Da Hegel a Marx - Il passaggio storico dal panteismo all’ateismo attraverso Feuerbach - Terza Parte (3/5)

 Da Hegel a Marx

Il passaggio storico dal panteismo all’ateismo

attraverso Feuerbach

Terza Parte (3/5)

L’ateismo di Feuerbach

Feuerbach[1]  affetta un amore per l’uomo fondato sull’ateismo e non s’accorge che il vero amore del prossimo è fondato sull’amore per Dio suo creatore e sua immagine. È impossibile amare il prossimo se non si ama Dio, né vero amore del prossimo è farne un dio. Odiare Dio porta logicamente ad odiare il prossimo, suo creatore e sua immagine. Se uno ama veramente il prossimo, vuol dire che ama Dio che lo ha creato a sua immagine e somiglianza.

Il fatto è che Feuerbach ha una concezione materialistica dell’uomo. Amare l’uomo come fosse un animale, senza badare ai suoi bisogni spirituali, non è vero amore per l’uomo. Amare l’altro solo con le passioni non è vero amore per l’altro. Da Hegel Feuerbach avrebbe potuto apprendere la dignità e il valore dello spirito. E invece, sia pur giustamente irritato dalla sua gnoseologia idealista che riduce l’essere all’essere pensato, la materia alla materia pensata, e l’amore all’amore pensato, Feuerbach reagisce con un realismo sensuale ed emotivo, che ritrova sì la materia, ma ne esagera l’importanza, cadendo nell’eccesso opposto di porla al di sopra dello spirito. E Marx erediterà proprio questa concezione materialistica dello spirito.

È questa visione che porta all’ateismo, perché Dio è purissimo spirito, del tutto esente da materia. Il dio materiale invece è un idolo; non è il vero Dio, si trattasse anche dell’uomo che pure è creato ad immagine di Dio. È un «dio fatto dalle mani dell’uomo», per dirla con la Bibbia: come può salvarlo? Ma lo spirito umano è forma di una materia, per cui è finito e non può essere Dio, che, come pure aveva capito Hegel, è Spirito infinito ed assoluto. Oltre a ciò l’uomo è fragile, difettoso ed inclinato al male: chi lo tirerà fuori da questa situazione?

Invece Feuerbach sostiene che Dio non è un Dio spirituale e trascendente che abita nei cieli; questo Dio per lui è pura fantasia: il vero Dio sono i beni materiali di questo mondo, che ci nutrono, ci difendono, ci  custodiscono, ci danno piacere e ci consentono di vivere una vita decente e sana (Ab 1,15). Questi dèi, secondo lui, sono il vero Dio sul quale  possiamo contare, nel quale possiamo confidare, al quale essere riconoscenti.

Oltre a ciò, Feuerbach prende da Hegel la tematica dell’alienazione dell’uomo raffigurata dalla dialettica servo-padrone sviluppata nella Fenomenologia dello Spirito. Essa sarà poi ripresa da Marx nella dialettica borghesia-proletariato, classe padronale-classe operaia, oppressori-oppressi. In Hegel è Dio stesso che si espropria di se stesso, si scinde e si riunisce, perché l’Assoluto comporta per Hegel l’opposizione di sé a sé, come l’Io fichtiano, nonché il Soggetto schellinghiano e come era già il Dio di Jakob Böhme.

La tesi dell’uomo che perde la propria essenza è una secolarizzazione dialettica del dogma cristiano della caduta originale e dell’origine del male. In Hegel tutto il reale comincia con Dio che, nell’uomo, oppone Sé a Sé. Feuerbach sostituisce a Dio l’uomo; ma la dialettica è la stessa, con la differenza che qui non c’è opposizione fra Dio e uomo, ma fra uomo ed uomo, inteso come singolo da Feuerbach e come classe da Marx.

Non per questo però gli attributi divini scompaiono. Tutt’altro. Quegli attributi che Hegel assegna a Dio, Feuerbach li assegna all’uomo. Ma allora come vanno le cose? All’inizio del divenire non c’è Dio ma l’uomo con attributi divini; l’Assoluto si scinde, ed ecco l’uomo che ha perso i suoi attributi, ossia la sua essenza e li assegna a un ente immaginario che chiama «Dio»; ma la legge dell’Assoluto è che Egli riconcilia Sé con Sé. L’uomo dunque si riappropria della propria essenza e il ciclo si chiude. La stessa cosa avviene in Marx in campo sociale, economico e politico.

Ma come Feuerbach intende gli attributi divini? È qui che appare la sua distorta visione. Innanzitutto lo stesso Feuerbach si rende conto che all’uomo non potranno mai essere attribuite qualità divine ontologiche: l’infinita spiritualità, la semplicità, l’immensità, l’eternità, l’immutabilità, l’onnipotenza, l’onniscienza, l’ubiquità. Egli si limita alle qualità operative: la libertà, la provvidenza, la bontà, la misericordia, la giustizia, ma ridotte a dimensioni umane. 

È assente in Feuerbach, come del resto lo è in Hegel e lo sarà in Marx, la nozione dell’analogia dell’ente e dei trascendentali, per cui è impossibile concepire le qualità divine per analogia con quelle umane. La mente non è capace di vedere la causa nell’effetto e quindi di salire dall’effetto alla causa; non è capace di concepire la qualità divina negando la finitezza di quella qualità; non è capace di concepire una qualità ontologica eminentemente o infinitamente realizzata in Dio. Feuerbach crede che la teologia trasferisca semplicemente in un soggetto immaginario chiamato «Dio» quelle che sono pure e semplici qualità umane eventualmente ingigantite.

A Feuerbach sfugge il fatto della somiglianza dell’uomo con Dio attenuata da una maggiore diversità fra la natura umana composta di anima e corpo, spiritualmente aperta al contatto con l’infinito, ma afflitta da miserie e difetti, e la natura divina, purissimo spirito infinito, realtà infinitamente più solida e consistente della natura umana da lei creata, realtà oggetto dell’intelligenza metafisica e per nulla dell’immaginazione.

In realtà la concezione analogica dell’ente è congiunta con una nozione partecipativa, per la quale siamo capaci di cogliere i gradi dell’essere. La realtà comporta una scala di valori. Gli enti posseggono non solo modi di essere diversi, cosa che fonda l’aspetto analogico dell’essere, ma posseggono un più o un meno essere, che va da un minimo ad un massimo, dalla materia allo spirito ed anche nel campo dello spirito si sale da un minimo, che è l’anima umana, si passa ad un medio che è l’angelo, fino all’ente sommo o supremo che è Dio. Ora, la causalità efficiente comporta che il meno proviene dal più, il che significa la superiorità della causa sull’effetto e la dipendenza dell’effetto dalla causa.

A questi gradi dell’essere corrispondono in noi gradi del sapere. Ognuno di questi gradi è proporzionato ed adatto al livello d’essere corrispondente, in modo tale che per conoscere la verità occorre che per ciascun grado applichiamo il metodo proporzionato. A questo proposito possono darsi fondamentalmente due metodi sbagliati: quello idealista e quelli materialista.

Il primo non fa scendere l’intelletto al livello della materia mediante l’uso del senso, ma ignorando e disprezzando la realtà materiale oggettiva esterna al pensiero e indipendente dal pensiero, non la considera così com’è, ma risolve il suo essere nel suo essere pensata. È il principio di Berkeley: esse est percipi. La materia non esiste; esiste solo lo spirito. Se non fosse così, la materia, per l’idealista, apparirebbe nemica dello spirito. Infatti l’idealista è un dualista che non riesce a vedere la somiglianza e l’analogia della materia con lo spirito.

Egli avverte che di fatto le emozioni fisiche sono di ostacolo alla vita spirituale ed inoltre sente come un’umiliazione il dover ricorrere al senso per poter cogliere il reale. Per questo l’idealista rifiuta il concetto di anima come forma del corpo e crede di essere un puro spirito o coscienza, che pone alla materia un aut aut: o tu ti adatti ad essere un mio pensiero o una mia idea (Berkeley) o io ti faccio guerra perché ostacoli la mia attività e pretendi di farmi tuo prigioniero nel corpo (gnosticismo, Platone, India).

Senonchè però che cosa capita all’idealista? Che egli si accorge che di fatto non può fare a meno del corpo e delle cose esterne; ma siccome nello stesso tempo non vuol rinunciare alla sua idea che l’essere materiale è essere pensato (Hegel), finisce per concepire il pensiero come un qualcosa di materiale e quindi non più il pensiero superiore alla materia, ma la materia superiore al pensiero. Ed ecco il materialismo di Feuerbach e Marx.

Per questo la gnoseologia e la ontologia materialiste sono la conseguenza logica dell’idealismo. L’idealista, che per la sua superbia disprezza la materia, viene punito dalla materia col perdere di vista la trascendenza dello spirito e del divino, col diventare schiavo ed essere immerso ed accecato dalle illusioni e dai lacci di una materia ribelle allo spirito.

Resta sempre, tuttavia, che Feuerbach, al di là del suo disprezzo per la metafisica, ormai tradizionale in Germania sin dall’epoca di Lutero, in realtà, sulle orme di Hegel, gioca spesso con concetti metafisici come quello di ente, essere, cosa, essenza, esistenza, sostanza, accidente, spirito, causa, effetto. Ma non sa affatto servirsi della metafisica per capire che Dio esiste, anzi Feuerbach si serve proprio di questi concetti con la pretesa di fondare l’ateismo. Un ateismo su base metafisica: può esistere un’assurdità peggiore di questa? Ma lo spunto glie lo dà lo stesso Hegel.

La parola «Dio» ricorre spesso in Feuerbach. Ma che cosa intende con questa parola? Per esempio, quando dice – frase che sarà ripresa da Marx - «l’uomo è Dio per l’uomo»? Intende, come intenderà anche Marx, «ente supremo». L’ente supremo per Feuerbach non è un ente causa prima ed assoluto, distinto e superiore all’uomo, creatore dell’uomo, legislatore della condotta umana, fine ultimo e bene sommo dell’uomo. L’uomo non ha bisogno di nessun creatore e nessun fine che non sia egli stesso. L’uomo è fine a se stesso e non esiste da altro ma da se stesso e in forza di se stesso. Se la sorte o altri uomini lo ha privato della sua dignità o della sua libertà, egli è capace da solo collettivamente preso di riprendersele. Feuerbach in certo senso crede in Dio, ma intendendo per «Dio» l’uomo e non l’essere fantastico inventato dal teista e dalla religione.

Feuerbach non lo dice, ma è chiaro che per lui Cristo è un illuso, un sognatore, un megalomane, un predicatore di idee astratte, uno spregiatore delle gioie del senso, che non salva affatto l’uomo, ma lo lascia nelle sue catene con la speranza in un al di là felice che non esiste. Queste cose Nietzsche le dirà apertamente.

Ciò di cui l’uomo ha bisogno, secondo Feuerbach, se lo procura da sé, senza che gli occorra ricorrere a un Dio trascendente. L’uomo è conscio dei suoi difetti, ma sa correggersi da sé. Ciò che è al di sopra delle sue forze, se esiste, non lo interessa e non fa la sua felicità. Gli basta essere uomo libero.

Feuerbach riconosce che l’uomo è un essere ragionevole. Dà mostra di apprezzare la scienza, ma è solo la scienza dei fenomeni. Secondo lui è proprio la ragione che convince che Dio non esiste e confuta il teista. Se la Bibbia dice che l’ateo è uno stolto, Feuerbach risponde che è proprio il teista ad essere uno stolto.

Per lui la morte è cosa normale e non bisogna farsene un problema. L’importante è che sussista il genere umano, che comunque è immortale. L’individuo è al servizio della specie e non è più importante della specie. Sarebbe, questo, egoismo. Discorso logico, dal momento in cui si nega che il singolo abbia come fine Dio, che è un bene ben superiore alla società.  Tutto ciò sarà ripreso ed assunto da Marx.

Per Feuerbach il peccato non è evidentemente un’offesa a Dio o una trasgressione della legge divina, dato che Dio non esiste, ma è solo un danno che l’uomo fa a se stesso o alla società. Non esiste quindi una divina giustizia, ma solo la giustizia umana. L’uomo è legge a se stesso. Il peccato è solo un fatto socialmente rilevabile. Di nascosto agli altri il singolo può fare quello che vuole, perché non c’è alcun Dio che vede nel segreto. Manca in Feuerbach, come in tutti i materialisti, un’etica della coscienza, perché non c’è nessun Dio che parla nella coscienza.

Bisogna dire inoltre che Feuerbach non capisce la polemica biblica contro gli «idoli muti», che non vedono, non sentono, non parlano, non operano miracoli e guarigioni e non procurano benessere. Cosa significa questa polemica? Evidente è nella Bibbia un richiamo alla superiorità della potenza dello spirito rispetto a quella della materia, al di là della quale Feuerbach sembra non vedere. E anche quando pensa al valore della virtù o della bontà o dell’amore si ferma sempre sull’umano e non riesce mai ad elevarsi al di sopra dell’umano, a capire che l’umano è creato dal divino.

Si può osservare inoltre, come appare chiaramente dagli scritti di Feuerbach, che egli in sostegno dell’ateismo accumula alla rinfusa notizie sulle religioni più disparate, dalle più elevate alle più corrotte, senza discernimento. Confondendo religione e superstizione, paganesimo e cristianesimo, questo procedimento sleale e confusionario consente a Feuerbach un  buon gioco per suscitare orrore e ripugnanza davanti alle forme aberranti messe accanto indiscriminatamente a quelle nobili ed edificanti nella comune condanna.  

Feuerbach non sostiene solo l’impossibilità di dimostrare l’esistenza di Dio, ma vorrebbe convincerci che Dio non è che un ente immaginario, è il sogno vano di un’anima oppressa, un ente inventato da chi ha interesse a tenere schiave le masse illudendole con vane speranze in un al di là felice che non esiste, dove gli infelici avranno compenso per le loro sofferenze. Sarebbe l’idea di un Dio misericordioso e giusto che soccorre e libera gli oppressi, mentre gli oppressori saranno castigati, e insieme con Marx pensa che la negazione di tutto ciò può essere razionalmente e scientificamente dimostrato.

La ragione può confutare gli argomenti dell’ateo

Non sono d’accordo pertanto col Padre Cottier quando dice che per Marx l’ateismo non è la conclusione di un ragionamento[2], anche se il suo argomentare, derivato da Feuerbach, è sofistico. Si sa comunque che i marxisti parlano di «ateismo scientifico». Come è noto, la religione sarebbe per loro l’affermazione indimostrata di un ente immaginario supremo creatore dell’uomo, chiamato «Dio», consolatore della sofferenza dell’uomo oppresso dall’uomo, che non riuscendo a liberarsi spera in un al di là felice e premio delle sue fatiche, credendo che la sopportazione dell’ingiustizia patita è cosa buona, perché gli procura la suddetta inesistente vita beata. Marx quindi crede di dare una spiegazione razionale della falsità del teismo e quindi della verità razionale dell’ateismo.

La dimostrazione di questo inganno secondo Marx comporta la dimostrazione che Dio non esiste, ma è una specie di «oppio», mentre egli sostiene che quell’ente immaginario, come già aveva detto Feuerbach, non è altro che la stessa essenza umana, della quale l’uomo oppresso è deprivato dal suo oppressore.

Allora vuol dire che nostro dovere è quello di contrapporre ragionamento a ragionamento, e contrapporre al falso ragionamento quello giusto, dato dalle prove dell’esistenza di Dio. È questa la doverosa confutazione dell’ateismo. Bisogna dire all’ateo: tu ragioni male e contrapporgli il ragionamento giusto. Bisogna farlo ragionare. Se è onesto, ci seguirà; se si oppone vuol dire che non c’è lealtà e allora bisogna rinunciare a convincerlo, giacchè, come dice il proverbio, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

Ricordo che il mio insegnante di sociologia all’Università di Bologna, Gian Franco Morra, parlava di ateismo «postulatorio», cioè sosteneva che l’ateismo non è convinzione che nasca da un ragionamento, ma è una posizione di comodo, nascerebbe da una semplice ripugnanza della volontà, si ridurrebbe ad una semplice gratuita o arbitraria affermazione di principio, «postulata» dalla volontà, in quanto il pensiero che Dio esista è cosa sgradita, impegna a fare cose che non piacciono o limiterebbe la nostra libertà, e quindi va decisamente respinto o allontanato per vivere come se Dio non ci fosse.

Ora, bisogna dire che in realtà le cose non stanno affatto così. Esiste certamente l’ateo volgare, irrazionale e passionale, al quale non va a genio che Dio esista, per cui afferma che non esiste. Ma esiste anche da secoli una filosofia atea, esistono filosofi atei, come per esempio appunto Feuerbach e Marx, i quali pretendono di dimostrare scientificamente il loro ateismo.

La questione, dunque, non è così semplice. Essa impegna fortemente la nostra abilità nel ragionare e nel saper persuadere gli altri. In realtà, infatti, se leggiamo i loro scritti, vedremo che essi si sforzano di convincerci e di giustificare razionalmente il loro ateismo. La certezza che Dio esiste non la ricaviamo da una semplice intuizione o sentimento spontaneo, ma è effetto di un ragionamento, come ci fa presente San Paolo (Rm 1,20) e ci è ricordato dal Concilio Vaticano I (Denz.3004)[3].

Errano gli atei nei loro ragionamenti? Certo, come nota la Scrittura (Sap 2,1-5;13, 1-5). E per questo essa li considera degli stolti. Tuttavia, non ci si può limitare a dare a Feuerbach e a Marx dello stolto, ma occorre mostrare la falsità dei loro ragionamenti, tanto più che essi hanno l’apparenza della verità e dal sec. XIX hanno convinto e convincono centinaia e centinaia di milioni di esseri umani. Occorre dunque ragionando correttamente, mostrar loro che sbagliano.

A tal riguardo il cristianesimo luterano, con la sua sfiducia nella ragione, non ha alcun mezzo per persuadere l’ateo che sbaglia e correggerlo nel suo errore. Non ha modo di mostrargli argomentativamente la differenza fra il vero e falso teismo, fra il Dio di Hegel e quello della fede cattolica. Se non fosse che in fondo anche l’ateo sa che Dio esiste, il luterano rischia di infondere nel prossimo un concetto soggettivistico, irrazionale e sentimentale di Dio, che finisce per prestare il fianco alla critica feuerbachiana e marxista.

Solo così si può persuadere l’ateo del suo errore, benchè tutti poi in fondo sappiano, come ho detto, che Dio esiste. Nel contempo è impossibile dimostrare che gli attributi che l’ateo toglie a Dio e assegna all’uomo appartengono veramente all’uomo. Anche questa dimostrazione fa parte della confutazione della falsa scienza dell’ateo.

Certamente è lecito chiedersi, trattandosi di falsi ragionamenti e di una falsa scienza, come mai hanno incontrato ed incontrano tuttora tanti ammiratori, seguaci, discepoli ed imitatori. Perché purtroppo molti di noi circa il problema di Dio non cercano la verità, ma la conferma dei loro vizi e delle loro cattive passioni. È impossibile che un animo limpido e onesto, un buon ragionatore, che accontenti fino in fondo le esigenze trascendentali della ragione senza fermarsi a metà strada non giunga a trovare le prove dell’esistenza di Dio.

La conclusione atea del ragionamento feuerbachiano circa la fondazione ontologica dell’uomo e del mondo dipende dal fatto che Feuerbach ferma il processo razionale induttivo alle sole cause dei fenomeni secondo il modulo positivista-empirista-kantiano. Nel contempo, ignorando i limiti naturali e difettivi della persona umana concepisce irragionevolmente ed illusoriamente l’uomo come ente autosufficiente e supremo, concezione, questa, che sarà ripresa da Marx.

Per questo, secondo Feuerbach l’uomo si sente misero ed oppresso perché manca della sua coscienza di essere l’ente supremo ed ha sostituito, ingannato dal pensiero religioso, questa coscienza con l’attribuzione delle qualità e delle forze umane ad un ente fantastico da lui inventato e chiamato «Dio», dal quale si attende consolazione, conforto, aiuto, liberazione e salvezza.

È questo, secondo Feuerbach, il vizio della religione. Per questo, secondo lui, la soluzione del problema della liberazione dell’uomo è che l’uomo rigetti quell’ente fantastico, prenda coscienza del proprio potere spirituale, lo metta in atto e così liberi se stesso da ogni miseria e schiavitù, restando però il fatto che per Feuerbach questa liberazione non può essere opera del singolo e quindi andare a beneficio del singolo, ma può essere solo opera del genere umano collettivamente preso. È questa un’idea che ritroveremo in Marx.

La condizione storica attuale comporta che l’uomo è schiavo dell’uomo. Ma l’oppressore, per poter dominare, inganna l’oppresso col fargli credere che deve scontare i suoi peccati e confidare in Dio portando pazienza, senza ribellarsi e sperando nel paradiso: tutta una mistificazione – spiegherà Marx - per impedire agli oppressi di scuotere il loro giogo e liberarsi dei padroni.

È evidente che nello sfondo della gnoseologia feuerbachiana, al di là del suo realismo sensualista, c’è il trascendentale kantiano, con la sua proibizione fatta alla ragione speculativa di trascendere il piano dei fenomeni. Feuerbach, come tutti gli idealisti e gli empiristi, ignora che il trascendentale kantiano è un aborto di trascendentale, che non sa neanche assurgere al piano della metafisica. Figuriamoci se è in grado si spiegare la totalità del reale e il suo fondamento.

Tutti sanno che Dio esiste

Bisogna dire con tutta schiettezza che la ragione speculativa non arriva a Dio se essa è frustrata sul piano metafisico. Invece, se essa utilizza al massimo la sua perspicacia e potenza nel radicalismo delle sue esigenze, essa vi giunge con assoluta certezza.

Ma dirò di più: tutti, chi con maggiore o minor certezza o chiarezza, sanno esplicitante o implicitamente che Dio esiste e che remunera le nostre opere. Altrimenti Cristo (Mt 25, 31-46) non avrebbe detto che all’ultimo giorno tutti gli uomini saranno convocati davanti al suo tribunale per render conto del loro operato.

Non è possibile negare con convinzione razionale che Dio non esiste. Non esiste un ateismo «scientifico». Tutti in un modo o nell’altro, dobbiamo fare i conti con Lui. L’unico modo per negare effettivamente l’esistenza di Dio, come osserva il Maritain[4], è quello di negarlo nell’agire, quello che egli chiama «ateismo pratico». Possiamo evitare di pensare a Lui, «cancellarLo – come diceva San Giovanni Paolo II – dall’orizzonte della nostra mente» e per conseguenza comportarci senza tener conto della sua legge. Ma a questo punto il peccato, qualunque peccato, diventa espressione pratica di ateismo, anche se teoricamente sappiamo che esiste.

Ciò vuol dire che nessuno ignora in buona fede e senza colpa che Dio esiste. Nessuno è scusato per non sapere che Dio esiste. Non esiste, circa l’esistenza di Dio, un’ignoranza invincibile. È assolutamente impossibile dimostrare razionalmente che Dio non esiste. È altrettanto impossibile dimostrare razionalmente, come ha tentato Kant, che la ragione speculativa non può dimostrare che Dio esiste.  Questa è stata, tra le altre, l’illusione tragica di Feuerbach.

Chi nega l’esistenza di Dio, rifiuta un sapere che già possiede, chiude gli occhi alla verità, mena il can per l’aia, inganna se stesso e gli altri. La ragione, dal momento in cui comincia a funzionare nel fanciullo, se ben educata e non è volontariamente frenata nel suo moto spontaneo di induzione della causa dall’effetto, a partire dall’esperienza sensibile, si eleva spontaneamente e necessariamente a scoprire che Dio esiste e lì si ferma soddisfatta.

L’ateo, quindi, non può esser realmente persuaso di quello che pensa e dice su Dio, ma, pur dando mostra di una spavalda tranquillità, sarà tormentato continuamente dalla sua coscienza fino a precipitare al momento della morte nell’abisso dell’eterna miseria lontano da Dio.

Dunque, contrariamente a quello che sostiene Rahner, bisogna dire che un ateismo senza colpa non esiste. Può esistere un teismo implicito, come insegna il Concilio Vaticano II (LG 16), ma ciò vuol dire che il concetto di Dio è implicito nel concetto dell’uomo, per cui, come appare chiaramente da Mt 25, 31-46, è possibile che un sincero amore per il prossimo implichi l’amore per Dio senza che l’amante ne abbia piena coscienza.

In ogni caso occorre avere un concetto giusto di Dio. L’«esperienza trascendentale atematica di Dio», della quale parla Rahner, non esiste oltre ad implicare un concetto idealistico di Dio. Essa non è altro che una ripresa con altre parole dell’autocoscienza assoluta di Hegel e dell’Io assoluto di Fichte. L’autocoscienza assoluta di Husserl è la stessa cosa. Tutti questi concetti hanno la loro prima origine nel cogito cartesiano.

L’etica di Feuerbach

L’etica feuerbachiana è altruista e disinteressata, se non fosse che è basata non su Dio ma sul proprio io, fondata sull’amore interpersonale, sensibile al rapporto uomo-donna, ma scarsamente attenta al bene sociale. Sarà Marx a correggere Feuerbach su questo punto. È infatti un’etica sensista o sentimentale, senza essere libertina o dissoluta.

Non è neppure un’etica liberale o utilitarista, perché le ripugna l’egoismo. Tuttavia giudica egoista l’uomo religioso, con la sua preoccupazione di salvare la sua anima. Naturalmente non ha alcuna preoccupazione di guidare gli altri a Dio o di interessarsi della loro salvezza eterna o alcun interesse a ricevere insegnamenti, esempi o stimoli da uomini religiosi, compreso Gesù Cristo. 

Feuerbach non manca del senso della misericordia verso il prossimo, ma riferita solo a beni di questo mondo; non prova alcun interesse o preoccupazione - e lo si capisce – per la condizione miserevole delle anime lontane da Dio. Anzi per lui queste anime sono sulla retta via. D’altra parte, se la religione è egoismo, è un isolarsi dalla comunità in vuote astrazioni celesti, l’ateismo è un sacro dovere morale, perchè insegna le vere relazioni umane, l’amore per l’uomo e la via efficace della sua liberazione.

Anche la sofferenza per Feuerbach è cosa normale e l’atteggiamento da prendere nei suoi confronti è solo quello di combatterla. Essa non ha origine da alcun peccato originale, ma è l’effetto necessario della dialettica dell’essere umano, come già in Hegel, anche se la dialettica in Feuerbach è meno accentuata. Riapparrà in pieno, in chiave materialistica in Marx.

La valorizzazione cristiana della sofferenza a scopo espiativo per Feuerbach è un gusto morboso, non è altro che un demenziale autolesionismo. Tema che si ritroverà in Nietzsche. D’altra parte un Dio non ha bisogno di nulla. Se l’uomo è Dio, di qual altro Dio dovrebbe avere bisogno? L’uomo misero ed oppresso che si consola con un Dio inventato da lui, dove ha trasferito tutte le sue migliori energie umane, è uno stolto, un idiota, è un vile che, invece di resistere alla sventura, si adagia in sterili lamenti e preghiere verso un supposto ente supremo inventato da lui che non esiste.

Invece dobbiamo dire con tutta certezza e cognizione di causa che Dio non è per nulla un ente immaginario, ma realissimo, fondamento creatore di ogni realtà, a cominciare dall’uomo. È piuttosto Feuerbach che lavora abbondantemente con la fantasia immaginando un uomo divino che non esiste, dalle spropositate proporzioni, dimenticando i suoi limiti e le sue miserie, che implorano dolorosamente un soccorso dall’alto.

Fine Terza Parte (3/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 20 dicembre 2021

Nostro dovere è quello di contrapporre ragionamento a ragionamento, e contrapporre al falso ragionamento quello giusto, dato dalle prove dell’esistenza di Dio. È questa la doverosa confutazione dell’ateismo.

Ricordo che il mio insegnante di sociologia all’Università di Bologna, Gian Franco Morra, parlava di ateismo «postulatorio», cioè sosteneva che l’ateismo non è convinzione che nasca da un ragionamento, ma è una posizione di comodo.


Ma esiste anche da secoli una filosofia atea, esistono filosofi atei, come per esempio appunto Feuerbach e Marx, i quali pretendono di dimostrare scientificamente il loro ateismo.

La questione, dunque, non è così semplice. La certezza che Dio esiste non la ricaviamo da una semplice intuizione o sentimento spontaneo, ma è effetto di un ragionamento, come ci fa presente San Paolo (Rm 1,20) e ci è ricordato dal Concilio Vaticano I (Denz.3004).

Errano gli atei nei loro ragionamenti? Certo, come nota la Scrittura (Sap 2,1-5;13, 1-5). E per questo essa li considera degli stolti. Tuttavia, non ci si può limitare a dare a Feuerbach e a Marx dello stolto, ma occorre mostrare la falsità dei loro ragionamenti, tanto più che essi hanno l’apparenza della verità e dal sec. XIX hanno convinto e convincono centinaia e centinaia di milioni di esseri umani. Occorre dunque ragionando correttamente, mostrar loro che sbagliano



La ragione, dal momento in cui comincia a funzionare nel fanciullo, se ben educata e non è volontariamente frenata nel suo moto spontaneo di induzione della causa dall’effetto, a partire dall’esperienza sensibile, si eleva spontaneamente e necessariamente a scoprire che Dio esiste e lì si ferma soddisfatta.

Immagini da internet:
- Prof. Gianfranco Morra
 

[1] Le tesi ateistiche di Feuerbach che esporrò qui sono attinte ai suoi scritti: Opere, Edizioni Laterza, Bari 1965; cf. Karl Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria del pensiero del secolo XIX, Edizioni Einaudi, Torino 1999; Henri de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, Morcelliana, Brescia 1979.

[2] Cf Cottier, op.cit. p.358.

[3] Cf R. Garrigou-Lagrange, Dieu, son existence et sa nature, Beauchesne, Paris 1950.

[4] J.Maritain, Il significato dell’ateismo contemporaneo, op. cit.

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