A Dio per
mezzo del Corano
Il cammino
spirituale di Silvia Aisha Romano
Troverai Dio se lo cerchi con
tutto il cuore
Dt 4,29
Aisha
concorda col Concilio
Nel sito La
voce che illumina è recentemente apparsa un’intervista di Davide Piccardo
ad Aisha Silvia Romano dal titolo «Silvia Romano si racconta per la prima
volta: mi son chiesta perché a me e ho trovato Dio».
È interessante che Aisha non usa il termine
«Allàh», ma usa il termine «Dio». Del resto, il termine Allàh è legato al
termine ebraico El, che significa appunto «Dio». Ciò ci ricorda la dottrina del
Concilio Vaticano II, il quale insegna che anche i musulmani adorano il vero ed
unico Dio. Dice infatti il Concilio:
«il disegno della salvezza
abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in primo luogo
i musulmani, i quali, professando di tenere la fede di Abramo, adorano con noi
un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giorno finale»[1].
Ancora il Concilio:
«La Chiesa guarda con stima
anche i musulmani, che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente,
misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato
agli uomini. Essi cercano anche di sottomettersi con tutto il cuore ai decreti
nascosti di Dio, come si è sottomesso Abramo. Benché essi non riconoscano Gesù
come Dio, lo venerano però come profeta: onorano la sua madre vergine Maria e
talvolta pure la invocano con venerazione. Inoltre attendono il giorno del
giudizio quando Dio onnipotente ricompenserà tutti gli uomini risuscitati. Così
pure essi hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio soprattutto con la preghiera, l’elemosina e
il digiuno»[2].
Abbiamo qui una visione solamente positiva, che
non accenna agli errori e ai contrasti col cristianesimo. Così similmente Aisha
riprende gli stessi temi del Concilio senza polemizzare col cristianesimo. Il
discorso sull’Islam quindi resta incompleto, perché gli errori sono taciuti sia
nel Concilio che in questa intervista ad Aisha ed in molte altre occasioni
negli ambienti modernisti.
Ad ogni modo, salva questa riserva, alla quale
però non possiamo rinunciare, nessuno c’impedisce qui di riprendere e commentare
le parole di Aisha, perché questa giovane si esprime con finezza e garbo, senza
esaltazioni o fanatismi, dimostrando nel contempo un animo religioso e onesto.
Quello che essa racconta del suo passaggio dall’indifferenza religiosa alla
fede, denota un animo riflessivo aperto alla verità e a progredire nella verità,
umile, pronto a riconoscere i suoi peccati, tanto che più avanti parla di
«punizione divina», con una chiara capacità di coniugare il momento religioso
con quello dell’amore e della dedizione al prossimo.
Una scelta libera o di
convenienza?
Tuttavia, al fine di vagliare tutte le ipotesi
interpretative delle parole e della scelta di Aisha, non possiamo tacere, per
parlare con franchezza e non peccare di ingenuità, senza mancare di rispetto
per la giovane, circa l’eventuale o vago sospetto che Aisha stia recitando una
parte, forse inconsciamente o forse per farsi pubblicità, perché oggi, nonostante
tutta l’islamofobia e l’ostilità preconcetta all’Islam presso gli ambienti
conservatori e preconciliari, viceversa tra i falsi dialoganti, tra i buonisti
e i fanatici del «diverso» fa chic presentarsi come convertiti all’Islam, giacché
per costoro è sbagliato cercar di convertire gli altri al cristianesimo, perché
ciascuno è libero di convertirsi alla religione che preferisce, ma sappiamo inoltre
quanto astute e sottili siano le risorse segrete della vanità femminile e non solo
femminile ma anche maschile.
Teniamo presente che Aisha è stata prigioniera
per alcuni anni, senza dar notizie di sé, in condizioni di vita quasi disumane
e di estrema incertezza. Sorge allora spontaneo il sospetto che essa sia stata abbindolata,
circuita e minacciata, come purtroppo è in uso nella predicazione islamica, e
che sia stata quindi indottrinata, in sostanza che sia stata plagiata e che
quindi la sua scelta per l’Islam non sia stata libera, ma frutto di uno stato
psichico di esasperazione.
Tuttavia i concetti morali e teologici espressi
da Aisha sono ineccepibili, sia dal punto di vista evangelico che coranico. Il
dubbio che ci viene è che essa sia stata in qualche modo costretta a dire quello
che dice, e che tuttora essa sia minacciata di essere punita come apostata, nel
caso che non continui a giocare questo ruolo.
Altra ipotesi, invece, è che Aisha sia sincera e convinta,
anche perché, se la sua testimonianza può essere gradita ai musulmani, agli
islamolatri e ai relativisti, ormai lei stessa ha sperimentato che deve pagarla
a caro prezzo patendo l’ostilità che le viene dagli antiislamici. Chi glie lo
fa fare, se non è una sincera convinzione di coscienza? È possibile parlare con
tanto garbo e saggezza di Dio sotto la minaccia di rappresaglie?
Se Aisha resiste nella sua fede, vuol dire, a
quanto sembra, che sta agendo non per paura di punizioni islamiche, ma perché
spinta dalla coscienza e ciò la renderebbe innocente e meritevole davanti a
Dio, anche se essa ha abbracciato una dottrina, quale quella del Corano, che
oggettivamente contiene degli errori.
Gioca a suo favore la serenità che essa sa mantenere,
mentre l’esame attento di quello che essa dice e racconta suscita una netta impressione
complessiva di sincerità. Se si tratta di una costruzione artificiale, che le è
stata imposta, bisognerebbe dire che è fatta alla perfezione, da un consumato
teologo. Se poi essa mente o finge, se la vedrà con quel Dio che essa riconosce
e al quale sa di dover render conto, come avvertono sia il Vangelo che il Corano.
Noi vorremmo prenderla sul serio. Immaginiamo quale sarebbe la sua amarezza, se
non le credessimo.
Penso invece che su questa base che Aisha ha posto,
coincidente con quanto il Concilio insegna sull’Islam, occorrerebbe proporre ad
Aisha e a quanti condividono le sue vedute coraniche, se ciò non dovesse causar
loro delle noie da parte dei correligionari o accuse di apostasia, ciò che il
Vangelo vi aggiunge per una più alta conoscenza di Dio, così come essa ci viene
dagli insegnamenti di Gesù Cristo.
Come noi cristiani accettiamo serenamente, benché
dispiaciuti, che un fratello, per motivi di coscienza, si converta all’Islam,
così i musulmani dovrebbero imparare ad accettare serenamente, anche se dispiaciuti,
che un loro fratello si converta al cristianesimo, senza ricorrere ad atti di
violenza o a misure legali. La religione è un fatto di coscienza: che senso ha
voler trattenere per forza dal passare a un’altra religione un fratello che lo
fa per motivi di coscienza?
Una storia edificante
Diciamo dunque che i seguenti ricordi di Aisha rivelano
per la verità un punto di partenza spiritualmente piuttosto arido e squallido,
anche se molto frequente nei giovani. Aisha non ci dice il perchè di simile
situazione interiore. Non precisa se aveva ricevuto da bambina un’educazione
cattolica, che poi ha abbandonato e perchè.
Non risponde all’accusa di apostasia, che le è
stata fatta, limitandosi a parlare genericamente di «insulti e offese»
serenamente sopportati. Non si nota lo spirito di vendetta tipico dell’Islam;
ma si direbbe che essa mostri un animo paziente più proprio del Vangelo. Essa non
polemizza contro il cattolicesimo o la Chiesa o i preti, non se ne lamenta. Ma
si affida a Dio.
Resta la questione del come mai, pur vivendo in
un ambiente nel quale c’è da supporre che le sarebbe stato facile accedere al
cattolicesimo, non lo ha fatto. Comunque, le considerazioni seguenti fatte con sua
madre rispecchiano un animo riflessivo, che si pone il problema di Dio e nel
contempo è sensibile alla sofferenza degli altri.
«Prima di essere rapita ero completamente indifferente a Dio, anzi potevo
definirmi una persona non credente; spesso, quando leggevo o ascoltavo le
notizie sulle innumerevoli tragedie che colpiscono il mondo, dicevo a mia
madre: vedi, se Dio esistesse non potrebbe esistere tutto questo male … quindi
Dio non esiste, altrimenti eviterebbe tutto questo dolore».
Mi ponevo queste domande rarissime volte, solo quando – appunto – mi
confrontavo con i grandi mali del mondo. Nel resto della mia vita ero
indifferente, vivevo inseguendo i miei desideri, i miei sogni e i miei piaceri».
Aisha racconta di un’etica edonista praticata da
ragazza prima della conversione. Ma a un certo punto sente che non la soddisfa.
Qualcos’altro di veramente buono germoglia in lei e ce lo dirà presto.
«Per me il giusto, prima, era semplicemente fare ciò che mi faceva sentire
bene; non avevo un criterio diverso relativamente a ciò che fosse giusto e
sbagliato; il bene per me corrispondeva a ciò che mi faceva sentire bene. In
realtà ora capisco che mi illudevo mi facesse stare bene».
Aisha abbandona
l’etica edonistica di prima, che la ha delusa, e prende coscienza nel contempo
dell’esistenza e della pressione in lei di un’inclinazione buona della sua natura:
la pietà per chi soffre e il desiderio di sollevare la sofferenza altrui. Emerge
un’indole generosa. Per questo ha deciso forse temerariamente di partire per un
paese lontano per soccorrere i bisognosi. Ma ecco la disgrazia: il rapimento e
la lunga prigionia. Perché questa prigionia? A che scopo? Che cosa volevano i
rapitori? La volevano convertire? Aisha non lo spiega. Inizia in
quell’occasione a farsi domande sul senso del proprio destino.
«Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare:
io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo
questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso che sia stata presa io e non
un’altra ragazza? È un caso o qualcuno lo ha deciso?».
«Stavo facendo
del bene, perché è successo questo a me?». È la domanda di Giobbe, con la
differenza che Giobbe si sente innocente, mentre Aisha si sente colpevole. Interessante
è quindi la domanda su qual è la sua colpa, evidente rifiuto della furbesca convinzione
dei buonisti, secondo i quali Dio non castiga. Se le hanno parlato di un Dio
così, non l’ha accettato. Sorge invece in lei, come vedremo in seguito, seppur
confusamente e tra dolorosi dubbi, la convinzione che non il caso ma Qualcuno,
un misterioso Signore provvidente abbia un disegno su di lei. Evidentemente si
tratta di Dio. Ma nessuno glie ne aveva parlato? Pare che abbia scoperto questa
cosa da sola, riflettendo sul senso della sua disavventura. Aisha dimostra la saggezza
d’averne fatto tesoro e di aver capito che c’era un Dio che la ama.
Dio giusto e
misericordioso
È riuscita da sola,
certo illuminata da Dio, a farsi un’idea giusta di Dio contro i cattolici
buonisti. È quello che troverà nel Corano. Forse se i cattolici le avessero
detto che il vero Dio cristiano è il Dio che castiga il peccato, non avrebbe
trovato nel Corano la verità su Dio.
«Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio,
inconsciamente. Ho iniziato da lì un percorso di ricerca interiore fatto di
domande esistenziali. Mentre camminavo, più mi chiedevo se fosse il caso o il
mio destino, più soffrivo perché non avevo la risposta, ma avevo il bisogno di
trovarla.
Più mi facevo domande e più piangevo e stavo male; mi arrabbiavo perché non
trovavo la risposta e andavo in ansia. Non avevo la risposta ma sapevo che
c’era e ci dovevo arrivare. Capivo che c’era qualcosa di potente ma non
l’avevo ancora individuato, però capivo che si trattava di un disegno, qualcuno
lassù lo aveva deciso».
Non si perde
d’animo. C’è la segreta convinzione che avrebbe trovato. «Chi cerca, trova»,
come dice Cristo. Si tratta di cercare ciò o chi può essere trovato. E che cosa
può e deve essere maggiormente cercato e trovato, se non Dio?
E infatti ecco
a un certo punto la luce. Aisha scopre definitivamente che Dio onnipotente
aveva cura di lei, aveva un disegno su di lei, un disegno di misericordia e di
felicità. Questo Dio non la punisce per il gusto di punirla, ma per liberarla dai
suoi peccati.
«Il passaggio successivo è avvenuto dopo quella lunga marcia, quando già
ero nella mia prigione; lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha
punito. Forse Dio mi stava punendo per i miei peccati, perché non credevo
in Lui, perché ero anni luce lontana da Lui».
Sguardo lucido sulla
sua situazione: si rafforza la convinzione di essere stata punita per i suoi peccati.
Sono impliciti in ciò il pentimento e la volontà di riparazione, benefìci dei
quali purtroppo i buonisti non possono fruire, perché non vedono affatto nella
sventura un richiamo di Dio alla penitenza e alla conversione, sicché restano nei
loro peccati e a loro la correzione divina non giova per nulla. Invece Aisha ne
fa tesoro per correggere e migliorare sé stessa.
«Un altro momento importante è stato a gennaio, ero in Somalia in una
stanza di una prigione, da pochi giorni. Era notte e stavo dormendo quando
sentii per la prima volta nella mia vita un bombardamento, in seguito al rumore
di droni. In una situazione di terrore del genere e vicino alla morte iniziai a
pregare Dio chiedendogli di salvarmi perché volevo rivedere la mia famiglia;
Gli chiedevo un’altra possibilità perché avevo davvero paura di morire. Quella
è stata la prima volta in cui mi sono rivolta a Lui».
Dopo aver
scoperto il Dio buono e provvidente, giusto, pietoso e misericordioso
all’origine della sua esistenza e del senso della sua vita, ideatore di un
progetto di bene per la sua felicità, Aisha finalmente si rivolge
fiduciosamente a Lui in una situazione drammatica, nella quale essa teme per la
sua vita, con un’appassionata preghiera per lei e per i suoi cari.
La scoperta del
Corano
Ecco giungere
il Corano. Da notare come essa distingue bene la sublimità del Corano dalle
miserie dei musulmani. Non precisa da chi l’ha ricevute e come ne è entrata in
possesso. Non dice neppure che cosa o chi l’ha spinta a leggerlo. Non parla mai
dei suoi carcerieri e di come si sono comportati con lei.
«Dopo aver letto il Corano non ci trovai contraddizioni e fin da subito
sentii che era un libro che guidava al bene. Il Corano non è la parola di Al
Shabaab! Ad un certo punto sentii che era un miracolo, per questo la mia
ricerca spirituale continuava e acquisivo sempre più consapevolezza
dell’esistenza di Dio. A un certo punto ho iniziato a pensare che Dio,
attraverso questa esperienza, mi stesse mostrando una guida di vita, che ero
libera di accettare o meno».
Il rapporto con
Dio si rafforza: «sentivo nel cuore che solo Lui poteva aiutarmi e mi stava
mostrando come». Del Corano non sa far altro che delle lodi. Non nota
errori, sconvenienze e contraddizioni. Vi trova la parola di Dio.
«Ero disperata perché, nonostante alcune distrazioni come studiare l’arabo,
vivevo nella paura dell’incertezza del mio destino. Ma più il tempo passava e
più sentivo nel cuore che solo Lui poteva aiutarmi e mi stava mostrando come…
La prima volta ci misi due mesi a leggere il Corano, mentre la seconda mi
fermavo a riflettere più seriamente e sentivo sempre più il bisogno di
leggerlo, fino a quando ho abbracciato l’Islam. Di fronte a molti versetti
avevo la sensazione che Dio si rivolgesse a me, mi colpivano al cuore.
Avevo anche letto alcuni versi della Bibbia e appreso i punti in comune del
Cristianesimo e dell’Islam. In definitiva, il Corano mi era parso un testo
sacro con dei principi chiari che guidavano verso il bene.
Imparai un versetto prima ancora di diventare musulmana, il versetto 70
della surah al Anfal: “O Profeta, di’ ai prigionieri che sono nelle
vostre mani: – Se Dio ravvisa un bene nei cuori vostri, vi darà più di quello
che vi è stato preso e vi perdonerà -. Dio è perdonatore misericordioso.” Imparai
anche la prima surah del Corano, al Fatihah, e iniziai a pregare pur non
sapendo come pregare.
Un altro versetto che mi colpì molto fu: “Come potete essere ingrati nei
confronti di Dio, quando eravate morti ed Egli vi ha dato la vita? Poi vi farà
morire e vi riporterà alla vita e poi a Lui sarete ricondotti.” Corano 2/28
E anche: “Se Dio vi sostiene, nessuno vi può sconfiggere. Se vi
abbandona, chi vi potrà aiutare? Confidino in Dio i credenti.” Corano 3/160.
Nella mia condizione leggevo questi versetti e li sentivo come rivolti
direttamente a me.
La fede ha diversi gradi e la mia si è sviluppata con il tempo. Sicuramente
dopo aver accettato la fede islamica guardavo al mio destino con serenità
nell’anima, certa che Dio mi amasse e avrebbe deciso il bene per me. Quando
provavo paura per l’imminenza della morte o ansia per non avere notizie della
mia famiglia e del mio futuro, trovavo consolazione nelle preghiere. Più
aumentava la mia fede e più – quando ero triste – chiedevo a Dio la pazienza e
la forza, chiedevo a Dio che rafforzasse ulteriormente la mia fede».
La libertà della donna
Aisha denuncia una
falsa libertà della donna, basata su di una concezione relativistica, presente
anche in ambienti cristiani, per la quale la donna si ritiene libera se mette
in mostra il proprio sesso con abbigliamenti imposti dalla moda, ma a contatto
con l’Islam è convinta di aver raggiunto la vera libertà proprio con abiti che
nascndono il suo sesso, in modo da non essere oggetto di appetiti maschili, che
la schiavizzano e non la liberano.
Dice Aisha:
«Il concetto di libertà è soggettivo e per questo è relativo. Per molti la
libertà per la donna è sinonimo di mostrare le forme che ha; nemmeno di
vestirsi come vuole, ma come qualcuno desidera. Io pensavo di essere libera
prima, ma subivo un’imposizione da parte della società e questo si è rivelato
nel momento in cui sono apparsa vestita diversamente e sono stata fatta oggetto
di attacchi ed offese molto pesanti.
C’è qualcosa di molto sbagliato se l’unico ambito di libertà della donna
sta nello scoprire il proprio corpo. Per me il mio velo è un simbolo di
libertà, perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare
la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona
potrà vedere la mia anima. Per me la libertà è non venire mercificata, non
venire considerata un oggetto sessuale».
Aisha
giustamente si ribella a una visione della donna che la riduce a strumento di piacere.
Essa dice molto bene quando afferma:
«il mio velo è un simbolo di libertà,
perché sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia
dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà
vedere la mia anima».
Effettivamente
l’obbligare l’uomo a rinunciare a vedere il corpo della donna è un richiamo
fatto all’uomo dalla donna a frenare la concupiscenza e a sostituirla con uno sguardo
casto, che lo porti ad apprezzare la sua dignità di persona e la bellezza della
sua anima. Aisha esprime esigenze ideali quanto mai nobili e lodevoli circa la
virtù della castità. In ciò l’etica sessuale islamica coincide indubbiamente
con l’etica cristiana.
La differenza è
data dal fatto che mentre il costume cristiano, in forza delle risorse della
grazia di Cristo, comporta rispetto all’etica islamica, una maggior fortezza e
autocontrollo emotivo, che da una parte ha minor bisogno delle difese del
pudore, dall’altra comporta una mitigazione o moderazione dell’istinto sessuale
e nel contempo una maggior stima della personalità della donna, per la quale si
evita la poligamia e la si supera nella monogamia.
Ma Aisha non
mostra di sapere che nel Corano non è superata la visione della donna come
strumento di piacere, tanto è vero che, se da una parte il Corano ha ragione
nel vedere il sesso femminile presente anche in paradiso, dall’altra nello
stesso paradiso il piacere fisico non è espressione del piacere spirituale
rappacificato con esso, come nella visione escatologica cristiana, ma la donna,
incapace di una spiritualità al livello dell’uomo, continua ad essere semplice
strumento di piacere, in uno stato d’inferiorità spirituale rispetto all’uomo.
Aisha: un
caso emblematico e un motivo di speranza
Il cammino di Aisha è una lezione severa per
noi cattolici: cresciuta in un’Italia cattolica, ha trovato Dio nel Corano! Ma
come mai non ha trovato Dio da noi ma lo ha trovato nel Corano? Ma non c’è stato
nessuno che abbia saputo parlarle di Dio in un modo decente e persuasivo? Che
abbia saputo ascoltare le sue domande, calmare i suoi timori e le sue angosce?
Mostrarle la bellezza del mistero trinitario?
L’incontro con Gesù Cristo? L’obbedienza al Padre? La docilità allo Spirito
Santo? L’amore alla Sacra Scrittura? L’adorazione dell’infinita maestà divina? La
consolazione e il conforto della preghiera? La dolcezza della comunione
ecclesiale e del culto mariano? Il fascino della santità cristiana? Farle
sentire la misericordia e la sua paterna severità? Spiegarle il senso della
sofferenza e l’odio per il peccato?
Ottenerle il suo perdono e insegnarle la
penitenza? Prospettarle la sua infinita amabilità e bontà? Invogliarla a
dedicare a Lui la sua vita, operando per Lui tutto il bene per il prossimo, che
sgorgava dal suo cuore? Chiarirle la desiderabilità delle sue promesse? L’utilità
dei suoi sacramenti? La sapienza delle
sue leggi e dei suoi comandamenti? Accettare per amor suo umiliazioni,
sofferenze e persecuzioni?
Io vorrei domandare ai cattolici zelanti ma poco
illuminati, che si passano l’uno all’altro acriticamente lo slogan «il nostro
Dio non è il loro» che cosa fanno per i giovani, per dimostrar loro l’esistenza
e gli attributi di Dio, per presentar loro il vero volto di Dio della ragione e
della fede, per far capir loro che mentre il Dio della fede trinitaria è il Dio
dei soli cristiani, il Dio Uno della ragione è il Dio di tutti, quale che sia
la religione alla quale appartengono, e che il Dio trinitario non è un altro
Dio da quello della ragione, ma è lo stesso Dio meglio conosciuto, così come la luna dei moderni è la stessa luna
degli antichi, meglio conosciuta.
E poi vorrei chiedere ai cattolici buonisti,
superdialoganti, quelli che, come i lettori di Famiglia Cristiana, portano Aisha ad esempio per i giovani di donna
libera e religiosa, senza ombra di preoccupazione per essersi fatta musulmana,
anzi contenti come il Card. Bassetti di sentirla loro «figlia» per aver essa
abbracciato una religione «di pace», vorrei chieder loro, dicevo, che ne
pensano di quel Dio del Corano al quale Aisha si è convertita, Dio trascendente
e non immanente, Dio immutabile e non mutabile come quello di Karl Rahner; Dio
impassibile, e non Dio sofferente come quello di Bruno Forte; Dio che premia
col paradiso e castiga con l’inferno, Dio che perdona solo chi si pente, Dio
che fa grazia, ma che esige anche i meriti e le opere buone, Dio geloso che non
tollera altri dèi, Dio al quale si deve assoluta obbedienza, Dio onnipotente
creatore e non il Dio «che fa pietà» alla Turoldo o di Sergio Quinzio, Dio
incorruttibile e non manovrabile come quello di Luigino Bruni.
Certamente occorrerà ricordare ad Aisha che, se
veramente essa cerca Dio, non potrà accettare l’aspetto tirannico del Dio
islamico, quella volontà fatalistica, quell’onnipotenza irrazionale, che fu
così ben messa in luce da Papa Benedetto XVI nella sua famosa lezione di
Ratisbona e dovrà invece attingere al Dio biblico, la cui volontà discende
dalla sua sapienza, la cui Ragione rende ragione alla nostra ragione, pur
lasciando intatto il mistero, la cui semplicità rifugge dalla doppiezza, Dio
fedele ed affidabile, che chiarisce i patti, non tradisce, non si smentisce e
mantiene le promesse.
Il caso di Aisha è emblematico della necessità
che la Chiesa oggi, sul solco degli insegnamenti conciliari sull’Islam,
arricchisca il suo magistero e la sua pastorale di uno sguardo più ampio ed
articolato il mondo dell’Islam, congiungendo in una sapiente sintesi gli
apprezzamenti ed i giudizi critici, così da rispondere adeguatamente con
atteggiamento propositivo e persuasivo al fenomeno dell’immigrazione islamica
in Europa, che è indubbiamente ormai da decenni la principale direzione
dell’espansionismo islamico nel mondo.
È un fenomeno paradossale ed anormale che mentre
da una parte in Europa la fede cristiana, che ha solidissime basi, stia
vacillando, dall’altra parte solida più che mai sia la fede degli islamici, che
pur poggiano la loro fede su fatti e dogmi imparagonabilmente meno autorevoli
di quelli del cristianesimo. Si direbbe che gli islamici, che non hanno mai
abbandonato il sogno di conquistare l’Europa, accorgendosi dell’indebolirsi
della fede cristiana, giudichino che sia giunto il momento di darle il colpo di
grazia.
Per scongiurare questo pericolo, ritengo che la
Chiesa dovrebbe indire una nuova crociata, non più con le armi, ma con la
predicazione, cosa che è sempre stata nel più puro stile dell’evangelizzazione.
In particolare auspicherei che il Papa indicesse un sinodo mondiale dei vescovi
sull’Islam, ispirato dalla congiunzione dello senso critico di Papa Benedetto
XVI con l’apertura benevolente di Papa Francesco.
Occorre che i cristiani abbandonino sia
l’opposizione frontale, muro contro muro, contro l’Islam, tipica della
mentalità preconciliare, sia il sincretismo relativista e indifferentista
proprio dei modernisti e dei buonisti, per una proposta cristiana equilibrata
ed articolata, motivata ed organica al mondo islamico, se è vero che il cristiano
è la luce del mondo e all’infuori di Gesù Cristo «non c’è altro nome dato agli
uomini sotto il cielo, nel quale dobbiamo essere salvati» (At 4,12).
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 18 luglio 2020
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