Da che cosa scaturisce la verità cristiana? Commento a una dichiarazione del Cardinale Giuseppe Betori

 

Da che cosa scaturisce la verità cristiana?

Commento a una dichiarazione del Cardinale Giuseppe Betori

La verità in sé e la verità per noi

Il quotidiano Avvenire del 14 u.s. pubblica un articolo* del Card. Giuseppe Betori, Arcivescovo di Firenze, dal titolo «L’amore di Dio è un’esperienza per tutti», nel quale articolo il Cardinale afferma che «la dimensione pastorale è fattore costitutivo della verità cristiana, che scaturisce non da un disvelamento della verità in sé ma dalla volontà divina di comunicare il mistero propter nostram salutem».

Ora, che la verità cristiana abbia una dimensione pastorale legata alla volontà di Dio di operare per la nostra salvezza non c’è alcun dubbio. Ma  quello che lascia stupiti e – diciamolo con franchezza portandone le ragioni – contrariati, è l’affermazione che la verità cristiana non sarebbe lo svelamento della verità in se stessa, quando in realtà il bisogno di vedere la verità in se stessa, soprattutto quella divina, è il bisogno più radicale dell’uomo, quello che fa la sua dignità altissima di creatura pensante ed amante fatta ad immagine di Dio, un’aspirazione presente nelle più elevate culture e religioni dell’umanità, dall’antica Grecia e Roma, all’India ed alla Cina, soprattutto la sapienza ebraica, così potentemente testimoniata dalla Bibbia, che sta alle origini della verità cristiana.

Che cosa è la Bibbia se non la storia dell’uomo che desidera vedere il volto di Dio, la verità infinita, assoluta ed eterna in se stessa così com’è, senza tagli o aggiunte, senza ritocchi, ma nella sua incontaminata integrità e purezza originarie e verginali, non strumentalizzabile, non contaminata dalle nostre mani sporche e dai nostri sordidi interessi, quella verità che ci ha pensati, progettati, amati e creati e per la quale siamo fatti?

Ciò che immediatamente stupisce alla lettura di queste parole è il definire la verità cristiana secondo la contrapposizione tra un «disvelamento della verità in sé ed una volontà divina di comunicare il mistero propter nostram salutem».

Ora, che la verità cristiana abbia una finalità pastorale non c’è alcun dubbio. Ma ha solo una finalità pastorale o qualcosa di più? Il Verbo si è incarnato solo per salvarci dal peccato o per qualcosa di più? In realtà Gesù si presenta sì come il buon pastore che guida e mantiene in vita le pecore e le protegge dai lupi, ma al fine di guidarle a pascoli ubertosi della vita eterna; fuori di metafora: Cristo ci libera dal peccato al fine di renderci figli di Dio Padre che trovano la loro beatitudine nel vedere il Padre. Quindi la verità cristiana ha una dimensione pastorale non fine a se stessa ma ordinata alla contemplazione della verità in se stessa.

Come fa il Cardinale a negare in nome di un pastoralismo utilitaristico che la verità cristiana sia un disvelamento della verità in sé? Che cosa è la divina Rivelazione, se non uno svelamento della verità in sé così com’è? Come impariamo la verità che ci redime e ci salva, la verità morale e pastorale, se non perché abbiamo compreso che ci è stata rivelata la verità?

E a quale scopo essere salvati se non per salire in cielo a vedere la verità in sé completamente svelata? Dunque qui il Cardinale ha fatto un grosso ruzzolone, del quale facciamo molta fatica a comprendere le ragioni. Forse è vittima dell’insistenza esagerata con la quale oggi si è infastiditi dalle verità «astratte», ci si aggrappa al concreto e non ci si accorge di quanto materialismo si nasconde in questo bisogno di concretezza.

Con tutto ciò l’espressione «la verità per noi» resta di somma importanza. Essa può significare tre cose: uno, la verità secondo noi, l’opinione, ciò che ci appare, l’apparenza, ma di cui non siamo certi che sia verità in sé oggettiva: possiamo sbagliarci. Non sappiamo quale sia la verità in sé. Non è ancora scienza, non è certezza. Esistono varie ipotesi, ma non sappiamo quale sia quella giusta. La verità infatti è una sola: quando essa apparirà, cadranno le altre ipotesi. È quella che Platone chiamava doxa. Occorrono ulteriori verifiche.

Due: la verità per noi corrispondente alla verità in sé. È la verità per noi così come è in sé. È l’apparire o fenomeno della cosa in sé. Non conosciamo la cosa in se stessa, ma la conosciamo così come appare a noi, secondo il nostro modo di conoscere la cosa. È la verità nel senso kantiano. È la verità delle scienze dei fenomeni. Questo «per noi» non è soggettivo, come nel punto uno, ma è oggettivo.  Non si tratta di opinione, ma di scienza.  Non è un «ci sembra» (videtur), ma un «è così» che non può essere smentito, al contrario dell’apparenza nel primo punto, la quale può essere falsa.

Terzo, la verità per noi può significare «a nostro vantaggio, a nostro favore». È la verità della quale parla il Cardinale. È verità oggettiva e certa, ma non da contemplare in sé, bensì ordinata al nostro bene, propter nostram salutem, la verità morale o pastorale. Essa va quindi ben distinta dalla verità secondo noi, che è l’opinione. Al contrario, abbiamo qui la verità scientifica o anche la verità di fede.

Osserviamo che la gioia del Vescovo non è tanto quella di governare i fedeli, quanto piuttosto di guidarli alla conoscenza e al gusto della verità che è Cristo. Il Vescovo deve far conoscere e gustare ai fedeli, al di là di ciò che Dio vuole che facciano per salvarsi, la bellezza della meta ultima del cammino di fede, deve far loro pregustare già da adesso la dolcezza della visione della verità in se stessa, ossia della visione beatifica. Presso i nostri fratelli orientali, l’ideale del monaco è lo stesso ideale del cristiano[1].

Una folla di domande

Davanti a queste parole del Cardinale sorgono invece molte domande: esiste il disvelamento della verità in sé? Dio ci rivela la verità in sé? È conoscibile la verità in sé? Esiste una verità in sé o c’è solo una verità per me? La verità esiste in se stessa indipendentemente da me o dipende da me? Sono io che dipendo dalla verità o è la verità che dipende da me? Come si configurano in questa coppia di termini io e la verità, il rapporto fra il relativo e l’assoluto? È la verità ad essere l’assoluto e io sono relativo ad essa o sono io l’assoluto e la verità è relativa a me?

Infatti possiamo  domandarci per quale motivo il Padre ha mandato il Figlio nel mondo,  qual è lo scopo ultimo dell’opera della redenzione, che cosa sono le verità di fede, che cosa sono le parole di Cristo, che cosa sono i dogmi cattolici, gli insegnamenti del Magistero della Chiesa e dei Papi, che cosa sono gli articoli del Credo, qual è lo scopo della contemplazione mistica, che cosa ci sta a fare  lo Spirito Santo, chi è Cristo stesso come Verbo del Padre Verità fatta persona, che cosa è tutta questa serie di valori divini se non un divino disvelamento della verità in sé del mistero di Dio e della Santissima Trinità?

Se la verità cristiana non scaturisce da un disvelamento della verità in sé, allora che senso ha la promessa fatta da San Giovanni al cristiano di vedere un giorno Dio così com’è? Che senso hanno tutte le parole di Cristo quando dice che la vita eterna consiste nel conoscere il Padre, quando proclama di essere la Verità, quando dice che è la verità che ci rende liberi? Dove va a finire tutta l’opera divina della rivelazione dei misteri della salvezza? Quale verità essi ci fanno conoscere, a quale verità ci guidano come alla meta del cammino, se non alla verità in sé del Mistero trinitario?

Se la verità cristiana non scaturisse da un disvelamento della verità in sé, come potrebbe esistere la verità pastorale, che ci guida appunto mediante le buone opere alla contemplazione di quella verità divina che è oggetto presupposto del divino disvelamento?

La questione della verità in sé

Il Cardinale suppone la distinzione fra l’in sé che rappresenta l’assoluto e il per me, che rappresenta il relativo. Ci sono due possibilità: o ammettere che esiste una verità in sé, fuori di me, ma che io la ignoro; e questa è la posizione di Kant; oppure posso negare che esista una verità in sé. Ma la verità è solo per me, posta da me in me. E questa è la posizione di Fichte. Se nego l’esistenza di una verità in sé vengo ad affermare che la verità è solo per me, da me e in me. Io sono il creatore, il padrone e il dispensatore della verità. Non credo sia esattamente questa la verità cristiana.

Chiediamoci poi che cosa significa «in sé»? Noi usiamo questa espressione per indicare qualcosa di oggettivo e di dato, che prendiamo in considerazione per se stesso, senza badare ad altro, qualcosa che ne sta da sé assolutamente così com’è, qualcosa su cui concentriamo l’attenzione in modo assoluto ed esclusivo, senza riferimento ad altro e che consiste nella sua propria essenza e nel suo essere, raggiunto dall’intuito del nostro intelletto e dall’atto della nostra attenzione, senza che ci possa sfuggire, in piena luce. La verità in sé corrisponde alla cosa in sé così come la verità può essere sinonimo di realtà.

Conoscere la cosa in sé o la realtà in sé è un bisogno essenziale dell’intelletto e la convinzione di poter conoscere la cosa o verità in sé è una convinzione insopprimibile, che nessun scetticismo riesce a demolire, perché questa convinzione continua a sussistere anche in chi vorrebbe metterla in dubbio. Non conoscere la cosa in sé vuol dire o ignorarla o sbagliarsi sul suo conto. Anche quando sostengo che non posso conoscere la verità in sé o che essa non esiste o che non m’interessa, pretendo di dire la verità così come essa è in sé, quindi mi confuto da solo.

Per sapere che io ignoro la verità in sé ed affermare che posso conoscerla solo così come appare a me, dovrei conoscere la verità in sé; altrimenti come posso fare il confronto tra ciò che è in sé e ciò che è per me? Devo conoscere ciò che è in sé e ciò che è per me. Quindi la tesi che io ignoro la verità in sé è assurda. La conoscenza della verità in sé è il criterio per distinguere quando conosco la verità in sé e quando conosco solo ciò che appare a me o sembra a me, cioè per distinguere il vero dal falso.

La verità in sé è la verità oggettiva, indipendente da me. La verità per me è la verità soggettiva. La prima appare come un assoluto. La seconda, un relativo alla prima.  Ammettendo che questa verità assoluta sia Dio e che il relativo dipende da Dio, ne viene che se la verità è l’assoluto e io sono relativo alla verità, dunque io sono relativo a Dio e i conti tornano dal punto di vista cristiano, perché risulto essere creato da Dio.

L’apparire della verità è il rivelarsi o il manifestarsi della verità in sé così come essa è.  Un conto è quindi la verità come sembra a me e un conto è la verità in quanto mi appare. Se io dico che non conosco la verità in sé, ma solo come appare a me, sono uno scettico, non credo nella verità o rifiuto la verità, e questo non è certamente cristianesimo. Se invece dico che posso conoscere la verità in sé così com’è e come Dio l’ha voluta, allora posseggo un concetto cristiano della verità e della conoscenza, perché è un concetto giusto e razionale.

Come facciamo a sapere che Dio vuole la nostra salvezza se non perché ce lo ha rivelato, ossia perché questa verità è stata data dal disvelamento della verità in se stessa? E qual è il contenuto del mistero che Dio vuol comunicarci, se non un disvelamento della verità in se stessa? E per quale motivo Dio vuole la nostra salvezza se non perché vede la verità in se stessa della nostra condizione umana miserevole e bisognosa di salvezza?

La verità cristiana in quanto piano di salvezza scaturisce certamente da una volontà divina di amore e misericordia nei nostri confronti. Ma se essa può trarre origine dalla volontà divina come effetto di questa volontà, questa verità, in quanto atto della mente divina, non può non essere nel contempo disvelamento della verità del piano divino alla stessa mente divina così come esso è in se stesso.

Se la verità cristiana non è disvelamento della verità o della realtà divina in sé così com’è, allora che cos’è? La realtà divina come appare a me o a noi? Dunque la verità in sé è irraggiungibile? È inconoscibile? Oppure conosciamo il fenomeno della realtà o della cosa in sé, ma non l’essenza della realtà?

Questo è il ben noto errore di Kant, che nulla ha a che vedere col realismo biblico che appare nettissimo nella possibilità che ci è garantita da San Giovanni nella sua Prima Lettera, come a figli di Dio, di vedere un giorno in cielo Dio così com’è. E che cosa è questo, se non un disvelamento della verità in sé?

Una volontà divina di salvarci non illuminata e motivata dalla visione della verità in se stessa, che cosa diventa, da quale sapienza e intelligenza potrà essere informata? Forse che a Dio la realtà di se stesso non gli appare come realtà in sé ma come fenomeno? E similmente anche noi non possiamo conoscere il mistero della redenzione come è in se stesso, ma come ci appare? Come appare ad ognuno di noi?

Dunque è impossibile una conoscenza oggettiva, ma, come pensava Kant, io conosco quello che io stesso metto nell’oggetto?  Ora dobbiamo dire con chiarezza che questo modo d’intendere la conoscenza nulla ha a che vedere col giusto concetto cristiano della conoscenza.

Verità, pensiero ed essere

Come fa notare Heidegger[2], il termine verità in greco è alètheia, che significa non latenza, non nascondimento. Abbiamo l’idea di ciò che è svelato, chiaro, manifesto, evidente. Ora è chiaro che il nascosto non è necessariamente un qualcosa di falso. Esiste la verità ignorata o nascosta, il mistero. Tuttavia, come fa notare Heidegger, l’esser nascosto richiama l’idea del falso, in quanto è un vero nascosto all’intelletto.

A chi è nel falso o anche all’ignorante la verità è nascosta, non gli appare. Tuttavia tra l’errante e l’ignorante c’è una differenza.  L’errante s’inganna, ossia prende per vero ciò che è falso, prende una cosa per un’altra o, come si dice popolarmente, prende fischi per fiaschi, mentre chi ignora, semplicemente non sa qualcosa e in tal senso gli è nascosta. L’ignoranza e il nascosto esistono anche nella conoscenza del mistero naturale o soprannaturale. Qui il conoscente conosce la verità della cosa o della dottrina, ma non conosce esaustivamente, sicchè la cosa è conosciuta, ma non gli è completamente comprensibile, ma trova in essa qualcosa di oscuro, che non comprende. E questo è il mistero.

Il concetto di verità mette in campo il pensiero, perché essa è un rapporto tra essere e pensiero. La semplice nozione dell’ente non dice ancora verità. L’ente, certo, è vero, esiste una verità ontologica, ma diciamo che è vero non in quanto ente, ma in quanto rapportato al pensiero.

Dunque la verità risiede ed è prima nel pensiero che nell’essere, anche se l’essere è certamente il fondamento oggettivo della verità.  Non esiste verità senza essere, che è il presupposto oggettivo del vero, ma la ragione di verità risiede innanzitutto nel pensiero, è determinata, giudicata e decisa dal pensiero, dal soggetto senza del quale la verità non esisterebbe. L’oggettività della verità riguarda l’oggetto del pensiero, l’ente. Ma il soggetto conoscente decide dell’essenza e dell’esistenza della verità.

In tal senso si può parlare di una soggettività della verità, che è però da distinguersi bene dal soggettivismo, che consiste invece nel porre il soggetto non come relativo all’oggetto, ma come produttore dell’oggetto, vale a dire che nel soggettivismo, come accade in Hegel, l’oggetto interiore mentale prodotto dall’intelletto, ossia il concetto, viene confuso con lo stesso ente extramentale oggetto del concetto. Si confonde allora l’essere col pensiero e si cade nel panteismo.

Il pensiero, dal canto suo, può essere vero o falso nel giudizio, in quanto adeguato o non adeguato all’ente.  E un ente può essere vero o falso in quanto regolato o non regolato dal pensiero. Col termine «verità» si può intendere sia uno stato della mente, sia la realtà. Così, conoscere la verità può voler dire conoscere la realtà oppure conoscere l’adeguatezza di un giudizio alla realtà.

Se in generale verità vuol dire rapporto dell’essere col pensiero, vediamo allora come si può parlare di verità del pensiero come verità logico-gnoseologica, e di verità dell’essere od ontologica per indicare l’essere come luce e fondamento del pensiero.

Dire che io conosco la cosa in sé come appare a me è perfettamente legittimo ed è ciò che intendeva dire Kant quando dice che l’apparire, ossia il «fenomeno» è l’apparire di qualcosa, per cui occorre ammettere l’esistenza della cosa in sé per poter parlare di fenomeno. L’errore di Kant è stato quello di pensare che l’essenza della cosa in sé sia ignota.

La verità è oggetto di diversi atti dello spirito. Essi sono l’amare la verità: la sapienza; dire la verità: il parlare sincero; conoscere la verità: la scienza e fare la verità: la virtù. Riguardo al conoscere, verità è sinonimo di realtà. Conoscere la verità equivale a conoscere la realtà. La realtà come verità è la verità ontologica. Invece negli altri casi si tratta della verità gnoseologica o del pensiero.

Un conto è il vero e un conto è la verità. Il verum è l’ente, il concreto, l’individuo, il fatto, l’atto, l’evento. Il vero è un qualcosa di limitato, di finito, di parziale. Esso partecipa della verità, che è quell’esser vero assoluto, infinito e totale, al quale tutti i veri partecipano e sul quale si fondano. Se non ci fosse la verità, non ci sarebbe il vero. E d’altra parte, il vero rimanda alla verità. Il vero è verità relativa; la verità come tale è la verità assoluta, quella verità, quella proprietà del vero per la quale ogni vero è vero.

La verità può essere inerente o sussistente. È inerente quando è accidente o proprietà di un soggetto: una cosa vera, un pensiero vero, un uomo vero, un giudizio vero, una battaglia vera. È sussistente quando la si considera come principio primo e originario, quindi divino, di ogni verità ontologica e gnoseologica. Per questo, quando Cristo dice di Se stesso «Io sono la verità», è come se dicesse di essere Dio[3].

Il concetto cristiano della verità è del tutto alieno dal soggettivismo, che suppone la superbia dell’io che invece di adeguarsi umilmente e fedelmente a quel reale, che non ha creato lui, ma Dio, pretende subordinare e relativizzare egoisticamente la realtà a se stesso mettendosi al posto di Dio.

Verità per la Scrittura è la sincerità, la sapienza e la giustizia del giudizio, somma virtù divina, della quale però l’uomo può partecipare, in quanto creato ad immagine di Dio

La verità per la Scrittura è anche adeguazione del reale al pensiero produttivo e pratico, dove Dio eccelle fra tutti gli spiriti degli uomini e degli angeli, i quali pure, però, ad imitazione di Dio sanno con la loro azione e la loro arte produrre opere la cui verità rispecchia il vero della loro mente.

Il discorso sulla verità è sempre molto delicato. È uno dei temi più alti della filosofia ed anzi della metafisica. Raggiunge la teologia naturale, si innalza alla teologia cristiana. Tocca la vita dello spirito e del pensiero, l’attività della conoscenza e della logica. Dalla verità sorge la vita della volontà, dell’amore, dell’agire morale e della libertà, come dice il Signore: «conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32).

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 18 gennaio 2024

 * https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/lamore-di-dio-unesperienza-per-tutti

Card. Giuseppe Betori

 

La verità è oggetto di diversi atti dello spirito. Essi sono l’amare la verità: la sapienza; dire la verità: il parlare sincero; conoscere la verità: la scienza; e fare la verità: la virtù. Riguardo al conoscere, verità è sinonimo di realtà. Conoscere la verità equivale a conoscere la realtà. La realtà come verità è la verità ontologica. Invece negli altri casi si tratta della verità gnoseologica o del pensiero.

Un conto è il vero e un conto è la verità. Il verum è l’ente, il concreto, l’individuo, il fatto, l’atto, l’evento. Il vero è un qualcosa di limitato, di finito, di parziale. Esso partecipa della verità, che è quell’esser vero assoluto, infinito e totale, al quale tutti i veri partecipano e sul quale si fondano. Se non ci fosse la verità, non ci sarebbe il vero. E d’altra parte, il vero rimanda alla verità. Il vero è verità relativa; la verità come tale è la verità assoluta, quella verità, quella proprietà del vero per la quale ogni vero è vero.


[1] In tal senso il Beato Giuseppe Columba Marmion scrisse nel secolo scorso il libro Cristo ideale del monaco.

[2] Sull’essenza della verità, Morcelliana, Brescia 2021.

[3] Vedi i miei articoli LA VERITA’ ETERNA IN S.AGOSTINO, I, Sacra Doctrina, 5, 1987. pp.590-611; LA VERITA’ ETERNA IN S.AGOSTINO, II, Sacra Doctrina, 6, 1987, pp.665-687.

12 commenti:

  1. Le espressioni di Sua Eminenza sono sconfortanti. L'ignoranza religiosa è oggi regina e padrona, anche ai massimi livelli della Chiesa. Sono queste le persone che sono nella Chiesa come “consiglieri” del Papa?

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    1. Caro Anonimo,
      lei sta mettendo il dito sulla piaga. Bisogna constatare che, come è stato fatto notare da molti osservatori, oggi tra i nostri Pastori si è diffusa una mentalità che dà troppo importanza alla pastorale e troppo poca alla dottrina, forse nel timore di essere lontani dalla gente e di fare discorsi astratti e poco comprensibili.
      Il rimedio a questa situazione è proposto dallo stesso Papa Francesco quando raccomanda come modello di Pastore e di Teologo San Tommaso d’Aquino. Anche i Padri della Chiesa possono essere modelli importantissimi da questo punto di vista, ossia di una sapiente congiunzione della dottrina con la pastorale. Spesso oggi c’è il timore che l’amore per la teologia speculativa sia di ostacolo alla pastorale, ma tutto sta a vedere come si intende il rapporto suddetto. Se noi per esempio andiamo a guardare come si comportava San Tommaso, egli tutto pieno di carità sapeva insegnare le verità più alte in modo tale da farsi capire anche dai più semplici e dai meno istruiti.
      Quindi il segreto del buon Pastore non deve essere tanto l’impiegare poco tempo nello studio della filosofia e della teologia, quanto piuttosto deve consistere nel trovare il modo di farsi capire anche da coloro che sono i più piccoli e i meno istruiti.

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  2. Bisogna tenere presente che l'espressione del cardinale Betori non è stata improvvisata, non è un'espressione casuale, uscita inaspettatamente dalla sua mente, come se si fosse trovato in una posizione per la quale non era disposto ad esprimersi.
    Niente di tutto questo, ma si tratta piuttosto di un articolo che ha preparato, e che ha firmato, e che è stato pubblicato su un mezzo riconosciuto e legato (a quanto ho capito) alla Conferenza Episcopale Italiana.
    Quindi sì, senza dubbio: rivela la sua grave confusione mentale in un ambito in cui dovrebbe essere il Maestro della fede per il gregge a lui affidato.
    Dico però poco, perché quanto ho appena detto corrisponde a qualunque Vescovo, in rapporto alla sua diocesi.
    Nel caso del cardinale Betori si tratta di un vescovo che è stato scelto dal Romano Pontefice come collaboratore nella cura della Chiesa universale. Quindi la situazione è ancora più grave.

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    1. Caro Vittorio,
      sì, mi rendo conto che il caso del Card. Betori riflette un clima culturale diffuso oggi nella Chiesa a causa di un calo di interesse e di impegno nella teologia teoretica e speculativa, nonché di attenzione alle esigenze della metafisica come base della teologia, della morale e della spiritualità.
      In particolare il caso Betori mostra in una maniera eclatante l’urgenza di riprendere il delicatissimo e importantissimo tema della verità.
      Bisognerebbe che i nostri Pastori trattassero questo argomento spesso, perché la verità è Cristo e senza la verità non possiamo raggiungere la libertà. Tutti i più elaborati discorsi di tipo pastorale sono basati sul vuoto, se non sono applicazione della verità della Parola di Dio, della Tradizione e del Magistero. Senza la verità, non soltanto crolla la fede, ma crolla l’umanità.
      Che fare, dunque? Cominciamo a dare l’esempio noi stessi di rispetto per la verità, dovunque si trovi, anche se in mezzo all’errore, e a metterla in pratica con una coerente dirittura morale.

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  3. Caro Anonimo e signor Vittorio: le preoccupazioni che hai espresso sono ragionevoli e meritano un'attenta considerazione e discernimento.
    Non so se la mia opinione possa rassicurarvi, ma la verità è che, in questo momento, è l'unica risposta con cui oso dare il mio contributo a questo dialogo, se voi e padre Cavalcoli me lo permettete.
    Quello che vorrei dire è che inizierei semplicemente distinguendo due problemi, che sono diversi, e che devono essere considerati separatamente.
    Primo. Un conto è il problema della situazione attuale della Chiesa, per quanto riguarda la formazione dei suoi ecclesiastici (sacerdoti e vescovi), problema che da decenni si pone come soluzione urgente, ma che non sembra trovare alcuna via di soluzione soluzione.
    Sembra una pandemia, a livello spirituale, allo stesso modo in cui abbiamo avuto la pandemia di Covid un paio di anni fa, e sembra che sia qui per restare, perché ora sta riapparendo in forme nuove e mutanti.
    Riguardo a questo problema, credo che debba essere messo in relazione semplicemente al problema dell’esistenza del male, di cui padre Cavalcoli ci ha parlato con tanta lucidità, proprio negli anni passati, durante la pandemia di Covid. Il problema della Chiesa è il problema dell'esistenza generale del male nel mondo finché il mondo resta un mondo, quaggiù.
    Secondo. Un'altra cosa è la scelta dei cardinali. Il che mi sembra implicare due domande: 1. Perché questo Papa ha scelto cardinali che non sembrano i più adatti a "consigliarlo" nel suo lavoro?, e 2. Perché ne ha scelti così tanti?

    Forse sto solo chiarendo le questioni. Ma avere chiare le caratteristiche della malattia non è forse un passo necessario per cercare di affrontarla?

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    1. Caro Don Sabino,
      condivido pienamente le sue considerazioni.
      Il bisogno della verità, il desiderio di far bene, la coscienza morale, l’inclinazione alla virtù, la disponibilità ad ascoltare la Parola di Dio, la docilità ai maestri, sono tutti valori insopprimibili, che si trovano nel cuore di tutti, dove più e dove meno. Soprattutto lo Spirito Santo e la grazia sollecitano e stimolano la coscienza anche dei più malvagi, anche dei più induriti nel peccato e anche coloro che mancano di qualsiasi formazione o educazione familiare o sociale o ecclesiale.
      Queste considerazioni devono essere per noi motivo di consolazione e di speranza. Le conseguenze del peccato originale certamente si fanno sentire in tutti, dal Papa fino all’ultimo dei sacrestani. Questo è vero. E c’è da aggiungere che oggi come oggi, nonostante le sagge disposizioni del Concilio Vaticano II circa la formazione sacerdotale, il ministero episcopale, la vita religiosa, la scuola, e l’educazione in famiglia, ci troviamo in una situazione disastrata a causa dell’opera mistificatrice dei modernisti.
      Si impone da parte nostra l’impegno di ricostruzione, di recupero di valori perduti, di fedeltà alla Tradizione, di correzione degli errori e di promozione dei valori. Sembrerebbe un lavoro votato al fallimento, data la carenza delle strutture, l’impreparazione dei Pastori e l’enormità dei bisogni che ci stanno davanti. Eppure nel nostro piccolo possiamo lavorare con piena fiducia, sapendo che il Signore è con noi. “Cristo ci spinge” e lo Spirito Santo ci guida. La Madonna e i Santi intercedono. La via che percorriamo è quella giusta, perché indicata dal Signore e confermata dal suo Vicario in terra.

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  4. Sabino: meno male sappiamo che il Papa resta sempre Pietro, nonostante i suoi difetti umani (le sue pessime elezioni dei cardinali). Almeno sappiamo che abbiamo il Papa, e che non potrà insegnarci nulla che non sia vero.
    Un'altra cosa è la sua fallibilità nel governo della Chiesa.
    Quando in questo secondo compito il Papa e i vescovi non riusciranno a tenere a galla la Barca... Gesù Cristo prenderà le redini della Chiesa, quando ritornerà, per la seconda volta.

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    1. Caro Dino,
      concordo con le sue parole.
      Impegniamoci per quanto ci è possibile a collaborare con le forze sane, senza spaventarci delle prove e delle difficoltà.

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  5. Ho letto l’articolo su “Avvenire” del card. Betori arcivescovo di Firenze sulla Dichiarazione "Fiducia supplicans": «Nella condizione di fragilità che segna la nostra vita il Signore ci chiama a un percorso di fede». Rifacendosi alle parole pronunciate da Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d’apertura al Concilio Vaticano II, evidenzia che la verità cristiana e il suo annuncio mantengono tutta la loro integrità nell’azione pastorale della Chiesa chiamata a raccogliere la sfida che viene lanciata da una nuova società, e mi riferisco in particolare alla società europea, che con il trascorrere degli anni, sempre più sta prendendo le distanze dalle proprie radici cristiane.
    Ritornando al discorso sulla verità, il cardinale afferma che: “Ogni verità per essere proclamata ha bisogno di essere concretamente situata nella vita e quindi anche nelle sue ambiguità”.
    Certamente come lei scrive e ci ricorda, la verità cristiana ha anche una finalità pastorale, ma non solo, la Rivelazione cristiana è la vera stella di orientamento per l'uomo che avanza tra i condizionamenti della mentalità immanentistica e le strettoie di una logica tecnocratica; è l'ultima possibilità che viene offerta da Dio per ritrovare in pienezza il progetto originario di amore, iniziato con la creazione. All'uomo desideroso di conoscere il vero, se ancora è capace di guardare oltre se stesso e di innalzare lo sguardo al di là dei propri progetti, è data la possibilità di recuperare il genuino rapporto con la sua vita, seguendo la strada della verità.
    La verità che la Rivelazione ci fa conoscere non è il frutto maturo o il punto culminante di un pensiero elaborato dalla ragione ma è puro dono dell’amore di Dio e non si esaurisce nell’azione pastorale, anche se la motiva e la sostiene, ma è un anticipo, posto nella nostra storia, di quella visione ultima e definitiva di Dio che è riservata a quanti credono in lui o lo ricercano con cuore sincero. Fine ultimo della Rivelazione è quindi la salvezza dell'uomo o meglio la sua partecipazione alla vita divina e questo non lo dobbiamo mai dimenticare nella nostra azione pastorale.

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    1. Caro Don Vincenzo,
      la ringrazio per queste sagge considerazioni riguardanti l’importanza della verità nella vita cristiana, sia in ordine al raggiungimento del suo fine ultimo come in ordine alla pratica delle virtù e soprattutto della carità.

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  6. Caro padre Cavalcoli, il cardinale Zuppi, arcivescovo di Bologna, e nella sua qualità di presidente della CEI, ha riferito sull'accoglienza de Fiducia supplicans, citando brani dell'articolo di Betori su L'Avennire:

    https://www.chiesacattolica.it/card-zuppi-e-il-tempo-della-chiesa/

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    1. Caro Dino,
      ho letto un brano della conferenza della conferenza del card. Zuppi, con il riferimento al card. Betori.
      Ho notato che anche il card. Zuppi presenta una concezione della verità cristiana in funzione della salvezza. È la stessa posizione del card. Betori.
      Il difetto che io noto in questa concezione della verità cristiana è il fatto che non si riconosce che la salvezza non è fine a se stessa, ma è finalizzata alla contemplazione e alla visione di Dio, che è la Verità in se stessa, quella Verità fatta Persona, che è Gesù Cristo.

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