La creazione divina secondo Gustavo Bontadini - Quinta Parte (5/5)

 La creazione divina secondo Gustavo Bontadini

 Quinta Parte (5/5)

Per Hegel la contradditorietà del divenire

non infirma il principio di identità

Hegel, dopo aver notato che «il puro essere degli Eleati e la loro dialettica distrugge tutti i rapporti finiti»[1] e che per loro «il mondo è in se stesso parvenza e soltanto il puro essere è vero»,

«il progresso necessario, afferma, consiste nell’essere Eraclito passato dall’essere come primo pensiero immediato alla determinazione del divenire, come secondo termine; abbiamo così il primo concreto, l’Assoluto, in quanto in esso si realizza l’unità degli opposti. Mentre dunque il ragionare di Parmenide e di Zenone era puro intelletto astratto, in Eraclito incontriamo per la prima volta l’Idea filosofica nella sua forma speculativa; perciò egli fu sempre ritenuto, e talora anche denigrato, come filosofo profondo. Qui vediamo finalmente terra: non v’è proposizione d’Eraclito ch’io non abbia accolto nella mia Logica»[2].

Hegel loda Eraclito per aver colto

«l’essenza dell’Idea, il concetto dell’Infinito, di ciò che è in sé e per sé, concependolo come è, unità degli opposti. Per primo enunziò la profonda frase che “l’essere e il non essere sono la stessa cosa; tutto è e anche non è”. Il vero è l’unità di nettamente opposti, e precisamente della pura opposizione di essere e non essere; invece presso gli Eleati si aveva soltanto la tesi dell’intelletto astratto, che soltanto l’essere è vero. Noi ci associamo con l’affermazione di Eraclito, che l’Assoluto è unità dell’essere e del non essere»[3].

E aggiunge:

«È stata una grande conquista quella d’aver riconosciuto che l’essere e il non essere sono astrazioni senza verità e che il primo vero è soltanto il divenire. L’intelletto isola quei due termini come veri e validi; la ragione invece riconosce l’uno e l’altro, che nell’uno è contenuto il suo altro. Se non assumiamo la rappresentazione dell’ente concreto, l’essere puro è il pensiero semplice, in cui ogni determinazione viene negata, il negativo assoluto; ma anche il niente è lo stesso, è questo identico a se stesso. In Eraclito abbiamo un passaggio assoluto nell’opposto, passaggio al quale non pervenne Zenone, che si fermò alla tesi che “da niente non diviene niente”[4]. Invece in Eraclito il momento della negatività è immanente: è conquistato così il concetto dell’intera filosofia»[5].

Per Hegel l’intelletto, astraendo, coglie il semplice, l’identico, ma lo isola e lo separa dall’altro. Separa l’essere dal non-essere. Questa sarebbe una posizione unilaterale. Questo è il parmenidismo. La ragione, invece, rappresentata da Eraclito, coglie l’insieme, il tutto, l’intero e quindi collega l’uno all’altro, la tesi all’antitesi ed opera la sintesi. Questo, per Hegel è il vero, il reale, il concreto, che è divenire.

Hegel constata che nel diveniente c’è l’essere come il non essere. Riferendoci all’esempio di Aristotele, nella statua di Ermete in via di esecuzione c’è Ermete in potenza e non c’è Ermete in atto, Hegel non usa i concetti di atto e potenza, ma probabilmente con la categoria dell’essere e del non essere vuol dire la stessa cosa. Per questo Hegel dice che la contraddizione costituisce l’ente in divenire. E non occorre affatto toglierla, perché se no, non si coglierebbe più la verità.

In questo senso egli dice che il divenire nasce dall’unità dell’essere col nulla. Ma è chiaro che l’essere determinato non è il nulla determinato. In tal senso si può dire che Hegel rispetta il principio di non-contraddizione: l’uomo non è una casa, come egli stesso dice.

Tuttavia Hegel non ci dà abbastanza garanzie di rispettare questo principio, perché resta il fatto che egli pone la contraddizione nell’essere, in quanto concepisce l’essere non come analogo, ma come vuota astrazione. Dunque essere e nulla si identificano e ad un tempo si oppongono. Ecco allora il divenire. Resta però sempre il fatto che, mancando l’uso dei concetti di potenza ed atto, appare difficile comprendere l’identità del diveniente, per cui il divenire in Hegel è incompatibile col rispetto del principio di identità.

Ma ciò non gli crea problema, perché egli concepisce questo principio, come abbiamo visto, così da renderlo compatibile con la contraddizione. Quindi anche Hegel concepisce il divenire come contradditorio. Ma non per questo si accorda con Parmenide, perché mentre questi lo respinge in nome del principio di identità, Hegel lo accoglie secondo il suo modo di intendere il medesimo principio.

Hegel non ha problema a sostenere che l’essere è contradditorio e che coincide col nulla, perché per Hegel è la stessa ragione ad essere dialettica, cioè a congiungere il sì col no. Così per lui la ragione ritrova se stessa nella realtà perché è la stessa realtà ad essere dialettica. Per lui il divenire, che è contradditorio, non ripugna affatto alla ragione, perché la ragione stessa non si fonda sull’affermazione, ma sulla negazione.

Non è adeguandosi, ma contraddicendo che la ragione coglie il vero, perché il vero per Hegel non sta nel semplice sì, ma nella congiunzione del sì col no. Anche Hegel sente il bisogno di togliere il contradditorio, ma lo fa partendo dalla negazione e non dall’affermazione. Per lui la negazione entra nella natura stessa del procedere della ragione e dello spirito e, ben lungi dal provocare l’errore o essere segno dell’errore, è la via necessaria per cogliere il vero e l’essere, che è appunto autocontradditorio, ossia divenire, «unità dell’essere e del nulla», l’essere-divenire di Eraclito.

Per questo e in tal senso Hegel dice che «il vero è l’intero», ossia è la congiunzione dell’affermazione con la negazione, esattamente il contrario dell’affermazione dell’essere e della negazione del non-essere prescritta da Parmenide, corrispondente all’affermazione del solo sì, della quale parla San Paolo (II Cor 17-20) e al comando di Cristo di dire sì a ciò che è sì e no a ciò che è no (Mt 5,37) evitando così di servire a due padroni (Mt 6,24), le «due teste» delle quali parla Parmenide, ossia evitando la doppiezza.

Il tutto hegeliano non è quindi il tutto implicito nel concetto aristotelico, analogico dell’ente, differenziato, pluriforme nell’identità con se stesso. Non è neppure il tutto parmenideo, uno, unico, univoco, semplice ed eterno. Ma è un tutto in intimo contrasto con se stesso, nel quale la dualità di essere e non-essere che lo divide provoca un eterno conflitto interiore, è la medesima dualità di due poli opposti, che si attirano reciprocante, passando l’uno nell’altro, e così creano l’unità, la sintesi, la quiete, l’identità del Tutto.

Per questo, per Hegel il dire che l’Assoluto è l’Essere, quanto il dire che è il Nulla, sono due definizioni dell’Assoluto[6], da cui risulta che l’Assoluto è Essere e Nulla. Hegel distingue l’essere indeterminato o astratto dall’essere determinato o concreto e dice che sul piano dell’indeterminato l’essere coincide col nulla. Invece essere e nulla si oppongono sul piano del concreto: un uomo non è una casa.

Hegel si accorge che il parmenidismo porta al panteismo e alla negazione del divenire e della creazione dal nulla col sostenere che dal nulla non proviene nulla:

«La vera e propria importanza della proposizione: dal nulla non viene nulla, sta nell’opposizione sua contro il divenire e con ciò anche contro la creazione del mondo dal nulla. Coloro che vanno fino a riscaldarsi per affermare la proposizione che il nulla è appunto nulla non si accorgono che con ciò aderiscono all’astratto panteismo degli Eleati e, sostanzialmente, anche a quello spinozistico. La veduta filosofica, per cui vale come un principio che è l’essere è soltanto essere e il nulla è soltanto nulla, merita il nome di sistema dell’identità. Questa identità astratta è l’essenza del panteismo»[7].

È encomiabile l’acutezza di giudizio di Hegel circa il panteismo parmenideo. Tuttavia ciò non impedisce ad Hegel di essere egli stesso panteista per un altro verso; se egli rifiuta giustamente del panteismo parmenideo dell’essere, non disdegna affatto, anzi è il sommo sostenitore del panteismo del divenire.

E come mai accade questo? Perché mentre il Dio di Parmenide è l’Eterno che rifiuta il temporale, il Dio di Hegel è il Temporale che rifiuta l’eterno.  Ma in fin dei conti Hegel viene a combaciare con Parmenide nel principio idealistico parmenideo: «la stessa cosa è il pensare e l’essere». Importa poco che l’oggetto del pensare sia eterno come temporale o temporale come eterno.

Nel sistema di Hegel l’essere può identificarsi col nulla perché Hegel si pone sul piano dell’ente di ragione, che per lui s’identifica con l’essere reale («il razionale è il reale»). Per questo in Hegel è possibile l’identità dell’essere e del non-essere senza mancare al principio di identità, perché si tratta dell’identità dell’essere di ragione e non di quello reale.

Difatti nell’orizzonte dell’ente di ragione gli opposti si collocano sempre nell’orizzonte dell’ente di ragione e si richiamano a vicenda. Infatti per definire il nulla occorre il concetto dell’essere, ma anche per definire l’essere occorre il concetto del nulla. Così Hegel ottiene un sistema unitario pur violando sul piano della realtà il principio di non-contraddizione.

Severino comincia con Parmenide finisce con Hegel

Come in Hegel, il tanto bistrattato divenire, scandalo della ragione e stoltezza del dogma cristiano, ricompare in Severino più che mai nelle vesti dell’Assoluto e all’interno dello stesso Assoluto, sulle orme di Hegel. Non abbiamo più adesso il puro essere di Parmenide, opposto al non-essere. Abbiamo un essere talmente comprensivo da includere in sé anche il non-essere.

Nel tentativo di recuperare il divenire, Severino sembra rinunciare al «tutto è uno» di Parmenide, sorgente del buonismo universale ripreso da Origene ed oggi di moda. Si rende conto che tale buonismo ignora l’esistenza del non-essere e del male. Ma per trovare un luogo metafisico al non-essere e al male, anziché continuare ad opporre essere e non-essere, si rifugia nella dialettica hegeliana della inseparabilità dell’essere e del nulla, del bene e del male.

In tal modo Severino, per togliere la «prima contraddizione», quella del divenire e la «seconda contraddizione», quella dell’apparire (il nascosto non appare, appare e non appare), rimedio insufficiente alla prima, fissa una terza contraddizione, quella «fondamentale»[8]. Dunque essere e nulla si richiamano a vicenda, dunque niente essere senza il non-essere, niente bene senza il male, «niente vita senza morte», come recita una sentenza della massoneria esoterica. Il Dio di Severino ha nella sua essenza la coesistenza dell’essere col nulla, del bene col male, della vita con la morte.

Dunque in Severino, tutto è uno, tutto è eterno, tutto è adesso, tutto è immutabile, tutto è bene. Ma tutto vuol dire essere e non essere, vero e falso, bene e male, essere e divenire. E il principio di non-contraddizione che fine ha fatto? Semplice: basta intenderlo come lo intende Hegel. Esso non è altro che  l’«identità dell’identità con la non-identità». In tal modo Severino pensa di salvare l’istanza dell’eternità e di spiegare nel contempo l’esistenza del divenire e del male. Tutto è essere perché l’essere è la sintesi di essere e nulla. Tutto è bene, perché il bene è la sintesi di bene e male.

Tuttavia, a Severino, che vorrebbe restare parmenideo, e quindi continuare a parlare dell’unità ed eternità dell’Essere, manca la franchezza di un Hegel, il quale, più sensibile ad Eraclito, non ha scrupoli a sostenere che l’Assoluto è Storia, mentre Severino non sa staccarsi da Parmenide, il primo amore. Egli, pertanto, per conciliare essere e divenire non trova altra soluzione che parlare di un Divenire Eterno. Ma l’Eterno deve restare. Hegel, invece, che non ignora del tutto Parmenide[9], ma preferisce Eraclito, parla di un eterno Divenire, inteso esattamente come essere che non è, quindi tutto l’opposto di come Parmenide intende l’essere.

Chi vuol fare metafisica contro il tomismo finisce per cadere nella rete di Hegel. Infatti nel formarci la nozione dell’essere, oggetto della metafisica, noi siamo davanti ad un’alternativa ineludibile: o l’analogicità o l’univocità-equivocità.  O la nostra mente sta aperta all’essere, che, fuori della nostra anima, ci sta davanti (ob-jectum), assumendo l’umile disposizione di accoglierlo così com’è e di adeguare a lui il nostro pensiero, sì da pensarlo così com’è; oppure ci chiudiamo nelle nostre idee e nei nostri concetti rigidi e preconfezionati, con la pretesa che sia la realtà a entrare nei nostri schemi mentali, anziché rendere loro docili immagini e rappresentazioni del reale. Avremo la magra soddisfazione di aver costruito un bel sistema, ma con quale vantaggio se il reale resta fuori?

Conclusione

Ci possiamo chiedere quali sono stati i frutti e gli effetti della lunga diatriba fra Bontadini e Severino, che ha attirato l’interesse di molti filosofi italiani a partire dagli anni ’60 del secolo scorso coinvolgendoli in un’intricata discussione in una problematica certo di primaria importanza, quale quella metafisica con riferimento ai grandi temi dell’esistenza di Dio e della creazione.

Il dibattito nacque all’interno dell’Università Cattolica di Milano, dalla quale ci si sarebbe attesi, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, che aveva inteso dare un rinnovato slancio alla filosofia e teologia cattoliche, una più forte sollecitazione alla ragione a indagare sui fondamenti primi della realtà,  una maggior forza nel sensibilizzare gli spiriti alla domanda circa l’origine dell’universo, un più efficace stimolo alla gente a interrogarsi sul senso dell’esistenza e della vita, una rinnovata sollecitazione alla ricerca di Dio, una migliore comprensione del senso dell’essere, una maggiore capacità persuasiva nel condurre le menti alla scoperta dell’esistenza di Dio e nel fornire prove certe della sua esistenza.

Bontadini e Severino non sbagliarono nel fare attenzione a Parmenide: il suo senso dell’essere uno, necessario, eterno, immutabile e totale era un potente richiamo ad un ambiente filosofico dominato dall’empirismo, dal positivismo, dal materialismo, dallo storicismo, dal relativismo. Dannoso era invece il legame con l’idealismo di Gentile, che rimandava ad Hegel.

Eccessivo fu tuttavia nei due l’entusiasmo e la fiducia per Parmenide, come se i suoi princìpi non fossero presenti, purificati e meglio fondati, in San Tommaso, raccomandato dallo stesso Concilio. Bontadini, come abbiamo visto, seppe dove fermarsi nell’assunzione dell’essere di Parmenide, onde conservare la sua fede cattolica. Severino invece bevve il veleno fino in fondo, fino a perdere la fede.

Ora l’istanza di promuovere una teologia che abbia fondamenti metafisici è oggi più che mai attuale. Pochi o pochissimi oggi concepiscono Dio nella categoria del puro atto d’essere, come Colui Che E’, Io Sono, ipsum Esse per Se subsistens, Essere fatto persona.

Inoltre è accaduto che la diatriba  tra i due, al di là delle loro intenzioni, è stata così aggrovigliata, carente di certe nozioni metafisiche che sarebbero state necessarie alla chiarezza e precisione di temi già di per sé ardui ed oscuri, per evitare contraddizioni, improprietà di linguaggio e ambiguità, che presso molti ha finito per screditare quella metafisica, che, se oggi ha una necessità più che mai urgente, è quella di saper rendersi comprensibile e interessante agli spiriti di molti per non dire di moltissimi.

L’attacco insistente e scriteriato alla supposta «contradditorietà» del divenire, cioè, in ultima analisi, ai valori sensibili, mutevoli, storici e temporali di questo mondo, nella falsa convinzione che la mente umana abbia un’intuizione immediata dall’assoluto, così che l’affermazione dell’esistenza di Dio sarebbe la confutazione o dissolvimento di quella contradditorietà, non è assolutamente tale da persuadere i nostri contemporanei, i quali, se hanno una convinzione apprezzabile, feconda di risultati pratici, è proprio la percezione della dignità dei valori terreni.

La questione dell’esistenza di Dio è ben impostata e dà garanzie di valida soluzione, solo se non si ci si ritrae inorriditi o disgustati davanti a una supposta contradditorietà del divenire, ma proprio quando lo si sa apprezzare in tutto il suo valore ed insieme nei suoi i limiti, mettendo in atto il ragionamento induttivo, che, partendo dall’effetto, ne afferma la causa sufficiente. Se tanto vale il mondo, quanto più grande sarà il suo creatore. E se è limitato, allora vuol dire che non può essere adorato come Dio.

Il paragonare la dimostrazione dell’esistenza di Dio creatore alla soluzione di un’apparente contraddizione come se fossimo sul piano della logica o delle essenze, dei concetti e non della realtà, ossia dell’essere, vuol dire mancare del senso della realtà, che qui è più che mai necessario perché si tratta precisamente di trovare l’origine, il principio e la causa di tutta la realtà. L’essere che qui consideriamo dev’essere l’essere reale, non l’ente di ragione logico. 

Non ha senso, quindi, voler accantonare, come vuole Bontadini, la causalità efficiente e il moto, come se si trattasse di un problema di logica o di matematica, giacchè è evidente che qui gli enti non muovono o non sono mossi, a differenza degli enti naturali, fisici e spirituali, che agiscono, causano, producono, muovono e sono mossi, insomma divengono.

Il rischio dell’uomo moderno, sedotto dalle conquiste della scienza e della tecnica, orgoglioso delle sue capacità fisiche e spirituali, adoratore della natura e dell’universo, non è certo il platonico medioevale o l’asceta origenista, che vede la materia come un essere-che-non-è. Ma al contrario è spesso un materialista, che non vede nel divenire alcuna contraddizione, così da sentire il bisogno di fuggire nell’iperuranio dell’eterno, ma semmai lo si deve esortare, come fa il libro della Sapienza, a non idolatrare se stesso e il mondo:

 

«Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio, e dai beni visibili non riconobbero Colui Che È, non riconobbero l’artefice, pur considerandone le opere. … Se stupiti per la loro bellezza, li hanno presi per dèi, pensino quanto è superiore il loro Signore, perché li ha creati lo stesso autore della bellezza. Se sono colpiti dalla loro potenza e attività, pensino da ciò quanto è più potente colui che li ha formati.

 

Difatti dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’autore.  … Occupandosi delle sue opere, compiono indagini, ma si lasciano sedurre dall’apparenza, perché le cose vedute sono tanto belle. Neppure però sono scusabili, perché se tanto poterono sapere da scrutare l’universo, come mai non ne hanno trovato più presto il padrone?» (Sap 13, 1-9). 

Nello stesso tempo Bontadini non persuade quando vorrebbe dimostrare un Assoluto trascendente sulla base di una gnoseologia che chiama «dualismo» il realismo e sostiene che l’essere non è esterno al pensiero e non trascende il pensiero. Questo Essere assoluto, infatti, esistente in quanto pensato dall’uomo, un trascendente immanente alla coscienza dell’uomo, non può essere il vero Trascendente creatore dell’uomo, ma sarà un prodotto della mente dell’uomo e l’uomo non sarà più creato da Dio, ma sarà Dio ad essere creato dall’uomo.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 2 gennaio 2023

È encomiabile l’acutezza di giudizio di Hegel circa il panteismo parmenideo. Tuttavia ciò non impedisce ad Hegel di essere egli stesso panteista per un altro verso; se egli rifiuta giustamente del panteismo parmenideo dell’essere, non disdegna affatto, anzi è il sommo sostenitore del panteismo del divenire.

Hegel viene a combaciare con Parmenide nel principio idealistico parmenideo: «la stessa cosa è il pensare e l’essere». Importa poco che l’oggetto del pensare sia eterno come temporale o temporale come eterno.

Nel sistema di Hegel l’essere può identificarsi col nulla perché Hegel si pone sul piano dell’ente di ragione, che per lui s’identifica con l’essere reale («il razionale è il reale»).

Nell’orizzonte dell’ente di ragione gli opposti si collocano sempre nell’orizzonte dell’ente di ragione e si richiamano a vicenda. Infatti per definire il nulla occorre il concetto dell’essere, ma anche per definire l’essere occorre il concetto del nulla.

Come in Hegel, il tanto bistrattato divenire, scandalo della ragione e stoltezza del dogma cristiano, ricompare in Severino più che mai nelle vesti dell’Assoluto e all’interno dello stesso Assoluto, sulle orme di Hegel. Non abbiamo più adesso il puro essere di Parmenide, opposto al non-essere. Abbiamo un essere talmente comprensivo da includere in sé anche il non-essere.

Il Dio di Severino ha nella sua essenza la coesistenza dell’essere col nulla, del bene col male, della vita con la morte.

Dunque in Severino, tutto è uno, tutto è eterno, tutto è adesso, tutto è immutabile, tutto è bene.

Immagini da Internet: Hegel e E. Severino


[1] Lezioni sulla storia della filosofia, Editrice La Nuova Italia, Firenze 1995, p. 306.

[2] Ibid., p.307.

[3]Ibid., p.311.

[4] Bontadini lo cita sotto questa forma: ex nihilo nihil fit.

[5] Hegel, op.cit., p.312.

[6] Enciclopedia, op.cit., pp.91-92.

[7] Scienza della logica, Edizioni Laterza, Bari 1984, pp.72-73.

[8] A.Postorino, art.cit., pp.263,265-267.

[9] Hegel lo cita nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Edizioni Laterza, Bari 1963, p.91.

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