Trattato sugli Atti umani - P. Tomas Tyn - Lezione 4 (2/2)

  Trattato sugli Atti umani

P. Tomas Tyn

Lezione 4 (Parte 2/2)

P.Tomas Tyn, OP - Corso “Atti Umani” - AA.1986-1987 - Lezione n. 14 (A-B)

Bologna, 17 febbraio 1987

http://www.arpato.org/corso_attiumani.htm

 

… sempre il nostro agire umano oppure se qualcos’altro al di là dell’atto umano potesse essere anche oggetto di una scelta.

Ora, riguardo all’intenzione, lì SanTommaso parte, diciamo così, da una analogia tra l’atto di intenzione e l’atto di scelta. L’atto dell’intenzione è per eccellenza l’atto della volontà riguardante il fine, mentre l’atto di scelta è per eccellenza l’atto della volontà riguardante i mezzi.

Ora, come nell’intenzione il fine inteso o è una cosa realizzata tramite un’azione, oggetto di un’azione o è un’azione addirittura come tale, così anche nell’ordine dei mezzi la scelta non può avere per oggetto se non un’azione umana o una cosa da realizzare tramite un’azione.

Quindi, certo l’oggetto della scelta può anche essere un qualche cosa che non è direttamente l’azione umana, ma dev’essere comunque qualcosa che è oggetto di un’azione umana. Quindi, se l’oggetto della scelta non è l’azione umana in se stessa, esso è tuttavia sempre in qualche modo collegato con l’azione umana, mediato dall’azione umana. Così possiamo dire che ciò che si sceglie è o l’agire stesso o l’oggetto tramite l’agire, cioè l’oggetto da realizzare[1] mediante l’agire.

Quindi, si può dire che appunto tutto l’ambito dello scegliere è l’ambito degli atti umani, di qualche cosa di fattibile o di agibile da noi, dall’uomo. Ovviamente questo ambito dell’agibile dall’uomo, per diventare oggetto di scelta, deve costituirsi, deve presentarsi come un qualche cosa di possibile, deve presentarsi come possibile. Questo risulta, in un primo argomento, ad hoc, risulta abbastanza plausibile, se pensate all’esercizio dell’atto, il quale è sempre nel nostro potere. Cioè possiamo sempre o agire o non agire.

Quindi, siccome, come abbiamo visto, l’oggetto della scelta è sempre l’azione umana o l’oggetto conseguito mediante l’azione, dato che l’azione sempre dipende da noi e che quindi è sempre possibile a noi, possiamo dire che l’oggetto della scelta è in qualche misura sempre possibile a noi. È un argomento un po’ ad hominem, per dire la verità. Però ha una certa sua plausibilità.

Quindi, il primo argomento è questo. Abbiamo visto che nella scelta interviene sempre l’atto umano o direttamente, perchè si sceglie di agire o di non agire, o se si sceglie qualche altra cosa, la si sceglie sempre come oggetto di un atto umano, di un agire umano, per esempio, il treno per arrivare in una città.

Sempre si tratta o dell’atto umano o dell’oggetto dell’atto umano. Ora, l’agire, il nostro agire, dipende sempre da noi; quindi ci è sempre possibile. In tal senso ovviamente, trattandosi nell’ambito della scelta, dell’ambito dell’agibile, possiamo dire che ciò che è oggetto di scelta è sempre possibile all’uomo.

Qui importante è l’argomento del motivo della scelta, del motivo della scelta. Infatti il motivo della scelta sta nel fatto che un mezzo appare come adatto per il conseguimento del fine. Noi scegliamo, fermiamo, se volete, un giudizio pratico-pratico che ci presenta un mezzo per il fine. Noi lo scegliamo, perchè il mezzo che il giudizio ci presenta ci appare come un mezzo adatto al fine, come un mezzo che conduce al fine.

Ora, se così è, cioè se il mezzo conduce al fine, è ovvio che tale mezzo deve essere possibile, perchè se non fosse possibile, se il mezzo non fosse realizzabile, è evidente che non condurrebbe da nessuna parte, tanto meno al fine che ci si propone.

Quindi è ovvio che noi scegliamo solo dei mezzi che almeno ci appaiono come possibili. Talvolta effettivamente poi, nella realtà delle cose, possono risultare impossibili, non praticabili. Però noi gli scegliamo in quanto ci appaiono come possibili.

Un segno psicologico molto evidente di questo stato di cose, è il fatto che, se uno si trova dinnanzi a un mezzo che gli appare impossibile, blocca subito l’atto di consilium, non si consiglia, non si consulta più su quel mezzo, lo scarta subito, come se mi venisse in mente di andare a Mantova in aereo. Mi viene subito in mente che non c’è una linea aerea, che congiunge le due città. Quindi evidentemente è un mezzo impossibile, da scartare. Quando ci si trova davanti a un mezzo impossibile, lo si scarta, non ci si consiglia più su quello e tanto meno lo si può scegliere.

Infine ciò risulta chiaro anche dal processo della ragion pratica, cioè il mezzo sta al fine come la conclusione sta al principio. C’è sempre un’analogia in queste cose. Quello che in speculativis, nell’ambito dell’intelligenza e della conoscenza speculativa, teorica, è il principio, lo è in practicis, cioè nell’ambito pratico dell’agire, il fine. Il fine è il principio degli operabili e viceversa la conclusione del sillogizzare teorico è il mezzo che appare nel sillogismo pratico a livello della conclusione, del giudizio pratico-pratico.

Da premesse possibili non seguono mai conclusioni impossibili. Quindi, data la possibilità di entrambe le premesse, è possibile anche la conclusione. E’ interessante, come qui San Tommaso scomodi un po’ la logica delle proposizioni modali, si potrebbe dire. E’ una modalità, quella della possibilità. E dice che appunto ovviamente si fonda questo sul fatto che la conclusione segue sempre la parte peggiore[2] delle premesse.

Quindi, se una delle due premesse, fosse possibile e l’altra impossibile, ovviamente anche la conclusione sarebbe impossibile Peiorem semper sequitur conclusio partem, mi pare che si dica in logicis. Invece, se entrambe le premesse sono possibili, anche la conclusione risulta possibile. Così similmente, dice S.Tommaso, applicando l’analogia tra l’intelletto speculativo e quello pratico, se il principio nell’ambito dell’agire, cioè il fine è possibile, anche la disposizione dei mezzi al fine tramite la scelta rientra nella possibilità.

Cioè, insomma, la scelta si orienta secondo un fine possibile orientando a esso dei mezzi adatti, non solo al fine come tale, ma anche al fine precisamente in quanto possibile da conseguire. E quindi ovviamente la scelta dispone a un fine possibile e a dei mezzi altrettanto possibili.

Nell’ad primum c’è un accenno interessante sotto un duplice aspetto, perchè San Tommaso fa vedere molto bene la funzione mediatrice della volontà tra l’intelletto e l’agire. Tra l’intelletto ovvero il conoscere, e l’agire media il volere.

Ora, ci può essere, ci può essere una certa velleità, cioè una volontà imperfetta dell’impossibile. È possibile in qualche modo considerare l’impossibile facendo come se fosse possibile.

Per esempio, io vorrei volare, come si racconta nel mito di Icaro. È molto molto tipica nell’uomo la volontà di volare. Notate che il mito non è stato affatto realizzato, Icaro non desiderava delle macchine, tipo aerei, benchè questi non siano da disdegnare. Ma voleva volare lui stesso. Ebbene, il mito di Icaro certamente corrisponde a una velleità dell’uomo; il piacere del volare. L’intelletto concepisce come possibile una cosa, che poi risulta impossibile[3].

Quindi, l’intelletto concepisce come possibile una cosa di per sé impossibile. Sotto aspetto della rappresentazione intellettiva, è possibile avere come una velleità: io vorrei, se fosse possibile, eccetera. Invece, la volontà riguarda sempre dei possibili di fatto, ciò che è realmente possibile. E tale è ovviamente il compito della scelta, perchè la scelta non può mai fondarsi su di una pura velleità. Nella scelta in qualche modo l’atto umano giunge alla sua perfezione intenzionale, la volontà giunge alla sua perfezione, cioè è l’ultima disposizione dei mezzi al fine.

Quindi, nella scelta, si tratta ovviamente di disporre non di mezzi, diciamo così, ipotetici, velleitari, al fine, ma di mezzi ben concreti e perciò ovviamente la scelta dev’essere orientata proprio a determinare giudizi pratico-pratici, che presentano dei mezzi realmente possibili, con i quali il fine può essere conseguito di fatto. Notate come qui San Tommaso sottolinea sempre l’aspetto della concretezza dell’agire. L’agire è concreto, reale, e quindi, per conseguire realmente in concreto un fine, bisogna adoperare dei mezzi che sono altrettanto realisticamente adoperabili.

E’ interessante come in S.Tommaso le due etiche, se volete, che poi non dovrebbero mai essere due, in fondo sono in perfetta armonia. In S.Tommaso avremo molte occasioni di considerare questo duplice aspetto. Si tratta di quella che si potrebbe chiamare l’etica dell’intenzionalità e l’etica dell’agire. Molto spesso si cade in questa tentazione di una etica dell’intenzione puramente velleitaria: io ho fatto questo, ma la mia intenzione era buona. Scommetto. L’intenzione poteva anche essere buona; quello che ne è venuto fuori è un po’ meno edificante.

Quindi, c’è la possibilità di avere un’intenzione anche buona, ma con una realizzazione non altrettanto buona. Da dove esattamente si ricava la qualità morale dell’atto? Da entrambi le parti, come vedremo. Cioè dall’intenzione, che ovviamente è decisiva, e San Tommaso spesso segue la morale evangelica, che evidentemente è tutta interiore; però senza dimenticare quell’altro primato, che è quello dell’atto concreto, in cui si compie l’azione, la quale scaturisce dall’interno dell’uomo, e lì prevale l’intenzione, il nostro aspetto dell’interiorità, che è il principio dell’azione, ma l’azione si compie appunto nella concretezza di ciò che accade realmente.

Ora, dopo aver visto che la scelta riguarda dei possibili, cioè ciò che è possibile realmente adoperare per conseguire il fine, ultima domanda è quella che riguarda appunto la libertà della scelta. La scelta è libera, anzi è il luogo proprio in cui si realizza la libertà della volontà.

Ora, è necessario ciò che non può non essere o anche ciò che non può essere diversamente da come di fatto è. Invece, nel suo agire, è un fatto anche di introspezione, l’uomo si rende conto si rende conto che può agire o sospendere l’azione e quindi c’è una certa contingenza, che S.Tommaso in altri luoghi chiama contingentia ad utrumlibet, una contingenza proprio riguardo a entrambe le parti dell’alternativa.

Per questo c’è la possibilità di agire o di sospendere l’azione, c’è la possibilità di realizzare una cosa o di realizzarne un’altra, o meglio di realizzare lo stesso fine con tali mezzi o con tali altri mezzi. Notate che è molto importante questo duplice aspetto, cioè l’aspetto del fare e non fare, del volere e non volere; e poi l’aspetto del volere o fare questo o quello.

In termini tecnici, il primo si chiama, voi lo sapete già bene, la libertà, libertas quoad exercitium; l’altro aspetto è la libertas quoad specificationem. Ovviamente le è specificante l’oggetto dell’agire; quindi ciò che si fa è appunto la specie dell’atto. Quindi il fare o non fare è l’esercizio; il fare questo o quello è la specificazione.

Ora, tutto ciò che la ragione umana, la ragione pratica, che ci presenta la verità del bene, tutto ciò che la ragione pratica può apprendere sub rationem boni, se si tratta di un bene non infinito, non sommo, non pienamente buono, cioè non solo bene, ma un bene particolare, questo la ragione lo può apprendero anche sub rationem mali. Vedete come di nuovo è importante questo elevarsi all’astratto, al comune, all’universale, al di là del particolare.

Quindi, la ragione umana, al di là del summum bonum, ha la capacità di scorgere ciò che non è solo[4] bene, ossia i singoli beni, che partecipano della ratio boni, ma che non sono solo bene; sono dei beni appunto limitati. Ebbene, la ragione è in grado di considerare in loro appunto la participatio boni, dove la participatio significa partem capere e partem relinquere, ossia impossessarsi di una parte, lasciare, lasciare stare, cioè lasciare appunto in disparte l’altra parte.

Allora, la nostra ragione, rispetto ad ogni bene particolare, è sempre in grado di considerarlo sia sotto l’aspetto del bene, in quanto ha qualcosa della ratio boni, sia  sotto l’aspetto del male, in quanto non ha la pienezza del bene. Importantissimo questo. Notate come è importante la metafisica della partecipazione in questo contesto.

Quindi voi avete il trascendentale del bene, che poi coincide di fatto con la pienezza dell’essere, cioè con quella essenza che è l’actus essendi, in quanto ogni essenza che non è actus purus essendi, è anche un’essenza finita, quindi un bene finito. Perciò solo l‘essenza, che è actus purus essendi, che è il purum esse, solo quell’essenza è anche il summum bonum, è la pienezza del bene. Tutti gli altri beni sono degli enti e dei beni finiti, che non sono nè enti nè beni per essenza, ma solo per partecipazione. Cioè hanno dell’ente, hanno del bene, ma lo hanno solo in parte.

Ora, la nostra ragione, se non fosse in grado di afferrare il bene come tale, l’idea del bene, se volete, per usare i termini platonici, se non fossimo in grado di afferrare l’idea del bene, se l’uomo non avesse questa idea del bene, non potrebbe accorgersi della relatività del bene particolare. Persino Kant, il grande distruttore, adopera ancora diciamo così, il concetto di idea, per lo meno nel senso non costitutivo, come dice lui, e ne fa regola a tutti.

Bisogna avere l’idea del sommo, dell’assoluto bene, per rendersi conto dei beni particolari nella loro limitatezza. Ecco perchè gli animali assolutizzano i beni particolari, o meglio non ha senso parlare né di relativizzazione nè di assolutizzazione, perchè per loro l’unico bene è quel bene che loro concretamente percepiscono immediatamente come tale. Per esempio un cane, che si vede presentare delle cose da mangiare, è evidente che se non ha fame, non mangia; se ha fame mangia. C’è poco da fare. E’ così.

Non c’è nessuna astrazione, nessun paragonare il cibo con la funzione nutritiva in astratto. In questo senso per i cani non c’è una gastronomia, seppure al giorno d‘oggi succede anche che c’è una gastronomia persino per cani. Ad ogni modo, ma queste penso che siano proiezioni psicologiche un po’ morbose piuttosto dalla parte dell’uomo, che dell’animale. Ad ogni modo, l’animale di per sé ha, diciamo così, un’immediata tendenza al bene particolare.

Invece, l’uomo è in grado di paragonare il fine, il bene nella sua ratio boni con il bene particolare. Quindi è in grado di vedere quello che c’è di bene nel bene particolare, ma anche quello che non c’è di bene, ossia il venir meno del bene particolare nella sua particolarità rispetto al summum bonum.

Ora, in questo senso la nostra intelligenza pratica è in grado di considerare come buono non solo l’agire, ma anche il non agire; è in grado di considerare come buono un mezzo particolare per giungere a un fine, ma è in grado di considerarlo anche come mezzo meno adatto, perchè non è il mezzo, ma è uno tra tanti mezzi, o può preferirgli un altro mezzo, quindi è libera.

Quello che è importante è la considerazione del fatto che l’uomo sotto questo aspetto, non è quindi libero rispetto al fine ultimo. Il fine ultimo come tale, d’altra parte non è oggetto di scelta, come abbiamo visto. Il fine ultimo, in quanto fine, non può che essere fine. Non c’è un altro aspetto sotto il quale il fine ultimo potrebbe essere considerato; in quanto è ultimo, è solo fine.

Quindi il fine ultimo, che non può essere considerato sotto alcun aspetto come mezzo, ma solo e sempre come fine, non è oggetto di scelta, ma proprio per questo non è nemmeno oggetto di libertà. Il fine ultimo non è oggetto di libertà, come tale. Però, anche qui c’è una differenza. In qualche modo si potrebbe ancora differenziare il fine oggettivo e il fine soggettivo, cioè quella cosa che è fine e l’atto con cui ci si impossessa del fine. Ovviamente il fine soggettivo è l’esercizio dell’atto. Il fine oggettivo è ciò che specifica l’atto.

Ora, notate bene che non in questa vita, ahimè, come vi ho detto, ma nell’altra vita, avremo l’evidenza anche naturale. L’anima separata dal corpo, non può non avere l’evidenza del fatto che Dio è il fine ultimo, concreto, reale, della vita umana, e di tutte le cose.

Quindi in qualche modo, lì sarà chiaro che Dio è il solo fine ultimo della vita umana. Però, in tal senso quindi Dio come fine ultimo oggettivo della vita umana, non sarà più oggetto di scelta. Però, notate bene, l’atto con cui in qualche modo l’intelletto sul piano naturale pensa a Dio e la volontà ama Dio, potrebbe ancora essere sospeso.

Quindi si sarebbe liberi. Questa è una ipotesi teologica, notate bene, però effettivamente molto attendibile. Dunque, notate la differenza tra la beatitudine naturale e soprannaturale, nella beatitudine naturale, anche post mortem, nello stato di separazione dell’anima dal corpo, voi non avete più la libertà quanto alla specificazione, perchè lì sarà chiaro che Dio è il vero fine ultimo oggettivo della nostra vita, ma ci sarà sempre la possibilità di considerare l’atto di conoscere Dio, il nostro atto, l’atto umano, di conoscere e di amare Dio, questo atto, non il fine, oggetto di quell’atto, ma l’atto stesso esercitato da noi, come un bene finito e perciò come un bene contingente.

Perciò in questo stato di beatitudine naturale non ci sarebbe libertà quanto al fine ultimo oggettivo, ma ci sarebbe tuttavia una libertà quanto al fine ultimo soggettivo, ossia quanto all’esercizio dell’atto, il quale atto è sempre un bene finito, seppure ha per oggetto un bene infinito.

Nella beatitudine soprannaturale ciò non è pensabile. Perché? Proprio per la immediatezza della visione beatifica. Cioè, nella visione beatifica non si conosce tramite un concetto umano, ma Dio diventa immediatamente conoscibile dall’intelletto. Si congiunge con l’intelletto umano come un qualche cosa di quidditativamente conoscibile da esso.

Quindi, lì vedete - è una cosa meravigliosa -, come nella beatitudine soprannaturale avviene una fusione tra il fine ultimo oggettivo e soggettivo. Sono dunque entrambi di uguale evidenza. E’ come se l’oggetto in qualche modo facesse irruzione nel soggetto. Irruzione. E’ una parola un po’ violenta. I mistici mi scomunicherebbero, perché, diciamo così, quel fenomeno è molto più soave.

Però è talmente evidente, che sarebbe un’assurdità che una mente, per quanto creata, considerasse quell’atto della visione beatifica, che, per quanto creato, è pur sempre soprannaturale, come un atto in qualche modo contingente o come un atto che si potrebbe anche sospendere.

Questa è la ragione, fra tante altre, dell’importanza della distinzione tra la libertà quanto alla specificazione e quanto all’esercizio. Però, notate bene, mi raccomando. Riassumiamo ancora un po’ l’essenza di questo articolo, proprio la parte centrale di questo articolo. E’ molto importante notare come la nostra libertà si fonda sulla capacità di conoscere il bene partecipato, sia come bene e sia come partecipato, sotto entrambi gli aspetti, sia sotto l’aspetto della volontà, che di suo è infinito, sia sotto l’aspetto della sua finitezza.  

Afferrando la finitezza del bene, il nostro intelletto è in grado di considerare tale bene particolare sia come bene sia sotto un altro aspetto come male. Non è una contraddizione, appunto perchè si tratta di due aspetti diversi. E’ questo che ci darà la libertà, la libertà sia quanto alla specificazione che quanto all’esercizio.

Sì, lì nell’ad tertium di questo articolo, è curiosissimo, lì San Tommaso fa la famosa ipotesi dell’asino di Buridano. Questo Buridano era un sofista, è il caso di dirlo, un nominalista del tardo Medio Evo, il quale, per mettere in crisi appunto la dottrina della libera volontà, sollevava questo problema: che cosa avrebbe fatto un asino, che si trova dinnanzi a due mucchi di fieno a uguale distanza e di uguale sapore.

Povero animale! Si trova lì in mezzo. Entrambi gli impulsi sono ugualmente, come dire, impellenti, ma poverino, siccome entrambi gli impulsi si neutralizzano, non sceglie nessun mucchietto di fieno e così muore di fame in mezzo a tanto cibo, che gli è presentato. Questo era un po’ il paradosso di Buridano. Ovviamente San Tommaso dice che una simile possibilità non si dà.

Anzitutto direi, scusate se aggiungo qualche cosa io alle sublimi parole dell’Aquinate, penso che una cosa del genere non si dia, per lo stesso principio di individuazione. Questo gedanken experiment, come lo chiamano i tedeschi, ossia la sperimentazione mentale di Buridano non funziona perchè nella realtà delle cose non si danno due entità perfettamente identiche. Insomma, non ci sono due mucchi di fieno perfettamente identici. Uno è sempre un pochino più saporito dell’altro. Quindi l’asino di Buridano, anche oggettivamente, non morirebbe di fame, ma avrebbe sempre un motivo di preferire l’uno all’altro.

Ma comunque, a parte questo fatto che però ha più importanza di quanto non sembrerebbe, effettivamente non è possibile che in rerum natura ci siano due entità fisiche, reali, perfettamente uguali. Non è possibile, in virtù del principio di individuazione. Ma, a parte questo, dice San Tommaso che anche se, in qualche modo, queste due cose, fossero per ipotesi uguali, tuttavia sempre a noi, cioè soggettivamente per noi, una potrebbe apparire preferibile all’altra.

E quindi, almeno psicologicamente, ci sarebbe sempre luogo per la libertà. Notate bene come la libertà è fortemente mediata dall’intenzionalità dell’intelletto, il quale certo ci presenta degli oggetti, delle cose realmente buone, però è l’intelletto che ci presenta gli oggetti. E quindi la volontà segue non immediatamente l’oggetto e la sua bontà reale, ma la bontà così come è presentata dall’intelletto. Quindi potrebbe anche trattarsi anche di una bontà apparente.

Così l’intelletto ovvero noi possiamo caricare, diciamo, un oggetto di proprietà che eventualmente non ha. Quindi la nostra intelligenza è in grado in qualche modo di presentarci un bene, magari uguale ad un altro, come superiore o inferiore a quell’altro, che di fatto però è uguale. Lì San Tommaso scopre già in sostanza quello che gli psicologi moderni chiamano “proiezione psicologica”.

Adesso saltiamo le due questioni riguardanti il consiglio e il consenso, che sempre raccomando ovviamente al vostro studio personale. E arriviamo all’uso. Vi dissi già che mi sta molto a cuore l’uso, perchè costituisce diciamo così il compimento dell’agire umano esterno. Infatti nell’uso, appunto, si compie ciò che è stato predeterminato, sia nell’intenzione che nella scelta. Nell’ordo intentionis et electionis in qualche modo si costituisce ciò che poi sarà messo in atto nell’uso, nella cresis.

Quindi, quando parliamo dell’atto umano, noi generalmente abbiamo in mente appunto l’uso, senza pensare a tutto quello che precede. Noi diciamo: una tale persona ha fatto questo o quello. Quel “ha fatto questo o quello” è l’usus. Naturalmente, prima di aver fatto questo o quello, tale persona ha avuto un’intenzione e fatto una scelta.

Anzitutto, a quale facoltà spetta l’atto dell’usare? Per arrivare a dirimere la questione, bisogna anzitutto spiegare la parola usare. Si dice che si usa una cosa quando la si prende, cioè si prende la cosa usata e la si applica all’azione. E’ una cosa molto facile, in fondo. Quindi, l’uso consiste nell’applicazione, chiamiamola così, in un senso molto vasto, di una realtà all’agire.

Molto banalmente può essere uno strumento. Si dice generalmente che si usano degli strumenti. San Tommaso fa l’esempio del cavallo. L’uso del cavallo è il cavalcare, quindi salire sul cavallo per il movimento. L’uso del martello è il martellare, e via dicendo. Ogni strumento ha un suo uso e sempre questo uso consiste nell’applicare la cosa all’azione.

Ora, non si applicano all’azione solo delle cose esterne, degli strumenti esterni, ma anche l’uomo tutto intero si applica all’azione. Si applicano all’azione anzitutto le facoltà dell’anima umana. Gli strumenti sono mossi dalle membra del corpo, potremmo dire, come da strumenti congiunti, no? E questi strumenti congiunti, le membra del nostro corpo, sono a loro volta mossi da delle facoltà dell’anima. Quindi propriamente potremmo dire che prima che vengano usati degli strumenti, sono applicate all’azione le facoltà dell’anima.

Quindi l’uso nel senso morale della parola, l’uso riguarda anzitutto l’applicazione delle facoltà dell’anima all’agire. Ora, qual è la facoltà applicante? E qui la questione è facilmente solubile. Voi lo intuite già. Il fatto è che, dice giustamente San Tommaso, questa applicazione all’agire non avviene in maniera indiscriminata, ma avviene ordinatamente. Per esempio la mano usa uno strumento, un martello o qualche altra cosa.

Lo strumento è usato dalla mano, ma la mano è mossa da che cosa? Ebbene, è mossa dai muscoli, ma a sua volta i muscoli da che cosa sono mossi? In ultima analisi bisogna risalire all’anima, alle facoltà dell’anima. Le facoltà dell’anima poi ovviamente saranno sensitive, perchè tutto questo apparato dei muscoli eccetera dipende dai centri cerebrali. Quindi saranno fortemente rappresentati la fantasia, la memoria sensitiva, il senso comune, insomma i sensi esterni ed interni, no? E questi a loro volta sono ovviamente, diciamo così, applicati dall’intelletto e dalla volontà.

Ora, tra le diverse facoltà dell’anima, la facoltà motrice di tutte le altre è l’appetito per eccellenza, l’appetito universale, se volete. Questo appetito universale, la facoltà motrice di tutte le altre facoltà, è appunto la volontà. Potremmo dire che un po’ quello che è l’intelletto riguardo a ogni possibile oggetto di conoscenza, quello che è la mano rispetto a ogni possibile strumento, la volontà lo è riguardo a ogni possibile appetibile. Quindi la volontà è in qualche modo non solo una facoltà particolare, ma essendo la facoltà del bene, è la facoltà di tutte le altre facoltà, che hanno per oggetto dei beni particolari.

Pensateci bene a questo fatto. Ogni facoltà dell’anima umana ha per oggetto sempre un bene, ma un bene particolare. La vista, per esempio, ha per oggetto il vedere, è finalizzata al vedere. Quindi ha per oggetto non il bene, la ratio boni, ovviamente. La vista non ha per oggetto la ratio boni, ma ha per oggetto quel bene particolare, che è il vedere. L’udito, l’udire. E via dicendo.

Insomma, ogni facoltà dell’anima è finalizzata a un bene particolare. Tra tante facoltà dell’anima ce n’è una che è finalizzata, un bene singolare, ma ad un bene universale. Sì, anch’essa a un bene, ma a un bene del tutto particolare, la cui particolarità sta proprio nel fatto, appunto particolare, di essere una facoltà determinata dal bene, che racchiude in sè ogni altro bene, finalizzata alla ratio, alla ipsa ratio boni. E questa è la volontà ovviamente, l’appetitus intellectivus, no? La volontà è quindi una facoltà finalizzata al bene in genere, il bene in communi, il bonum in communi.

Perciò, come i singoli beni, oggetti delle singole facoltà, sono solo partecipazioni del bonum in communi, così anche le singole facoltà saranno come strumenti di quella facoltà superiore a tutte, che è finalizzata al bonum in communi. E quindi tutte le altre facoltà saranno come strumenti della volontà.

Vedete come S.Tommaso conclude, proprio apoditticamente, dall’oggetto al soggetto. C’è un’analogia tra l’ordine degli oggetti e dei soggetti. Come l’oggetto della facoltà particolare sta all’oggetto della facoltà universale, così la facoltà particolare sta alla facoltà universale.

Quindi, come i beni particolari dipendono in qualche modo interamente dal sommo bene, dal bene universale da cui ricevono la caratteristica del bene, così le singole facoltà finalizzate a dei beni particolari sottostanno alla forza motrice di quella appetitività universale, che spetta alla volontà.

Vedete come c’è un parallelo tra l’intelletto e la volontà. Come l’intelletto in qualche modo è tutte le cose, anima est quodammodo omnia, così si potrebbe dire che voluntas est quodammodo omnia bona, la volontà è sotto un certo aspetto tutti i beni. Perciò la volontà è l’appetito, che muove tutte le altre facoltà. Quindi spetterà all’intelligenza, dirà San Tommaso, come dirigente, alla volontà come imperante e alle altre facoltà come eseguenti, usare. Quindi l’uso è propriamente dominato dalla volontà. L’uso è propriamente l’atto della volontà. La volontà è il primo movente dell’uso.  

E ovviamente, siccome l’azione non si attribuisce allo strumento, ma propriamente al primo agente, alla prima causa e non allo strumento, perciò, dato che la volontà è il primo motore di tutte le altre facoltà, l’azione non sarà attribuita alla facoltà eseguente, ma appunto alla volontà. Quindi l’usare, l’uso, si può dire in genere che spetti alla volontà.

Ovviamente, trattandosi di una facoltà intellettiva, perché notate bene che la volontà è l’appetitus intellectivus, essa è una facoltà razionale, è un appetito fondato sulla ragione. Evidentemente gli animali privi di razionalità, e quindi privi di volontà, non sono in grado di usare. Perché, notate, nell’uso c’è un ordinare, che deriva all’uso dall’imperium, dall’ordine che vedremo poi in seguito. Nell’uso c’è un ordinare ciò che si applica a ciò a cui si applica.

Per esempio, io ordino, il martello alla costruzione di una macchina; quindi ordino lo strumento all’azione dell’artefice. Ordino una cosa a un’altra. Questo ordinare è un tipico procedimento illativo, quindi del conferre, del confrontare due realtà nell’ambito di un’astrazione. Quindi è proprio di un essere razionale. Solo un essere razionale è in grado di ordinare, solo un essere razionale è perciò in grado di usare, nel senso stretto della parola.

Quindi solo gli uomini, ossia le creature razionali, hanno appunto la possibilità di usare, cioè di applicare una cosa ad un’altra. Certo si potrebbe dire che gli animali irrazionali praticano un uso nel senso molto vasto della parola. Ma non nel senso proprio della applicazione di una cosa ad un’altra, di una facoltà ad un’altra.

Interessante è il confronto nell’ad primum tra il gaudium e l’usus, il godere e l’usare. Infatti, negli animali irrazionali, come abbiamo visto, non c’è l’uso, perchè non c’è questo ordine e questa applicazione di una cosa all’altra. Però, negli animali irrazionali c’è la delectatio, c’è il diletto. E allora, si potrebbe dire che il diletto, il gaudium, è più vasto, più esteso, dell’uso, perchè si riferisce anche, cioè si applica, insomma trova una verifica anche nel mondo degli animali irrazionali.

Ora, la risposta è questa. Effettivamente il gaudium ha una certa priorità, un certo primato rispetto all’uso. Perché? Perchè nel gaudium l’oggetto non è il mezzo da ordinare al fine, ma l’oggetto è il fine stesso. Infatti, si gioisce quando si consegue il fine. D’altra parte, un soggetto, un agente finalizzato non sarebbe agente, se non fosse finalizzato. Quindi un soggetto finalizzato gioisce quando consegue il suo fine, alla presenza del suo fine, alla realizzazione del suo fine.

Quindi gioiscono anche gli animali, che realizzano il fine con l’immediatezza dell’istinto, senza ordinare, senza ragionare, senza conferre, senza nessuna illazione, la famosa illatio del sillogismo. Gli animali, senza alcuna riflessione, conseguono tuttavia dei fini. Una volta conseguito il fine, godono del fine. Invece, la prevalenza, il primato assiologico dell’uso non sta nel fine, che non è il suo oggetto, perchè l’uso riguarda non tanto il fine quanto la disposizione dei mezzi nell’ordine esecutivo. Si usa dei mezzi per arrivare al fine.

Pensate sempre al solito esempio dell’artefice di una casa, il costruttore di una casa. Il costruttore usa delle pietre, mattoni e via dicendo, per costruire l’edificio. Ma l’uso non ha per oggetto immediatamente la casa. Ha per oggetto la casa da costruire tramite quella determinata disposizione delle travi, mattoni, e via dicendo      .

Quindi l’uso è inferiore al gaudium rispetto all’oggetto, perchè il gaudium ha per oggetto il fine e l’uso i mezzi. Però, nel modo in cui l’utente si rapporta all’uso, c’è una prevalenza dell’uso rispetto a quel modo molto inferiore, molto più primitivo, poco differenziato, cioè meno differenziato, in cui si rapporta il gaudente al fine del suo gaudium, della sua gioia.

Quindi il gaudium è superiore dalla parte dell’oggetto, perché riguarda il fine. E proprio per questo è realizzabile anche negli animali inferiori, che per quanto non siano in grado di disporre dei mezzi al fine, però sono in grado di avere presente immediatamente il fine, mentre il modo di rapportarsi all’uso dalla parte dell’utente è molto più raffinato di quello in cui il gaudente si rapporta al gaudium, all’oggetto del suo gaudium.

Miei cari, meditate spesso su queste cose, perché riguardano effettivamente, diciamo così, la fondazione antropologica dell’etica, la fondazione antropologica della morale. La prossima volta finiremo o, cercheremo almeno di finire l’uso; poi passeremo all’imperium. Queste due questioni le tratteremo qui a scuola.

Poi, invece inizieremo la questione 18, che tratta della costituzione metafisica, potremmo dire, dell’etica stessa, cioè del bonum et malum in actibus humanis, cioè proprio della qualifica morale del bene e del male negli atti umani.

Nel nome del Padre – In nomine Patris … Amen.

Agimus Tibi … Amen.

In nomine Patris … Amen.

Buon lavoro. Arrivederci.

 

Abbiamo visto che nella scelta interviene sempre l’atto umano o direttamente, perchè si sceglie di agire o di non agire, o se si sceglie qualche altra cosa, la si sceglie sempre come oggetto di un atto umano, di un agire umano, per esempio, il treno per arrivare in una città.

Sempre si tratta o dell’atto umano o dell’oggetto dell’atto umano. Ora, l’agire, il nostro agire, dipende sempre da noi; quindi ci è sempre possibile. In tal senso ovviamente, trattandosi nell’ambito della scelta, dell’ambito dell’agibile, possiamo dire che ciò che è oggetto di scelta è sempre possibile all’uomo.

Qui importante è l’argomento del motivo della scelta. Infatti il motivo della scelta sta nel fatto che un mezzo appare come adatto per il conseguimento del fine. Noi scegliamo, fermiamo, se volete, un giudizio pratico-pratico che ci presenta un mezzo per il fine. Noi lo scegliamo, perchè il mezzo che il giudizio ci presenta ci appare come un mezzo adatto al fine, come un mezzo che conduce al fine. 


 

 

La scelta si orienta secondo un fine possibile orientando a esso dei mezzi adatti, non solo al fine come tale, ma anche al fine precisamente in quanto possibile da conseguire. 

E quindi ovviamente la scelta dispone a un fine possibile e a dei mezzi altrettanto possibili. 

 

Immagini da Internet

[1] O il bene da conseguire o da raggiungere o da possedere o di cui fruire o a cui unirsi.

[2] Meno favorevole.

[3] Il mito di Icaro corrisponde a un qualcosa di più profondo e di tragico, come ebbe a ricordare Papa Benedetto XVI: l’aspirazione presuntuosa dell’uomo a voler fare cose al di sopra delle sue forze. Per questo Icaro viene punito. Comunque, ai fini dell’argomento, è sufficiente quanto dice Padre Tomas.

[4] Puro bene.

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