Via da me maledetti - Seconda Parte (2/2)

 Via da me maledetti

Seconda Parte (2/2) 

La sofferenza può essere un bene prezioso

Che cosa è infatti la sofferenza? È il sentire che ci manca qualcosa di fisico o di spirituale che desideriamo o di cui abbiamo bisogno.  La sofferenza più grave ed odiosa è quella spirituale. Essa può essere motivata o dalla visione delle colpe nostre o di quelle altrui, e questa sofferenza è salutare; oppure può essere l’irritazione del nostro orgoglio, e questa è una sofferenza che ci conduce all’eterna dannazione.

In generale, il patimento spirituale è lo stato turbato e contrariato della volontà soggetta all’azione di una forza o volontà contraria ed ostile, conosciuta o pensata dall’intelletto, la quale frustra la volontà del paziente nella sua inclinazione naturale o elicita. Si tratta di un conflitto spirituale tra due volontà: una volontà tormentata, che subisce la pena e una volontà tormentatrice che la irroga.

Se la volontà tormentata è malvagia, si suppone che la volontà tormentatrice sia una volontà giusta, buona e punitrice. Infatti la cattiva volontà vede come odiosa, cattiva e nemica la buona volontà che le si oppone e che la castiga. La cattiva volontà è la negazione del bene e l’affermazione del male. La punizione è la negazione della negazione e la riaffermazione del bene negato dalla cattiva volontà.

L’azione fisica non ha alcuna presa sullo spirito, ma la sua efficacia si trova immensamente al di sotto dell’azione che può influire sullo spirito e quindi farlo gioire o soffrire, recargli piacere o recargli pena, anche se sappiamo bene che una sofferenza fisica non è senza riflessi negativi anche nel nostro spirito. Tuttavia resta che solo l’azione spirituale è proporzionata all’esercizio del suddetto influsso. Un’ustione o un vento primaverile possono agire sul mio corpo dolorosamente o piacevolmente, non sul mio spirito. Io posso addolorami perché il mio corpo è ustionato, ma il mio spirito non può essere ustionato. Lo spirito patisce dallo spirito, il corpo dal corpo.

Quando pertanto Cristo parla di «fuoco eterno», usa una metafora espressiva, perché il dolore che procura il fuoco è il paradigma del dolore, che rappresenta bene il dolore spirituale e la pena dello spirito. Così similmente lo «stridor (brygmòs) di denti» (Mt 22,14), del quale parla Cristo per rappresentare la pena dell’inferno, rappresenta certo il digrignar di denti della persona presa dalla rabbia, ma è anche il mal di denti, che è il paradigma del massimo dolore fisico.

Ma i dolori che colpiscono l’intimo dello spirito procurati da eventi spirituali, come la perdita di una persona cara; l’amarezza per essere stati condannati ingiustamente o diffamati o traditi dall’amico, per chi apprezza il valore della giustizia, dell’onore o della fedeltà; il dolore per la scoperta dei mali che affliggono la Chiesa, per chi ama la Chiesa; lo scandalo per il cattivo esempio di un superiore, per chi chiede al superiore di essere guida fidata; il rimorso per aver commesso una colpa grave per una coscienza delicata sono dolori ben più gravi di quelli procurati dal fuoco o dal mal di denti.

Non dobbiamo dimenticare altresì il valore pedagogico, purificativo, ascetico, deterrente e redentivo del castigo.  La pena puramente afflittiva e non redentrice è solo quella dell’inferno. Invece tutte le pene di quaggiù possono e devono essere utilizzate per la nostra e altrui salvezza. Anche le pene che ci procurano gli uomini o il demonio stesso, sopportate in Cristo, dobbiamo considerale come mezzi utili per lo stesso scopo.

 Lo sconto dei nostri peccati, il pagamento dei debiti, «amore con amor si paga», sono tutti preziosi princìpi insegnatici da Cristo, dalla Scrittura, dal Magistero e da tutti i Santi, sono cose che hanno contribuito in modo essenziale al diffondersi del cristianesimo nel passato e quindi devono esserlo anche nel presente e nel futuro.

Non si tratta di cose superate, ma sempre attuali, se vogliamo continuare il lavoro dei nostri Padri nella diffusione della fede nel mondo. Non riceverò misericordia da Dio, se non sarò stato misericordioso col prossimo. La predicazione cristiana dei nostri doveri sociali è persuasiva e stimolante, se motiviamo l’amore del prossimo non solo con l’amore di Dio, ma anche col timore di Dio.

Consideriamo inoltre che è vero che l’impulso alla misericordia verso il prossimo è data dall’amore per Dio, essendo il prossimo sua creatura, per la quale Cristo ha dato il suo sangue, ma un contributo indispensabile a questo amore per gli altri è il pensiero sanamente interessato che, se noi non siamo misericordiosi, non potremo attenderci misericordia da Dio, e ci troveremo ad essere tra quei maledetti che al giudizio finale Cristo allontanerà da sé.

L’osservanza dei comandamenti, sostenuta dalla grazia, è chiaramente la condizione per ottenere la vita eterna e per converso la disobbedienza è la causa dell’eterna dannazione. Dire pertanto, come oggi succede facendo eco a Lutero, che la salvezza è puro dono della grazia, senza che occorrano meriti, è un’eresia condannata dal Concilio di Trento, il quale però ha saggiamente precisato, riprendendo un pensiero di Sant’Agostino, che la stessa possibilità che abbiamo di acquistare meriti per il paradiso è un dono della grazia, mentre S.Tommaso di rincalzo insegna che il fatto stesso di poter espiare in Cristo i nostri peccati, è dono della divina misericordia.

Sempre su questo tema della riparazione occorre ricordare che, se abbiamo un debito con un amico per un torto fattogli e vogliamo ritrovare la sua amicizia, bisogna che prima paghiamo il debito e solo allora l’amico sarà disposto a restituirci la sua amicizia. Prendere sottogamba il problema del peccato pensando di approfittare della bontà di Dio, senza preoccuparci di riparare, è mancanza di lealtà nei suoi confronti, è pensare di poterLo gabbare e prendersi gioco di Lui e non fa altro che accendere maggiormente in Lui l’ira verso di noi.

Occorre inoltre dire che è un dovere fuggire la sofferenza in noi e toglierla agli altri, ma non dobbiamo neppure dimenticare l’importanza di prendere le pene della vita presente come occasione per scontare i nostri e gli altrui peccati. Se ci sentiamo innocenti, abbiamo un motivo in più per congiungerci alla sofferenza dell’Agnello immolato.

La sofferenza non è un male assoluto; per questo essa non va fuggita, se è necessaria per non peccare. È invece il peccato che va assolutamente fuggito, anche se ciò richiede sofferenza. Come diceva San Domenico Savio? «La morte, ma non peccati». Oggi qualcuno dice: meglio peccare piuttosto che morire.

La pastorale della misericordia da San Giovanni XXIII al Papa attuale

San Giovanni XXIII ha creato una svolta epocale nella condotta pastorale dei Papi in fatto di severità. La sua famosa frase del discorso inaugurale del Concilio «oggi la Chiesa preferisce far uso della misericordia piuttosto che della severità» avrebbe segnato di sé la linea pastorale del Concilio e dei Papi seguenti. In realtà la Chiesa ha sempre dato il primato alla misericordia e tuttavia era innegabile che occorreva trovare un approccio al mondo moderno più capace di apprezzare il positivo e meno atteggiato alla condanna.

Con la pastorale di Papa Giovanni inizia un Papato non più conservatore ma progressista. Il dialogo e la reciprocità si sostituiscono alla punizione e alla scomunica.  Il pluralismo viene sottolineato più dell’unità. L’essere cristiano balza più in luce che l’opposizione cattolico-acattolico. I Papi non fanno più questioni di eresie, ma di diversità. La pastorale appare più in luce della dottrina.

Se ci sono scomuniche, vengono scomunicati i lefevriani, ma non i modernisti. Pio X aveva scomunicato noti teologi modernisti come Loisy, Buonaiuti, Tyrrel e Murri. Se Rahner, Schillebeeckx, Boff, Küng e Teilhard de Chardin fossero vissuti all’epoca di San Pio X, sarebbero certamente stati scomunicati. Oggi viceversa è diffusa nella Chiesa una condotta per la quale i luterani, benché eretici, sono visti più vicini che non i lefevriani, benché soltanto scismatici.

Nello stesso tempo bisogna riconoscere che nel corso della storia l’uomo, soprattutto alla luce della rivelazione divina, ha progredito continuamente nella conoscenza e nell’esperienza del mistero della divina misericordia in modo tale che a mano a mano che abbiamo approfondito la conoscenza di questo mistero, i suoi confini ci sono apparsi via via sempre più ampli, sempre però in concomitanza con la giustizia, della quale andiamo scoprendo sempre di più la sua saggezza e la sua bontà.

L’ispirazione di Papa Giovanni fu provvidenziale, perché era effettivamente giunto per la Chiesa il momento di mutare il suo atteggiamento nei confronti della modernità.  Il Papa capì che l’istanza dei modernisti condannati da San Pio X era giusta: bisognava che la Chiesa assumesse criticamente i valori del pensiero moderno nonché uno stile pastorale improntato ad una maggiore misericordia senza rinunciare al dovere della giustizia.

Lo sbaglio dei modernisti era stato quello di valutare il pensiero moderno non sulla base del Vangelo e della dottrina della Chiesa, ma sulla base degli stessi errori del pensiero moderno. Occorreva rifare il loro lavoro con giusti criteri, come avevano già tentato grandi teologi tomisti come Jacques Maritain e Yves Congar.

Occorreva tutto un lavoro di recupero critico e di integrazione. Occorreva però far uso del vero pensiero critico, che non è l’idealismo ma il realismo. Occorreva esser ben coscienti che l’ingenuità fallace non è quella del realista, ma quella dell’idealista. È questa e non quella che allontana dalla verità. Bisognava pertanto, come aveva proposto Maritain, mantenere i princìpi critici del tomismo e il rifiuto del criticismo kantiano di origine cartesiana, ma nel contempo occorreva, alla luce della critica tomista, fare una cernita che assumesse i valori sorti dopo S.Tommaso integrandoli al suo pensiero.

Occorreva instaurare una vera e sana filosofia moderna e una vera e sana teologia moderna, conforme ai dati della rivelazione cristiana, mostrando la falsità della nomea di «filosofia moderna» che l’idealismo nato da Cartesio con abile mossa propagandistica era riuscito astutamente a procurarsi, tanto da influenzare persino il linguaggio degli storici della filosofia, sforniti di solidi princìpi filosofici, i quali storici comunemente, benché impropriamente, parlano ingenuamente più per sentito dire che per convinzione personale, di filosofia  moderna riferendosi all’idealismo tedesco nato da Cartesio, dando luogo così all’equivoco per cui il «moderno» nel senso di quel che di fatto c’è oggi, vien scambiato per il meglio finora esistito. 

Ciò vuol dire che, nella mente di Papa Giovanni, la Chiesa non avrebbe più dovuto presentare la sua filosofia e la sua teologia come pura e semplice opposizione al pensiero moderno, ma anzi come la vera modernità da seguire e da diffondere nel mondo.  

Ockham è stato un sensista? Certamente, ma ha messo in luce il valore dell’individuo concreto. Lutero fu un eretico? Certamente, ma ci ha richiamati al valore della coscienza religiosa. Cartesio è stato un idealista? Certamente, ma ci ha messo in luce il valore dell’autocoscienza. Rousseau è stato un utopista? Certamente, ma ha messo in luce il diritto del popolo all’autogoverno. Kant ha aggravato l’idealismo? Certamente, ma ha fissato i caratteri della scienza sperimentale. Hegel è stato un panteista? Certamente, ma ha messo in luce il fatto che la storia è la manifestazione della volontà divina. Marx è stato un ateo? Certamente, ma ha messo in luce l’importanza della giustizia sociale. Freud è stato un sessuomane? Certamente, ma ha messo in luce l’influsso della sessualità sullo spirito? E così via.

Papa Giovanni tuttavia commise una grande ingenuità, che tutta la Chiesa in seguito avrebbe dovuto pagar cara. I Gesuiti lo convinsero di nominare perito del Concilio Karl Rahner, teologo non privo di qualità, ma astuto pseudo-tomista gesuita, che copriva con parole di San Tommaso la sua sostanziale adesione al panteismo hegeliano.

Pio XII se ne era accorto e lo aveva censurato. Senonchè successe che nell’imminenza dell’inizio dei lavori conciliari, lo stesso Konrad Adenauer in persona, capo del governo della Germania Occidentale, chiese al Papa di togliere la censura e di consentire a Rahner di partecipare al Concilio. In tal modo i modernisti, capeggiati da Rahner, i quali erano rimasti come fuoco sotto la cenere, ebbero modo di infiltrarsi nei lavori del Concilio. Essi, per la verità, seppero dare contributi positivi, che furono ufficializzati negli atti. E tuttavia si acquistarono un enorme prestigio facendo la figura di interpreti delle dottrine del Concilio.

È così che nacque quel «magistero parallelo», che lamentò S.Paolo VI e che formò la croce della sua esistenza, una corrente scismatica non ufficializzata ma reale, che ha continuato e continua ad agire all’interno della Chiesa, tanto che Paolo VI parlò del «fumo di Satana» che era penetrato nella Chiesa e di un’«autodemolizione della Chiesa». Alcuni si domandano come mai Paolo VI non è stato più perspicace ed energico nel fermare l’avanzata del modernismo. È giusto che un Papa si lamenti e si mostri addolorato; ma da un Papa ci si aspetterebbe anche che prendesse provvedimenti disciplinari.

E invece si nota qui l’eccessivo timore di apparire severo e l’illusione di poter risolvere col dialogo problemi che possono essere risolti solo in sede giudiziaria, perché non ci si può attendere da un avversario sleale che ci dia ragione, quand’anche gli sbattessimo sotto il naso le più lampanti delle verità. D’altra parte il pastore ha il dovere di proteggere il gregge dai lupi e di non dare l’impressione di approvarli o tollerali, ma, sull’esempio di Cristo buon pastore, dev’esser pronto a dare la vita per il gregge. Paolo VI si è fatto santo perché crocifisso dai modernisti, ma forse se avesse usata una giusta severità, sarebbe stato ancora più santo.

E così purtroppo i Papi del postconcilio non hanno avuto la forza di purificare la Chiesa da questi falsi cattolici, sicchè ancor oggi occorre sopportarli nella speranza che si convertano al vero significato del Concilio. Appare chiaro che i Papi del postconcilio non hanno preso a modello Cristo giudice ma Cristo crocifisso.

San Giovanni Paolo II, valendosi della collaborazione della CDF capeggiata dal Card. Ratzinger, condusse una lotta vigorosa contro il modernismo. Quanto a Benedetto XVI e all’attuale Papa, essi invece non si sono valsi della CDF se non per problemi secondari. Che cosa dire? La cosa sorprende in Benedetto XVI, dopo un’attività alquanto coraggiosa da Prefetto della CDF.

Si ha l’impressione che Ratzinger da Papa, senza più il sostegno del battagliero Giovanni Paolo II, si sia intimidito. Fatto sta che Benedetto, se non ha ceduto al buonismo, si è comunque limitato a una pastorale indubbiamente sapiente, ma priva di note antimodernistiche, delle quali pure sarebbe stato capace.

Quanto a Papa Francesco, notoriamente inclinato in apparenza verso i modernisti e troppo duro contro i lefevriani, a differenza di Benedetto, non ha mancato, anch’egli coraggiosamente, di condannare personalmente e senza servirsi della CDF, molti errori di oggi come lo gnosticismo, il pelagianesimo, l’idealismo, la negazione dell’esistenza del demonio, il soggettivismo, l’aborto, la sodomia, il divorzio, il clericalismo, il proselitismo, la dissipazione della natura.

Il problema di fondo è oggi in teologia la natura e l’agire di Dio: è sorta l’idea che Dio non è misericordioso e giusto, come era cosa pacifica fino al Concilio, ma è solo e sempre misericordioso e non castiga più. Questa è la tesi del Card. Walter Kasper, il quale in un suo libro[1] sostiene che con l’avvento di Cristo Dio ha cessato di essere severo e adesso esercita per tutti soltanto la misericordia, sicchè tutti in fondo sono buoni e vanno in paradiso.

È la stessa famosa tesi del «cristianesimo anonimo» di Karl Rahner, il quale, come è noto, l’ha fondata su di un’antropologia panteista, per la quale Dio è l’«orizzonte ultimo dell’autotrascendenza dell’uomo», perché l’uomo è essenzialmente in grazia, è tensione verso Dio, senza la quale non sarebbe uomo.

Da qui è nato il buonismo di oggi[2], per il quale, col pretesto della misericordia e del perdono, si promuovono l’abolizione del pentimento, il soffocamento del rimprovero della coscienza, la scomparsa del timor di Dio, la sostituzione della malizia con la fragilità, l’incomprensione dell’utilità della sofferenza, del valore del sacrificio e dell’espiazione, una certezza infondata nella propria salvezza, e si respingono il concetto del peccato come atto cattivo volontario, l’aspetto ascetico della morale, l’oggettività, obbligatorietà ed universalità della legge morale, la percezione e l’imputabilità della colpa, il fondamento giuridico della sanzione penale, il dovere di condannare l’errore e di correggere l’errante, il senso della responsabilità, il castigo del peccato, le pratiche penitenziali, il dovere della conversione.

La parola-chiave, che è diventata una specie di mantra o portafortuna, e che potrebbe essere portata a simbolo della svolta buonista della Chiesa dopo il rigorismo postridentino, è la parola «dialogo». Sembra essere diventata una specie di scongiuro o formula magica che risolve tutti problemi.

Non passa giorno che essa non venga pronunciata dai media fino alla nausea. E se c’è oggi un valore che manca, è proprio il dialogo. In sé è una parola bellissima, che dice scambio fruttuoso, verità, carità, comunicazione serena, arricchimento ed integrazione reciproci, unità nella diversità.  E di fatti non c’è dubbio che esso in questi sessant’anni ha prodotto molti frutti.

Ma nasconde, di fatto, anche molti equivoci. Da esso è spesso assente la correzione, la confutazione, la persuasione. È un dialogo solo entro i limiti del proprio partito. Se si viene colti in castagna, si chiude il dialogo con chi ha scoperto i nostri altarini. Ciò fa sì che i problemi non si risolvono, le divisioni restano, i costumi non migliorano, la Chiesa non si arricchisce di nuovi figli. In realtà c’è oggi una grande assenza di vero dialogo. Si ripetono frasi fatte, ma non si affronta la questione della verità. Tutto si risolve nelle lodi della diversità.

Il buonista, sotto un fare mite, mellifluo e dialogante nasconde un animo infido, partigiano e crudele, che si manifesta contro coloro che denunciano la ipocrisia e la faziosità del buonismo e ricordano il valore dell’ascetica, del rinnegamento di sè, della disciplina, del rigore morale, del sacrificio.

Occorre una virata di timone nella guida della nave della Chiesa. Il Concilio Vaticano II ha virato giustamente verso la misericordia dopo secoli di rigorismo e rigidezza. Adesso, dopo sessant’anni di buonismo, occorre una virata che torni verso la severità, la quale però deve mantenere le conquiste del Concilio e non deve essere un semplice ritorno al preconcilio, quello che Papa Francesco chiama «indietrismo», altrimenti non capiremmo le correzioni che il Vaticano II ha dato al clima del preconcilio, né i passi avanti che il Concilio ha fatto fare alla pastorale.

Esiste tuttavia un sano e doveroso recupero del passato ancora attuale e che quindi abbiamo ingiustamente abbandonato, illusi da quella falsa modernità che è il modernismo. Bisogna cioè tornare a considerare tutti gli insegnamenti biblici ed evangelici sul tema della severità e dei castighi.

 Il contrasto fra Scrittura e predicazione corrente sta diventando infatti sempre più evidente e stridente. Qualunque persona onesta se ne accorge e si domanda che senso ha questo empio silenzio. Il paradosso è che i buonisti insistono sulla conoscenza della Scrittura, quando sono loro i primi a censurarne una buona metà creando un cristianesimo voltagabbana, all’acqua di rosa, che crolla al minimo spirare del vento contrario, una canna sbattuta dal vento, al servizio di due padroni.

La questione del rapporto fra misericordia e giustizia si inquadra nel più vasto problema dell’incancrenito conflitto fra lefevriani e rahneriani, che da sessant’anni sta tormentando la Chiesa. Qui è urgente trovare il modo di accordare tradizione e novità, conservazione e progresso, antico e moderno. Spetta in particolar modo al Padre comune, il Papa, adoperarsi con tutte le sue forze per sanare questo doloroso e scandaloso conflitto promovendo nel contempo la vera riforma conciliare, liberata dalle falsificazioni indotte dai rahneriani ed osteggiata dai lefevriani. Non basta raccomandare di seguire il Concilio, ma occorre, come faceva Papa Benedetto, condannare coloro che lo falsificano.

Naturalmente occorre distinguere la severità propria della giustizia divina da quella dei costumi barbarici veterotestamentari. Lo herem[3], la lapidazione delle adultere, l’uccisione immediata di un nemico senza processo, il vendicare sette volte (Gen 4,24) l’offesa subìta, il fuoco dal cielo che distrugge un’intera città, il mare che sommerge fino all’ultimo uomo un esercito nemico, non hanno nulla a che vedere con la giustizia divina, i chicchi di grandine del peso di mezzo quintale (Ap 16,21), che si abbattono sui peccatori sono immaginarie crudeltà barbariche che Israele pensava essere in buona fede volontà divina.

Ma sarebbe perfetta e odiosa ipocrisia, come fanno i buonisti, rifiutare tout court la severità divina così come è rivelata dalla Parola di Dio o di Cristo, col pretesto di superare le severità veterotestamentarie e mostrare il volto misericordioso di Gesù Cristo. Messi da parte invece gli elementi barbarici, se vogliamo essere veramente cristiani, occorre assolutamente recuperare ciò che è effettivamente il dato rivelato, soprattutto quello del Vangelo, di San Paolo e di San Giovanni.

Questo mio articolo ha voluto essere un contributo in tal senso, ma sono molti gli insegnamenti di Cristo di questo tenore, che occorre rivisitare, ben interpretare e rimettere in circolazione, se vogliamo essere suoi veri discepoli, che non lasciano cadere nessuna delle sue parole.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 4 febbraio 2023

 

 

Il problema di fondo è oggi in teologia la natura e l’agire di Dio: è sorta l’idea che Dio non è misericordioso e giusto, come era cosa pacifica fino al Concilio, ma è solo e sempre misericordioso e non castiga più.

Naturalmente occorre distinguere la severità propria della giustizia divina da quella dei costumi barbarici veterotestamentari. Lo herem, la lapidazione delle adultere, l’uccisione immediata di un nemico senza processo, il vendicare sette volte (Gen 4,24) l’offesa subìta, il fuoco dal cielo che distrugge un’intera città, il mare che sommerge fino all’ultimo uomo un esercito nemico, non hanno nulla a che vedere con la giustizia divina, i chicchi di grandine del peso di mezzo quintale (Ap 16,21), che si abbattono sui peccatori sono immaginarie crudeltà barbariche che Israele pensava essere in buona fede volontà divina. 

 

Ma sarebbe perfetta e odiosa ipocrisia, come fanno i buonisti, rifiutare tout court la severità divina così come è rivelata dalla Parola di Dio o di Cristo, col pretesto di superare le severità veterotestamentarie e mostrare il volto misericordioso di Gesù Cristo. 

Messi da parte invece gli elementi barbarici, se vogliamo essere veramente cristiani, occorre assolutamente recuperare ciò che è effettivamente il dato rivelato, soprattutto quello del Vangelo, di San Paolo e di San Giovanni.

Immagini da Internet:
- Luca Giordano, Cristo scaccia i mercanti dal tempio
- Giovanni Serodine, Gesù e il tributo della moneta
- Rubens, Gesù e l'adutera


[1] Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo – Chiave della vita cristiana, Edizioni Queriniana, Brescia 2013.

[2] L‘eresia del buonismo. Il buonismo e i suoi rimedi, Chora Books, Hong Kong 2017.

[3] Era la legge per la quale Israele, nella conquista di una città nemica, doveva uccidere ogni vivente, uomini ed animali.

Nessun commento:

Posta un commento

I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.