signore non è qualcosa che vada preso alla lettera, come se Dio avesse delle passioni, ma è una metafora piuttosto espressiva ma da prendersi con molta cautela, presa dalle passioni umane. Così infatti come noi ci accendiamo d’ira nei confronti di cose che ci irritano profondamente o alle quali siamo nettamente contrari o che ci ripugnano al massimo o che riteniamo gravemente offensive, similmente l’agiografo con tale paragone di facile intelligenza, anche se non di facile applicazione, vuol esprimere o significare la netta disapprovazione di Dio nei confronti del peccato e la sua ferma opposizione al peccato, col congiunto proposito di punirlo. Dio si adira alla vista del peccato, soprattutto quello ostinato, arrogante e sfrontato e minaccia il castigo o passa a castigare.

Ecco che allora abbiamo una serie di espressioni come provocare l’ira[7], l’accendersi dell’ira[8], sfogare l’ira[9], ira ardente e furiosa[10], placare l’ira[11], desistere dall’ira[12], Dio lento all’ira e grande nella misericordia[13]. Molto importanti sono i passi dove si parla del rapporto dell’ira con la misericordia, dove appare evidente che Dio può mitigare o aumentare la sua ira o viceversa far misericordia a seconda del comportamento dell’uomo. 

Dio può sospendere la minaccia in caso di conversione, come fa con gli abitanti di Ninive. È possibile placare l’ira divina col sacrificio, convinzione del resto comune a tutte le religioni. Comunque già dall’AT appare che la misericordia prevale sull’ira e sulla severità. Dio non infierisce mai sul nemico e si lascia facilmente impietosire dalle preghiere del pio. Cristo soltanto offrirà degna riparazione per i peccati ottenendo il perdono, la figliolanza divina e la vita eterna ai discepoli.

Per tutte le suddette espressioni abbiamo numerosissimi passi, dei quali cito qui solo alcuni, i quali testimoniano quanto esse si prestano, nella loro varietà, a rappresentare la dinamica della condotta divina nei confronti del peccato. Discorso simile è quello dello «sdegno» e della «collera», documentato da numerosi passi.

Come il tema della severità è presente anche nel NT, con quello della croce,dell’ascetica, dell’escatologia e  dell’inferno, così quello della misericordia è già presente nell’AT[14]. Però il Siracide avverte di non voler fare i furbi perché non conviene e sembra già prevenire Lutero: «Non essere troppo sicuro del perdono, tanto da aggiungere peccato a peccato. Non dire: la sua misericordia è grande; mi perdonerà i molti peccati, perché presso di Lui ci sono misericordia e ira, il suo sdegno si riverserà sui peccatori. Non aspettare a convertirti al Signore e non rimandare di giorno in giorno, poiché improvvisa scoppierà l’ira del Signore e al tempo del castigo sarai annientato» (5,5-7).

Numerosi sono i passi in cui si afferma che il Signore «manda le sventure»[15],  le «calamità» (Gr 18, 11) e le «sciagure» (Is 31,2) con evidenti finalità punitive o correttive. Dio manda calamità agli Egiziani per liberare Israele. Manda le sventure per mettere alla prova, onde rafforzare nella virtù (Gen 22,1; Es 20,20; Dt 8,2). Così Giobbe, provato dalla sventura, si rafforza nella fede e nella pazienza.

Un Dio guerriero?

Non c’è dubbio che il Dio biblico è un Dio guerriero. «Il Signore è prode in guerra» (Es 15,3). Dio terrorizza i suoi nemici[16]. Per questo esistono guerre volute dal Signore (cf I Cr 5,22; II Cr 6,34). È nel nome del Signore che possiamo sconfiggere il nemico (Cf Sal 118, 10-14). È Lui che fa vincere la guerra[17], evidentemente la guerra giusta. Dio combatte contro nemici e forze avverse e le vince[18] . Ma chi sono i nemici di Dio? Chiaramente le forze del male, il peccato, le potenze demoniache.

 Il Dio di Gesù Cristo resta sempre sostanzialmente il Dio guerriero, il «Dio degli eserciti», il Dio  vendicatore dell’AT, e Cristo stesso nelle sue profezie escatologiche e nell’Apocalisse appare come il Capo degli eserciti celesti e della Chiesa in lotta contro Satana, i «figli del diavolo» (I Gv 3,10) e i ribelli a Dio[19].

Cristo, del resto, non condanna affatto la guerra come tale, ma suppone la possibilità di una guerra giusta (Lc 14,31); annuncia l’azione bellica finale di Dio nelle profezie escatologiche e nell’Apocalisse, la quale, non dimentichiamolo, è «Rivelazione di Gesù Cristo». Nell’Apocalisse è Cristo stesso che parla per mezzo di Giovanni.

Lo Spirito Santo è uno Spirito di pace, di amore, di mitezza, di conciliazione, di unità, di armonia. Ma è anche uno Spirito di fortezza, che vince le potenze del male, è il coraggio col quale il martire affronta la morte, è parresia con la quale il testimone di Cristo è potente nella parola, chiude la bocca all’avversario e fa tacere il demonio.

In Gen 3,15, Dio rivolgendosi al serpente preannuncia di porre inimicizia fra lui e la donna, sicché lo avvisa – è una dichiarazione di guerra - che la «stirpe della donna», ossia Cristo, ma secondo una tradizionale interpretazione accomodatizia, la Madonna stessa schiaccerà la testa al serpente. E comunque Maria e la Chiesa combattono insieme con Cristo contro le potenze del male. 

Abbiamo qui l’inaugurazione della lotta fra i figli della luce e i figli delle tenebre, che comporterà una serie infinita di guerre per tutto il corso della storia fino alla battaglia finale dell’Apocalisse. E chi guida questa guerra, se non Dio? Dunque niente Dio guerriero?

Occorre inoltre dire che la guerra ovvero l’uso della forza è una di quelle pratiche che sono necessarie nello stato della natura decaduta per assicurare il dominio dello spirito sulla carne, la riconciliazione con Dio, la pace e la concordia sociale, dopo il peccato originale, per cui esse diventano superflue mano a mano che inizia in noi, grazie alla vita cristiana, la vita dell’«uomo nuovo» nato nel battesimo, la quale vita cristiana mortifica l’«uomo vecchio».

 Se infatti tutti fossero buoni come sarebbe stato nell’Eden, la soluzione ad eventuali conflitti o contrasti sarebbe stata trovata pacificamente per mezzo del dialogo o di trattative. Ma stante purtroppo il fatto che non solo gli individui, ma a volte anche certe forze collettive o nazionali non si persuadono a rinunciare alla violenza o alla sopraffazione, occorre costringerle con la forza a rinunciare alla prepotenza, occorre obbligarle al rispetto del diritto e a lasciare in pace gli altri. Anche la guerra, con i suoi lutti, le stragi, le sue violenze e le sue tragedie sono considerati dalla Bibbia un castigo di Dio[20] 
.

Tuttavia, già nell’AT si insegna chiaramente che Dio nel piano originario della creazione non ha voluto la guerra, ma l’armonia universale. Il conflitto e la morte sono entrati nel mondo a causa del peccato, «per invidia del diavolo» (Sap 2,24). Ma Dio ridona all’umanità la pace grazie al sacrificio di Cristo, riconciliando  il mondo con Dio[21]. Cristo ci dà la sua pace, della quale il mondo non è capace (Gv 14,27; 16,33). Dio, pertanto, già dall’AT, appare come il supremo Signore e Donatore della pace[22]. Dio è Colui che pone fine alle guerre e la guerra sarà assente nella nuova terra dei risorti[23]

Il timor di Dio come antidoto alla presunzione

Importante è la dottrina biblica che il timore di Dio è l’inizio (Pr 9,10; 15,33) e la pienezza della sapienza (Sir 1, 9-29), nonchè  la dottrina isaiana e poi cattolica del dono del timore (Eb., Yireàt, Is 11,2) come dono dello Spirito del Signore, dottrina che passerà in quella cattolica dei sette doni dello Spirito Santo, destinati, secondo S.Tommaso[24], a restare in cielo, dove non c’è più il timore di offendere Dio, ma ne resta la sostanza consistente nella riverenza nei confronti dell’infinta Maestà divina.

Se Giovanni dice che «l’amore perfetto scaccia il timore» (I Gv 4,18), bisogna notare che non parla dell’amore e del timore come tali, ma dell’amore perfetto e del timore del castigo. E non dice che ci si salva solo a queste condizioni. L’amore perfetto, quindi, non scaccia ogni genere di timore, ma solo quel timore interessato, che è il timore di essere castigati. Ma come fa l’amante a temere di essere castigato dall’amato? Non ha neppure il tempo di pensarci. Come fa uno che non desidera altro che obbedire a Dio a temere il castigo? 

Teme, invece, comprensibilmente e giustamente, chi ha qualche incertezza nell’amare, per cui non ha un amore perfetto. D’altra parte, temere il castigo, di per sé, non è un male, ma può servire per evitare il peccato. Suppone infatti la convinzione di fede che Dio può punire il peccato, il che è già molto ed è sufficiente per la salvezza, benché l’amore qui non sia disinteressato. 

Invece il mero concentrarsi sul proprio danno senza pensare a Dio, chiude il soggetto nell’egoismo ed impedisce la salvezza. Per converso, il timore del castigo, per il quale temiamo di perdere il nostro Bene amato, che è Dio, è già salvifico, ma è meglio il timore di offendere Dio, perché qui il soggetto è più centrato su Dio e pensa più al Bene divino che al proprio.

Il confidare nella misericordia di Dio senza il necessario supporto del timor di Dio non è vera confidenza, ma presunzione di salvarsi senza le dovute condizioni, ossia senza pentirsi e riparare il peccato. Dio non fa misericordia a chi si comporta in tal modo. Infatti, il primo passo del nostro ritorno a Dio deve prender le mosse, sull’esempio del figliol prodigo della famosa parabola evangelica, dalla considerazione del danno che ci viene dallo stare lontano da Dio, il che non è altro che il castigo del peccato. A questo punto il timor di Dio, basato sull’umiltà, ci fa abbandonare la spavalderia propria dell’empio, e ci fa capire che la nostra salvezza e la nostra stessa esistenza dipendono da Lui. 

Vedere però in Dio soltanto Colui, dal Quale dipende tutto il nostro bene è già cosa buona, ma è ancora egoistica e non è ancora una vera apertura a Dio, con il che ci muoviamo verso la nostra salvezza, che è il possesso di Dio. Questo, più che timor di Dio, è amor proprio. 

Il timor di Dio salutare inizia salendo il gradino successivo, cioè quando cominciamo a temere il castigo non perché è nostro danno, ma perchè rischiamo di perdere Dio. Per salire, cioè, veramente verso la salvezza, bisogna che amiamo Lui più di noi stessi. Ma con ciò non siamo ancora alla perfezione del timor di Dio. Bisogna salire un altro gradino e cominciare quindi a non temere tanto il castigo, quanto piuttosto di offendere Dio col peccato. 

Siamo qui a livello dell’amore di Dio imperfetto. Il timore qui si fa ancora sentire perché il nostro amore non ha ancora un pieno slancio e una piena sicurezza. Occorre salire ancora più in alto, lanciarsi in Dio con tutte le nostre forze, dimenticarci per Lui. Giungiamo allora al livello massimo dell’amore raggiungibile su questa terra: quell’amore perfetto, del quale parla Giovanni, e nel quale «non c’è timore» (I Gv 4,18), perché non si teme più il castigo non per presunzione o spavalderia, ma perché si è talmente assorbiti nell’amare, che non si pensa più al timore, che resta nascosto nell’inconscio dello spirito e riemerge in cielo, come abbiamo già visto in S. Tommaso.

La questione della vendetta

Non c’è affatto da scandalizzarsi che il vero Dio, il Dio biblico, sia un Dio vendicatore, perché la vendetta, rettamente intesa, non è altro che una manifestazione della giustizia riparatrice[25]. Un Dio che assiste impotente o addirittura compiacente a delitti, soprusi, violenze, crudeltà e ingiustizie e che dà il permesso di peccare col pretesto della misericordia, è un falso dio non solo dal punto di vista della fede, ma anche da quello della ragione. 

È semmai il Dio «buono e misericordioso», il Dio «Amore», il Dio della grazia del Vangelo secondo Marcione, che egli contrapponeva al falso Dio a suo dire esclusivamente punitore, terrorizzante, irascibile, vendicativo e bellicoso dell’Antico Testamento, creatore di una natura che ci è causa di sventure e di morte.

Lo stesso termine italiano «redentore», col quale designiamo Cristo, che nei termini redemptor e apolytrosis senza dubbio implica l’idea di un «ricomprare», di un pagamento o di un riscatto, ha però come corrispettivi in ebraico goel, che vuol dire «vendicatore» e gaal, che vuol dire «vendicare». 

La vendetta, per la Bibbia, non è di per sé uno sfogo passionale o una violenza o un’ingiustizia, ma al contrario è un’esigenza di giustizia, perché essa, nel suo vero essere, è un atto riequilibratore di un ordine violato, è un togliere al ladro ciò che rubato, è un restituire l’onore a chi ne è stato derubato, è un far passare al malfattore lo stesso male che ha inflitto all’innocente. 

Occorre allora avvertire che quando Cristo fa riferimento in Mt 5,38 al precetto veterotestamentario «occhio per occhio» (Es 21,24; Lv 24,20) non intende affatto invalidare questo principio fondamentale di giustizia, ma, come appare chiaramente dal contesto, intende annunciare un superiore livello di giustizia, che non annulla affatto l’inferiore, ossia  vuol insegnarci quella disponibilità, quella comprensione e quella pazienza che ci portano ad accogliere e a sopportare persone  moleste, pesanti e petulanti. È chiaro, come risulta da altri passi dell’insegnamento di Cristo, che Egli non ci impedisce affatto di difenderci dai malvagi, se occorre, anche in tribunale (Mt 10,17). 

Indubbiamente ci può essere una vendetta ingiusta o non autorizzata, come la vendetta privata. Ma tutti hanno la facoltà, il diritto e il dovere, se possono, di rivendicare anche con la forza i propri diritti o di difendere i propri legittimi interessi o il proprio onore, fino alla propria stessa vita, se nessuno viene in loro soccorso. Le guerre giuste non sono altro che azioni militari motivate dal dovere di difendere la patria o un popolo da un ingiusto aggressore o la libertà da un tiranno. 

La coercizione usata dall’autorità giudiziaria o dalle forze dell’ordine nei confronti di un malfattore pericoloso non è altro che una giusta ed utile azione, con la quale gli si impedisce con la forza di costituire un pericolo pubblico e di nuocere alla comunità. Tutto ciò non ha nulla a che fare, contrariamente a quanto alcuni credono, con la «violenza», ma è pura e semplice attuazione della giustizia.  

Dio difende l’oppresso dall’oppressore[26]; aiuta nella lotta contro i nemici e appoggia coloro che combattono per una giusta causa[27]. Dio si vendica dei suoi nemici  e vendica coloro che sono vittime dell’ingiustizia [28].

Il passaggio dall’Antico Testamento al Nuovo Testamento

I buonisti, come Marcione, chiamano il loro Dio il «Dio di Gesù Cristo», il Padre «buono», il Dio «buono, pacifico, perdonante e misericordioso», Dio dell’amore, dello Spirito e della libertà, «Dio-in-noi», che «non castiga», ma salva tutti, contrapposto al Dio trascendente, astratto, astorico, Dio della legge, «castigatore, vendicativo e bellicoso» dell’AT. Loro assicurano, naturalmente, che il loro Dio è il vero Dio, il Dio concreto e incarnato in Gesù Cristo. 

Ma sorge una domanda: che ne è della natura con tutti gli sconvolgimenti e i suoi cataclismi? L’ha creata il Dio «buono? E il peccato da dove viene? Ma esiste veramente il peccato come male di colpa? Se non c’è castigo, dov’è il peccato? Dunque, resta una natura ambivalente, ora buona, ora cattiva. E come mai? Non può averla creata il Dio di Gesù Cristo, perché è «buono» e il buono non può che produrre il buono: il Dio di Gesù Cristo non fa discriminazioni come il Dio dell’AT tra giusti ed empi, ma tutti sono buoni e tendono a Dio, perché a tutti Dio fa grazia. Invece la natura, che è cattiva, non può dipendere dal Dio buono di Cristo. Ma allora da chi dipende? È chiaro: dipende dal Dio punitore, il Dio legalista e schiavista dell’AT. E siamo in pieno Marcione.

Ma obietto che il Dio del Nuovo Testamento non è il vero Dio rispetto a un falso Dio, vecchio e superato, che sarebbe quello dell’Antico. Dio non muta. Il Dio della Bibbia è uno solo, giusto e misericordioso, semplicemente conosciuto meglio nel Nuovo Testamento, secondo un passaggio dalla figura alla realtà, dall’imperfetto al perfetto, dall’implicito all’esplicito, dalle premesse alle conseguenze, dall’incompleto al completo. Nessuna rottura, nessuna contraddizione, ma continuità, sviluppo e progresso morale e speculativo. Come dice Cristo: «non sono venuto ad abolire la Legge o i Profeti, ma a dar compimento» (Mt 5,17). Come dice Giovanni, la «grazia e la verità», donateci da Cristo, si sono aggiunte alla «legge», donataci da Mosè (Gv 1,17). 

L’Antico Testamento è tuttora valido nei suoi valori essenziali: il Dio unico creatore e provvidente, ordinatore della natura, giusto e misericordioso, autore della legge morale, fine ultimo dell’esistenza umana. Esso è sempre utile per introdurre alla fede cristiana e come punto d’incontro del dialogo interreligioso, in special modo con l’ebraismo. 

Dico in conclusione che davanti a questa massa imponente di passi biblici da me citati, dei quali vi riporto solo una piccola parte, i discorsi di Staglianò e del Card. Scola fanno la barbina figura di costruzioni ideologiche completamente estranee alla Bibbia, accattate alcune dallo gnosticismo o dal dualismo iranico, altre poggianti sul nulla e senza alcuna consistenza speculativa o coerenza logica. È il minimo che si possa dire a voler essere buoni, tanto che ci si potrebbe domandare: ma di che cosa stanno parlando? Della Bibbia, di Gesù Cristo o di qualcos’altro?

P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 1 marzo 2020


[1] Rm 8,17; Fil 1,29; II Ts 1,5; II Tm 2,9; I Pt 4,13.16.
[2] Tb 13,2.5.10; Nm 14,18; II Sam 7,14; Gdt 8,27; Sal 11, 5-6;39,12; 99,8; 15, 14; 91,8; Sap 5,17; 12,2.21; Sir 7,17; Pr 16,22; Is 3,11; Ger 31,18; 46,28; II Pt 2,4; 3,7; Ap 3,19; 20, 9-10.
[3] Es 9,14; Nm 17,11; II Mac 3, 34; Ap 11,6; 15, 1; 16,9; 22,18.
[4] Es 34,7; Nm 14,18; Lam 4,22; Rm 13,5.
[5] II Mac 4,48; Lam 5,7; Ger 32,18; Ez 14,10; Lc 23,40.
[6] I Re 14,22; Ez 1,14; Ez 36,5; Sof 1,18; I Cor 10,22.
[7] Dt 9,8; II Cr 24,18; Esd 5,12; Ne 13,18; Ger 17,4; Zc 8,14; Rm 4,15; Ef 5,6; Col 3,6.
[8] Molti passi.
[9] Gb 4,9; Ez 5,13; 20,8.
[10] Ap 19,15; Ger 42,18; Ez 21,36; Sof 3,8.
[11] Gen 27,44; Nm 25,10; Sir 48,10; Sal 78,38Ger 18,20; Os 14,5.
[12] Sal 85, 4; Sap 18,20; Ger 3,5.12; Os 11,9; Mi 7,18;
[13] Es 34,6; Nm 14,18; Ne 9,17; II Mac 8,5; Sal 86,15; 103,8; 145,8; Sir 5, 6; 16,12;  Ger 10,24; Na 1,3.
[14] Sir 2,7.18; £5, 23-24; 47,22; 50,22; 51, 8.29; Is 49,8; 55,7; 61, 2; Ger 9,23; Lam 3,22; Os 14,4; Mi 7,18.
[15] Gc 7,25; II Sam 12,11; II Mac 6,16; Lam 3,38; Ger 6,19-
[16]Es 23,27; I Sam 14,15; II Cr 14, 13;17,10; Sal 9, 21;88,16; Is 2,10; I Sam 11,7; Sap 5,2.
[17] cf I Cr 18,6-13; I Mac 3,18-19.
[18] Es 15,6; Dt 28,7; Nm 10,35; Gdc 5,31; Sal 21,9; 37,20; 66,3; 89,11; 97,3; Sir 36,6; At 2,35; I Cor 15,25; Eb 1,13; 10,13.
[19]cf Ap 6,2; 12,10; 19, 11-16; 20, 9.
[20] Lv 26, 7s.25; Is 42,25; Ger 46,14; Bar 6,48; Ap 13,7;15,1.
[21] Rm 5,11;II Cor 5,18; Ef 2,16; Col 1,20.
[22] Tb 7,12; 19, 11-16; Nm 6,26; I Re 5,18; Sal 35,27; 147, 14; Is 26,12; Ger 29,11.
[23] Is 60,17; 65,25; Os 2,20.
[24] Sum.Theol., I-II, q.19.
[25] Da notare che per S.Tommaso la vindicatio, alle dovute condizioni, non solo è lecita, ma è una virtù parte della giustizia: Sum.Theol. II-II, q.108.
[26] I Re 2,44; Sal 3,8; Pr 23,11; Ger 11,20; 20,12.
[27] Dt 33,27; Gs 21,44; Gdc 2,18; II Sam 7,9; 22,18; II Re 17,39; Sap 12,22; Sal 7,7; 41, 12; 106, 10; 110,1.
[28] Dt 32,41; 32,35; 32,41; Gb 19,25; Sap 1,8; Sal 79,10; Is 34,8; 61,2; Ger 16,18; 50,15.28; 50, 34; 51, 6.11; Ez 24,8; 25,14. 17; Na 1,2; Mi 5,14; Rm 12, 19; Eb 10,30; Lc 21,22; II Ts 1,8.

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