La misericordia fasulla di Walter Kasper (seconda Parte)


Seconda parte

La misericordia fasulla di Walter Kasper

Paziente e misericordioso è il Signore,
lento all’ira e ricco disgrazia
Sal 145, 8

Il fondamento metafisico e biblico della divina misericordia

Il concetto biblico di giustizia divina nel suo senso ampio è l’estrinsecazione della bontà divina verso il creato. Dio in Se stesso è bontà infinita, per cui, come insegna il Beato Duns Scoto, il primo e sommo bene che ama e non può non amare, è Se stesso, benché lo faccia liberamente, perché l’amore è atto della volontà. Tuttavia la bontà non è solo virtù con la quale il buono ama se stesso e il proprio bene, ma il bene che possiede, tende a comunicarlo e a distribuirlo agli altri.

E si badi bene che questo amore di sé nulla ha a che vedere con l’egoismo o l’orgoglio, perché questo è bensì un amore di sé, ma è l’autoerotismo della creatura, che assolutizza il proprio bene come fosse Dio, si chiude nel godimento del suo bene così inteso e se ne infischia del bene degli altri o se lo fa, lo fa solo se ne può trarre vantaggio. Questo è quell’«amore di sé» (amor sui), che è giustamente condannato da Sant’Agostino e da Santa Caterina da Siena. Invece Dio ha tutto il diritto di amare Sé stesso al di sopra di tutto, perché Egli è effettivamente il sommo Bene al di sopra di ogni altro bene esistente o possibile.

In generale la giustizia divina è quella virtù, con la quale Dio opera il bene di tutte le creature, secondo i fini e i bisogni di ciascuna. Essa è effetto della sua bontà, che è quella virtù per la quale la persona buona è portata a diffondere o a donare agli altri il bene che possiede, è portata a volere il bene degli altri, a fare del bene agli altri. In senso lato, la giustizia divina, secondo la Bibbia, è l’esercizio della sua bontà, della sua provvidenza e del suo amore verso tutte le creature; ma a noi adesso qui interessa la sua giustizia verso l’uomo. Essa comporta due aspetti fondamentali: la misericordia e la giustizia in senso stretto.

È verissimo quello che dice Kasper che la «misericordia è qualcosa di più della giustizia» (p.216). Essa è segno di una maggiore bontà e di un amore superiore. La giustizia esige il giusto e paga quel che è giusto. Essa non dà e non chiede nulla di meno, ma neanche nulla di più. Essa bada al proprio utile, al proprio vantaggio e tornaconto e mira al compenso per il lavoro fatto.

La misericordia fa sconti, dà più del dovuto e dei meriti dell’altro. Essa capisce meglio i bisogni dell’altro ed è più generosa nel soddisfarli. Essa va incontro spontaneamente al bisognoso, senza aspettare che sia lui a chiedere. Essa dona gratuitamente perché le piace donare.

La giustizia divina, secondo la Scrittura, ha due sensi: un senso ampio e un senso stretto. Nel senso ampio essa è l’esercizio della sua bontà, del suo amore e della sua provvidenza. Nel senso stretto è la retribuzione secondo i meriti; ai buoni il premio, ai malvagi il castigo. La misericordia opera il bene del misero oltre i meriti del misero, il quale non può sollevarsi da sé e non può pagare, restituire o esigere compenso. La giustizia è il dare a ciascuno ciò che gli spetta e che merita: il premio ai buoni e il castigo ai malvagi. Il giusto castigo è l’effetto della giusta severità.

In base a quanto detto, dobbiamo precisare che la giustizia divina non è solo quella giustificante o perdonante, non è solo la misericordia, come credeva Lutero e Kasper crede con lui, ma è anche quella, con la quale Dio fa giustizia, libera il misero dalle mani dell’empio e vendica le offese fatte ai giusti da parte dei malvagi, i quali, come avverte chiaramente Cristo, se non si pentono, vengono puniti con la pena del fuoco eterno.

Il Dio vendicatore non è, come credono i modernisti e i marcionisti, un «dio pagano», un «Dio precristiano», Dio dell’Antico Testamento, superato ed abolito dal «Dio di Gesù Cristo». Dio non muta. È ridicolo pensare che si trasformi o cambi look da cattivo in buono. Il Dio vendicatore è esattamente il Dio di Gesù Cristo, il quale appunto, a nome e con la potenza del Padre, è il Redentore, che in ebraico è il Goèl, che significa «vendicatore». Sulla base della Scrittura e del diritto naturale S.Tommaso dimostra che la giusta vendetta (vindicatio)[1] non è affatto un vizio, ma una virtù; non ha nulla a che vedere con l’odio, ma entra nella virtù della carità.

 Ecco l’amore del nemico, del quale parla il Vangelo. Esigere riparazione dal nemico che ci ha offeso non contrasta affatto col dovere del perdono, il quale però può avere ragion d’essere solo se l’offensore ovvero il nemico è pentito ed è disposto a riparare. Occorre, cioè, che da nemico diventi amico, riconoscendo il proprio torto e ed essendo disposto a pagare il proprio debito.

A questo punto possiamo e dobbiamo perdonare, ossia, come è detto nel Padre Nostro, «rimettergli il debito». Perdonare, quindi, non vuol dire passar sopra o lasciar correre nel senso di guardare benevolmente il torto che ci è stato fatto, salvo il dovere di scusare l’offensore se è scusabile. Amare il nemico non vuol dire amare il torto che ci ha ci ha fatto, ma saper vedere anche nel nemico dei lati buoni ed amabili. Il torto va odiato e riparato, se occorre, anche con una pena adeguata.

Kasper in questa delicata questione, riconduce ogni forma di vendetta alla vendetta ingiusta, per cui, per evitare l’odio e il ripagare il male col male, predica un perdonare sistematico e incondizionato, indipendentemente dal fatto che l’offensore sia pentito. Ciò appare chiaro dal fatto che egli oppone falsamente, come fosse un aut-aut, il perdonare al chiedere o far giustizia (cf p.213). Invece le due cose non si escludono vicendevolmente affatto. Non può essere veramente pentito ed essere perdonato, chi non è disposto a riparare il torto commesso. Non può esserci riconciliazione fra l’offeso e l’offensore, se questi non solo chiede perdono, ma è anche disposto a far penitenza.

Lo stesso comportamento lo ha il Padre verso di noi. Egli ci perdona, certamente, ma preliminarmente esige soddisfazione. Certo, chi paga il grosso del debito è suo Figlio, ma anche noi dobbiamo fare la nostra parte. Troppo comodo, come pretendeva Lutero, approfittare della gratuità della grazia, per rifiutarsi di pagare ameno uno spicciolo.

Non bisogna confondere il perdono del peccato con il condono della pena. L’assassino pentito del suo peccato viene perdonato da Dio, ma gli resta da saldare il conto con la giustizia umana. Kasper, con le sue idee confuse, finisce per prestare il fianco alle critiche di quei Heine, Nietzsche e Freud, che egli vorrebbe confutare.

Ma c’è da aggiungere una cosa ben nota e cioè che chi è buono, è portato ad amare gli altri e a far loro del bene. Ora Dio, bontà infinita, del tutto autosufficiente e beatissimo per il godimento della sua bontà, se avesse voluto, avrebbe potuto benissimo fare a meno di creare l’universo, perché esso non aggiunge nulla alla sua infinita bontà. Invece, proprio per questa bontà, ha voluto farlo. Ed è chiaro che lo ha fatto per amore. Dio dunque ama ciò che crea e lo ama perchè Egli è buono e il creato è buono. Se l’universo non fosse buono, Dio non lo avrebbe creato, perchè Dio non è capace di creare se non cose buone. E se Egli permette il peccato e lo castiga, anche ciò è espressione d’amore, perché può e vuole ricavare dal male un maggior bene.

Occorre dire invece che Dio è stato mal ripagato dall’uomo da Lui creato, il quale uomo, come sappiamo dalla Scrittura, col peccato originale, Gli ha procurato guai con tutto quello che ha combinato da allora fino ad oggi. Con linguaggio molto antropomorfico, la Bibbia paragona allora Dio ad un artigiano, che, deluso per il fatto che la sua opera non gli dà il risultato o quella soddisfazione che si attendeva, è tentato di distruggerla. Ecco la giustizia punitiva, nel senso della severità.

Dio ha avuto misericordia di noi perché potevamo essere salvati

Ma la Bibbia ci racconta, come sappiamo bene, che Dio nella sua infinita bontà, ha avuto pietà dell’uomo, anche perchè il peccato non lo aveva corrotto a un punto tale da essere irrecuperabile.  La natura, come dice il Concilio di Trento correggendo Lutero, non è rimasta totalmente corrotta, ma solo ferita e quindi guaribile e salvabile. Non può essere salvato ciò che non è salvabile. Una cosa irrecuperabile non la si conserva, ma la si getta via.

Se fossimo stati irrecuperabili, Dio ci avrebbe lasciati nell’eterna miseria, che giustamente avevamo meritato col peccato originale, similmente a come Egli ha trattato gli angeli ribelli, che ha castigati in eterno senza possibilità di redenzione, checché ne pensasse Origene, che evidentemente si riteneva più misericordioso di Dio.

E invece Dio ha voluto salvarci. E perchè? Perché eravamo salvabili. Ma come e perchè eravamo salvabili? Perché, nonostante la distruzione operata dal peccato, sono rimaste alcune forze sane, dalle quali si può ripartire e sulle quali si può far leva per ricostruire l’edificio, ossia l’organismo delle virtù. Per questo, esse possono e devono collaborare con l’opera della grazia. Ecco allora la grazia sanante e la giustizia divina giustificante, ossia la misericordia.

Per questo si fatica a capire come Lutero continui a dire che Dio ci salva, se, come egli stesso sosteneva, «in ogni opera buona il giusto pecca» (Denz.1481).
Chiariamo allora che cosa è la salvezza per Lutero. Si tratta di un concetto chiave della sua teologia, assieme a quello della giustificazione, che ne é la causa. In Lutero tutto ruota attorno al problema della salvezza.

In Lutero c’è bensì l’idea della salvezza come liberazione dalla morte fisica e da quella eterna, e della restituzione della grazia (sola gratia), ma non c’è l’idea della guarigione della natura e dello sforzo ascetico, perché per lui, come è noto, la natura non conserva neppur parzialmente delle forze morali sane.

Così la natura non è solo ferita, ma è del tutto malvagia e corrotta, sicché l’uomo pecca in continuazione.  Dio quindi,  seppur per mezzo della grazia, non restaura le forze alla natura, valendosi della  collaborazione delle forze sane che restano, ma l’acquisto della salvezza si esaurisce per Lutero nella recezione della grazia sia pur fondamentale, ma insufficiente, del battesimo, il quale dà sì vita di grazia a noi che siamo morti alla grazia (Col 3,3), ma non è niente più che un semplice dono della grazia ad una natura, nella quale resta non solo la tendenza a peccare, il che è vero, ma resta il peccato come tale – peccatum permenens -, oltre al fatto che Lutero, considerando i comandamenti come facoltativi (Denz. 1568-1570), introduce una forma di relativismo morale, per il quale il soggetto non ha più obblighi assoluti, ma agisce come gli pare davanti a un Dio, che benevolmente approva, non castiga e non interviene, perché, per dirla con Bonhöffer, non è un Dio «tappabuchi» e nella sua «misericordia» ha promesso la salvezza, mentre col pretesto della libertà «cristiana», ognuno si costruisce una morale soggettiva, ritenendosi sempre e comunque guidato dall’impulso dello Spirito Santo.

La misericordia divina è solo un aspetto della bontà divina,
ma l’altro è la giustizia.

Per concepire correttamente gli attributi divini, al fine di non andare fuori strada, non dobbiamo lasciarci prendere dalla fantasia, dal sentimento o dall’emozione, ma, sebbene questi attributi superino infinitamente la finitezza della nostra ragione, dobbiamo avvalerci, sull’esempio di San Tommaso della più rigorosa razionalità. Ora l’attitudine alla misericordia in noi è strettamente legata all’emotività o alla commozione, passioni che possono sorgere spontaneamente, soprattutto in soggetti sensitivi, senza un adeguato giudizio razionale. 

Per questa nostra tendenza a giudicare in base al sentimento o all’emozione più che in base al ragionamento, siamo portati ad associare la bontà alla misericordia; mentre ci riesce ostico associarla alla giustizia, soprattutto poi se è punitiva. Se invece ragioniamo lucidamente e con oggettività, senza lasciarci trasportare dall’emozione, ci accorgiamo che non c’è nessun motivo per negare alla severità, purché, s’intende, moderata, l’attributo della bontà. 

Che cosa è infatti la bontà morale? Non è altro che il volere il bene dell’altro. E nulla impedisce, come insegna l’esperienza dei grandi educatori, pastori e Santi, che una moderata severità faccia del bene alla persona alla quale viene applicata. Ora la Scrittura ci mostra in lungo e in largo la somiglianza di Dio con un buon pastore o un buon sovrano o un buon padre o un buon educatore. Naturalmente occorrerà fare le dovute differenze, ma la somiglianza è innegabile, ed è fondamentale per capire come Dio si comporta con noi.  Egli infatti è come un buon educatore, che sa alternare la misericordia alla severità.
 
L’educatore umano può sbagliare nel dosaggio delle due virtù. Vi può essere in lui troppa accondiscendenza o indulgenza, la quale crea dei rammolliti incapaci di affrontare il sacrificio. Invece l’eccessiva durezza e il rigorismo creano degli scrupolosi e dei neurotici. 

Misericordia e giustizia non possono essere esercitate simultaneamente, perché sono opposte tra di loro, come il calorifero e il ventilatore. Dio invece è infallibile nell’usare ora misericordia, ora severità. Tutte e due sono manifestazioni della carità divina, perché entrambe vogliono il bene degli uomini: la prima dando al di là del merito; la seconda, secondo il merito. 

Tuttavia, osserva giustamente Kasper, non possono fare a meno l’una dell’altra: «la misericordia senza la giustizia è la madre della dissoluzione» (p.263). Ed egli spiega bene, nel corso del suo libro, per converso, che la giustizia senza la misericordia, è la madre del legalismo, del fariseismo, della rigidezza inesorabile, fino a giungere alla crudeltà, secondo quel motto che è già noto ai Latini: summum ius, summa iniuria.

La giustizia dà il compenso al lavoratore per il lavoro compiuto. La misericordia dona gratuitamente al misero che non può pagare. La giustizia punisce il malfattore. La misericordia perdona al peccatore pentito. La giustizia elargisce o esige il compenso al quale si ha diritto. La misericordia dona la grazia che viene implorata. La giustizia dà secondo il merito. La misericordia dona al di là del merito. La giustizia corrisponde al dovere, la misericordia alla generosità. Il misericordioso ha compassione e dà in dono; il creditore esige il pagamento del debito. Il misericordioso perdona e assolve; il giusto condanna e premia.

Occorre aggiungere che la misericordia divina, per quanto sia una virtù eccelsa, non entra affatto nell’essenza divina come tale. La bontà è un attributo essenziale di Dio, ma per potersi manifestare come giustizia e misericordia, occorre il mondo, che è effetto libero e contingente dell’azione creatrice divina. Infatti la misericordia divina presuppone l’esistenza non solo dell’uomo, ma anche dell’umana miseria, appunto bisognosa di misericordia.

Quanto alla giustizia, essa presuppone la malvagità umana. Se tutti fossero buoni e miseri, basterebbe la misericordia. Se Dio non avesse creato il mondo, non avrebbe avuto bisogno di esercitare la misericordia. Ma non ne avrebbe avuto bisogno neppure se l’uomo non avesse peccato, giacché Dio non avrebbe avuto miseri da sollevare.

Importante inoltre è il richiamo di Kasper alla virtù dell’epièikeia, teorizzata da Aristotele e ripresa da S.Tommaso[2]. La potremmo chiamare «equità». Essa corrisponde alla clementia dei Latini. Egli la motiva bene dicendo che

«le legge generali non possono mai adeguatamente tener conto di tutti i singoli casi, che sono molto complessi. Perciò l’epikèia deve riempire i vuoti e, nella sua qualità di giustizia superiore, non abolire la norma giuridica nel singolo caso, ma applicarla in modo così prudente, che l’applicazione diventi nel singolo caso realmente giusta e non di fatto ingiusta» (p.263).

Occorre precisare però che l’eccezione alla regola vale per la legge umana o ecclesiastica, che ha un carattere convenzionale, ma non per la legge naturale e la legge divina, perché, mentre la legge umana per questa sua convenzionalità, è elastica e non può prevedere tutti i casi possibili, le altre leggi sono immutabili e valide in tutti i casi, perché sono norme di valore ontologico universale, sicché tutti i casi non sono altro che l’attuazione di questo universale.

L’eccezione è motivata dalla necessità di soprassedere alla lettera della legge, per cogliere la mente del Legislatore. In questi casi si realizza una giustizia superiore, che si avvicina alla ricchezza della misericordia, come per esempio il fedele, che, per assistere ad un ammalato, salta il dovere della Messa domenicale. La norma del Messa domenicale è una legge ecclesiastica, mentre la legge della carità è una legge che non ammette eccezioni.

Aggiungiamo che secondo la Bibbia, la misericordia può attenuare, rimandare o togliere i castighi temporali irrogati dalla giustizia. Ma con tutto ciò, la rivelazione biblica, confermata dalla dottrina della Chiesa[3], ci insegna che «non tutti si salvano»[4]. Kasper, quindi, non è del tutto fedele alla Bibbia e al Magistero della Chiesa, quando afferma che l’esistenza di dannati non è un dato di fatto, ma una semplice «possibilità reale» (p.167). Osservo che Cristo non «minaccia» (ibid.) soltanto l’inferno per i malvagi, ma lo prevede come un fatto. Non si deve dire con Kasper che «non possiamo sapere se tutti si salveranno» (p.169). Se vogliamo essere ortodossi, dobbiamo invece dire: «sappiamo che non tutti si salveranno».

Inoltre, la misericordia del Padre svolge una funzione di primaria importanza nel sacrificio redentore di Cristo, il quale ripara all’offesa fatta al Padre dall’uomo peccatore pentito. Infatti il Padre ha avuto pietà di noi ed ha voluto riconciliarsi con noi. Ma ha espresso questa misericordia nel darci la possibilità, grazie al sacrificio di Cristo, di soddisfare per il peccato e così placare l’ira divina. Per questo, il sacrificio della Messa, come dice il Concilio di Trento, è «propiziatorio» (Denz.1743), mentre il sacrificio di Cristo è «soddisfattorio» (Denz.1529). 

Kasper pertanto sbaglia quando definisce «diffuso malinteso» (p.114) la dottrina del Concilio che insegna che il sacrificio di Cristo «placa l’ira divina» (ibid.). Egli sostiene che il Padre, «volendo per compassione la morte del proprio Figlio, trattiene la propria ira e fa così spazio alla propria misericordia e, in tal modo, alla vita» (ibid.). 

Mi domando che «compassione» sarebbe quella di volere la morte del Figlio. Però il Padre non ha voluto la morte, ma il sacrificio del Figlio. È una cosa ben diversa, anche se il sacrificio ha richiesto la morte di Cristo. Ma nelle cose occorre guardare all’aspetto formale, non a quello materiale. Altrimenti potrei dire invece di «Napoleone a cavallo», «il cavallo che porta Napoleone». Kasper fa apparire il Padre come un assassino, oltre a qualificare il deicidio come «compassione». Qui non siamo nel «concetto fondamentale del Vangelo», ma nella crudeltà della dialettica hegeliana.

 Inoltre la misericordia divina si manifesta nel dono della grazia santificante, che purifica, perfeziona, eleva e fortifica le opere della natura umana, sicché l’uomo in grazia  è in grado con le sue opere di meritare il paradiso. Che poi la grazia sia gratuita e che debba essere meritata con le buone opere e l’obbedienza alla legge non son due cose che si escludono a vicenda, perché il merito è l’effetto della grazia e quando il soggetto è in grazia può e deve, se vuol salvarsi, crescere in grazia mediante le buone opere. In tal modo Dio retribuisce per giustizia, ma le opere dell’uomo sono rese meritevoli dalla sua misericordia.

Che Dio doni a tutti la sua misericordia e che essa sia infinita non vuol dire che questo dono non sia condizionato dalla libera condotta di ciascuno, perché ognuno ha la facoltà di accoglierla o di respingerla e, benché essa di per sé sia infinita, ognuno ne riceve tanta quanta ne merita, benché però Dio si riservi di donarne anche al di là del merito. Il fatto che Dio alterni la sua misericordia alla sua severità dipende dal fatto che gli uomini esercitano il libero arbitrio, chi obbedendo a Dio, chi disobbedendo.

Kasper concepisce la misericordia divina in modo giusto, ma astratto ed avulso da come essa effettivamente si realizza nella storia umana raccontata ed interpretata dalla Scrittura. Infatti è vero, che in linea di principio, «de potentia absoluta», come dicono i teologi, se Dio avesse voluto, avrebbe potuto far misericordia a tutta l’umanità, anche senza il sacrificio del Figlio. 

Ma in realtà e di fatto la vera misericordia di Dio non è questa. Dio non usa sempre e solo misericordia, ma fa anche giustizia e castiga i malvagi. Né ha senso ridurre la giustizia alla misericordia, perché sono due virtù opposte in alternanza l’una all’altra e condizionantesi a vicenda: la giustizia limita la misericordia e questa supera la giustizia. Per questo, il ridurre la misericordia al suo solo concetto astratto ed astorico, come fa Kasper, vuol dire di fatto falsificarla e spingere a pascersi della comoda illusione di Lutero di poter peccare liberamente nella certezza che comunque Dio perdonerà.

La realtà è che, stando alla situazione di fatto ed alla storia dell’umanità, così come ce la narra la Bibbia, non tutti si aprono al flusso della misericordia, che di per sé Dio versa su tutti, ma alcuni, attaccati ai loro peccati, bloccano in sé stessi questo flusso impedendogli di produrre i suoi effetti benèfici. Costoro pertanto possono ma non vogliono essere perdonati, per cui restano soggetti al castigo divino.

Kasper pertanto male interpreta la novità del Vangelo lasciandosi influenzare dall’eresia di Marcione[5], quando afferma: 

«La novità del messaggio rispetto all’Antico Testamento sta nel fatto che Cristo predica la misericordia di Dio in maniera definitiva e per tutti. Non solo a pochi giusti, ma a tutti egli dischiude la via di accesso a Dio, per tutti c’è posto nel regno di Dio, nessuno è escluso. Dio ha messo definitivamente a tacere la propria ira e ha fatto spazio al suo amore e alla sua misericordia» (p.103).

Qui Kasper evidentemente identifica e confonde la possibilità della salvezza in quanto realizzata da Cristo e da Lui offerta a tutti con un inesistente fatto che tutti si salverebbero in quanto perdonati dalla divina misericordia. Ma ciò non corrisponde assolutamente alla verità insegnata da Cristo[6] e dalla Chiesa (cf Denz. 623, 1523 e 1540). È vero, quindi, che «a tutti egli dischiude la via di accesso a Dio, per tutti c’è posto nel regno di Dio, nessuno è escluso». Ma il fatto è che non a tutti interessa accedere a Dio ed avere un posto nel suo regno, perché magari non credono neanche nell’esistenza di Dio. E questi dove finiscono?

La realtà è, come spiega bene la Lettera agli Ebrei, che il Dio del Nuovo Testamento è ancora più severo di quello dell’Antico Testamento, proprio perchè qui è più misericordioso. È giusto infatti che venga castigato maggiormente chi è ingrato per un beneficio maggiore. Sentiamo infatti l’avvertimento che ci dà la Lettera

«Se pecchiamo volontariamente dopo aver ricevuto la conoscenza della verità, non rimane più alcun sacrificio per i peccati, ma soltanto una terribile attesa del giudizio e la vampa di un fuoco che dovrà divorare i ribelli. Quando qualcuno ha violato la Legge di Mosè, viene messo a morte senza pietà sulla parola di due o tre testimoni. Di quanto maggior castigo allora pensate che sarà ritenuto degno chi avrà calpestato il Figlio di Dio e ritenuto profano quel sangue dell’Alleanza, dal quale è stato un giorno santificato e avrà disprezzato lo Spirito della grazia?» (10,26-31). 

Altro che misericordia!

Fontanellato, 26 aprile 2020

FINE SECONDA PARTE


[1] Sum.Theol., II-II, q.108.
[2] Sum.Theol., II-II, q.120.
[3] Cf il mio libro L’inferno esiste. La verità negata, edizioni Fede&Cultura, Verona
[4] Concilio di Quierzy dell’853, Denz.623; Concilio di Trento, Denz.1523.
[5] Marcione è un teologo gnostico del sec.II, imbevuto di dualismo iranico, il quale sosteneva che mentre il Dio dell’Antico Testamento è un Dio irascibile, bellicoso, vendicativo e punitore, il Dio del Nuovo è pietoso, dolce, misericordioso, perdonante e pacifico. Ma fu condannato più volte per eresia (cf Denz.112, 435, 454, 1339).
[6] Cf il mio libro L’inferno esiste. La verità negata, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010.

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