Il baratro della ragione secondo Kant - Tra la pusillanimità e la presunzione - Prima Parte (1/2)

 Il baratro della ragione secondo Kant

Tra la pusillanimità e la presunzione

Prima Parte (1/2)

I limiti della ragione speculativa

Sulla questione dei poteri e dei limiti della ragione umana Kant assume una posizione contradditoria, notata da tutti i critici – il famoso «dualismo kantiano»[1] - e inutilmente giustificata dai suoi seguaci. Egli segue l’empirismo di Hume nella ragione speculativa, cosicchè, nonostante il tentativo di dar necessità e livello scientifico ai giudizi sintetici apriori, non riesce ad attingere al mondo dello spirito e a far funzionare il principio di causalità sul piano dell’essere.

Infatti Kant sente il bisogno, contro Hume, di un sapere speculativo necessario ed universale, che effettivamente è il vero sapere scientifico. E per questo afferma che la conoscenza dev’essere «apriori». Che cosa intende Kant con questa espressione? Intende esprimere la sua convinzione di origine cartesiana che noi possediamo i concetti o predicati fondamentali delle cose, quelle che Aristotele chiamava «categorie» prima di attuare l’esperienza delle cose esterne, mentre questo tipo di conoscenza Kant la chiama appunto «aposteriori».

Non tutti i critici di Kant tengono presente che la preoccupazione che lo muove nello scrivere la Critica è quella di dar saldo fondamento alla metafisica[2], cosa che fino ad allora, a suo giudizio, non era stata fatta. L’accusa che gli fanno certi tomisti di aver affossato la metafisica è sì giusta, ma va sfumata, nel senso che ciò che in realtà Kant fa è il tentativo di sostituire la metafisica realista di Aristotele, ritenuta superata, con quella idealista del cogito cartesiano, da lui ritenuta veramente e definitivamente fondata.

Kant non vuole una metafisica che si costruisca partendo dai dati dell’esperienza, perché crede che l’impresa sia impossibile. E di fatti Hume, che sostiene la conoscenza empirica, respinge la metafisica, perchè anche lui è vittima del pregiudizio che partendo dalla conoscenza sensibile non si arrivi alla metafisica. Così Hume respinge puramente e semplicemente qualunque metafisica. Kant, invece, che non vuol rinunciare alla metafisica, crede di poterla costruire basandosi sul cogito cartesiano, che egli chiama «io penso».

In altre parole, secondo Kant la metafisica, per essere una vera scienza, non può essere scienza di un ente raggiunto per astrazione dal dato sensibile, perché con l’induzione – e qui Kant segue Hume - l’intelletto non arriva a cogliere l’universale e il necessario. Invece, unico possibile oggetto della metafisica secondo Kant, che qui segue Cartesio, è la stessa ragione in quanto oggetto della riflessione della ragione su se stessa. È questa, secondo Kant, l’unica possibile e legittima metafisica che in futuro si potrà costruire[3].

Da questa concezione scaturirà la visione fichtiana della scienza come scienza dell’Io, per arrivare fino ad Husserl, il quale parla della fenomenologia come sapere della «soggettività assoluta»[4], che è l’esito della coscienza che si chiude nei suoi dati immanenti mettendo tra parentesi la questione dell’essere, che viceversa dovrebbe essere il suo interesse primario, se vuol essere, come dichiara Husserl, «scienza rigorosa».

Interessante è l’interpretazione che Heidegger dà della metafisica di Kant[5]. Egli la vede certo nella linea di Cartesio, ma secondo lui il trascendentale egologico kantiano, che sostituisce il trascendentale ontologico realista, si presenta come una precognizione atematica dell’essere (Vorverständnis), che si esprime nelle categorie come rappresentazione emotiva ed immaginaria dell’essere inteso come l’essere-che-sono-io nello spaziotempo nell’angoscia e nella finitezza (Dasein).

Di Dio Heidegger non fa parola, ma sorge la domanda se qui Heidegger non ha secolarizzato l’istanza teoretico-morale kantiana sostanzialmente spiritualista in  una visione immaginativa per la quale l’io come luogo della rivelazione dell’Essere (Dasein) manifesta l’accadere dell’evento che confina col nulla.

Kant riconosce contro Cartesio e con Hume ed Aristotele che la nostra conoscenza comincia col contatto con le cose sensibili esterne. Tuttavia non ammette con Aristotele che noi formiamo le grandi categorie delle cose, per esempio il concetto dell’ente, dell’esser, della sostanza, dell’accidente, della causa, della forma, della materia, astraendo dall’esperienza delle cose, perché secondo lui, come per Hume, partendo dall’esperienza non si raggiunge nulla di necessario ed universale.

Ora, dice Kant, perché ci sia qualcosa di universale e necessario nelle nostre conoscenze, bisogna che ciò avvenga apriori, cioè deve trattarsi di idee o concetti («categorie») già presenti nell’intelletto prima ancora di fare esperienza delle cose. Ne viene la conseguenza che per Kant queste categorie non sono ricavate induttivamente e per astrazione dalle cose, come per Aristotele, cioè non corrispondono alla forma o all’essenza delle cose, forma o essenza che per lui ci rimane sconosciuta, ma sono «forme apriori» giacenti nell’intelletto in forza dell’essenza stessa dell’intelletto, indipendentemente e prima che facciamo esperienza delle cose.

Questi predicati, queste forme o questi concetti trascendono bensì l’esperienza, dice Kant, ma da soli, senza la loro unione col materiale proveniente dall’esperienza, non ci danno affatto conoscenza di cose che trascendono l’esperienza, ossia di sostanze spirituali, perché non sono fatti per conoscere il mondo dello spirito, ma solo il mondo materiale, per cui servono solo a dar forma al materiale proveniente dall’esperienza, ossia a costituire il fenomeno, oggetto della ragione speculativa, che è ciò che appare a noi della cosa in sé.

La forma, pertanto, per Kant, non ha nessun valore ontologico come per Aristotele, ma gioca un ruolo solo nella conoscenza, come forma apriori dell’intelletto. La categoria della sostanza vale solo per il mondo empirico. Per questo nella cosmologia kantiana non c’è il composto di materia e forma e per conseguenza manca la dottrina dell’anima umana come forma sostanziale del corpo e la possibilità di forme separate come gli angeli e le anime dei defunti, e alla fine come Dio stesso, ma tutto il mondo dello spirito si risolve in relazioni logiche, cognitive e morali, prive di soggetto ontologico ma vaganti nel mondo delle astrazioni,  mentre al posto del sinolo aristotelico abbiamo la res extensa cartesiana perfezionata dalla fisica di Leibniz e di Newton.

Per questo, il concetto stesso di persona in Kant, sia persona umana che persona divina, per quanto stimolatore di elevati ideali, alla fine ci dà un senso di vuoto, porta a chiederci se esso fa veramente riferimento a una realtà sostanziale, un qualcosa di reale e concreto che sta davanti a noi, un altro da noi e indipendente da noi, un vero tu davanti a noi, imprevedibile e irriducibile, oppure  un «posto da noi, in noi e per noi», come non si periterà di affermare francamente Fichte, che trae le conseguenze del personalismo idealistico e relazionistico kantiano.

Non è quindi che per Kant l’oggetto del sapere abbia una forma per conto proprio e noi conosciamo questa forma, ma siamo noi, in base alle forme già esistenti nel nostro intelletto (le categorie), a dar forma all’oggetto dando forma al materiale dell’esperienza fornito dalla cosa esterna, oggetto di esperienza.

Ben diversamente vanno le cose per la ragion pratica. Essa non ha alcuna difficoltà a cogliere immediatamente, nella coscienza, i valori dello spirito. Infatti  Kant concepisce la ragion pratica sul modello del razionalismo cartesiano, per il quale la ragion pratica non si presenta come una facoltà di scelta soggetta alla volontà divina che l’ha creata, ma come un pensare sussistente simile al pensare divino e quindi del tutto autonoma e autofondata quasi fosse una ragione e una volontà divine.

È evidente che davanti a una ragione di tal fatta, il mondo dello spirito è immediatamente presente per semplice riflessione dell’io su se stesso, nessun problema ad andare oltre l’esperienza, perché qui la ragione conosce i valori metempirici da sé indipendentemente da qualunque esperienza. Se dunque la ragione speculativa non riesce ad elevarsi al mondo dello spirito, quella pratica lo ha davanti a sé immediatamente senza che le occorra alcuno sforzo per ricavarlo dall’esperienza.

Resta però da vedere se queste idee che il soggetto possiede per conto proprio con tanta sicurezza e chiarezza corrispondono veramente alle vere finalità e leggi che Dio creatore ha dato l’uomo al momento della sua creazione, cose che l’uomo può conoscere solo induttivamente da un’analisi della natura umana,  o si tratta di apriorismi di comodo per accontentare i propri desideri soggettivi.

Comunque, trattando della ragione speculativa e dichiarandosi mosso da un’esigenza di umiltà, Kant non consente alla ragione di oltrepassare l’orizzonte dei fenomeni per raggiungere la conoscenza della cosa in sé e in special modo per elevare la conoscenza al livello della realtà spirituale, sicchè si presenta sbarrato il cammino che conduce alla dimostrazione dell’esistenza dell’anima umana e di Dio.

L’anima è solo un fenomeno dell’autocoscienza e Dio non è altro che la personificazione simbolica del supremo ideale della ragione, dell’unità sistematica di tutto il sapere della ragione e dell’ordine delle scienze, il coronamento finale, conclusivo e riassuntivo di tutta la sua attività, per il quale la ragione raggiunge il suo fastigio finale, raccoglie in unità tutto il complesso delle sue idee, nell’idea suprema di una totalità della realtà, rappresentata come fosse un ente supremo, originario e realissimo.

Ma illusione sarebbe, suggestionati dal peso primario di questa somma idea, ipostatizzare o personificare questa che non è altro in fin dei conti che un’idea, benchè importantissima e assolutamente necessaria per fondare, organizzare, orientare e sintetizzare tutto il lavoro e tutte le conoscenze della ragione, finire per darle corpo e realtà come fosse un’autentica persona trascendente, che poi chiamiamo «Dio».

Kant non nega la plausibilità di tale operazione; non si tratta di un’assurdità, ma anzi di una tendenza naturale della ragione, benché essa approdi solo ad un’apparenza. Per questo Kant precisa che come il teismo non può avere una base razionale certa, ma solo un’«apparenza dialettica», così corrispettivamente l’ateismo non può vantare per gli stessi motivi alcuna certezza apodittica.

In questo quadro di considerazioni con questi intenti Kant tratta di questo «ideale trascendentale» a conclusione della Critica della ragion pura, ideale che per lui è il punto più alto, il vertice supremo al quale può giungere la ragione umana.

La cosa certa, per Kant, il compimento supremo, la base e il criterio ultimo di tutta l’opera della ragione e il segno più elevato del suo potere, dei suoi limiti e della sua dignità, è questo «ideale trascendentale». È evidente qui l’influsso di Platone e l’accantonamento della nozione aristotelica dell’ente, che non primeggia sull’idea, ma al contrario è un simbolo dell’idea, per cui la realtà è l’idea, mentre l’ente è solo un’immagine dell’idea. Abbiamo qui l’assioma fondamentale dell’idealismo inaugurato da Cartesio del primato del pensiero sull’essere. L’essere è pensiero e il pensiero è l’essere.

Le trattazioni seguenti nella Critica della ragion pura, circa le possibili prove dell’esistenza di Dio secondo Kant non hanno affatto lo scopo di condurre la ragione ad una conoscenza più alta di quella per la quale essa conosce se stessa, ma si propongono di svelare e di mettere in guardia nei confronti di quella che Kant chiama «illusione trascendentale», che non è vera scienza, ma «apparenza dialettica».

Questo sarebbe il fulcro del famoso superlodato criticismo kantiano, gioiello della filosofia moderna, luce della massoneria, che dovrebbe offrire all’intera umanità in saecula saeculorum l’occhio critico decisivo della verità che svela e supera una volta per tutte l’ingenuità del realismo medioevale, che non si accorge col suo Dio celeste e trascendente di ipostatizzare l’ideale della ragione col rischio di farne un idolo, dal quale attendere rivelazioni e responsi, al quale rendere culto ed omaggio, chiedere grazie, offrire sacrifici e preghiere.

Non si è accorto, il povero Kant, di quanto miope sia stato a non accorgersi che «dalla creazione del mondo in poi, le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità» (Rm 1,20).  Non si è accorto di quanto ingenuo e grossolano è stato egli stesso nel ridurre Dio a un’idea della ragione e di quanto presuntuoso sia stato a voler divinizzare la ragione umana, quasi a metterla alla pari, come ragion pratica, di quella di Dio.

E quale sarebbe, secondo Kant, questa pericolosa illusione, segno di temeraria presunzione, che fa uscire la ragione dai limiti che le sono consentiti e la fa vagare in vuoti concetti privi di contenuto e fondamento reale? L’illusione sta nello scambiare l’ideale trascendentale, che è la forma suprema ed invalicabile della ragione con un oggetto reale superiore alla ragione, chiamato «Dio», che la ragione si vanterebbe orgogliosamente di poter conoscere con assoluta certezza e un sapere rigorosamente dimostrativo e necessario, Dio dal quale anzi si vanterebbe di ricevere meravigliose e salvifiche rivelazioni.   

Se qui si può parlare di Dio, dice Kant, non si tratta quindi di ammettere come realmente esistente, trascendente, distinta dalla ragione e oltrepassante la ragione una persona spirituale infinita creatrice della ragione, tale per cui la ragione abbia da imparare da questa persona verità sovrarazionali, oggetto di fede, o l’uomo abbia da mettersi in colloquio con questa supposta persona facendosi da lei guidare nella condotta morale o supplicandola per ottenere grazie e favori al fine di liberarsi dal peccato e conseguire la virtù e la salvezza. Fare così sarebbe trasformare in una sostanza superiore alla ragione in semplice prodotto, seppur sia il più alto della ragione stessa.

Il guaio è che Kant ha preteso dar fondamento, metodo, leggi e princìpi alla ragione speculativa, tracciare i limiti del suo orizzonte e l’ampiezza dei suoi poteri senza capire a fondo il significato, il valore, la portata e l’uso del principio di causalità, che, dopo il principio di identità e prima di quello di finalità, è uno dei princìpi primi della ragione speculativa[6].

Fine Prima Parte (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli        

Fontanellato, 23 luglio 2023

 

 

Non si è accorto, il povero Kant, di quanto miope sia stato a non accorgersi che «dalla creazione del mondo in poi, le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità» (Rm 1,20). 

 
Immagine da Internet: Vincent Van Gogh
 


 

[1] Esso è provocato dal fatto che egli ammette la cosa in sé esterna e indipendente dall’intelletto, ma la dichiara inconoscibile e la sostituisce col fenomeno nella ragione speculativa e con l’io penso cartesiano nella ragion pratica. Fichte tenterà di eliminare questo dualismo eliminando la cosa in sé, che diventa prodotto dell’Io. Ma siamo daccapo: Fichte, per salvare l’opposizione soggetto-oggetto ammette la contraddizione dell’io col non-io. Peggio che peggio. Allora ci proverà Schelling, col suo Assoluto indifferenziato, dove il soggetto è identico all’oggetto perché tutto è tutto. Ciò susciterà il riso di Hegel con la famosa battuta della «notte dove tutte le vacche sono nere» e si vanterà di aver lui finalmente e definitivamente restaurato l’unità con la sua dialettica, che però si basa sulla contraddizione. Un esito peggiore di questo non si potrebbe immaginare, peggio ancora di Fichte, il quale almeno continuava a distinguere il finito dall’infinito, mentre il buon Bontadini afferma con totale sicurezza che l’«l’idealismo è inconfutabile».

[2] Si badi che Kant era insegnante di metafisica.

[3] Come egli espone nei suoi Prolegomeni ad ogni futura metafisica che voglia presentarsi come scienza, Carabba Editore, Lanciano 1924.

[4] Vedi Logica formale e trascendentale, Editori Laterza, Bari 1966, pp.282, 295, 295, 300, 310, 330, 335, 337, 339.

[5] Kant et le problème de la métaphysique, Editions Gallimard. Paris 1953.

[6] Cf J.Maritain, Sept leçons sur l’être et les premiers principes de la raison spéculative, Téqui, Paris 1934.

3 commenti:

  1. Caro Padre Cavalcoli,
    scusate per l'intrusione.
    Oggi mi sono reso conto di un anniversario che avevo trascurato: lo scorso 28 aprile ricorrevano i 50 anni dal giorno in cui Jacques Maritain cessò di essere con noi.
    Non ho trovato alcun promemoria di questo fatto. Considerando che lei è un ottimo esponente del pensiero maritainiano, non crede che quest'anno sia ancora tempo di ricordare Maritain?
    Buona domenica, Giorno del Signore, e che Dio benedica il suo lavoro e benedica lei abbondantemente!

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    1. Caro Silvano,
      ti segnalo due commemorazioni di Maritain, in occasione del 50mo della morte:
      - https://www.laciviltacattolica.it/articolo/jacques-maritain-a-50-anni-dalla-morte/
      - https://www.avvenire.it/agora/pagine/lotta-per-ogni-uomo-il-lascito-di-maritai-d1a64b60c01f4f2dbd797baffbe50dcf
      Io l’ho raccomandato in modo particolare nel mio articolo:
      - https://padrecavalcoli.blogspot.com/2023/03/o-tommaso-o-la-fine.html

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    2. Grazie per i dati, caro padre Cavalcoli!

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