La mia storia con Ottone - Aristotele o Cartesio? - Seconda Parte (2/2)

 La mia storia con Ottone

Aristotele o Cartesio?

 
Seconda Parte (2/2) 

Un duello fra giganti

Come confrontare Aristotele con Cartesio? Tanto l’uno che l’altro ha voluto dare un fondamento primo e sicuro al sapere. Aristotele, nel IV libro della Metafisica mette alla prova col dubbio la fermezza del primo principio, il principio d’identità[1] e non-contraddizione[2], lo scuote col dubbio ma constata che esso, lasciato agire da solo, sta fermo e che il tentativo di infirmarlo non è possibile se non facendo uso del medesimo principio, per cui tanto vale non toccarlo e Aristotele lo disse giustamente indubitabile, inconfutabile ed indimostrabile, perché non occorre dimostrarlo, essendo di per sé evidente e principio di ogni altra dimostrazione.  

Cartesio, invece, col suo forzato dubbio universale, ha volontariamente fatto oscillare il primo principio fra il sì e il no, e invece di evitare di scuoterlo, lo mantiene volontariamente oscillante, elevando il dubbio e la doppiezza a principio e metodo del pensare.  Mentre dunque la logica aristotelica si fissa sul sì e si oppone al no, per cui ha una fermezza indistruttibile a causa della fermezza del primo principio, ossia il principio di identità, quella di Cartesio oscilla fra il sì e il no, eleva il dubbio e la doppiezza a sistema e metodo del pensare. Per usare il linguaggio di Cristo, è una logica che serve a due padroni.

In tal modo, dobbiamo essere grati ad Aristotele perché egli, basandosi sui princìpi della metafisica, in base a una vasta, metodica e molteplice esperienza, ha fondato tutte le scienze razionali basandole su di un fondamento comune di inviolabile certezza, contro il quale invano nei secoli e millenni i nemici della verità e i sofisti di ogni tipo e sotto ogni bandiera, religiosa, mistica, filosofica, scientifica, esoterica, occultistica si sono accaniti sempre restando scornati.

Occorre pertanto correggere quello che dice Kant circa la metafisica di Aristotele: non che attorno alla metafisica siano sempre esistiti in passato dibattiti inconcludenti, ma che contro la metafisica di Aristotele gli oppositori non hanno mai concluso nulla.

Infatti Aristotele constata tranquillamente ed inoppugnabilmente che ogni uomo, volgendosi alla conoscenza delle cose e di se stesso, sente il bisogno di conoscere la verità, ossia di scoprire le cause prime ed universali delle cose, oltre a quelle proprie, e questa è la filosofia.

Notando io poi che tutto ciò che esiste ha proprietà comuni, per quanto ogni ente sia diverso dall’altro, e notando inoltre che le cose che mi stanno attorno e io stesso non esistono da sé, in quanto mosse e contingenti, ma richiedono di essere causate da una causa prima, costruisco la metafisica.

Riflettendo sul fatto che questa causa prima o motore immobile dev’essere un ente sommamente buono e perfetto nell’agire e nel pensare, costruisco la teologia. Inoltre, considerando a come avviene in me la conoscenza, scopro che mediante i sensi conosco con l’intelletto le cose fuori di me, e costruisco così la gnoseologia; nel contempo, riflettendo al fatto che se posseggo un intelletto, ciò vuol dire che sono animato da un’anima intellettuale, costruisco la psicologia.

Considerando poi che io sono composto di un’anima intellettuale che anima un corpo animale dotato di sensi, mi accorgo che l’uomo è un animale ragionevole e costruisco l’antropologia.

Mi rendo successivamente conto del mio potere di formare e concatenare nella mia mente idee che sono vere se sono adeguate alle cose e costruisco così la logica.

Considerando poi che cn l’immaginazione io posso pensare le dimensioni e la quantità dei corpi a prescindere dal contatto sensibile con gli stessi corpi, potendoli misurare e considerare nella mia mente le loro dimensioni in modo astratto dal reale, ottengo la matematica.

Facendo uso dell’esperienza ed applicando il metodo matematico indago sulla natura delle cose materiali, le misuro e ne scopro le leggi del loro moto, ne cerco le cause e così costruisco la fisica.  

Mi accorgo di poter operare sulla natura per soddisfare a mie esigenze utilizzando le leggi del suo divenire e dando alla natura in base a queste leggi una forma accidentale da me concepita e così costruisco la tecnica.

Mi accorgo altresì che il mio intelletto e i miei sensi scoprono in base alla conoscenza della natura umana, delle sue leggi e dei suoi fini,  dei beni  appetibili rispettivamente dalla volontà e dall’affettività sensibile, beni di gradi diversi, corrispondenti ai miei bisogni vitali fisici e spirituali e ai miei desideri di benessere e di felicità, nonchè alle mie  inclinazioni spontanee e naturali verso l’attuazione del fini delle mie potenze vitali di progresso, di perfezionamento di intenzioni concepite volontariamente dalla mia mente come progetti da realizzare e fondo così l’etica.

La quale, così ben fondata sulla verità della natura umana e dei suoi fini, risulta essere promotrice delle virtù, della rettitudine, dell’onestà, della lealtà, della sapienza, della sincerità, della prudenza, della giustizia, dell’equità, della temperanza, della magnanimità, della fortezza, della pazienza, dell’umiltà, dell’obbedienza, della fedeltà, della pietà.

La proposta di Cartesio

Invece Cartesio, il fondatore della cosiddetta «filosofia moderna»[3] che cosa ci ha lasciato? Che cosa ha fatto?

Avverto subito che il confronto che farò col pensiero di Cartesio parte dallo sviluppo finale che esso ha avuto nell’idealismo tedesco. In tal modo il lettore si renderà conto di ciò a cui porta logicamente e di fatto ha portato il cogito cartesiano coscientemente assunto come principio del filosofare. Tutto l’idealismo tedesco è costruito coerentemente sul cogito cartesiano, se si prescinde dagli influssi luterani in campo teologico e morale.

Dico dunque che secondo Cartesio l’oggetto immediato ed originario del nostro conoscere non sono le cose, ma le idee delle cose. Di esse siamo assolutamente certi. Secondo lui noi abbiamo l’abitudine di considerare le rappresentazioni di cose al di fuori di noi, ma questa è un’abitudine errata, è un’illusione, è un’ingenuità, che viene sfatata e corretta dalla presa di coscienza che in realtà noi sappiamo che esistono cose fuori di noi perché ce lo assicura l’idea di Dio aprioricamente presente nella nostra mente.

Aristotele ha mostrato che il primo principio della dimostrazione scientifica, di evidenza immediata ed inconfutabile, è il principio di identità e di non-contraddizione, che riguarda la realtà o l’ente come tale, quale che esso sia. Cartesio invece, ha ritenuto che questo principio non fosse abbastanza radicale e abbastanza certo, pertanto volle cercarne uno più originario, quello che secondo lui doveva essere veramente il primo e il più certo.

Che cosa fece, allora, per trovare questo favoloso principio? La vicenda è nota e raccontata da lui stesso. Ebbe la malsana ed assurda idea di dubitare di tutto, anche di ciò che non è assolutamente dubitabile, come le prime certezze del senso e della ragione, compreso lo stesso principio d’identità.

Dopodiché ritenne questo atto del dubitare ciò di cui era più certo, anzi l’unica fondamentale certezza che gli era rimasta, per cui ritenne di aver così trovato il principio che cercava, migliore di quello dubitabile di Aristotele: la coscienza volontaria irragionevole di dubitare di tutto[4], che egli chiamò ingannevolmente come atto del pensare (cogito), quando in realtà il dubitare non è un vero pensare, ma un’ oscillazione del pensiero fra il sì e il no. Ma tant’è. 

A questo punto Cartesio trovò il suo famoso cogito, ergo sum, dove questo sum da una parte, ben lungi dal dare vera certezza, assolutizza il dubbio universale e favorisce la doppiezza e dall’altra è un io sono che si confonde con l’Io Sono di Es 3,14. Da qui il panteismo che nasce dal cogito cartesiano.

Mentre Aristotele diceva che, dato che le cose sono così, noi siamo nel vero quando diciamo che sono così, Cartesio, all’opposto, diceva le cose sono così perché noi pensiamo che siano così. Aristotele regola la verità del pensiero sull’essere; Cartesio vuol far dipendere la verità delle cose dal suo pensiero. Ora, ciò è certamente vero per il pensiero creatore divino, ma non certo per il nostro, che presuppone le cose già esistenti.

Così Aristotele faceva dipendere le nostre idee dalla realtà; Cartesio fa dipendere la realtà dalle nostre idee. Aristotele riconosceva la nostra possibilità di far dipendere in certo modo una cosa dall’idea pratica con la quale le diamo forma, come nell’arte. Ma precisava che anche l’idea pratica la ricaviamo dall’idea speculativa che ci rappresenta la cosa così com’è in sé.

Aristotele ha mostrato che noi arriviamo alla coscienza di noi stessi dopo avere sperimentato e pensato le cose. Cartesio, al contrario, sostiene che l’autocoscienza è la condizione soggettiva di possibilità presupposta per poter sperimentare le cose e sapere che Dio esiste.

Sia per Aristotele che per Cartesio sappiamo che le idee le produciamo noi e sono in noi. Per l’uno e per l’altro io so di pensare le cose, so che esistono. Ma mentre per Aristotele noi ci facciamo le idee delle cose attingendo con i sensi alle cose, per Cartesio, noi, non partendo dai sensi, ma partendo dalle idee delle cose, possiamo da esse ricavare che esistono cose fuori di noi e sapere, sia pur usando i sensi, che le idee sono veraci rappresentazioni delle cose.

Non la certezza della conoscenza sensibile, come in Aristotele, ma la certezza dell’autocoscienza è per Cartesio certezza di base, il punto di partenza dal quale noi, pur sempre esercitando l’esperienza, ricaviamo ogni altra certezza su Dio, su di noi e sul mondo.

Per Cartesio, dei sensi non posso fidarmi perché m’ingannano. Quindi non posso ricavare le idee dai sensi, ma devo ammettere che esse sono innate in me. Esse sono a priori. I sensi, per lui, certamente occorrono, ma solo come accompagnatori del sapere intellettuale.

Per Cartesio la cosa esterna è la mia idea della cosa[5]. Il concetto della cosa è la cosa. L’ideale è identico al reale, Il reale è il razionale. La scienza è l’autocoscienza. L’essere è l’essere al quale penso. L’essere è l’essere da me pensato. Esse est percipi. Il pensare è identico all’essere. Non c’è distinzione fra pensare ed essere: pensare ed essere sono la stessa cosa. Il soggetto è identico all’oggetto. Oggetto del pensiero è il pensiero. Tutto è pensiero: il mio pensiero. Tutto esiste in quanto pensato da me. Non esiste nulla a cui io non pensi.

Non esiste un reale, un essere fuori del mio pensiero, al di fuori del mio pensiero, davanti al mio pensiero, indipendente e prima e dopo il mio pensarlo. Io sono vuol dire che io sono il pensiero e sono l’essere. Io, pensando me stesso, pongo l’essere, pongo la realtà, Io pongo il non-io nel mio io.

Non esiste nulla di fuori del mio io, esisto solo io, per cui tutto, compreso Dio, è nel mio io, immanente al mio io, posto da me. E se il pensiero è identico l’essere ed essere è anche la materia, il pensiero è anche una realtà materiale, mentre la materia in quanto percipi, è essere pensato, è spirito.

Dunque Dio non è un ente primo, sommo e trascendente, al di sopra di me, creatore dal nulla delle cose materiali e spirituali e del mio io psicocorporeo, enti indipendenti da me, ma le cose e il mio io li pongo io. Non c’è alcun bisogno di quel Dio trascendente e creatore, perché basto io a spiegare tutto: Dio sono io, creatore di tutto e di me stesso col mio pensare ed agire.

Il nostro pensiero, appartenente al piano dello spirito, così superiore alla materia, può sentirsi umiliato e coartato nella sua creatività e libertà dalla prospettiva aristotelica di dover raggiungere la verità ricorrendo ai sensi ed assoggettandosi alla regola di cose materiali esterne, da riprodurre imperfettamente e spesso sbagliando.

La teoria di Cartesio, secondo la quale noi partiamo dalla certezza del nostro pensare e delle nostre idee per risolvere la realtà esterna in un dato interiore di coscienza, sembra più adatta e consona alla dignità ed alla potenza del nostro spirito.

La distinzione che fa San Tommaso, fra res in anima e res extra animam sulla scorta della distinzione aristotelica fra il concetto e la cosa, sembra non afferrare la dignità della verità, per trovare la quale, dovrebbe ascoltare Sant’Agostino, quando ci dice: «noli foras ire, in teipsum redi: in interiore homine habitat veritas».

Agostino sembra dire: non cercare la verità nelle cose esterne sensibili; cercala nel tuo intimo, perché essa è cosa spirituale, non materiale. Ora, bisogna vedere che cosa intendiamo per «verità». Se con questo termine intendiamo la proporzione spirituale del pensare con la cosa, allora certamente è chiaro che questa proporzione è un atto interiore dell’intelletto, della coscienza e del giudizio; ma se per verità intendiamo la verità della cosa o della realtà esterna, allora è chiaro che esiste anche una verità esterna, la quale, se accolta, ci conduce addirittura a Dio, somma Verità fatta Persona.

La res in anima di Tommaso non è altro che la realtà in quanto pensata, quella verità interiore, della quale parla Agostino. Dio-Verità è presente nell’anima e la illumina. E d’altra parte, la res extra animam è tutta la realtà esterna delle cose, dell’universo, di Dio, degli angeli, degli uomini, del proprio corpo, della Chiesa terrena e celeste, della storia, del Paradiso e dell’Inferno.

Ma dove Cartesio mostra il meglio della sua raffinata ipocrisia è il campo dell’etica. Consapevole dei risultati dirompenti che poteva avere in campo morale la sua gnoseologia e la sua cosiddetta «metafisica», si guardò bene dall’esporli e per giustificare tale silenzio,  disse che la morale che discendeva dal cogito era ben diversa da quella così malsicura che derivava dai princìpi di Aristotele; occorreva tempo per edificarla, per cui per il momento, in attesa della nuova morale, suggeriva di adottare quella che egli chiamò «morale provvisoria», che dovevano essere i costumi morali del paese nel quale ognuno si trova.

Ma ci avrebbero pensato gli idealisti tedeschi, senza bisogno delle cautele di Cartesio sorvegliato dall’Inquisizione, ad esplicitare le prospettive e la modalità dell’etica cartesiana prima nella dottrina fichtiana dell’Io assoluto, che pone se stesso in se stesso contro il non-io, all’«immane potere del negativo» di Hegel, fino alla volontà di potenza di Nietzsche e all’«essere-per-la-morte» di Heidegger.

Osserviamo che i princìpi filosofici sono proposizioni apparentemente ingenue e, per la loro astrattezza, apparentemente sterili di applicazioni e quasi vuote di significato; e invece, ad uno sguardo attento e penetrante, mostrano di contenere virtualità e applicazioni immense, solo che vengano svolti e sviluppati con rigore e consequenzialità logica, si tratti di princìpi buoni e sani o di princìpi falsi o dannosi. Così, mentre dal realismo aristotelico sorgono tutte le scienze e le virtù, dall’idealismo cartesiano sorgono il panteismo, lo scetticismo e tutti i vizi.

Cartesio ha gettato nella storia della filosofia dei germi patogeni abilmente mascherati sotto un apparente bisogno di certezza prima e di verità fondante, facendo credere a molti che il realismo aristotelico era finito nelle secche del dubbio e dell’incertezza. Invece fu proprio Cartesio, respingendo Aristotele, a condurre la filosofia nell’illusione del panteismo e nella disperazione del nichilismo, con gli orrori morali che sono la conseguenza pratica dell’idealismo, come hanno dimostrato le due guerre mondiali del secolo scorso.

Così l’etica che sarebbe scaturita dal cogito è quella che oggi devasta la civiltà e la Chiesa, l’etica della libertà senza legge, l’etica dell’egocentrismo, dell’autoreferenzialità, della superbia, dell’empietà dell’arroganza, della doppiezza, dell’ipocrisia, della dissolutezza e della crudeltà.

La mia storia con Ottone, vissuta da due ragazzi liceali di tanti anni fa, è la storia simbolica di come nella nostra cultura e nella nostra vita si impone una scelta e un aut-aut.

È chiaro che Aristotele e Cartesio sono a loro volta dei simboli di una scelta che a tutti noi è imposta e alla quale non possiamo sottrarci: o Cristo o Beliar. Ognuno di noi riceve una proposta di vita da due personaggi distinti: Cristo o il demonio[6]. A noi la scelta.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 12 marzo 2023

Dobbiamo essere grati ad Aristotele perché egli, basandosi sui princìpi della metafisica, in base a una vasta, metodica e molteplice esperienza, ha fondato tutte le scienze razionali basandole su di un fondamento comune di inviolabile certezza, contro il quale invano nei secoli e millenni i nemici della verità e i sofisti di ogni tipo e sotto ogni bandiera, religiosa, mistica, filosofica, scientifica, esoterica, occultistica si sono accaniti sempre restando scornati.

Infatti Aristotele constata tranquillamente ed inoppugnabilmente che ogni uomo, volgendosi alla conoscenza delle cose e di se stesso, sente il bisogno di conoscere la verità, ossia di scoprire le cause prime ed universali delle cose, oltre a quelle proprie, e questa è la filosofia.

 

La res in anima di Tommaso non è altro che la realtà in quanto pensata, quella verità interiore, della quale parla Agostino. Dio-Verità è presente nell’anima e la illumina. E d’altra parte, la res extra animam è tutta la realtà esterna delle cose, dell’universo, di Dio, degli angeli, degli uomini, del proprio corpo, della Chiesa terrena e celeste, della storia, del Paradiso e dell’Inferno.

Cartesio ha gettato nella storia della filosofia dei germi patogeni abilmente mascherati sotto un apparente bisogno di certezza prima e di verità fondante, facendo credere a molti che il realismo aristotelico era finito nelle secche del dubbio e dell’incertezza. Invece fu proprio Cartesio, respingendo Aristotele, a condurre la filosofia nell’illusione del panteismo e nella disperazione del nichilismo, con gli orrori morali che sono la conseguenza pratica dell’idealismo, come hanno dimostrato le due guerre mondiali del secolo scorso.

La mia storia con Ottone, vissuta da due ragazzi liceali di tanti anni fa, è la storia simbolica di come nella nostra cultura e nella nostra vita si impone una scelta e un aut-aut.


Immagini da Internet: Picasso


[1] «Non è possibile che un ente sia e non sia simultaneamente sotto il medesimo aspetto».

[2] «Non si può affermare e negare lo stesso della stessa cosa simultaneamente».

[3] È ovvio che esiste e che si deve parlare di filosofia moderna. Ma essa non comprende solo le filosofie che derivano da Cartesio. Queste sono le più scadenti. La vera e migliore filosofia moderna è quella che deriva da Aristotele attraverso San Tommaso e la sua scuola fino a Maritain.

[4] In questo senso il Padre Fabro dice giustamente che in realtà il cogito cartesiano è un volo.

[5] Già San Tommaso, in un momento storico nel quale l’idealismo non era ancora nato, si accorse della possibilità di considerare le idee e non il reale esterno come oggetto della conoscenza, mostrando i gravi inconvenienti ai quali questa falsa concezione del conoscere conduce. Vedi Summa Theologiae, I, q,85, a.2, dove l’Aquinate si chiede «utrum species intelligibiles a phantasmatibus abstractis se habeant ad intellectum nostrum  sicut id quod intelligitur».

[6] Cf il mio opuscolo: Il progetto del demonio. La prospettiva di Satana e quella di Gesù Cristo, Edizioni Chorabooks, Hong Kong 2021.

4 commenti:

  1. Lei sostiene in questa seconda parte dell’articolo, che Aristotele afferma sostanzialmente che “le cose che mi stanno attorno e io stesso non esistono da sé, in quanto mosse e contingenti, ma richiedono di essere causate da una causa prima, costruisco la metafisica”.
    Domando: non si potrebbe quindi concludere che anche Aristotele come Cartesio, applica il principio di causalità per spiegare l’origine dell’io e in ciò, anche se solo in ciò, concorda con Cartesio, in virtù della sua affermazione della propria imperfezione (che mi pare corrisponda alla constatazione di Aristotele che l’io, e per lui anche le cose, non esistono da sé)?
    Domando: casomai Cartesio non si contraddice quando da una parte afferma come un dato evidente che avvertendosi come imperfetto di ricavare la sua origine da qualcun altro altrimenti se fosse stato per lui si sarebbe creato come perfetto e poi dall’altra, come dice lei, “è l’io che con il suo pensare ed agire è creatore di tutto e di se stesso” e quindi si avrebbe nel contempo un io imperfetto creato da qualcuno perfetto e un io creatore di se stesso ma in maniera imperfetta. Quindi Cartesio sosterrebbe nel contempo la necessità di qualcuno esterno che spieghi l’imperfezione dell’io e che basta l’io stesso a crearsi. Non si capirebbe se questo io autocreatosi sia perfetto o imperfetto, considerato appunto che Cartesio sostiene come evidente l’imperfezione dell’io: se è perfetto Cartesio nega l’affermazione della necessità di un qualcosa di esterno e perfetto che crea; se è imperfetto negherebbe l’evidenza dell’affermazione dell’imperfezione dell’io?
    Domando: l’affermazione di Cartesio che avvertendosi imperfetto esige l’esistenza di qualcuno che lo abbia creato equivale all’affermazione di Sofia Vanni Rovighi quando scrive “che il problema dell’assoluto non è quello dell’esistenza dell’assoluto, poiché l’esistenza di un assoluto non è un problema, ma una evidenza immediata. Se c’è il condizionato, c’è l’assoluto; se c’è il contingente, c’è il necessario; se c’è l’ente ab alio, c’è l’ente a se. Queste sono enunciazioni immediatamente evidenti. Il problema è cosa sia l’assoluto, l’ente a se? E’ il mondo dell’esperienza o è trascendente l’esperienza? E’ bruto fatto o valore?”
    Ultima domanda: in base a ciò che sostiene la Vanni Rovighi dimostrare l’esistenza di Dio equivarrebbe a dimostrare non l’esistenza appunto, ma la trascendenza sul mondo e il rapporto di creazione libera del mondo? Grazie Padre della considerazione. Deferenti saluti, Francesco Orsi

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    1. Caro Francesco, il suo intervento molto denso è molto interessante.
      Risponderò a ciascuna delle sue domande.

      La posizione di Cartesio è qui molto diversa da quella di Aristotele. E’ vero che entrambi, considerando l’io ed applicando il principio di causalità, dimostrano l’esistenza di Dio. Tuttavia, mentre il ragionamento di Aristotele è ben fondato, quello di Cartesio è un circolo vizioso.
      Infatti, Aristotele parte dalla considerazione dell’io e delle cose come enti causati e contingenti e quindi ha tutto il diritto di dedurre da essi l’esistenza della causa prima. Cartesio invece parte da una pretesa idea innata di Dio e considera Dio giustamente come ente perfettissimo. Dopodiché egli illegittimamente avanza con il discorso affermando che l’idea di Dio, che egli ha aprioricamente, deve essere stata causata da Dio stesso.
      Perché illegittimamente? Perché qui c’è il circolo, vizioso inquantoché Cartesio suppone di conoscere già quello che deve dimostrare. Infatti, se fosse vero che in noi l’idea di Dio è innata, non avremmo bisogno di dimostrare che Dio esiste, perché, nella vera dimostrazione dell’esistenza di Dio, noi ci formiamo l’idea di Dio, perché abbiamo scoperto che Dio esiste, e non partiamo dall’idea di Dio per affermarne l’esistenza.
      Per quanto riguarda la consapevolezza della propria imperfezione, certamente in ciò Cartesio aveva ragione. Ma Cartesio utilizza questa consapevolezza della propria imperfezione in un modo sbagliato, per il fatto che non è vero che noi non possiamo da soli formare l’idea di Dio, benchè il contenuto di questa idea sia l’essere perfettissimo.
      Quindi, questa idea non ci viene da Dio e non può servire per dimostrare che Dio esiste. D’altra parte noi possiamo formarci l’idea di Dio, benchè imperfetti, soltanto applicando il principio di causalità, come ha fatto Aristotele e come ci è insegnato dalla stessa Sacra Scrittura (Sap 13,5).

      Cartesio sembra barcamenarsi tra l’idealismo e il realismo. Quando si tratta di dare fondamento alla certezza enuncia il suo famoso cogito, che fonda la gnoseologia idealistica, per la quale l’oggetto immediato del sapere è l’idea e da questa si ricava l’esistenza della realtà.
      Ma nell’argomentare l’esistenza di Dio egli cerca di utilizzare il principio di causalità, che è un principio realista, per il quale la nostra mente, partendo dalla considerazione delle cose esterne, si forma le idee delle cose e, dimostrando l’esistenza di Dio, si forma l’idea di Dio.
      Tuttavia, anche nel corso di questo ragionamento, emerge l’errore idealistico, che conduce a quel circolo vizioso del quale ho parlato sopra. Che cosa accade, allora? Esattamente quello che ha denunciato lei, cioè che l’io cartesiano da una parte si presenta come fondamento della realtà, ma dall’altra vorrebbe ancora conservare la concezione realistica dell’io, come creato da Dio.
      D’altra parte in Cartesio non c’è esplicitamente il concetto di un io creatore di se stesso. Questo concetto lo troveremo in Giovanni Gentile, che però, attraverso Fichte, esplicita fino all’estrema conseguenza quanto è implicito nell’io cartesiano.
      Di questa conseguenza estrema possiamo pensare che Cartesio non avesse consapevolezza, anche per il fatto che molti suoi contemporanei cattolici apprezzarono la sua teoria dell’io, come principio di certezza e possibile mezzo per dimostrare l’esistenza di Dio.
      Invece questa cattiva applicazione del principio di causalità resta completamente soggiogata all’impostazione fondamentalmente idealistica dell’autocoscienza cartesiana.

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    2. La posizione di Cartesio assomiglia a quella di Vanni Rovighi, perché l’uno e l’altra ammettono la possibilità che l’assoluto sia immediatamente evidente: Cartesio ammette questo in quanto ammette l’idea innata di Dio; La Vanni Rovighi invece considera l’assoluto in quanto tale, in forma astratta.
      Ora, bisogna dire che in verità in noi non abbiamo questa percezione immediata dell’assoluto, ma per sapere che l’assoluto esiste dobbiamo partire dall’esperienza del relativo e, siccome il relativo è relativo ad un assoluto, ecco che veniamo a concepire l’assoluto.
      La Vanni Rovighi peraltro ha ragione quando dice che la semplice idea dell’assoluto non è ancora l’idea di Dio, perché io posso assolutizzare anche una creatura.
      Tuttavia la Vanni Rovighi difetta nel suo ragionare, perché, quando si parla del primato dell’assoluto sul relativo, bisogna distinguere l’aspetto ontologico dall’aspetto gnoseologico. Dal primo punto di vista è vero che l’assoluto precede il relativo, in quanto Dio precede il creato. Invece, dal punto di vista gnoseologico, io conosco prima il relativo e poi l’assoluto.
      Traducendo in termini teologici, vengo a dire che io comincio il mio sapere dalla conoscenza delle cose e da questa passo all’affermazione dell’esistenza di Dio, come creatore delle cose.
      Occorre inoltre osservare che il ragionamento di Cartesio, che parte dalla mia imperfezione, non corrisponde a quello della Vanni Rovighi, che parte dall’assoluto.
      Cartesio, come ho detto, compie qui un circolo vizioso. Invece la Vanni Rovighi fa una deduzione illegittima, perché noi scopriamo l’assoluto partendo dal relativo e non viceversa.
      Per quanto riguarda il contenuto dell’assoluto, l’oggetto che vi si adatta di più è Dio, perché è Lui il vero assoluto. Infatti l’assoluto in generale, come dice la parola, absolutus, significa libero, sciolto o indipendente.
      Da qui si vede come questo concetto si adatti a rappresentare Dio. Tuttavia noi, col nostro libero arbitrio, possiamo considerare come assoluto una creatura.

      La Vanni Rovighi ragiona bene quando dice che il relativo implica l’assoluto e il contingente implica il necessario. E’ anche vero che la semplice affermazione dell’assoluto o del necessario non è ancora l’affermazione dell’esistenza di Dio. Infatti Dio è bensì assoluto e necessario, ma non tutto ciò che è assoluto e necessario è Dio. Infatti Dio è l’assolutamente necessario e l’assoluto sotto ogni rispetto.
      Assolutamente necessario vuol dire che la cosa chiamata così è priva di qualunque aspetto contingente. Per esempio un processo naturale può essere necessario: l’acqua bolle a 100 gradi. Tuttavia, il fatto che io faccia bollire l’acqua è un fatto contingente. Quindi il fatto che l’acqua bolla a 100 gradi non è una cosa necessaria sotto ogni rispetto.
      La persona umana è un valore assoluto, in quanto è una creatura spirituale, libera da influssi materiali. Tuttavia la sua esistenza è relativa a Dio, perché è creata da Dio. Quindi non è assoluta sotto ogni rispetto.
      Per quanto riguarda le sue ultime domande, la trascendenza sul mondo e il rapporto di creazione libera del mondo sono attributi divini, che presuppongono che si sia già dimostrata l’esistenza di Dio.

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  2. Padre, la ringrazio del suo tempo, e delle sue immediate risposte!! Francesco

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