Seconda parte
La
misericordia fasulla di Walter Kasper
Paziente e misericordioso è il Signore,
lento all’ira e ricco disgrazia
Sal 145, 8
Il
fondamento metafisico e biblico della divina misericordia
Il concetto
biblico di giustizia divina nel suo senso ampio è l’estrinsecazione della bontà divina verso il creato. Dio in Se
stesso è bontà infinita, per cui, come insegna il Beato Duns Scoto, il primo e
sommo bene che ama e non può non amare, è Se stesso, benché lo faccia
liberamente, perché l’amore è atto della volontà. Tuttavia la bontà non è solo
virtù con la quale il buono ama se stesso e il proprio bene, ma il bene che
possiede, tende a comunicarlo e a distribuirlo agli altri.
E si badi
bene che questo amore di sé nulla ha a che vedere con l’egoismo o l’orgoglio,
perché questo è bensì un amore di sé, ma è l’autoerotismo della creatura, che
assolutizza il proprio bene come fosse Dio, si chiude nel godimento del suo
bene così inteso e se ne infischia del bene degli altri o se lo fa, lo fa solo
se ne può trarre vantaggio. Questo è quell’«amore di sé» (amor sui), che è giustamente condannato da Sant’Agostino e da Santa
Caterina da Siena. Invece Dio ha tutto il diritto di amare Sé stesso al di
sopra di tutto, perché Egli è effettivamente il sommo Bene al di sopra di ogni
altro bene esistente o possibile.
In generale
la giustizia divina è quella virtù, con la quale Dio opera il bene di tutte le
creature, secondo i fini e i bisogni di ciascuna. Essa è effetto della sua
bontà, che è quella virtù per la quale la persona buona è portata a diffondere
o a donare agli altri il bene che possiede, è portata a volere il bene degli
altri, a fare del bene agli altri. In senso lato, la giustizia divina, secondo
la Bibbia, è l’esercizio della sua bontà, della sua provvidenza e del suo amore
verso tutte le creature; ma a noi adesso qui interessa la sua giustizia verso
l’uomo. Essa comporta due aspetti fondamentali: la misericordia e la giustizia
in senso stretto.
È verissimo quello
che dice Kasper che la «misericordia è qualcosa di più della giustizia»
(p.216). Essa è segno di una maggiore bontà e di un amore superiore. La
giustizia esige il giusto e paga quel che è giusto. Essa non dà e non chiede
nulla di meno, ma neanche nulla di più. Essa bada al proprio utile, al proprio
vantaggio e tornaconto e mira al compenso per il lavoro fatto.
La
misericordia fa sconti, dà più del dovuto e dei meriti dell’altro. Essa capisce
meglio i bisogni dell’altro ed è più generosa nel soddisfarli. Essa va incontro
spontaneamente al bisognoso, senza aspettare che sia lui a chiedere. Essa dona
gratuitamente perché le piace donare.
La giustizia
divina, secondo la Scrittura, ha due sensi: un senso ampio e un senso stretto.
Nel senso ampio essa è l’esercizio della sua bontà, del suo amore e della sua
provvidenza. Nel senso stretto è la retribuzione secondo i meriti; ai buoni il
premio, ai malvagi il castigo. La misericordia opera il bene del misero oltre i
meriti del misero, il quale non può sollevarsi da sé e non può pagare,
restituire o esigere compenso. La giustizia è il dare a ciascuno ciò che gli
spetta e che merita: il premio ai buoni e il castigo ai malvagi. Il giusto
castigo è l’effetto della giusta severità.
In base a
quanto detto, dobbiamo precisare che la giustizia divina non è solo quella
giustificante o perdonante, non è solo la misericordia, come credeva Lutero e
Kasper crede con lui, ma è anche quella, con la quale Dio fa giustizia, libera il misero dalle mani dell’empio e vendica le offese
fatte ai giusti da parte dei malvagi, i quali, come avverte chiaramente Cristo,
se non si pentono, vengono puniti con la pena del fuoco eterno.
Il Dio
vendicatore non è, come credono i modernisti e i marcionisti, un «dio pagano»,
un «Dio precristiano», Dio dell’Antico Testamento, superato ed abolito dal «Dio
di Gesù Cristo». Dio non muta. È ridicolo pensare che si trasformi o cambi look da cattivo in buono. Il Dio
vendicatore è esattamente il Dio di Gesù Cristo, il quale appunto, a nome e con
la potenza del Padre, è il Redentore, che in ebraico è il Goèl, che significa «vendicatore». Sulla base della Scrittura e del
diritto naturale S.Tommaso dimostra che la giusta vendetta (vindicatio)[1]
non è affatto un vizio, ma una virtù; non ha nulla a che vedere con l’odio, ma
entra nella virtù della carità.
Ecco l’amore del nemico, del quale parla il
Vangelo. Esigere riparazione dal nemico che ci ha offeso non contrasta affatto
col dovere del perdono, il quale però può avere ragion d’essere solo se
l’offensore ovvero il nemico è pentito ed è disposto a riparare. Occorre, cioè,
che da nemico diventi amico, riconoscendo il proprio torto e ed essendo
disposto a pagare il proprio debito.
A questo punto
possiamo e dobbiamo perdonare, ossia, come è detto nel Padre Nostro, «rimettergli il debito». Perdonare, quindi, non vuol
dire passar sopra o lasciar correre nel senso di guardare benevolmente il torto
che ci è stato fatto, salvo il dovere di scusare l’offensore se è scusabile.
Amare il nemico non vuol dire amare il torto che ci ha ci ha fatto, ma saper
vedere anche nel nemico dei lati buoni ed amabili. Il torto va odiato e
riparato, se occorre, anche con una pena adeguata.
Kasper in
questa delicata questione, riconduce ogni forma di vendetta alla vendetta
ingiusta, per cui, per evitare l’odio e il ripagare il male col male, predica
un perdonare sistematico e incondizionato, indipendentemente dal fatto che
l’offensore sia pentito. Ciò appare chiaro dal fatto che egli oppone
falsamente, come fosse un aut-aut, il perdonare al chiedere o far giustizia (cf
p.213). Invece le due cose non si escludono vicendevolmente affatto. Non può
essere veramente pentito ed essere perdonato, chi non è disposto a riparare il
torto commesso. Non può esserci riconciliazione fra l’offeso e l’offensore, se
questi non solo chiede perdono, ma è anche disposto a far penitenza.
Lo stesso
comportamento lo ha il Padre verso di noi. Egli ci perdona, certamente, ma
preliminarmente esige soddisfazione. Certo, chi paga il grosso del debito è suo
Figlio, ma anche noi dobbiamo fare la nostra parte. Troppo comodo, come
pretendeva Lutero, approfittare della gratuità della grazia, per rifiutarsi di
pagare ameno uno spicciolo.
Non bisogna confondere
il perdono del peccato con il condono della pena. L’assassino pentito
del suo peccato viene perdonato da Dio, ma gli resta da saldare il conto con la
giustizia umana. Kasper, con le sue idee confuse, finisce per prestare il
fianco alle critiche di quei Heine, Nietzsche e Freud, che egli vorrebbe
confutare.
Ma c’è da
aggiungere una cosa ben nota e cioè che chi è buono, è portato ad amare gli
altri e a far loro del bene. Ora Dio, bontà infinita, del tutto autosufficiente
e beatissimo per il godimento della sua bontà, se avesse voluto, avrebbe potuto
benissimo fare a meno di creare l’universo, perché esso non aggiunge nulla alla
sua infinita bontà. Invece, proprio per questa bontà, ha voluto farlo. Ed è
chiaro che lo ha fatto per amore. Dio dunque ama ciò che crea e lo ama perchè
Egli è buono e il creato è buono. Se l’universo non fosse buono, Dio non lo
avrebbe creato, perchè Dio non è capace di creare se non cose buone. E se Egli
permette il peccato e lo castiga, anche ciò è espressione d’amore, perché può e
vuole ricavare dal male un maggior bene.
Occorre dire
invece che Dio è stato mal ripagato dall’uomo da Lui creato, il quale uomo,
come sappiamo dalla Scrittura, col peccato originale, Gli ha procurato guai con
tutto quello che ha combinato da allora fino ad oggi. Con linguaggio molto
antropomorfico, la Bibbia paragona allora Dio ad un artigiano, che, deluso per
il fatto che la sua opera non gli dà il risultato o quella soddisfazione che si
attendeva, è tentato di distruggerla. Ecco la giustizia punitiva, nel senso
della severità.
Dio
ha avuto misericordia di noi perché potevamo essere salvati
Ma la Bibbia
ci racconta, come sappiamo bene, che Dio nella sua infinita bontà, ha avuto
pietà dell’uomo, anche perchè il peccato non lo aveva corrotto a un punto tale
da essere irrecuperabile. La natura,
come dice il Concilio di Trento correggendo Lutero, non è rimasta totalmente
corrotta, ma solo ferita e quindi
guaribile e salvabile. Non può essere salvato ciò che non è salvabile. Una cosa
irrecuperabile non la si conserva, ma la si getta via.
Se fossimo
stati irrecuperabili, Dio ci avrebbe lasciati nell’eterna miseria, che
giustamente avevamo meritato col peccato originale, similmente a come Egli ha
trattato gli angeli ribelli, che ha castigati in eterno senza possibilità di
redenzione, checché ne pensasse Origene, che evidentemente si riteneva più
misericordioso di Dio.
E invece Dio
ha voluto salvarci. E perchè? Perché eravamo salvabili. Ma come e perchè
eravamo salvabili? Perché, nonostante la distruzione operata dal peccato, sono rimaste alcune forze sane, dalle
quali si può ripartire e sulle quali si può far leva per ricostruire
l’edificio, ossia l’organismo delle virtù. Per questo, esse possono e devono
collaborare con l’opera della grazia. Ecco allora la grazia sanante e la giustizia
divina giustificante, ossia la misericordia.
Per questo
si fatica a capire come Lutero continui a dire che Dio ci salva, se, come egli
stesso sosteneva, «in ogni opera buona il giusto pecca» (Denz.1481).
Chiariamo
allora che cosa è la salvezza per Lutero. Si tratta di un concetto chiave della
sua teologia, assieme a quello della giustificazione, che ne é la causa. In
Lutero tutto ruota attorno al problema della salvezza.
In Lutero
c’è bensì l’idea della salvezza come liberazione dalla morte fisica e da quella
eterna, e della restituzione della grazia (sola
gratia), ma non c’è l’idea della guarigione
della natura e dello sforzo ascetico, perché per lui, come è noto, la
natura non conserva neppur parzialmente delle forze morali sane.
Così la
natura non è solo ferita, ma è del tutto malvagia e corrotta, sicché l’uomo
pecca in continuazione. Dio quindi, seppur per mezzo della grazia, non restaura
le forze alla natura, valendosi della
collaborazione delle forze sane che restano, ma l’acquisto della
salvezza si esaurisce per Lutero nella recezione della grazia sia pur
fondamentale, ma insufficiente, del battesimo, il quale dà sì vita di grazia a
noi che siamo morti alla grazia (Col 3,3), ma non è niente più che un semplice
dono della grazia ad una natura, nella quale resta non solo la tendenza a
peccare, il che è vero, ma resta il peccato come tale – peccatum permenens -, oltre al fatto che Lutero, considerando i
comandamenti come facoltativi (Denz. 1568-1570), introduce una forma di
relativismo morale, per il quale il soggetto non ha più obblighi assoluti, ma
agisce come gli pare davanti a un Dio, che benevolmente approva, non castiga e
non interviene, perché, per dirla con Bonhöffer, non è un Dio «tappabuchi» e
nella sua «misericordia» ha promesso la salvezza, mentre col pretesto della
libertà «cristiana», ognuno si costruisce una morale soggettiva, ritenendosi
sempre e comunque guidato dall’impulso dello Spirito Santo.
La
misericordia divina è solo un aspetto della bontà divina,
ma
l’altro è la giustizia.
Per concepire correttamente gli attributi
divini, al fine di non andare fuori strada, non dobbiamo lasciarci prendere
dalla fantasia, dal sentimento o dall’emozione, ma, sebbene questi attributi
superino infinitamente la finitezza della nostra ragione, dobbiamo avvalerci,
sull’esempio di San Tommaso della più rigorosa
razionalità. Ora l’attitudine alla misericordia in noi è strettamente
legata all’emotività o alla commozione, passioni che possono sorgere spontaneamente,
soprattutto in soggetti sensitivi, senza un adeguato giudizio razionale.
Per questa nostra tendenza a giudicare in
base al sentimento o all’emozione più che in base al ragionamento, siamo
portati ad associare la bontà alla misericordia; mentre ci riesce ostico
associarla alla giustizia, soprattutto poi se è punitiva. Se invece ragioniamo
lucidamente e con oggettività, senza lasciarci trasportare dall’emozione, ci
accorgiamo che non c’è nessun motivo per negare alla severità, purché, s’intende,
moderata, l’attributo della bontà.
Che cosa è infatti la bontà morale? Non è
altro che il volere il bene dell’altro. E nulla impedisce, come insegna
l’esperienza dei grandi educatori, pastori e Santi, che una moderata severità
faccia del bene alla persona alla quale viene applicata. Ora la Scrittura ci
mostra in lungo e in largo la somiglianza
di Dio con un buon pastore o un buon sovrano o un buon padre o un buon
educatore. Naturalmente occorrerà fare le dovute differenze, ma la
somiglianza è innegabile, ed è fondamentale per capire come Dio si comporta con
noi. Egli infatti è come un buon
educatore, che sa alternare la
misericordia alla severità.
L’educatore umano può sbagliare nel dosaggio
delle due virtù. Vi può essere in lui troppa accondiscendenza o indulgenza, la
quale crea dei rammolliti incapaci di affrontare il sacrificio. Invece
l’eccessiva durezza e il rigorismo creano degli scrupolosi e dei neurotici.
Misericordia e giustizia non possono essere esercitate simultaneamente, perché sono opposte
tra di loro, come il calorifero e il ventilatore. Dio invece è infallibile
nell’usare ora misericordia, ora severità. Tutte e due sono manifestazioni
della carità divina, perché entrambe vogliono il bene degli uomini: la prima
dando al di là del merito; la seconda, secondo il merito.
Tuttavia, osserva giustamente Kasper, non
possono fare a meno l’una dell’altra: «la misericordia senza la giustizia è la
madre della dissoluzione» (p.263). Ed egli spiega bene, nel corso del suo
libro, per converso, che la giustizia senza la misericordia, è la madre del
legalismo, del fariseismo, della rigidezza inesorabile, fino a giungere alla
crudeltà, secondo quel motto che è già noto ai Latini: summum ius, summa iniuria.
La giustizia dà il compenso al lavoratore per
il lavoro compiuto. La misericordia dona gratuitamente al misero che non può
pagare. La giustizia punisce il malfattore. La misericordia perdona al
peccatore pentito. La giustizia elargisce o esige il compenso al quale si ha
diritto. La misericordia dona la grazia che viene implorata. La giustizia dà
secondo il merito. La misericordia dona al di là del merito. La giustizia
corrisponde al dovere, la misericordia alla generosità. Il misericordioso ha
compassione e dà in dono; il creditore esige il pagamento del debito. Il
misericordioso perdona e assolve; il giusto condanna e premia.
Occorre
aggiungere che la misericordia divina, per quanto sia una virtù eccelsa, non entra affatto nell’essenza divina come
tale. La bontà è un attributo essenziale di Dio, ma per potersi manifestare
come giustizia e misericordia, occorre il mondo, che è effetto libero e
contingente dell’azione creatrice divina. Infatti la misericordia divina
presuppone l’esistenza non solo dell’uomo, ma anche dell’umana miseria, appunto
bisognosa di misericordia.
Quanto alla
giustizia, essa presuppone la malvagità umana. Se tutti fossero buoni e miseri,
basterebbe la misericordia. Se Dio non avesse creato il mondo, non avrebbe
avuto bisogno di esercitare la misericordia. Ma non ne avrebbe avuto bisogno
neppure se l’uomo non avesse peccato, giacché Dio non avrebbe avuto miseri da
sollevare.
Importante
inoltre è il richiamo di Kasper alla virtù dell’epièikeia, teorizzata da Aristotele e ripresa da S.Tommaso[2].
La potremmo chiamare «equità». Essa corrisponde alla clementia dei Latini. Egli la motiva bene dicendo che
«le legge
generali non possono mai adeguatamente tener conto di tutti i singoli casi, che
sono molto complessi. Perciò l’epikèia deve riempire i vuoti e, nella sua
qualità di giustizia superiore, non abolire la norma giuridica nel singolo
caso, ma applicarla in modo così prudente, che l’applicazione diventi nel
singolo caso realmente giusta e non di fatto ingiusta» (p.263).
Occorre
precisare però che l’eccezione alla regola vale per la legge umana o
ecclesiastica, che ha un carattere convenzionale, ma non per la legge naturale
e la legge divina, perché, mentre la legge umana per questa sua
convenzionalità, è elastica e non può prevedere tutti i casi possibili, le
altre leggi sono immutabili e valide in tutti i casi, perché sono norme di
valore ontologico universale, sicché tutti i casi non sono altro che
l’attuazione di questo universale.
L’eccezione
è motivata dalla necessità di soprassedere alla lettera della legge, per
cogliere la mente del Legislatore. In questi casi si realizza una giustizia
superiore, che si avvicina alla ricchezza della misericordia, come per esempio
il fedele, che, per assistere ad un ammalato, salta il dovere della Messa
domenicale. La norma del Messa domenicale è una legge ecclesiastica, mentre la
legge della carità è una legge che non ammette eccezioni.
Aggiungiamo
che secondo la Bibbia, la misericordia può attenuare, rimandare o togliere i
castighi temporali irrogati dalla giustizia. Ma con tutto ciò, la rivelazione
biblica, confermata dalla dottrina della Chiesa[3],
ci insegna che «non tutti si salvano»[4].
Kasper, quindi, non è del tutto fedele alla Bibbia e al Magistero della Chiesa,
quando afferma che l’esistenza di dannati non è un dato di fatto, ma una
semplice «possibilità reale» (p.167). Osservo che Cristo non «minaccia» (ibid.)
soltanto l’inferno per i malvagi, ma lo prevede
come un fatto. Non si deve dire con Kasper che «non possiamo sapere se
tutti si salveranno» (p.169). Se vogliamo essere ortodossi, dobbiamo invece
dire: «sappiamo che non tutti si salveranno».
Inoltre, la misericordia del Padre svolge una
funzione di primaria importanza nel sacrificio redentore di Cristo, il quale
ripara all’offesa fatta al Padre dall’uomo peccatore pentito. Infatti il Padre
ha avuto pietà di noi ed ha voluto riconciliarsi con noi. Ma ha espresso questa
misericordia nel darci la possibilità, grazie al sacrificio di Cristo, di
soddisfare per il peccato e così placare l’ira divina. Per questo, il
sacrificio della Messa, come dice il Concilio di Trento, è «propiziatorio»
(Denz.1743), mentre il sacrificio di Cristo è «soddisfattorio» (Denz.1529).
Kasper pertanto sbaglia quando definisce
«diffuso malinteso» (p.114) la dottrina del Concilio che insegna che il
sacrificio di Cristo «placa l’ira divina» (ibid.). Egli sostiene che il Padre,
«volendo per compassione la morte del proprio Figlio, trattiene la propria ira
e fa così spazio alla propria misericordia e, in tal modo, alla vita» (ibid.).
Mi domando che «compassione» sarebbe quella
di volere la morte del Figlio. Però il Padre
non ha voluto la morte, ma il sacrificio del Figlio. È una cosa ben
diversa, anche se il sacrificio ha richiesto la morte di Cristo. Ma nelle cose
occorre guardare all’aspetto formale, non a quello materiale. Altrimenti potrei
dire invece di «Napoleone a cavallo», «il cavallo che porta Napoleone». Kasper
fa apparire il Padre come un assassino, oltre a qualificare il deicidio come
«compassione». Qui non siamo nel «concetto fondamentale del Vangelo», ma nella
crudeltà della dialettica hegeliana.
Inoltre la misericordia divina si manifesta
nel dono della grazia santificante, che purifica, perfeziona, eleva e fortifica
le opere della natura umana, sicché l’uomo in grazia è in grado con le sue opere di meritare il
paradiso. Che poi la grazia sia gratuita e che debba essere meritata con le
buone opere e l’obbedienza alla legge non son due cose che si escludono a
vicenda, perché il merito è l’effetto della grazia e quando il soggetto è in
grazia può e deve, se vuol salvarsi, crescere in grazia mediante le buone
opere. In tal modo Dio retribuisce per giustizia, ma le opere dell’uomo sono
rese meritevoli dalla sua misericordia.
Che Dio doni a tutti la sua misericordia e
che essa sia infinita non vuol dire che questo dono non sia condizionato dalla libera condotta di
ciascuno, perché ognuno ha la facoltà di accoglierla o di respingerla e,
benché essa di per sé sia infinita, ognuno ne riceve tanta quanta ne merita,
benché però Dio si riservi di donarne anche al di là del merito. Il fatto che
Dio alterni la sua misericordia alla sua severità dipende dal fatto che gli
uomini esercitano il libero arbitrio, chi obbedendo a Dio, chi disobbedendo.
Kasper concepisce la misericordia divina in
modo giusto, ma astratto ed avulso da come essa effettivamente si realizza nella
storia umana raccontata ed interpretata dalla Scrittura. Infatti è vero, che in
linea di principio, «de potentia absoluta», come dicono i teologi, se Dio
avesse voluto, avrebbe potuto far misericordia a tutta l’umanità, anche senza
il sacrificio del Figlio.
Ma in realtà e di fatto la vera misericordia
di Dio non è questa. Dio non usa sempre e solo misericordia, ma fa anche
giustizia e castiga i malvagi. Né ha senso ridurre la giustizia alla
misericordia, perché sono due virtù opposte in alternanza l’una all’altra e
condizionantesi a vicenda: la giustizia limita la misericordia e questa supera
la giustizia. Per questo, il ridurre la misericordia al suo solo concetto
astratto ed astorico, come fa Kasper, vuol dire di fatto falsificarla e
spingere a pascersi della comoda illusione di Lutero di poter peccare
liberamente nella certezza che comunque Dio perdonerà.
La realtà è che, stando alla situazione di
fatto ed alla storia dell’umanità, così come ce la narra la Bibbia, non tutti
si aprono al flusso della misericordia, che di per sé Dio versa su tutti, ma
alcuni, attaccati ai loro peccati, bloccano in sé stessi questo flusso
impedendogli di produrre i suoi effetti benèfici. Costoro pertanto possono ma
non vogliono essere perdonati, per cui restano soggetti al castigo divino.
Kasper pertanto male interpreta la novità del
Vangelo lasciandosi influenzare dall’eresia di Marcione[5],
quando afferma:
«La novità
del messaggio rispetto all’Antico Testamento sta nel fatto che Cristo predica
la misericordia di Dio in maniera definitiva e per tutti. Non solo a pochi
giusti, ma a tutti egli dischiude la via di accesso a Dio, per tutti c’è posto
nel regno di Dio, nessuno è escluso. Dio ha messo definitivamente a tacere la
propria ira e ha fatto spazio al suo amore e alla sua misericordia» (p.103).
Qui Kasper evidentemente identifica e
confonde la possibilità della
salvezza in quanto realizzata da Cristo e da Lui offerta a tutti con un
inesistente fatto che tutti si
salverebbero in quanto perdonati dalla divina misericordia. Ma ciò non
corrisponde assolutamente alla verità insegnata da Cristo[6]
e dalla Chiesa (cf Denz. 623, 1523 e 1540). È vero, quindi, che «a tutti egli
dischiude la via di accesso a Dio, per tutti c’è posto nel regno di Dio,
nessuno è escluso». Ma il fatto è che non
a tutti interessa accedere a Dio ed avere un posto nel suo regno, perché
magari non credono neanche nell’esistenza di Dio. E questi dove finiscono?
La realtà è, come spiega bene la Lettera agli Ebrei, che il Dio del Nuovo
Testamento è ancora più severo di quello dell’Antico Testamento, proprio perchè
qui è più misericordioso. È giusto infatti che venga castigato maggiormente chi
è ingrato per un beneficio maggiore. Sentiamo infatti l’avvertimento che ci dà
la Lettera:
«Se
pecchiamo volontariamente dopo aver ricevuto la conoscenza della verità, non
rimane più alcun sacrificio per i peccati, ma soltanto una terribile attesa del
giudizio e la vampa di un fuoco che dovrà divorare i ribelli. Quando qualcuno
ha violato la Legge di Mosè, viene messo a morte senza pietà sulla parola di
due o tre testimoni. Di quanto maggior castigo allora pensate che sarà ritenuto
degno chi avrà calpestato il Figlio di Dio e ritenuto profano quel sangue
dell’Alleanza, dal quale è stato un giorno santificato e avrà disprezzato lo
Spirito della grazia?» (10,26-31).
Altro che misericordia!
Fontanellato,
26 aprile 2020
FINE SECONDA PARTE
FINE SECONDA PARTE
[1] Sum.Theol.,
II-II, q.108.
[2] Sum.Theol.,
II-II, q.120.
[3] Cf il mio libro L’inferno esiste. La verità negata, edizioni Fede&Cultura,
Verona
[4] Concilio di Quierzy dell’853, Denz.623;
Concilio di Trento, Denz.1523.
[5] Marcione è un teologo gnostico del sec.II,
imbevuto di dualismo iranico, il quale sosteneva che mentre il Dio dell’Antico
Testamento è un Dio irascibile, bellicoso, vendicativo e punitore, il Dio del
Nuovo è pietoso, dolce, misericordioso, perdonante e pacifico. Ma fu condannato
più volte per eresia (cf Denz.112, 435, 454, 1339).
[6] Cf il mio libro L’inferno esiste. La verità negata, Edizioni Fede&Cultura,
Verona 2010.
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