Trattato sugli Atti umani - P. Tomas Tyn - Lezione 7 (1/2)

 

 Trattato sugli Atti umani

P. Tomas Tyn

Lezione 7 (Parte 1/2)

P.Tomas Tyn, OP - Corso “Atti Umani” - AA.1986-1987 - Lezione n. 16 (A-B)

Bologna, 10 marzo 1987

http://www.arpato.org/corso_attiumani.htm

Se vi ricordate bene, siamo sempre ancora nella quaestio 18, della I-II, una questione, non mi stancherò mai di ripeterlo, estremamente importante, perchè fonda la obbiettività della norma morale. Abbiamo visto le fontes moralitatis.

L’ultima volta abbiamo parlato, se vi ricordate, nell’articolo settimo, del rapporto che esiste tra il fine e l’oggetto. Abbiamo detto, con S.Tommaso, che là dove c’è un nesso tra il fine prossimo e il fine remoto, ebbene, la moralità che scaturisce dal fine remoto, dal fine dell’operante, è quasi generica rispetto alla moralità più particolare, che scaturisce dal fine dell’opera.

Quindi il rapporto tra la moralità che scaturisce dal fine e quella che scaturisce dall’oggetto è quello tra la moralità generica e la moralità specifica. Poi vedremo che in fondo è l’atto esterno che è specificato dall’oggetto, mentre l’atto interiore è specificato dal fine dell’operante. Quindi si potrebbe dire che l’oggetto che dà la specie all’atto esterno è quasi specificante rispetto a quella moralità più ampia che si verifica nella volontà dell’agente. Il quale mira a un fine al di là di quello che è appunto il bene particolare dell’atto esterno.

Per esempio, se io regalo qualche cosa a un amico per fargli piacere, la mia volontà è determinata dal voler far piacere all’amico, più che dal fargli il regalino. Quindi, la moralità principale, generica, scaturisce dal fine dell’operante. È più ristretta poi, più coartata, in qualche modo, più determinata da quella concretezza di ciò che si fa a favore dell’amico per procurargli il piacere, che per esempio regalandogli questa o quella cosa.

Questa era la questione che abbiamo trattato per ultima, l’altra volta. Invece, adesso, con l’articolo 8 e 9, c’è la questione dell’indifferenza morale di un atto umano. La questione è se esista un atto umano moralmente indifferente. Ebbene, la questione subito si sdoppia, perchè, per analizzare appunto la sua indifferenza, bisogna considerare l’atto umano sotto un duplice aspetto, cioè sotto l’aspetto della sua specificità, e quindi l’atto umano in specie, e nella sua individualità, l’atto umano nell’individuo, cioè nella determinazione numerica particolare, hic et nunc, dell’atto che viene posto.

Notate che a prima vista ogni buon moralista sarà portato a dire che un atto umano, un vero e proprio atto umano, indifferente, non ci può essere, per la ragione che abbiamo già detto, cioè che c’è una certa esigenza, una profonda esigenza, radicata nella stessa essenza dell’atto umano, in quanto è umano, cioè in quanto procedente dalla volontà deliberata, un’esigenza proprio in qualche modo connessa essenzialmente per se con la libertà dell’atto, e cioè l’esigenza di sottostare, di rapportarsi in un rapporto di obbedienza, di conformità, e di sottomissione, alla norma della legge morale.

Vale a dire che l’uomo, nell’atto umano, ha il dovere di autodeterminarsi secondo le determinazioni della verità del suo essere. E’ quel mistero che abbiamo studiato l’altra volta. Repetita iuvant. Ogni tanto bisogna tornare al ritornello. Ma, vedete, nella vita morale in qualche modo noi liberamente ci autodeterminiamo a quel bene al quale già siamo determinati metafisicamente.

Quindi, agire moralmente significa agire secondo le esigenze della ragione, di quella ragione che ci rivela l’obiettiva verità del nostro essere umano, delle finalità insite nella natura umana. Insomma la ragione in qualche modo ci rivela i contenuti della legge naturale. Questi contenuti sono imprescindibili, sono dati, non sono qualche cosa di fattibile[1]. Quei contenuti ci sono dati una volta per sempre, checché ne dicano i nostri storicisti.

Sono cose pazzesche, miei cari. Scusate se ogni tanto mi agito. Ma che si sentono delle cose! Ma veramente, ma io mi chiedo se la gente ci prende in giro, oppure lo dice seriamente? Insomma, lì o sono veramente degli ignoranti, ma voglio supporre che non lo siano. Però, se non sono ignoranti, sono dei malvagi. Non so, allora, che pesci pigliare.

Ogni tanto appare qualche articolo, anche in ambienti cattolici, secondo il quale per esempio, la legge naturale può cambiare. Perché? Perchè in California gli etnologi hanno scoperto che c’è una tribù indiana, che ammazza i vecchi. Orbene, dicono loro, che ciò avverrà in un futuro forse non tanto lontano. In attesa di questo, mi compro già da adesso una P38 per difendermi dalle generazioni future, che mi consegneranno all’eutanasia indolore, si fa per dire, passaggio alla vita dell’al di là.

Ebbene, miei cari, il fatto è che, appunto, dicevano: ma, questa esigenza di non ammazzare è suscettibile in qualche modo di fluttuazioni, in quanto ci sono queste tribù primitive. Si vede che l’autore dell’articolo pensava che essere naturale sia uguale essere primitivo. Quindi, queste etnie primitive conoscono l’uccisione del vecchio.

Ebbene, naturalmente la legge naturale non cambia per nulla per la perversità di quella tale tribù indiana, depravata certamente a causa del peccato delle origini, che grava un po’ su tutte le culture umane, finchè non siano purificate dalla grazia sanans di Cristo Restauratore di tutte le cose.

Il fatto è che la legge naturale assolutamente non cambia. E’ la stessa in California nell’anno 1500 come lo è in Europa nell’anno l987. Lì assolutamente non ci sono cambiamenti positivi. Quello che cambia è ovviamente l’individualità umana. Si questo non ci sono dubbi. Ma la natura che è posta anzitutto in specie, la natura specifica non cambia.

Quindi, l’uomo è già determinato alla verità del suo essere. Per esempio, appunto, finchè ci sarà la ragione umana, è possibile che Dio si compiaccia di estinguere la specie umana. Io infatti mi meraviglio perché la lascia ancora a campare. Ad ogni modo, il Signore è più buono di me, e per fortuna nostra. Infatti, il Signore potrebbe anche togliere l’uomo dalla faccia della terra. Ma finchè l’uomo continua a campare, finchè c’è quindi la razionalità, essa non potrà avere altra finalità che questa: conoscere la verità.

Non ci saranno altre finalità. La razionalità, fin che c’è, sarà definita da questo. Quindi, vedete, in sostanza, queste finalità obbiettive, che appartengono alla verità essenziale dell’uomo, diventano poi oggetto di libera scelta, ma non quanto alla loro verità obiettiva, bensì quanto alla conformità dell’atto, che io domino, a questa verità stessa.

Quindi, in qualche modo, in ogni atto libero, la libertà stessa dell’atto esige per natura sua di riprodurre nella sua libertà ciò che è la determinazione dell’altra libertà, cioè della libertà creatrice, la liberà che ha determinato una volta per tutte la verità del mio essere umano nella sua essenza e nella sua natura, cioè nelle sue finalità basilari.

Quindi, i casi sono solo due. Nell’agire umano libero, c’è sempre questa esigenza di conformità. Ora, questa conformità alla verità dell’uomo, alla verità della legge naturale, o c’è o non c’è. Se c’è, l’atto umano è buono; se non c’è, mi dispiace tanto, ma è cattivo. In questo senso ogni moralista con sensibilità morale, sarà appunto portato a dire che, in fondo, degli atti umani del tutto indifferenti non ci sono.

Però S.Tommaso opportunamente distingue l’atto umano in specie e l’atto umano nell’individuo. Ora, questa è la tesi tomistica, molto importante, che mi pare che sia abbastanza agevole dimostrare e intuire, in specie l’atto umano può essere indifferente. Perché? Perchè la specie dell’atto umano universale, tutto ciò che l’uomo fa, può essere determinata da un oggetto, cioè è sempre determinata da un oggetto formale. Ma quell’oggetto formale, che determina la specie dell’atto umano, può essere tale che in esso la nostra ragione non scorge nè un motivo di male nè un motivo di bene.

          Quindi, in qualche modo la ragione, rispetto all’oggetto dell’atto, dice che moralmente non è nè onesto nè disonesto. Fare quattro passi, non è nè bene nè male, non c’è nessuna legge morale che vieti di fare una passeggiatina. O, non so, levare una pagliuzza da terra, tanto per dire qualcosa di assolutamente insignificante e di cui la ragione in fondo non si cura.

Questo per quanto riguarda appunto l’atto umano in specie. Quindi, universalmente parlando, non è detto che ogni atto umano in specie sia già moralmente qualificato. Specificatamente ci sono degli atti umani, che non sono nè buoni nè cattivi, mentre ce ne sono altri, che sono già determinatamente buoni o determinatamente cattivi. Aiutare il prossimo è sempre un bene, può essere strumentalizzato ad altri fini malvagi, ma di per sè è sempre un bene, ex parte obiecti.

Non so, togliere il bene del prossimo per danneggiarlo, anzi danneggiandolo, non prendere, ma danneggiandolo di fatto, cioè in maniera tale che il legittimo proprietario possa protestare, ebbene - è così che si definisce il furto -, questo è sempre in specie un qualche cosa di cattivo. Invece, fare una passeggiata, per esempio, non è nè buono nè cattivo. Tuttavia in individuo, nella individualità, le cose cambiano.

E qui ancora il nostro caro amico S.Tommaso ricorre all’analogia con le entità fisiche. Dice che come un sinolo, un composto di materia e di forma, è determinato in specie partendo dalla forma, così questo stesso sinolo è individuato ovviamente dalla materia prima sottostante a una certa esigenza di quantità, ma, diciamo così, la sua individualità, la sua determinatezza numerica di questo sinolo, appare tramite gli accidenti.

Cioè, il sinolo in astratto, nella sua essenza specifica, non ha degli accidenti concreti. Per esempio l’uomo come tale, non è nè di pelle bianca nè di pelle scura, non ha nessun colore di pelle. Invece, l’uomo nella sua concretezza non può non avere una determinata pigmentazione.

Quindi, in qualche modo, la presenza di accidenti è segno, non costitutivo, notate bene, ma è il segno che rivela l’individualità dell’essenza. L’essenza individuale è rivestita di accidenti individuati nella individualità del supposito. Quindi similmente, dice S.Tommaso, un atto umano, come il sinolo, non può in individuo essere privo di determinati accidenti. Così l’atto umano non può in concreto che essere posto in determinate circostanze. E queste circostanze ci sono sempre, se si tratta di atto umano, si capisce, perchè gli atti non umani non ci interessano, non sono soggetto di moralità. Questo è subito da eliminare.

Quindi, un atto umano individuo è sempre posto in determinate circostanze. E queste circostanze concrete rispetto all’atto umano, che viene posto in esse, sono sempre rilevanti dal punto di vista morale. S.Tommaso insiste soprattutto, e molto giustamente, sulla circostanza principale, cioè la circostanza del fine. Il fine dell’operante, il cur, il perchè si agisce. Perché, dice S.Tommaso, in fondo un atto umano, per quanto banale e insignificante nella sua specificità obiettiva, deve sempre trovare il senso da parte dell’agente che lo compie.

Quindi, se questo senso, questa finalità, c’è, l’atto sarà buono, ma la stessa assenza della finalità, vedete che non si scappa, è già un disordine. Quindi, per quanto la passeggiatina sia proprio una cosa assolutamente banale, se io la faccio per prendere una boccata di aria e per muovere un po’ le mie stanche membra, allora, immediatamente acquista un certo ordine morale positivo.

Ovviamente, se poi do qualche senso negativo all’atto umano, allora sarà deteriore. Ma lo stesso fatto di non dar senso a una azione libera, se fosse possibile, per esempio, che io camminassi liberamente senza dare alcun senso al mio camminare, questa stessa insensatezza del mio camminare sarebbe già moralmente deteriore[2].

Questo si collega molto con l’unica opzione fondamentale - S.Tommaso mi perdoni, se uso questa parola compromessa -, che S.Tommaso ammette in un solo caso, ovviamente non nel senso dei nostri teologastri, che, parlano dell’atto trascendentale, secondo i quali, se qualcuno ha fatto un’opzione trascendentale buona, poi può commettere qualsiasi bestialità: tutto va sempre bene, perchè sono atti categoriali, che non toccano l’essenza trascendentale di questo atto intimo, fatto una volta per tutte. Invece, noi diciamo giustamente che ovviamente l’oggetto è talmente rilevante, da qualificare ovviamente anche le scelte interiori.

Quindi, S.Tommaso dice in sostanza che certamente non c’è un’opzione fondamentale fatta una volta per tutte, Ma, all’inizio dell’agire umano, all’inizio dell’agire morale, nella presa di coscienza di sé, nel primo atto che l’uomo pone, questo ordine al fine ultimo dev’essere in qualche modo instaurato, c’è una certa esigenza, mentre negli atti successivi agisce l’ordine al fine ultimo.

E lo stesso fatto di non instaurarlo è già un disordine morale. E quindi lo stesso fatto di fermarsi a livello di fini intermedi, là dove c’è una esplicita esigenza di deliberare su tutta la vita e di ordinarla tutta in radice, questa assenza dell’ordine globale è già un che di deteriore[3]. Così anche nella concretezza dell’atto umano c’è sempre questa esigenza di ordinare, anche cose banalissime, ordinarle almeno a qualche fine sensato. E così in individuo l’atto umano non potrà che essere o buono o cattivo.

Ora, altre due questioni morali connesse con la moralità oggettiva dell’atto umano, sono quelle che riguardano la funzione moralmente qualificante delle circostanze. E’ il fatto che alcune circostanze sono in grado di passare nella condizione di un oggetto specificante. C’è questa circostanza, quel transit in conditionem obiecti, cioè che passa nella condizione di un oggetto specificante.

E quindi ci sono delle circostanze, che non sono solo circostanze, ma assumeranno anche la qualifica di un oggetto specificante. Certe circostanze, non tutte, come vedremo, daranno all’atto umano una qualifica, non solo accidentale, ma essenziale, cioè cambieranno la specie dell’atto umano.

L’esempio che S.Tommaso fa è quello più facile forse da intuire; è sempre quello del sacrilegio. Se uno ruba, fa già una cosa cattiva in sè, sottrae la proprietà legittima del prossimo. Però, se uno compie questa azione malvagia in un luogo sacro, questo fatto, diciamo così della circostanza del luogo in cui ciò avviene, non è solo circostanza, non è per accidens rispetto alla qualifica morale di accadere in luogo sacro, perchè in tal caso il furto non è solo la sottrazione del bene al prossimo, ma è anche la sottrazione a Dio del suo diritto ad essere rispettato.

Quindi, in qualche modo, un atto, che si configura nella sua immediatezza come un furto, diventa un sacrilegio, cioè un peccato non solo contro la giustizia commutativa, ma contro quella giustizia nei confronti di Dio, che è appunto la virtù della religione. Il che ovviamente non solo aggrava l’atto. Tutte le circostanze o aggravano o alleviano. Ma questa circostanza del luogo sacro non solo aggrava il furto, ma lo fa diventare un alto tipo di peccato, un’azione completamente diversa.

S.Tommaso, per spiegare questo, ovviamente qui deve un po’ abbandonare la stretta analogia tra il mondo fisico e il mondo morale. Ma lo fa sempre con attenzione alla diversità che c’è tra i termini analoghi. La differenza è che il mondo fisico conosce una certa determinazione ad unum; la natura è sempre determinata ad unum, mentre il mondo morale è mediato dalla razionalità e dalla libertà.

E la razionalità conosce una certa flessibilità, una certa estensione, che non c’è nel mondo fisico. Sicché, lì l’analogia continua ad esserci, però in qualche modo si sottolineano le caratteristiche di dissomiglianza e di diversità, più che quelle di somiglianza.

Non c’è nessun dubbio che nel mondo fisico c’è una forma che ultimamente specifica, il sinolo; al di là di quella forma, tutte le altre forme aggiunte non possono che essere accidentali. Non è assolutamente possibile che alla forma specifica dell’uomo, aggiungendo un altro accidens, questo assuma la qualifica di un cambiamento di specie. Quindi nell’ordine delle forme sostanziali, c’è una forma ultimamente determinante e al di là di questa ci sono le altre forme aggiunte, se ci sono. Esse sono delle forme non più sostanziali, ma accidentali. Quindi lì si dirime[4] subito, in qualche modo, il confine tra il sostanziale e l’accidentale.

Quindi, c’è il sostanziale generico, che però non è ultimamente determinato, poi l’ultima differenza specifica, che scaturisce appunto dalla forma determinante; e poi tutte le altre forme aggiunte sono accidentali. Questo nel mondo fisico. Nel mondo morale, ahimè, le cose si complicano invece di molto, perché, non è poi agevole in concreto eruire[5] questo. Tuttavia il fatto, sì, lo possiamo affermare a ragion veduta. Cioè, in qualche modo, la moralità è mediata dalla ragione umana: ciò che contrasta con la ragione è un male, ciò che è conforme alla ragione è un bene.

E’ ciò che la ragione stessa considera, ma non soggettivamente. Io quasi temo di usare queste parole, perché mentre S.Tommaso le usa innocentemente, al giorno di oggi “considerare” vuol dire “opinare”. Ma non è questo. Ciò che la ragione è costretta proprio obiettivamente a considerare come il bene dell’uomo, ebbene questo è il suo bene.

Notate che cosa significa lex naturalis est aliquid ad ratione consistutum, consistutum non nel senso di inventato dalla ragione, ma di colto dalla ragione come consono a una natura, che appunto è qualificata da quella ultima differenza specifica, che è la razionalità. In questo senso, l’oggetto specificante dal punto di vista morale è mediato dalla razionalità.

Ora, ci sono alcune circostanze, nelle quali la ragione non considera una bontà o malizia specificante, ma solo una bontà[6] o malizia aggravante o alleviante[7]. Però, è possibile che la ragione, in alcune circostanze, che sono tali fisicamente, come per esempio, compiere un furto in un luogo sacro o in chiesa o in un cimitero, consideri la circostanza come un oggetto stesso contrario a titolo specifico, particolare, originario in qualche modo - questo è importante: questa originarietà -, contrastante a titolo originario, specificante, con la ragione stessa.

Cioè la ragione può scorgere nella circostanza una ripugnanza morale particolare, originaria, non mediata da altro. Così, per esempio, il non profanare il luogo sacro è una esigenza oggettiva, non scaturiente da una circostanza, ma proprio costituente un oggetto formale morale: non profanare il luogo sacro. Quindi, questo divieto di profanazione del luogo sacro, il luogo non è più solo circostanza che riveste l’atto, ma il luogo è un qualche cosa che rientra nell’oggetto stesso. E tale profanazione può accadere non solo tramite il furto, ma tramite tanti altri mezzi, tramite una bestemmia, tramite un omicidio perpetrato in una chiesa o tante altre cose[8].

Quindi, in qualche modo ci sono determinate circostanze nelle quali la ragione, indipendentemente da altre fonti morali, scorge una particolare originaria difformità con se stessa, cioè con i dettami della ragione, così come è illuminata dall’oggetto della verità dell’uomo. E a questo punto una realtà come quella del luogo, che è estremamente accidentale dal punto di vista fisico, può diventare moralmente oggetto specificante.

Invece, - ed ecco l’ultimo articolo di questa vexata quaestio 18, -, ci sono altre circostanze, che invece non mutano la specie, ma che semplicemente qualificano, cioè rimangono vere e proprie circostanze, che mutano solo accidentalmente la moralità dell’atto, cioè o l’aggravano o l’attenuano, ma non la cambiano specificamente. E qui il discrimine sta nel fatto della circostanza: se essa riesce ad isolarsi dall’oggetto, così da costituirsi oggetto a sè stante, oppure se essa ha una rilevanza morale solo attorno ad un altro oggetto.

Così, S.Tommaso, fa un esempio molto illuminante, molto facile da intuire. Dice che certamente la circostanza del molto o del poco è importante nella entità del furto Voi conoscerete la regola casistica. In fondo è la paga giornaliera di un operaio qualificato. Io non so quanto ne prenda uno in Italia, un operaio qualificato. Ad ogni modo pressappoco quella cifra dovrebbe costituire un po’ la quantità oltre la quale il peccato del furto diventa peccato grave e quindi esige una restituzione.

Per il confessore la cosa può avere una certa rilevanza. Perché, mentre non è il caso di turbare la coscienza del bambino, che ha rubato una caramella, dicendogli che debba restituire in segreto. Quindi lì ovviamente non vige chiaramente l’obbligo della restituzione, ma invece, oltre a una certa quantità comincia a essere un obbligo serio. E i futuri confessori si ricordino che, se il confessore colpevolmente ommette di avvertire il penitente del dovere della restituzione, tale dovere passa al confessore. Quindi, attenti, a certe omissioni in confessionale.

Ad ogni modo, lì il discrimine evidentemente è la quantità. E’ chiaro, appunto, ripeto, anche non solo per i bambini, ma anche per gli adulti, non è il caso proprio di turbarli con certe sciocchezze. Mentre quando la consistenza è notevole, allora sì, si consiglia,, proprio si impone quasi - oggi, guai a imporre! -, ad ogni modo il confessore deve usare in un certo qual modo la sua autorità per dire: ecco, lei ha il dovere di restituire, e di farlo ovviamente in segreto, perché …...

Questa poi è la casistica che non rientra più direttamente nella morale generale. Ma è importante. Certamente è chiaro che il confessore non deve imporre: lei restituisca, eccetera. Poverino, potrebbe dire: ma come, io vado a confessarmi qui, e poi devo dire a tutti quello che ho combinato? No! Ovviamente la restituzione obbliga, ma in segreto. Quindi è chiaro che questo il confessore ha pure l’obbligo di precisarlo Nemo tenetur tradere semetipsum, nessuno è tenuto a tradire in qualche modo, a manifestare le proprie cose.

E’ ovviamente molto importante quindi ai fini della determinazione della gravità del peccato contro la giustizia, la circostanza del quanto è stato sottratto. O poco o molto. Ma il poco e il molto non ha in sè una determinata moralità; il poco e il molto cominciano a gravare solo là dove il peccato è già costituito dal suo oggetto. Cioè, se io attingo ai mezzi miei, poco o molto, non cambia specie. Non fa diventare cattivo un atto buono, a meno che non sia un prodigo,  che sperpera, eccetera. Però, insomma, di per sè il molto e il poco rispetto alle mie sostanze, non cambia nulla, cioè non fa diventare cattivo un atto buono. Mentre profanare un luogo sacro è sempre un atto cattivo.

Sicché il molto e il poco diventa aggravante solo là dove l’atto è già cattivo, non per la circostanza del molto o del poco, ma per un altro titolo, cioè per il titolo dell’oggetto, ossia che si sia trattato di un furto, cioè attingere a sostanze non mie, a sostanze sottratte ingiustamente al prossimo. Allora ovviamente, se è poco, il peccato sarà lieve o veniale; se è molto, allora sarà grave.

Questo per quarto riguarda la funzione delle circostanze. Prego, caro.  

… mettiamo il caso … S.Tommaso ne parla … in cui la circostanza può costituire oggetto … quindi … peccato … nel caso che … in un certo senso è prudenza … mentre …depresso … se è una persona che conosco … denaro … il caso in cui la circostanza stessa …

Certo. Certo. Infatti. Certamente. Proprio. Cioè questo sempre si verifica. Se non altro è un esempio che rientra perfettamente in quello che abbiamo detto. Cioè la circostanza, per mutare la specie all’atto, deve sempre costituirsi ad oggetto, cioè deve proprio passare nella condizione di oggetto.

… atti di per sé … conversione da aggravante in oggetto … ma anche conversione da atto indifferente a …

Sì. Proprio così. Sì. Proprio così. Da indifferente a peccaminoso. Sì, effettivamente, questo è un ottimo esempio. Perché noi abbiamo fatto l’esempio di un atto già cattivo, che passa a un altro atto cattivo, però di una specie più grave. E’ sempre un cambiamento, non solo di gravità; questo anche nel caso del furto sacrilego. Lì c’è stato il cambiamento da un atto cattivo di una specie, in un atto cattivo di un’altra specie più grave. Invece, prendere poco o molto dalle sostanze altrui è sempre specificamente furto, con una circostanza aggravante.

Invece, questo esempio, che ci è stato citato, è ancora più significativo, perché effettivamente ci fa vedere come un atto che di per sè possiamo dire indifferente o addirittura buono, ossia dare una certa garanzia in oeconomicis può essere di aiuto al prossimo di per sé, ut in pluribus, come ci insegna anche il Vangelo: “A chi ti chiede il prestito, non negarlo”.

Ebbene, un atto in sé persino buono, si potrebbe dire, può diventare cattivo, proprio a causa di una circostanza, ossia la circostanza della persona rispetto alla quale, cioè verso la quale si dà questa determinata garanzia. E quindi non c’è dubbio che ci sono anche delle circostanze che, proprio in quanto si costituiscono oggetto specificante, si  potrebbe dire che fanno passare un atto in sè indifferente o buono, lo fanno passare in un’altra, proprio in un altro genere morale,

… importante che … in questo caso … dalla parte del soggetto determinare … uno può anche aiutare … fargli vedere …

Sì. Sì. Sì. Sì. Caro, attento. Attento, caro Fra Giuseppe. Attento, attento, caro, perché la

… quella persona …

Sì. Sì. No, vedi. Sì. No, ahimè, caro figliolo. In questi casi è meglio non fidarsi. Non voglio, sottrarvi alla generosità della morale evangelica. Va bene, caro. Tuttavia, vedete, questo, questo è veramente molto importante. Cioè è chiaro che bisogna tendere a dare fiducia al prossimo. Non c’è nessun dubbio. Però, la prudenza, diciamo così, ha le sue regole veramente obbiettive, cioè non è questione di pura soggettività.

Non vorrei essermi spiegato male, quando parlavamo della prudenza. Appunto, perché la prudenza ha una funzione applicativa, proprio per questo non è soggettiva. Cioè si tratta dell’applicazione di una legge in circostanze particolari, dove effettivamente il soggetto, diciamo così, contempla entrambi i parametri oggettivi, che sono da un lato la legge universale, che è ineccepibile[9], e poi anche la particolarità della circostanza, che è qualche cosa di oggettivo, seppure individuale e quindi più difficile da determinare ex parte subiecti. Questo … 

… S.Tommaso …  solo il prudente … veramente … più ampio rispetto …

Sì. Sì. Certo. In grado di. Sì. Sì. Sì. Non c’è dubbio. Non c’è dubbio. Vedi, il fatto è che quando si presenta un pazzo furioso e ti richiede di ridargli l’arma che ha consegnato in deposito, bisogna effettivamente, non so, andare piuttosto adagio. per vedere se veramente si farà del male o no. Però, è sempre meglio supporre che si faccia piuttosto del male che altro. Non c’è bisogno di fare una perizia psichiatrica prima della restituzione. In qualche modo è legittimo supporre, che, se c’è uno stato di agitazione, ci sia un certo pericolo, anche se poi di fatto magari non succede nulla. Quindi vedete in questo effettivamente c’è, come si può dire, una certa necessità da parte della prudenza di acquisire certamente l’esperienza, proprio per avere una sufficiente induzione pratica, se volete. Però, il materiale dell’induzione pratica prudenziale, il materiale esperienziale è a sua volta un qualche cosa di oggettivo.

Quindi, non è così affidato all’arbitrio dell’uomo. Qui, cosa volevo dire ancora? Sì, appunto, questo: è molto importante, perché, vedi Fra Giuseppe, so che tu non tendi a questi eccessi, Ma al giorno di oggi, ahimè, si dice generalmente: bisogna sempre dar fiducia al prossimo; se uno ti colpisce su una guancia, porgigli anche l’altra; se uno ti prende il mantello, dagli anche la tunica.

E’ verissimo, capisci, è verissimo. Solo che effettivamente c’è un caso in cui questo andare al di là di ogni misura, potrebbe far male non solo a me, ma anche al prossimo. Quindi, la morale evangelica lì veramente si differenzia tra il consigliato e ciò che è strettamente dovuto.

Quindi, in qualche modo là il consiglio evangelico è quello di porgere sempre e comunque l’altra guancia, in sostanza. Tuttavia, questo consiglio non toglie affatto ciò che è il contenuto fondamentale della legge naturale e cioè il diritto alla difesa.

Quindi, se quel soggetto, ammettiamo questo caso, si difende moderatamente, cum moderamine inculpatae tutelae, e quindi non porge l’altra guancia, ma eventualmente restituisce qualche cosa sulla guancia dell’aggressore, in questo caso, se avviene cum moderamine inculpatae tutelae, non pecca.

E ovviamente, siccome la morale soprannaturale suppone la legge naturale, è evidente che appunto questa esigenza evangelica della generosità non toglie il diritto a una difesa moderata. Però il Vangelo ci vuole ispirare questo spirito di generosa fiducia, che effettivamente è doverosa come mentalità, come forma mentis, come un qualche cosa che dev’esserci in praeparatione animi. Ora, non c’è dubbio che, se uno è esoso e sempre e solo esige la giusta e stretta misura del giusto, è chiaro che non può avere in praeparatione animi quello che il Vangelo esige.

Quindi, questo rapporto tra la morale evangelica e le esigenze della legge naturale è estremamente delicato. Quindi non si può dire, in sostanza, non so, aiutiamo i poveri[10]. Poi arriva, come in alcuni ambienti ecclesiastici, come dire, un po’ troppo entusiasti per la morale evangelica interpretata un po’ contra rationem. Poi arriva, come è successo in Germania, la telefonata della polizia in convento: per favore, noi stiamo, cercando quei delinquenti e assassini plurimi, eccetera, e voialtri li nutrite, e li aiutate a scappare.

Non che, insomma, quella gente che li aiuta pensi proprio al fatto che loro poi si sottraggano alla giustizia. Però indirettamente è proprio un aiutarli a sottrarsi al braccio secolare. E quindi, in sostanza, bisogna sempre essere rispettosi, sì, della generosità e della fiducia verso il prossimo, ma anche di quelle che sono veramente le esigenze del bene comune e pure del prossimo stesso. Perché, capite, se il delinquente trova dappertutto tanta carità, quella carità gli fa molto male, perché poi in fondo non si correggerà mai.

… per esempio … elemosina a un drogato … dimostri anche … può essere un gesto …

E’ vero. E’ vero, cara. Vede. Però, in tal caso, carissima, adesso non voglio di nuovo essere troppo esigente. Tuttavia, siccome può effettivamente succedere che uno che ormai si sta, come si può dire, sinceramente disintossicando, che Dio lo benedica. Allora lì effettivamente è una cosa più che lecita.

… non lo …

Allora, cara, lì è sconsigliato, carissima, veramente. Perché? Perché c’è un grosso pericolo, Infatti, qualis unusquisque est, talis finis ei videtur, quale ciascuno è, tale fine pensa sia quello buono[11]. Per il drogato poverino, bisogna poi dire poverino, perché effettivamente è tale, mal ridotto come è, la droga, nelle crisi di astinenza, diventa tutto, insomma, proprio il finis ultimus. E allora è evidente che lì usa tutti i mezzi per procurarsela di nuovo. E lì non bisogna aiutarlo in tal modo.

Però bisognerebbe, e qui ha ragione.

Sì. Vede, il fatto è che bisognerebbe trovare le strade dell’aiuto. Allora, naturalmente non bisogna maltrattarli, eccetera, a meno che loro stessi non diventano aggressivi. Cosa che talvolta succede. Ma bisogna trattarli quindi con bontà, con cortesia, eccetera. Però, la, la strada più indicata è eventualmente, e questa è cosa giusta, di farseli un po’ amici, se è possibile, perché guardate che è cosa difficilissima. Infatti sono veramente gente proprio con una cattiveria interiore veramente impressionante, non è ….

Non è colpa loro, fino a un certo punto. Attualmente non è colpa loro, però in causa, ahimè, io temo molto che siano responsabili. Non voglio essere proprio un rigorista. Però, non tutti, capite. Ci sono dei ragazzi che veramente ci cadono un po’ per accidens, indotti veramente dagli altri, in età anche molto tenera.

          Ma ci sono persino quei delinquenti, che addirittura a quanto pare creano la dipendenza, immettendo delle dosi di droga persino, non so, nei rubinetti dell’acqua, eccetera, così che i ragazzi bevendo addirittura assorbono già delle minime dosi di droga, e dopo magari trovano lo spacciatore lì dinnanzi alla scuola. Chi ci cade così, naturalmente non è colpevole. Questo si capisce. Ma c’è anche una certa responsabilità, spesso in causa.

Quindi, anche lì bisogna andarci piano a dire poverino. Una certa responsabilità ce l’ha. Però, in quel momento è veramente poverino e bisogna aiutarlo. Però con mezzi appropriati. E allora lì il mezzo migliore effettivamente, cioè direi per tutti è avere una certa cortesia e affabilità con loro finchè è possibile. Invece, per alcuni che particolarmente si dedicano a quest’opera, è bene farseli amici e poi procurar loro, ovviamente senza farlo pesare. Perché, se uno lo fa proprio in maniera ostentativa, gli fa capire che proprio non si fida di lui. E questo certamente peggiora la situazione.

Però, non so, dicendo: vieni a mangiare con me un panino; o qualcosa del genere, allora si ha la garanzia che lo si aiuta e nel contempo gli si procura proprio quel bene di cui ha bisogno senza il pericolo che possa in qualche modo abusarne. Però, tutte queste cose effettivamente esigono molta molta capacità di valutazione.

Là invece, dove si vede che il ragazzo ormai è diventato sobrius, sui compos, dove ha riconquistato la sofrosyne, come dice appunto il greco, lì si può effettivamente dare anche un aiuto come ipotizzava lei. Capisce, cara signora. Importante è però veramente fare questa valutazione.

Adesso, dopo questa vicenda della prudenza, applichiamoci all’atto interiore dell’uomo. Oh! Anzi, vedo che non possiamo applicarci all’atto interiore prima della pausa di cinque minuti e quindi riposatevi un po’ e così poi ci applichiamo.

Fine Prima Parte

Padre Tomas Tyn, OP

 Registrazione di Amelia Monesi
Trascrizione di Sr. Matilde Nicoletti, OP – Bologna, 16 marzo 2014
Testo rivisto con note da P.Giovanni Cavalcoli, OP – Varazze, 1 settembre 2015
 
 

Notate che a prima vista ogni buon moralista sarà portato a dire che un atto umano, un vero e proprio atto umano, indifferente, non ci può essere, per la ragione che abbiamo già detto, cioè che c’è una certa esigenza, una profonda esigenza, radicata nella stessa essenza dell’atto umano, in quanto è umano, cioè in quanto procedente dalla volontà deliberata, un’esigenza proprio in qualche modo connessa essenzialmente per se con la libertà dell’atto, e cioè l’esigenza di sottostare, di rapportarsi in un rapporto di obbedienza, di conformità, e di sottomissione, alla norma della legge morale.

Vale a dire che l’uomo, nell’atto umano, ha il dovere di autodeterminarsi secondo le determinazioni della verità del suo essere. Nella vita morale in qualche modo noi liberamente ci autodeterminiamo a quel bene al quale già siamo determinati metafisicamente.


Quindi, agire moralmente significa agire secondo le esigenze della ragione, di quella ragione che ci rivela l’obiettiva verità del nostro essere umano, delle finalità insite nella natura umana. Insomma la ragione in qualche modo ci rivela i contenuti della legge naturale. Questi contenuti sono imprescindibili, sono dati, non sono qualche cosa di fattibile. Quei contenuti ci sono dati una volta per sempre, checché ne dicano i nostri storicisti.

Quindi, in qualche modo, in ogni atto libero, la libertà stessa dell’atto esige per natura sua di riprodurre nella sua libertà ciò che è la determinazione dell’altra libertà, cioè della libertà creatrice, la liberà che ha determinato una volta per tutte la verità del mio essere umano nella sua essenza e nella sua natura, cioè nelle sue finalità basilari.

S.Tommaso dice in sostanza che certamente non c’è un’opzione fondamentale fatta una volta per tutte. Ma, all’inizio dell’agire umano, all’inizio dell’agire morale, nella presa di coscienza di sé, nel primo atto che l’uomo pone, questo ordine al fine ultimo dev’essere in qualche modo instaurato, c’è una certa esigenza, mentre negli atti successivi agisce l’ordine al fine ultimo.

E lo stesso fatto di non instaurarlo è già un disordine morale. E quindi lo stesso fatto di fermarsi a livello di fini intermedi, là dove c’è una esplicita esigenza di deliberare su tutta la vita e di ordinarla tutta in radice, questa assenza dell’ordine globale è già un che di deteriore. Così anche nella concretezza dell’atto umano c’è sempre questa esigenza di ordinare, anche cose banalissime, ordinarle almeno a qualche fine sensato. E così in individuo l’atto umano non potrà che essere o buono o cattivo. 

 

 

Immagini: Padre Tomas Tyn, Parrocchia San Giacomo fuori le Mura, Bologna



[1] Ossia di dipendenti da noi.

[2] Riprovevole.

[3] Biasimevole.

[4] Chiarisce.

[5] Ricavare.

[6] Migliorante.

[7] Attenuante.

[8] Anche certe forme di liturgia modernista possono essere una profanazione del luogo sacro.

[9] Indispensabile, ineludibile.

[10] Intende riferirsi ad un atteggiamento ingenuo ed imprudente.

[11] Tale a lui appare il fine.

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